Giovanni Mazzillo <info>                                                           www.puntopace.net

I Documenti della Congregazione per la dottrina della fede sulla teologia della liberazione

Relazione per il clero di San Marco-Scalea (Scalea 1986)

Una premessa storica

Leggendo la seconda Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla "teologia della liberazione", dal titolo "libertà cristiana e liberazione" a qualcuno forse è venuto in mente un vecchio racconto della nostra infanzia. Viveva in una famiglia una donna anziana e malata che non era amata dal figlio e dalla nuora, nella cui casa riceveva giornalmente una scodella di minestra e una dose di indifferenza. Le mani le tremavano, e un giorno la scodella cadde per terra. La nuora la rimproverò con asprezza ed approfittò dell'accaduto per sfogare tutto il suo astio accumulato contro di lei. Assisteva alla scena il nipote dell’anziana, che contristato della durezza della madre, cominciò a raccogliere i cocci della scodella rotta, cercando di rimetterli insieme. Richiesto di spiegare il suo gesto, rispose alla mamma: "Incollerò i cocci per avere la scodella, nella quale mangerete tu e papà quando sarete vecchi!".

Il racconto non è riportato con intenti polemici, ma solo per tentare una ulteriore riflessione sapienziale-popolare su un certo procedere degli avvenimenti storici, su quei dinamismi di affermazioni e successivi superamenti, dai quali non è esente nemmeno il cammino contingente, umano, della Chiesa. Sarebbe certamente riduttivo applicare alla lettera i dettagli del racconto, come sarebbe estremamente arduo e pericoloso voler identificare i vari personaggi della nostra storia con ciò che sta succedendo con la teologia della liberazione. Alcuni elementi possono tuttavia servirci per avviare il nostro discorso. Esistono milioni e milioni di poveri, il cui numero non diminuisce, anzi è in costante aumento. La loro povertà diviene sempre più grande. I più fortunati mangiano le briciole che cadono dalla mensa dei ricchi, gli altri muoiono di fame.

I paesi ricchi vedono malvolentieri quest'enorme massa di poveri, ai quali, alcune volte, offrono una scodella di minestra. Vivono nella stessa casa dei poveri, ma li considerano ingombranti, pigri e disonoranti per la famiglia umana. Verso di loro hanno astio, fastidio o, nella migliore delle ipotesi, una grande indifferenza. Per i cristiani la massa enorme di tanti fratelli che vive nella penuria e muore letteralmente di fame non è solo un "problema sociale". Grazie alla riflessione sul Vangelo, operata nella Chiesa e nella teologia nel suo insieme, come pure nelle innumerevoli comunità ecclesiali tanto del terzo che del nostro mondo, la Chiesa ha compreso ed ha affermato a Puebla: "questa situazione di estrema povertà generalizzata acquista nella vita reale dei lineamenti molto concreti nei quali dovremo riconoscere le sembianze del Cristo sofferente, del Signore che ci interroga e ci interpella". Il viso di Cristo è da riconoscere nei:

-"visi di bambini, colpiti dalla miseria prima ancora di nascere (...) i bambini abbandonati e spesso sfruttati dalle nostre città, (...)

- visi di giovani, disorientati per il fatto di non trovare un posto nella società, frustrati soprattutto in zone rurali ed urbane marginali (...)

- visi di indigeni e frequentemente di afroamericani, che vivendo emarginati ed in situazioni disumane, possono essere considerati i più poveri tra i poveri;

- visi di campesinos (...) in situazione di dipendenza interna ed esterna sottomessi a sistemi di commercializzazione che li sfruttano;

- visi di operai spesso mal retribuiti ed in condizioni di grande difficoltà;

- visi di sottoccupati e disoccupati:

- visi di emarginati nei" ghetti" delle zone urbane;

- visi di anziani, sempre più numerosi, spesso emarginati dalla società del progresso che non prende in considerazione le persone che non producono"[1].

Pensando a questa precisa presa di coscienza della Chiesa latinoamericana, viene forse spontaneo l'accostamento di questa giovane Chiesa al ragazzo della nostra storia. Non è una Chiesa che raccoglie solo i cocci di una realtà frantumata. È una Chiesa che inizia a comprendere nessi e cause della povertà e dell'indifferenza. La sua attenzione alla povertà materiale, psicologica, culturale, di alienazione dei diritti della persona, nasce da una sensibilità nuova verso coloro che abitano nella nostra stessa casa, sul nostro stesso pianeta. A questa sensibilità corrisponde una pratica teologale che si alimenta della fede, che fa scorgere il Cristo nei tratti del povero; si alimenta speranza, perché celebra la speranza fattiva di una alternativa a una situazione di così estesa e profonda ingiustizia; si alimenta infine di carità, perché si nutre dell'amore di Dio e di Cristo, che ha detto di voler essere cercato e servito nei suoi fratelli più piccoli.

Ma la storia della scodella infranta ci ricorda anche un'altra realtà, quella di chi di fronte a questa presa di coscienza e di prassi teologale, del tutto nuove, comincia ad avere paura. Si tratta della paura di un sovvertimento radicale dei rapporti di forza, quasi di un sollevamento generalizzato di tutti i poveri.  È sostanzialmente la paura delle grandi potenze economiche e politiche del mondo, che prosperano a spese dei milioni di poveri. È anche realisticamente, la paura di un cambiamento della società che sottragga ai ricchi i privilegi e l'opulenza, anche se non per impoverirli, ma per una distribuzione più equa dei beni della terra, perché tutti ne abbiano a sufficienza.

Si tratta di una reazione emotiva, ma anche calcolata, che in un primo momento vuole togliere alle nazioni povere il fondamento stesso di questa nuova sensibilità, di ciò che è detto anche coscientizzazione. La paura contagia. Ed infatti il primo tentativo di correre ai ripari e di intervenire contro quella teologia che raccoglieva gli aneliti verso un modo nuovo di vivere e di essere, e che fin dagli inizi degli anni ‘70 si chiamò "teologia della liberazione" venne da parte circoli ricchi e potenti non solo del continente Latino-america, ma anche dell'Europa e degli Stati Uniti.

La Chiesa latino-americana raccolta a Medellìn nel 1988 aveva parlato chiaramente di un'opzione preferenziale, da compiere per i poveri e di una liberazione da compiere con loro. Negli anni che seguirono furono molte le speranze, i tentativi e le esperienze che andarono in quel senso. Si parlò di Chiese locali che si convertivano non già alla causa del povero, ma alla causa di una Chiesa impegnata con loro, perché li considerava i suoi figli da prediligere, perché prediletti da Dio. Ma questa nuova, difficile via fu anche contrastata da molti. Bisogna dire con onestà che fu contrastata da società, organizzazioni e potenze economiche, finanziarie e politiche che di per sé non hanno responsabilità ecclesiali, anche se avevano legami di vario genere con la complessa articolazione istituzionale della sa Chiesa. Si pensò da parte di costoro di dover intervenire per salvare la società e la Chiesa. In qualche simposio dove alcuni responsabili ecclesiali erano convenuti per arginare quella nuova strada dell'evangelizzazione, a parer loro riduttiva e pericolosa, inaugurata da Medellìn, si parlò chiaramente di un compito urgente da svolgere: quello di «liberare l'America Latina dal trauma della "teologia della liberazione"»[2]. La liberazione venne definita in pubblicazioni, che attaccavano a fondo la teologia che ad essa si ispirava "utopia" e "bacillo" che si diffondeva sempre più. Del resto la riflessione teologica sulla liberazione che seguì la strada di Medellìn, come ogni flessione nella sua fase iniziale, aveva imprecisioni, lacune e qualche contaminazione di linguaggio, che potevano prestare il fianco agli attacchi dei suoi oppositori.

Sostenitori ed oppositori della teologia della liberazione tennero desta l'attenzione della Chiesa nel suo insieme. Ebbero adesioni e sostegno in uguale misura, sia nell'America Latina sia nel resto del mondo, fino al punto che alla vigilia della III Conferenza dell'Episcopato Latino-americano, che si tenne a Puebla dal 27 Gennaio al 13 Febbraio 1979, non si era nemmeno sicuri se l'orientamento di Medellìn sarebbe stato confermato, o se al contrario si sarebbe arrivati ad un'esplicita condanna della “teologia della liberazione". L'orientamento di Medellìn venne confermato, anche se si apportarono delle correzioni ed interpretazioni, che non volevano essere restrittive, ma volevano salvaguardare la stessa teologia da ideologizzazioni, ermeneutiche riduttive e strumentalizzazioni. Qualcuno poté affermare che se Medellìn costituiva il battesimo della Chiesa Latino-americana, Puebla poteva essere paragonata alla confermazione.

Veniva intanto precisata la liberazione nell'estensione del suo concetto. Doveva trattarsi di una liberazione integrale, si precisò, riprendendo alcuni passaggi della  "Evangelii Nuntiandi" di Paolo VI, del 1975. Ribadendo quanto già detto da Paolo VI, si chiariva che l'annuncio della salvezza liberatrice non era solo annuncio di una liberazione da ciò che opprime l'uomo materialmente ed economicamente, ma "soprattutto dal peccato e dal maligno nella gioia di conoscere Dio e di essere conosciuti da lui, di vederlo, di abbandonarsi a lui"[3]. A Puebla si cercò di comprendere tale liberazione in una concezione individuale e sociale, una liberazione da condizioni ingiuste e da oppressioni sociali. Si scrisse della liberazione: "È una realtà teologica, nella quale la liberazione come opera di Dio include la liberazione dal peccato e da ogni forma di oppressione e di ingiustizia"[4].

Sostanzialmente Puebla accettava nel suo insieme quelli che sembrano a molti essere i pilastri non già di una nuova teologia, ma di un modo nuovo di impostare la teologia. Essi sembrano essere:

a) l'incarnazione della storia dell'annuncio della libertà del Vangelo, e la conseguente riflessione sulla prassi alla luce della Parola di Dio;

b) la considerazione del popolo come soggetto ecclesiale;

c) l'amore preferenziale, non esclusivo, né escludente, per i poveri.

Il dibattito e le prese di posizione e le precisazioni successive a Puebla toccano questi punti.

Dopo questa lunga introduzione storica, che ritenevo indispensabile per contestualizzare il recente Documento su Libertà cristiana e liberazione del 22 Marzo 1986, passiamo ad una presentazione di questa II istruzione della Congregazione per la Dottrina della fede sulla "teologia della liberazione".

Tenendo conto anche della prima "istruzione su alcuni aspetti della ‘teologia della liberazione?" del 6 Agosto 1984, vedremo in che modo quei pilastri già ricordati di questa teologia sono valutati. Parleremo pertanto di:

1) Peccato e liberazione in una contesto teologico complessivo; 2) I poveri di Jahvé come Popolo di Dio; 3) opzione preferenziale per i poveri e prassi della liberazione.

1) Peccato e liberazione in un contesto teologico complessivo

Analizzando la libertà, la II istruzione ne considera nel primo capitolo "la condizione nel mondo moderno" riguardo alle conquiste culturali e sociali ed esprime alcune perplessità su alcune ambiguità di fondo, che sono collegate con tale progresso. Sono i rapporti di dipendenza tra nazioni e all'interno di popoli, frutto di una evoluzione della stessa libertà perseguita nella storia; il pericolo di un imbarbarimento della stessa natura provocata dall'uomo; i sistemi soggettivo-individualisti e quelli collettivisti nei quali o è limitata la libertà dei più deboli o quella della singola persona; l'imbarbarimento etico, che, con-siderando Dio oppure la semplice etica come nemici della libertà, farnetica la possibilità di un arbitrio illimitato che invece produce asservimento, oppressione e violenza sia sugli altri sia sulla natura sia, in definitiva, su se stesso.

Come la prima Istruzione, anche la seconda vede il motivo di questa situazione di non libertà nella condizione post-lapsaria, peccaminosa in cui l'umanità è venuta a trovarsi dopo il peccato delle origini, che non ha smesso di produrre i suoi effetti nefasti a livello individuale e collettivo. Nel n. 12 della II parte della prima istruzione si affermava: "Il peccato è il male più profondo, che lede l'uomo nell'intimo della sua personalità. La prima liberazione, alla quale tutte le altre devono riferirsi, è quella del peccato." Il n. 37 della seconda istruzione afferma: "Dio chiama l'uomo alla libertà. In ciascuno è viva la volontà di essere libero. Eppure questa volontà sfocia quasi sempre nella schiavitù e nell'oppressione. Ogni impegno per la liberazione e la libertà suppone, dunque, che sia stato affrontato questo drammatico paradosso. Il peccato dell'uomo, cioè la sua rottura con Dio, è la ragione radicale delle tragedie che segnano la storia della libertà".

Peccato e liberazione sono considerati allora, ad un primo livello di riflessione teologica, su un piano soteriologico che sembra privilegiare l'aspetto etico-spirituale. Ma basta questo per escludere l'aspetto storico-sociale, quello che viene anche chiamato strutturale sia del peccato sia della salvezza? Certamente no. Sebbene questo secondo sia considerato solo come conseguenza del primo, è ugualmente presente nelle" tragedie che segnano la storia della libertà". Infatti:

«La libertà, portata da Cristo nello Spirito santo, ci ha restituito la capacità, di cui il peccato ci aveva privato, di amare Dio al di sopra di tutto e di rimanere in comunione con lui. Noi siamo liberati dall'amore disordinato di noi stessi, che è la fonte del disprezzo del prossimo e dei rapporti di dominio tra gli uomini»[5].

È questo contesto teologico complessivo, che bisogna tener presente, per capire le precisazioni dottrinali delle "Istruzioni", che hanno, come dice la stessa parola, lo scopo di istruire su alcuni eventuali pericoli di unilaterizzazioni e riduzioni parziali della ricchezza del messaggio della fede. Comunque sia, è certo che alla radice dell'alienazione umana e di tutte le alienazioni, c'è un atto di disordine che noi chiamiamo peccato. È ugualmente certo che la redenzione non si può limitare ad una liberazione puramente interiore, ma deve cambiare anche le strutture peccaminose dell'asservimento dell'uomo sull'uomo, e della violenza dell'uomo sulla natura.

Sulla dimensione storica della soteriologia, che per essere tale non può non essere integrale, non sussistono dubbi, nemmeno per la Il Istruzione. Se il capitolo viene infatti a trattare il tema: «Vocazione dell'uomo alla libertà e dramma del peccato», nel capitolo 3°, dal titolo «Liberazione e libertà cristiana» si ricordano gli interventi liberatori di Dio a partire dall'Esodo fino ad arrivare a Cristo. In relazione con questa spessore storico della liberazione è considerato il popolo dei poveri come popolo di Dio.

2) I poveri di Jahvè come popolo di Dio

Parlando della liberazione come radicale affrancamento dal peccato e dalla morte, il n. 23 della II Istruzione scrive: «La potenza di questa liberazione penetra e trasforma in profondità l'uomo e la sua storia nella sua attualità presente, ed anima il suo slancio escatologico». Ma poco prima aveva affermato: «Questa dimensione profonda della libertà, la Chiesa l'ha sempre sperimentata, attraverso la vita di una moltitudine di fedeli, in particolare tra i piccoli ed i poveri. Nella loro fede costoro sanno di essere l'oggetto dell'amore infinito di Dio» (n. 21). Sono i poveri di Jahvè, di cui si riparla al n. 47, mentre si dice al n. 48: "Sulla soglia del Nuovo testamento, i poveri di Jahvè costituiscono le primizie di un "popolo umile e povero", che vive nella speranza della liberazione di Israele. Realizzando questa speranza,

«Gesù annuncia la buona Novella del Regno - aggiunge il n. 50 - e chiama gli uomini alla conversione; 'l poveri sono evangelizzati' (Mt 11,5): riprendendo la parola del profeta, Gesù rivela la sua azione messianica in favore di coloro che attendono la salvezza di Dio».

Una precisazione sul concetto di povero si trova nel IV capitolo della Il Istruzione, dal titolo significativo: «La missione liberatrice della Chiesa». Di essa si ricorda che

«annunciato come il Messia dei poveri, appunto presso di loro, gli umili, i 'poveri di Jahvè' assetati della giustizia del Regno, egli ha trovato i cuori disposti ad accoglierlo. Ma ha voluto anche essere vicino a coloro che, pur ricchi dei beni di questo mondo, erano esclusi dalla comunità come 'pubblicani e peccatori', perché era venuto per chiamarli alla conversione» (N. 66).

Si coglie in questa citazione la preoccupazione di non restringere il campo della povertà a quella semplicemente economica. Poveri sono infatti tutti coloro che sono privati di un qualche diritto fondamentale, qual è quello della stima, dell'accoglienza o anche della stessa possibilità della conversione.

È quest'ultima ad essere la chiave di volta di tutto. Se Gesù e la Chiesa hanno avuto al loro seguito dei ricchi, anche materialmente, a costoro non si è chiesta solo un'elemosina, ma una reale conversione, con la quale praticare l'amore nei fatti al di là delle semplici dichiarazioni di principio. Al n. 57 la stessa Istruzione ricorda tale nesso inscindibile tra giustizia e carità:

 «Non c'è divario tra l'amore del prossimo e la volontà di giustizia. L'opporli significa snaturare ad un tempo l'amore e la giustizia. Più ancora il senso della misericordia completa quello della giustizia, impedendole di rinchiudersi nel cerchio della vendetta».

Ed aggiunge:

«Le inique disuguaglianze e le oppressioni di ogni sorta, che colpiscono oggi milioni di uomini e di donne, sono in aperta contraddizione col Vangelo di Cristo e non possono lasciar tranquilla la coscienza di nessun cristiano».

La Chiesa è definita, secondo il Concilio, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, e quest'alleanza è quella stipulata nel sangue del Cristo, che, si ricorda, «ha scelto una situazione di povertà e di spogliamento» (n. 66). «Non ha portato solo la grazia e la pace di Dio: egli ha pure guarito tanti e tanti malati; ha avuto compassione della folla che non aveva nulla da mangiare e l'ha sfamata» (67); ha proclamato beati i poveri e si è identificato con i più piccoli tra i fratelli (n. 68).

Tutte queste premesse consentirebbero, di per sé di parlare della Chiesa come Chiesa dei poveri, abbracciando sotto questa espressione le varie forme di povertà morali, fisiche e materiali, oltre che spirituali, dalle quali Gesù è venuto a liberarci e per le quali la Chiesa ha una missione liberatrice. L'istruzione ultima non usa tuttavia quest'espressione, la cui validità era stata peraltro già riconosciuta nella prima, pur con molte precisazioni. Al n. 9 della IX parte è scritto infatti:

«Nel suo significato positivo la Chiesa dei poveri significa la  preferenza, senza esclusivismi, data ai poveri intesi in tutte le forme della miseria umana, perché essi sono preferiti da Dio. L'espressione significa inoltre la presa di coscienza del nostro tempo delle esigenze della povertà evangelica, sia da parte della Chiesa come comunione e come istituzione, sia da parte dei suoi membri»[6].

Facendo una sintesi sulla tematica dei poveri di Jahvè, e vedendo costoro anche come i poveri al quali Cristo proclama le beatitudini e con i quali si identifica, è legittimo dire che gli attuali poveri di Jahvè sono quei poveri che soffrono qualsiasi forma di umiliazione della loro originaria somiglianza con Dio ed hanno una particolare configurazione a Cristo povero e sofferente. Essi sono i poveri che seguono Cristo e, pertanto, anche se non in maniera esclusiva ed esaustiva, costituiscono il suo popolo, popolo dell'alleanza fondata sul sangue di Cristo, Figlio di Dio ed uomo innocente, così come innocentemente soffrono gli innumerevoli poveri, miti, perseguitati per causa della giustizia ed affamati ed assetati di essa, misericordiosi, puri di cuore e costruttori di pace. Sono essi il popolo delle beatitudini e formano il Popolo di Dio della nuova alleanza.

A questo punto sorge l'ultimo interrogativo, che è quello riguardante le forme effettive di liberazione dei poveri, che la Chiesa vuole perseguire. È l'argomento, il più difficile, affrontato nell'ultimo capitolo della recente Istruzione: dottrina sociale della Chiesa per una prassi cristiana della liberazione". Collegato con questo tema è l'ultimo punto di questo mio contributo.

3) Opzione preferenziale per i poveri e prassi di liberazione

Quanti forse si aspettavano una condanna in toto della teologia della liberazione saranno rimasti certamente delusi dall'ultimo documento della Congregazione per la Dottrina della Fede. Non solo il concetto di liberazione è recepito nella sua densità teologica in linea di principio, ma è accostato anche al tema controverso e delicato della prassi. Che la teologia della liberazione non fosse condannata nel suo insieme, lo affermava anche la I Istruzione, che al n. 4 del II capitolo precisava:

«Presa in se stessa, l'espressione "teologia della liberazione" è un'espressione pienamente valida: essa designa una riflessione teologica incentrata sul tema biblico della liberazione e della libertà e sull'urgenza delle sue applicazioni pratiche»[7].

La censura non riguardava quindi la teologia della liberazione, ma alcune teologie vale a dire alcune forme di quella teologia, che si potrebbe chiamare anche teologia della redenzione, per gli sviluppi in sede di approfondimento della tematica di un cammino verso la liberazione, al quale partecipano non solo i singoli e i popoli ma l'intera creazione.

Con una certa fretta, prendendo spunto anche da qualche teologo più pragmatico-attuativo, che critico-speculativo e sotto la spinta di alcune componenti socio-ecclesiali tradizionaliste, si è arrivati da più parti ad identificare la teologia della liberazione con un progetto di trasformazione politica immediata della società. Le conseguenze sono state molto negative. Perché, a partire da questo progetto, identificato tout-court con un certo progetto marxista, (per altro non ulteriormente specificato), si sono attribuite alla teologia della Liberazione, pecche, limiti e contraddizioni proprie di una delle versioni marxiste, sui quali i loro stessi teorici discutono.

«Sulle deviazioni e sui rischi di deviazioni, pericolosi per la fede e per la vita cristiana, insiti in certe forme della teologia della liberazione» (introduzione della I Istruzione[8]), la Congregazione ha ritenuto suo dovere "istruire" teologi e cristiani in genere. Da quel che risulta, sia i primi sia i secondi stanno accettando questi inviti alla vigilanza sui rischi e non è escluso che nei prossimi anni la teologia della liberazione sarà, dal punto vista dottrinale più accurata e dottrinalmente ineccepibile. Tuttavia, a considerare bene le cose, le "deviazioni" sono oggi attribuibili, oltre che alle cause già ricordate, all'applicazione non ulteriormente esplorata in tutti i suoi aspetti, di una visione particolare della prassi, della storia e della società, trasferite, si dice, acriticamente dall'ideologia filosofica alla teologia.

Della prassi l'ultima istruzione non solo non ripudia il concetto, ma addirittura ne fa argomento di un intero capitolo. È vero, essa è precisata come prassi cristiana, eppure si dovrà convenire che come idea è mutuata dalla scienze sociali e non appartiene al patrimonio lessicale della Chiesa. Ciò vale anche per altre categorie sociologiche quali l'alienazione, le strutture, la partecipazione, la democrazia, l'inculturazione e la stessa rivoluzione, che pur è ammessa quale exstrema ratio, anche oggi ad essa è preferita la "resistenza passiva". Eppure sono tutti concetti mutuati da altre fonti, di per sé non necessariamente cristiane. Del resto, se la Chiesa dei primi secoli poté costrui-re basiliche utilizzando pezzi di templi pagani e la riflessione teologica poté costruire interi sistemi e summe di pensiero uti-lizzando categorie e strumenti di analisi prese dal mondo pagano greco-romano oppure dal mondo arabo, non si comprende perché la Chiesa stessa non dovrebbe poter far ricorso a quei concetti e-sposti precedentemente. Il problema è certo fino a che punto con gli strumenti non si assimilino anche i contenuti. Qui il discor-so è ancora tutto da fare e deve essere condotta una serena e non prevenuta riflessione onde evitare due estremi: il processo all'intenzione che vede nell'altro solo la malafede e l'acquisi-zione acritica e il rifiuto della correzione, quasi che si fos-se in possesso di un'infallibilità teologica, contro l'infallibilità magisteriale.

In ogni caso la Congregazione ha ripreso ed ha consacrato in un suo documento oltre ai temi teologici fondamentali già visti della teologia della liberazione anche quello dell'amore preferenziale per i poveri, parlando di "amore di preferenza" ed anche di "opzione preferenziale" (n. 68).

In una prassi cristiana di liberazione l'appello è a privilegiare le persone sulle strutture (n. 75), a valorizzare adeguatamente il principio si solidarietà e quello di sussidiarietà (n. 73), a praticare la via della nonviolenza, pur ammettendo come "estremo ricorso" la lotta armata nei limiti già previsti dal Magistero (n. 79), facendo opera di trasformazione culturale oltre che educativa. Ma quest'ultimo punto è ciò che, con altre parole, la Chiesa Latino-americana ha chiamato coscientizzazione (cfr .nn. 80; 93-94). Sono indicazioni che integrano e sviluppano ulteriormente la cosiddetta “Dottrina sociale della Chiesa, ma sono anche indicazioni che dimostrano la validità di quel metodo che vuole riflettere sulla società e sui suoi meccanismi, sulle forme di asservimento dell'uomo e sulla loro liberazione alla luce della parola di Dio e della fede in Lui come liberatore degli oppressi. Ciò avviene in un atteggiamento spirituale che ripensa a Maria come a colei che tra i "Poveri di Jahvè" fu la più fedele a Dio e la più fedele al suo popolo:

«Ella ci insegna che è mediante la fede e nella fede che, sul suo esempio, che il Popolo di Dio diventa capace di esprimere in parole e di tradurre nella vita il mistero del disegno della salvezza e le sue dimensioni liberatrici sul piano dell'esistenza individuale e sociale» (II Istr. n. 97[9]).

 



[1] Puebla. l'evangelizzazione nel presente e nel futuro dell'america latina, EMI, nn. 81-89,pp. 78.

[2] Così sostiene un teologo tedesco, con alcuni rappresentanti dell'America Latina, nel libro: L. BOSSLE, Utopie der Befreiung, Aschaffenburg 1976. Inoltre, a titolo d'esempio, si ricorda l'incontro di studio tenuto a Roma il 7 Marzo 1978 sul tema "Chiesa e liberazione". Presente tra gli altri R. Koppenburg, nominato successivamente Vescovo ausiliare del Card. Avelar Brandao Videla, Arcivescovo di San Salvador de Bahia in Brasile; in quella occasione il vescovo Franz Hengsbach, vescovo di Essen (Germania)  e Mons. Lopez Trujillo, presidente del Celam, lo invitarono a mettere a punto una strategia critica contro la teologia della liberazione.

[3] Evangelii Nuntiandi, 9.

[4] Puebla ..., op. cit. p. 61.

[5] N. 53 della II Istruzione: Libertatis conscientia. EV/10, 261.

[6] EV/9, 948.

[7] EV/9, 884.

[8] EV/9, 867.

[9] EV/10, 336.