Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

TEOLOGI E PASTORI: CAMMINARE INSIEME, CAPACI DI CORREZIONE FRATERNA

Si considera di solito la comunità cristiana come luogo e strumento di grazia nei suo rapporto con il mondo, relativamente alla sua missione tra gli uomini, cioè verso gli "esterni". Al di là della riconciliazione dei peccatori, la teologia non sembra si soffermi con uguale attenzione anche su quel compito di grazia e di salvezza che la stessa chiesa relativamente a tutti i rapporti che avvengono al suo interno, tra i diversi membri e tra le varie componenti del popolo di Dio. Eppure il dinamismo ad extra e quello ad intra della chiesa sono entrambi ambiti in cui si celebra e si compie il ministero della riconciliazione che il Risorto ha esplicitamente affidato ai suoi discepoli la sera della Pasqua. Gesù ha così collegato la sua pace con i suoi con la pace che essi avrebbero portato agli altri:

«Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi".Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi"» (Gv 20, 21-23)[1].

I vangeli testimoniano il "realismo" di Gesù nei confronti di quegli stessi discepoli da lui scelti per sedere un giorno a giudicare le dodici tribù di Israle[2], ma che intanto dovevano lasciarsi giudicare dalla sua Parola, certamente scomoda e talora in pieno disaccordo con i loro intenti troppo umani. Al punto che nel momento solenne in cui Gesù parlava del suo prossimo ripudio questi non trovavano niente di meglio da fare che litigare su chi avrebbe dovuto capeggiare sugli altri[3] Lo stesso Pietro fu così severamente ammonito da Gesù, da essere paragonato a Satana tentatore, e solo dopo il suo ravvedimento (e non prima) potè diventare, secondo il progetto del Maestro, colui che avrebbe confermato nella fede i suoi fratelli[4]. Come mette in luce l'approfondimento biblico sulla correzione fraterna, il realismo evangelico prevedeva non solo defezioni e riconciliazioni dei discepoli genericamente intesi, ma anche inevitabili errori e peccati all'interno di quella che sarebbe poi diventata la componenete gerarchica del popolo di Dio. Lo confermano non pochi passi, tra i quali il logion su colui che mentre sta presentando l'offerta all'altare si ricorda che suo fratello ha qualcosa contro di lui (Mt 5,23-24), e l'altro la correzione secondo la procedura dei tre interventi correttivi (Mt 18,15-17). E che così fossero state intese le indicazioni di Gesù lo attestano anche gli altri scritti neotestamentari, tra i quali sarà utile ricordare l'intervento, senza dubbio imbarazzante, di Paolo nei confronti di Pietro, richiamato a un comportamento più coerente con i pagani convertiti[5] e così pure la serie di appunti, alcuni dei quali particolarmente gravi, mossi da Cristo agli angeli delle sette chiese nel libro dell'Apocalisse (Ap cc. 2-3).

Il dinamismo gratuito e profetico della grazia, da un lato, le indicazioni neotestamentarie e la prassi proto-cristiana dall'altro, certificano abbondantemente che la correzione fraterna riveste un'importanza notevole nella vita cristiana, soprattutto in considerazione della continua chiamata alla conversione che lo Spirito del Risorto incessantemente rivolge a tutti, senza alcuna eccezione. Sono questi i motivi teologici che stanno alla base della "ecclesia semper reformanda", che di per sé non è un punto programmatico della teologia protestante, ma uno dei caratteri teologici fondamentali del popolo di Dio, in quanto convocazione di Cristo. La stessa esistenza cristiana comporta il fatto che la Chiesa come tale è "santa insieme e sempre bisognosa di purificazione", per cui "mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento" (Lumen Gentium,8).

In questo contesto generale bisogna riconsiderare anche i rapporti tra chi detiene il munus pascendi e chi invece, ha ex professo il dono e la missione dell'insegnamento, cioè tra i "pastori" e i "teologi", anche se proprio tale rapporto appare subito come un rapporto complesso a causa di molteplici fattori. Essi vanno dalla stretta interdipendenza tra l'attività pastorale e la riflessione teologica alla compresenza e reciproca appartenenza di funzioni e carismi differenti nel medesimo popolo di Dio, dalla consacrazione profetica di ogni battezzato alla caratterizzazione escatologica di tutta la chiesa.

Attività pastorale e attività teologica

Dopo il Vaticano II nessuno più dubita del fatto che il popolo di Dio abbia al suo interno molteplici, differenti e reciproci ministeri, così come ha vari carismi. Questa complessa "pluriministerialità" e articolata "carismaticità" sebbene sembri a prima vista una realtà estremamente confortante (e lo è per molti versi) non si può recepire in termini apologetici o autocelebrativi. La compresenza di ministeri e carismi non pone certamente problemi relativamente alla loro origine, nè per ciò che riguarda la loro destinazione. Tutti i doni e i ministeri provengono dallo Spirito Santo e sono ad utilità dell'intero popolo di Dio. Dal punto di vista ecclesiologico, già la teologia paolina del corpo mistico non lascia adito ad alcun dubbio[6] solo motivo di  comporta non pochi problemi, che si potrebbero chiamare fisiologici, e che sono relativi sia alla gestione della esperienza dell'unità nella diversità, sia all'autopedagogia alla quale ogni soggetto ecclesiale deve umilmente e seriamente sottoporsi, al fine di venire a capo di una situazione che sembra contenere già programmaticamente qualche conflitto di competenza o almeno di armonizzazione di compiti tra loro differenti. Tra questi il rapporto tra un irrinunciabile e impreteribile compito magisteriale affidato ai pastori e l'indispensabile e - sembrerebbe - anch'esso intramontabile ministero della ricerca e dell'approfondimento teologico tipico dei teologi, la cui figura si rinviene fin dagli albori del cristianesimo in quella dei "didaskalòi" (chiamati dunque "maestri"), ma senza dubbio distinti dai "pastori" ("poimenai") (cfr. Ef 4,11) e dagli altri soggetti ecclesiali. Avvenimenti storici, passati e recenti, danno innegabile conferma a quest'assunto teorico iniziale, che richiama tutti come compito primario dell'insieme dei soggetti ecclesiali e di ciascuno di essi l'edificazione del Corpo di Cristo, l'unità della fede e la conoscenza del Figlio di Dio (Ef 4,12) pur esigendo che ciascuno svolga il suo compito con l'autorità e la libertà da esso richieste.

Ma a ben considerare le cose, non si tratta semplicemente di una questione di delimitazione di ambiti né di una regolamentazione giuridica di competenze. Nel caso che ci interessa, infatti, è in gioco non solo il rapporto tra due soggetti ecclesiali diversi, ma la complementare e feconda tensione dia-lettica (cioè di reciproco riferimento) tra le due modalità ministeriali che questi medesimi soggetti esprimono: l'attività pastorale e la ricerca scientifica, l'azione propriamente e immediatamente finalizzata alla predicazione e alla sacramentalizzazione e l'attività dello studio e dell'approfondimento dei contenuti teologi in quella implicati.

A ciò si aggiunga che si lamenta da più parti la distanza ancora esistente tra la riflessione teologica, cosiddetta "speculativa" e la "pastorale". Nonostante la vasta produzione teologica che caratterizza questi nostri anni, resta la difficoltà di tradurre in gesti concreti e in prassi quotidiana ciò che è stato già  ripensato e proposto sia nelle pubblicazioni teologiche che nei pur numerosi documenti pastorali della CEI.

 Le ragioni di questa difficoltà di effettiva comunicazione tra livello teorico e livello pastorale sono tante. Si possono però ricondurre a un difetto di fondo: l'autosufficienza in cui talora è vissuta e vive la riflessione teologica, da un lato, e l'autoreferenzialità della componente magisteriale del popolo di Dio, dall'altro. La teologia non di rado si appella alla pastoralità e alla prassi solo per considerare le possibilità applicative di ciò che essa ha prodotto in modo autonomo; dal loro canto, talora gli stessi "pastori", oltre che gli "operatori pastorali" (parroci, sacerdoti, laici e religiosi) suscitano l'impressione di essere prevenuti sulla riflessione teorica. Paradossalmente, al pari di alcuni "teologi", anche loro ritengono, che altro sia la teoria, altro sia la prassi. La loro esperienza rischia sovente di confinarli alla stessa autosufficienza che essi criticano nei "teologi di professione".

Tale separazione tra riflessione e prassi è uno schema di pensiero datato e ormai superato anche teoricamente, eppure sarà effettivamente accantonato solo se crescerà la consapevolezza della strettissima interconnessione tra la prassi pastorale e la teoresi, che rimanda ad essa non solo in sede applicativa, ma anche nel suo stadio germinale, come "luogo teologico" in cui ogni riflessione sulla fede ha luogo, per la semplice ragione che la fede nasce in un contesto di prassi ecclesiale-comunitaria, si alimenta in essa e vi fa continuo riferimento.

 La prima proposta che si potrebbe avanzare è quella di un approfondimento delle interconnessioni "strutturali" esistenti tra teologia e vita pastorale, in vista di una maggiore consapevolezza delle implicanze teologiche di ogni atto pastorale e di una più profonda coscienza pastorale, "pratica" insita in ogni riflessione teologica. Intanto, se già la rivelazione vetero-testamentaria unisce profondamente eventi e parola, agire di Dio e comunicazione verbale, nella comunicazione salvifica di Cristo tale sintesi tocca il culmine e diventa paradigmatica per la vita stessa della Chiesa. La pastoralità di Gesù e degli apostoli non è disgiungibile dalla comunicazione dottrinale. Ed inoltre, se la Scrittura è simultaneamente Parola di Dio e narrazione delle sue gesta salvifiche non può essere ridotta a commemorazione celebrativa, né a compendio dottrinale. La Parola, che racconta, giudica e anticipa la storia, è la stessa che crea e trasforma la realtà. E' la caratteristica della Parola di Dio, rivelante e realizzante, che dichiara e salva nello stesso tempo, con una una dimensione noetica e una dimensione pratica nella sua più intima essenzara. Con questa sua modalità constitutiva essa passa alla Chiesa, diventando Parola scritta e interpretata ma anche Parola vivente ed agente.

Diventa così comprensibile l'affermazione che non c'è né rivelazione, (e di conseguenza né comunità, né tanto meno storia salvifica) senza una pastoralità dottrinale, né esite una riflessione che non sia fondata nell'agire e che tende per sua natura all'agire. Tutto ciò rifluisce con chiarezza nella teologia del Vaticano II, in primo luogo nella Dei Verbum, che riconoscendo un'uninscindibile relazione tra Parola ed evento pone una pietra miliare sull'argomento [7]. Ma senza dubbio è questa concezione, che congiungendo il compito dottrinale e l'attività pastorale, è soggiacente ai molti pronunciamenti sull'argomento. Tra questi si potrebbe citare la Ratione habita della Commissione sinodale, del 28.10.1967, che evidenziava le ragioni di questa necessaria sintesi da compiere già da parte dei "pastori", tra testimonianza di vita e annuncio della parola:

"Occorre che i vescovi con la cooperazione di tutti i fedeli, e soprattutto dei sacerdoti e dei religiosi, rendano testimonianza alla loro fede non solo con la parola, ma anche con le opere, in particolare con la carità genuina ad imitazione di Cristo che ci ha amato" [8].

Si tratta di un impegno non generico, ma che investe il grande ambito della giustizia e della carità: "E' opportuno rilevare quanto sia necessario che la chiesa, con l'azione collettiva dei suoi pastori e dei suoi fedeli, soprattutto di quelli che nella società civile rivestono uffici più importanti, risulti efficace e premurosa della giustizia e della carità, non solo privata, ma pure sociale e internazionale"[9].

 Carismi diversi e complementari

 Nello stesso testo si rinvengono espressioni relative al compito dei teologi nei termini di un'indispensabile e irrinunciabile compito-servizio, che è ugualmente essenziale per la vita cristiana: "Sebbene l'ufficio dell'insegnamento autentico non appartenga ai teologi, tuttavia il loro compito nella chiesa è insigne, ed indispensabile è il servizio che essi prestano. Spetta a loro ricercare, con sforzo incessante, una più perfetta comprensione e formulazione del mistero rivelato in modo da dare, per quanto è possibile, una risposta ai problemi - spesso di grande importanza per la stessa vita cristiana - che continuamente sorgono"[10]. E che non si tratti di un riconoscimento retorico, ma effettivo, lo dimostra la chiara affermazione relativa alla libertà di ricerca di cui il teologo deve sempre godere, una libertà pur sempre indispensabilmente vincolata all'ascolto della Parola di Dio. Ciò costituisce non solo un limite, ma esprime la dimensione "spirituale" e ortopratica della ricerca dei teologi: "Affinché poi possano adeguatamente svolgere questo loro compito, occorre riconoscere loro una giusta libertà per affrontare nuove ricerche e perfezionare il patrimonio tradizionale di verità. Essi a loro volta devono porsi fedelmente e umilmente al servizio della parola di Dio, senza strumentalizzarla a vantaggio delle proprie opinioni"[11].

Alla luce di ciò che è stato detto, le difficoltà di comunicazione, che talora si fanno notare tra pastori e teologi, non possono essere ricondotte a episodi di scontrosità caratteriale o intolleranza disciplinare, ma sembrano nascere dalla non avvenuta acquisizione di quella complementare e reciproca referenzialità tra riflessione e prassi, pastoralità e scientificità teologica, alla quale né gli uni né gli altri possono rinunciare. A soli cinque anni dal Vaticano II, Paolo VI sentiva il bisogno di richiamare i teologi agli ambiti ermeneutici propri del loro lavoro: il dato rivelato e la comunità ecclesiale, e di invitare tutti al rispetto e alla valorizzazione dell'approfondimento teologico, dandone egli stesso un esempio. Infatti scriveva: "A coloro che assumono nella chiesa il compito delicato di approfondire l'insondabile ricchezza di tale mistero, teologi ed esegeti in particolare, noi daremo a testimonianza un incoraggiamento e un sostegno che li aiuterà a condurre avanti il loro lavoro nella fedeltà alla grande corrente della tradizione cristiana"[12].

Dopo aver esortato i teologi a prendere coscienza dei limiti della loro attività (dato rivelato ed ecclesialità) Paolo VI aggiungeva: "All'indomani di un concilio, che è stato preparato con le migliori conquiste della scienza biblica e teologica, un considerevole lavoro resta da compiere, specialmente per approfondire la teologia della chiesa e per elaborare un'antropologia cristiana adeguata allo sviluppo delle scienze umane e alle questioni che esse pongono all'intelligenza dei credenti"[13]. Di tale compito teologico i pastori devono riconoscere il valore ma anche indicare il luogo onde esso nasce e a cui fa riferimento: il popolo di Dio: "Per quanto necessaria la funzione dei teologi, non ai sapienti però Dio ha affidato la sua missione di interpretare autenticamente la fede della chiesa: questa s'innesta nella vita di un popolo, di cui responsabili davanti a Dio sono i vescovi"[14]. Ma tutto ciò, mentre costituisce un limite invalicabile per il teologo, richiama seriamente anche i pastori a vigilare sulle eventuali arbitrarietà: "Bisogna segnatamente vigilare affinché una scelta arbitraria non coarti il disegno di Dio entro le nostre umane vedute, e non limiti l'annuncio della sua parola a quel che le nostre orecchie amano ascoltare, escludendo, secondo criteri puramente naturali, quel che non è di gradimento ai gusti odierni"[15]. Il motivo che vincola "ciascun vescovo nella propria diocesi", "ciascun sinodo", "ciascuna conferenza episcopale" a questa vigilanza contro cedimenti arbitrari è lo steso che vincola ogni teologo: "Infatti non siamo noi i giudici della parola di Dio: è essa che ci giudica e che mette in luce il nostro conformismo alla moda del mondo"[16].

. Il valore pastorale dell'impegno teologico

Con queste premesse diventano comprensibili tutte le affermazioni successive del Magistero, che invitano i vescovi non solo a dialogare con i teologi, a a servirsene anche quali loro collaboratori. Molto chiaramente si esprimeva già il Direttorio pastorale dei vescovi, nel 1973: "Per adempiere il proprio ufficio di maestro e di giudice della fede il vescovo, quantunque abbia ricevuto con la successione episcopale un carisma sicuro di verità, assai opportunamente si rivolge ai teologi per averne aiuto, sia nel suo magistero a vantaggio dei fedeli della diocesi, sia nella sua opera di collaborazione alla conferenza episcopale, al sinodo dei vescovi, alla sede apostolica o anche al concilio ecumenico"[17].

Sono tutti temi che hanno ricevuto una sistemazione più organica nel testo specifico, approntato dalla Commissione teologica internazionale su "il mutuo rapporto fra magistero ecclesiastico e teologia". Il testo chiarisce i dati che sono loro comuni, che noi abbiamo già considerati, e quelli che li distinguono. Riprendendo non pochi passaggi di un'allocuzione di Paolo VI al Congresso internazionale sulla teologia del Vaticano II [18], del 1966, si riconosce al compito dei teologi una "funzione mediatrice tra il magistero e il popolo di Dio. Infatti "... la teologia <<aiuta il magistero ad essere sempre luce e guida della chiesa, pienamente all'altezza del compito>>[19]. D'altra parte i teologi mediante il loro lavoro di interpretazione, di dottrina, di presentazione secondo la mentalità propria del loro tempo, collocano la dottrina e i richiami del magistero in una sintesi di più ampio respiro, permettendo una migliore conoscenza da parte del popolo di Dio. Così collaborano <<a diffondere, ad illustrare, a giustificare, a difendere la verità autorevolmente insegnata dal magistero>>[20]"[21].

La congregazione ammetteva, tuttavia, con molto realismo, che "Nell'esercitare i compiti del magistero e dei teologi non raramente si riscontra qualche tensione. Ciò non desta meraviglia (...) Dovunque c'è vera vita lì c'è pure tensione. Essa non è inimicizia né vera opposizione, ma piuttosto una forza vitale ed uno stimolo a svolgere comunitariamente ed in modo dialogico l'ufficio proprio di ciascuno"[22].

Conformemente a ciò che lo stesso testo suggeriva, si può e si deve considerare l'aiuto reciproco che magistero e teologi possono e debbono prestarsi: "il magistero può acquistare una maggiore comprensione della verità di fede e di morale da predicare e difendere; la comprensione teologica della fede e dei costumi, fortificata dal magistero, acquista la certezza"[23].

Tutto ciò conferma e motiva l'idea che pastoralità e teologia siano nella chiesa non solo complementari, ma anche organicamente collegate. In ragione di ciò, i pastori e i teologi svolgono entrambi una vera attività pastorale. La teologia, infatti "in quanto funzione vitale nel e per il popolo di Dio, deve avere un intento e un effetto pastorale e missionario"[24]. Si tratta di un dovere non moralistico, ma di una realtà di fatto, come il magistero più recente ha precisato, riconoscendo non solo il valore e la peculiarità della scientificità della riflessione teologica, ma anche il valore ministeriale della teologia, già presente nell' ecclesiologia paolina e di cui anche S. Tommaso era ben cosciente, quando considerava il lavoro teologico una missione e una vocazione[25].

Sulla relazione tra magistero dei vescovi e teologi il sinodo del 1985 ha potuto riassumere tale rapporto[26] nei termini di un riconoscimento esplicito per il ruolo e l'opera dei teologi 1) per l'elaborazione dei documenti del Vaticano II, 2) per la loro "fedele interpretazione" e 3) la loro "fruttuosa applicazione". Ma ha espresso anche il proprio rammarico perché "talvolta le discussioni teologiche ai nostri giorni siano state motivo di confusione tra i fedeli". Perciò ha formulato non solo un augurio di maggiore collaborazione, ma ha anche dato una precisa direttiva: "Sono necessari perciò una comunicazione e un dialogo reciproco tra vescovi e teologi per l'edificazione e la più profonda comprensione di fede".

Con maggiore sistematicità si è occupata della funzione del teologo nella chiesa la Congregazione per la dottrina della fede, con la menzione esplicita della "vocazione ecclesiale del teologo". Ecco un passaggio che non lascia più adito ad alcun dubbio: "Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito nella chiesa si distingue quella del teologo, che in modo particolare ha la funzione di acquisire, in comunione con il magistero, un'intelligenza sempre più profonda della parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e trasmessa dalla tradizione viva della chiesa"[27]. La congregazione riprende, collegandoli, i diversi aspetti già presenti nel magistero precedente e pur sottolineando ripetutamente i limiti (varitativi ed ecclesiali) in cui la vocazione del teologo è sempre da circoscrivere, riconosce per principio[28] e in actu exercito la libertà della ricerca, che può generare situazioni diverse, che vanno dall'accoglienza dei suoi risultati alla lenta decantazione e solo successiva accettazione e persino a un tardivo riconoscimento delle ragioni dell'altro. Notevole è infatti l'ammissione circa i limiti di alcuni interventi magisteriali sui teologi, dettati dalla prudenza: "In questo ambito degli interventi di ordine prudenziale, è accaduto che dei documenti magisteriali non fossero privi di carenze"[29].

Di fronte a una siffatta situazione il problema torna ad essere un problema non solo di comunicazione, ma anche e soprattutto di conversione. Se in generale "la teologia offre dunque il suo contributo perché la fede divenga comunicabile ... e nasce anche dall'amore e dal suo dinamismo"[30] e se lo steso amore a Dio e all'uomo anima il teologo[31] e anima il pastore, questa unica sorgente dovrà far rifiorire l'auspicato dialogo e quei rapporti di collaborazione della cui indispensabilità tutti ci diciamo convinti.

 



[1]Cfr. con questo logion ciò che Gesù dice ai suoi discepoli nella cosiddetta preghiera sacerdotale: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dá  il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore»

(Gv 14,27).

[2]«E Gesù disse loro: "In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele"» (Mt 19,28); «Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell'Agnello

(Ap 21,14).

[3]Ed egli soggiunse: " Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio". Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; ma Gesù, chiamatili a sé, disse: "I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere.Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,23-28).

 

[4]«"Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano;  ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli"».

 

[5]«Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: "Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?"» (Gl 2,11-14).

 

[6]Cfr., ad esempio: «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12, 4-5); «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra.» (1 Cor 12, 13-14)-.«Egli [Cristo] infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo,[...] per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,14-16); «Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione» (Ef 4,4); «E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!» (Col 3,15).

 

[7]Cfr. DV 2

 

[8]SYNODUS EPISCOPORUM,  Relatio Ratione habita Commissionis Synodalis constitutae ad examen ulterius peragendum circa "opi­niones periculosas hodierna necnon atheismus" , n.6, 28 octobris 1967,  Enchiridion Vaticanum  2, 1724.

 

[9] Ivi .

 

[10] Ratione habita , cit., n.4:  EV  2, 1722.

 

[11] Ivi .

 

[12]PAOLO VI,  Adhortatio apostolica Quinque iam anni quinto

expleto anno a Concilii oecumenici Vaticani II exitu, 8 decembris 1970 : AAA 63 (1971) 97-106:  EV  3, 2882.

 

[13] Ivi ,  EV  3, 2886.

 

[14] Ivi , 2887.

 

[15] Ivi , 2881.

 

[16] Ivi , 2882.

 

[17]SACRA CONGREGATIO PRO EPISCOPIS,   Directorium Ecclesiae imago de pastorali ministerio episcoporum,  22 februari 1973, Typis Polyglottis Vaticanis 1973, n.63:  EV  4, 2038.

 

[18]Reperibile in: AAS 58 (1966), 890ss.

 

[19]E' citata l'allocuzione, di cui alla nota precedente,  Ivi , 892.

 

[20] Ivi , 891.

 

[21]COMMISSIO THEOLOGICA INTERNAZIONALIS,  Theses Rationes magi­sterii cum tehologia de Magisteri ecclesiastici et theologia ad invicem relatione , 6 iunii 1976, in "Gregorianum" 57 (1976) 549-556:  EV  5, 2041.

 

[22] Ivi  2048.

 

[23] Ivi , 2049.

 

[24] Ivi , 2038.

 

[25]cfr. La formazione teologica nella chiesa particolare, (nota della Conferenza Episcopale Italiana del 19.05.1985), n.3, che cita S.Th. Contra Gentes I,2.

 

[26]SYNODUS EPISCOPORUM (in coetum generalem extraordinarium con­gregata, 1985),  Relatio finalis Ecclesia sub verbo Dei mysteria Christi celebrans pro salute mundi , 7.12,1985, n.3:  EV  9, 1796.

 

[27]Congregazione per la dottrina della fede  La vocazione eccle­siale del teologo , 26.6.1990",n.6: "Il Regno" XXV (1990\15) 469.

 

[28]"La libertà della ricerca, che giustamente sta a cuore alla comunità degli uomini di scienza come uno dei suoi beni più preziosi, significa disponibilità ad accogliere la verità così come essa si presenta, al termine di una ricerca, nella quale non sia intervenuto alcun elemento estraneo alle esigenze di un meto­do che corrisponda all'oggetto studiato" ( Ivi , n.12.: "Il Regno", cit. 470). Cfr., a questo riguardo anche la lettera all'episcopato tedesco  Die umfangreiche Dokumentation  (sul caso Küng) di Giovanni Paolo II, 15.5.1980, n.2:  EV  7, 379ss: "Il teologo cattolico, come ogni scienziato, ha diritto alla libera analisi e ricerca del proprio campo: ovviamente nella maniera che corrisponde alla natura stessa della teologia catto­lica."

 

[29] Ivi , n.21: "Il Regno", 471.

 

[30] Ivi , n.7: "Il Regno", cit., 469.

 

[31]Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Augustinum Hipponensem,   EV  10, 867.