Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Nodi storici ed ecclesiologici della prassi sinodale

(Relazione al seminario di studio dell’Associazione Teologica Italiana – Catanzaro 18/05/04)

 

Quattro punti

1) Problemi di impostazione teologica generale

2) Problemi di caratterizzazione storica con conseguenze dogmatiche

3) Il problema dell’armonizzazione teologica tra magistero episcopale e ruolo primaziale del papa

4) Per una sinodalità nell’orizzonte della solidarietà

 

1) Problemi di impostazione teologica generale

 La parola «sinodo», nonostante le sue assonanze religiose e il suo uso oggi in ambito esclusivamente ecclesiale, trova la sua origine etimologica nel syn-odos, cioè nel «cammino insieme», o come meglio si direbbe in italiano, del «camminare insieme». Considerato nei suoi riferimenti teologici più che etimologici, esso appare subito non solo come modalità e strumento di una prassi riferita all’assemblea, ma come esperienza collegata alla fede e alla carità[1]. Alla fede, perché contiene indubbi richiami a Gesù, alla sua “rivelazione” e alla sua prassi, così come contiene forti richiami alla prassi delle primitive comunità cristiane  e ai testi del Nuovo Testamento, in particolare al libro degli Atti e all’epistolario paolino. Alla carità perché fa riferimento non solo a precise modalità comportamentali, ma anche e soprattutto alla koinoinìa ecclesiale come dimensione teologale, perché impiantata nella stessa comunione trinitaria.

Per queste ragioni, il sinodo si può considerare elemento tipico della fede cristiana in una prassi di una con-maturazione e condivisione di scelte operative, prassi pur presente in non poche esperienze religiose anche lontane dal cristianesimo. Come punto di partenza specificamente cristiano può essere assunto il fatto che Gesù definisce se stesso «Via, verità e vita», come riferisce Giovanni (Gv 14,6), mentre i sinottici, in particolare Luca, raccontano che la vita pubblica di Gesù (ma di per sé anche parte della sua infanzia) è una vita che teologicamente e storicamente si srotola e si manifesta lungo la strada, nell’essere sulla via. In realtà nell’essere sulla via Gesù non è mai solo. Non lo è mentre riprende la strada con Maria e Giuseppe, dopo il suo «smarrimento» nel tempio, come non poteva esserlo, quando ancora nel grembo della Madre e  poi una volta nato, sorretto dalle sue braccia, era sulla strada che da Betlemme portava in Egitto e ritorno. Lo ritroviamo tra la folla che chiede il battesimo al Battista e  subito dopo in compagnia dei suoi primi discepoli, che egli chiama direttamente ad accompagnarlo, in una sequela di cui si sottolinea sempre – a ragione – «l’andare dietro» di lui[2], ma poco o nulla si dice anche del fatto che il concetto di acoluthéin  indica anche l’andare con lui.  Un esempio evidente è nel “sommario” con cui Luca descrive gli spostamenti del Maestro, là dove troviamo l’indicazione che nel cammino di Gesù erano con lui anche altri[3].

La vita cristiana è dunque, fin dagli inizi non solo apostolici, ma gesuani, un «andare insieme», un syn-odos. Se ai primordi è un andare direttamente e fisicamente con “il Signore”, dopo la sua resurrezione è un camminare ancora con lui, sebbene non lo si possa subito riconoscere, come suggerisce ancora Luca nell’episodio dei due discepoli di Emmaus[4]. La circostanza dei due discepoli evoca il fatto che Gesù stesso aveva prescritto che essi andassero «a due a due»[5] e ciò è da ricondurre teologicamente non solo alla prassi della testimonianza in ambiente giudaico, ma anche e soprattutto al logion «dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Sono, come si nota, ragioni non estemporanee, ma di fondo, che possono anche giustificare perché i primi cristiani, oltre ad essere chiamati tali, per la prima volta ad Antiochia, come informa ancora Luca[6],  erano chiamati «seguaci della via»[7].

I «seguaci della via» sono dunque anche “compagni di strada”, ma non lo sono da soli. Con loro cammina il Risorto e tutti  (insieme e singolarmente) sono chiamati ad andare con lui. La prassi sinodale è basata su queste solide fondamenta cristologiche, ma che diventano anche ecclesiologiche, appena si consideri il fatto che Gesù vuole che la sua ekklesìa sia costruita sulla roccia dell’apostolicità, quella che ha in Pietro il suo rappresentante più autorevole, secondo la volontà del Maestro[8], ma pur sempre in funzione dei suoi fratelli, senza dei quali il suo ministero non avrebbe alcun senso, quei fratelli  che egli, solo quando si sarà ravveduto, dovrà confermare[9].

È l’ekklesìa che vive la sinodalità anche e soprattutto nei momenti nei quali occorre esercitare la correzione fraterna, praticando un ministero della riconciliazione che avviene non solo ad extra, ma anche ad intra[10].  Si tratta di una sinodalità, in forza della quale solo recentemente l’autorità più grande esistente nella comunità cristiana può finalmente guardare senza trionfalismo e facile apologetica al proprio ruolo, riconoscendo i propri errori storici, per bocca di Giovanni Paolo II, in una storia bimillenaria della Chiesa, «la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi», per concludere con apostolica umiltà: «Per quello che ne siamo responsabili, con il mio Predecessore Paolo VI imploro perdono»[11].

Ciò asseconda, del resto, quella prassi proto-apostolica, nella quale qualcuno come Paolo, ultimo arrivato nell’assemblea cristiana e un tempo suo fiero avversario, poteva riprendere Pietro in persona, perché egli ed altri «non camminavano rettamente secondo la verità del vangelo»[12].

La prassi sinodale è dunque presente fin dagli inizi e la troviamo, oltre che negli episodi già citati, nella direttiva di Paolo alla comunità corinzia di prendere provvedimenti nel caso dell’incestuoso[13]. La troviamo ancora nell’elezione di Mattia[14] e, ovviamente nell’autorevole consesso di Gerusalemme sul problema degli obblighi dei pagani convertiti verso la legge mosaica. Proprio quest’assemblea porta i chiari contrassegni della prassi sinodale.  A fronte di una questione di non poco conto che travagliava la Chiesa, «gli apostoli e gli anziani si riunirono per esaminare la questione» (At 15,6). «Si riunirono» (sunèchthesan), cioè «si raggrupparono insieme convocando». All’episodio noto come «concilio di Gerusalemme», non viene dato di solito il valore storico di un concilio ecumenico vero e proprio, e tuttavia non  si può negare la patente del syn-odos, dell’essere venuti insieme per decidere come meglio poter continuare a camminare insieme. Lo svolgimento dei suoi lavori, con i discorsi di Pietro e di Giacomo tenuti davanti all’assemblea, l’indicazione ecclesiologica preziosa che parla di una decisione presa comunemente dagli apostoli, dagli anziani e da tutta la Chiesa, così come la lettera appositamente predisposta per tutti e l’indicazione che ciò è da ritenere anche come volontà dello Spirito Santo, perché decisione presa in sintonia con lui (to pnèumati to agio kai emin), caratterizzano in maniera ottimale la sinodalità. Anche per questo, in un momento costitutivo delle strutture fondamentali della Chiesa, costituiscono un riferimento perenne per una prassi che non può discostarsi da essa.

 Ma le cose sono andate così anche dopo la morte degli apostoli? I documenti di cui siamo in possesso su avvenimenti che qui chiamiamo “sinodali” non vanno al di là della seconda metà del II secolo, tuttavia fin dal primo secolo è chiaramente attestata la prassi di riunioni fra i vescovi di varie regioni. All’ordine del giorno erano problemi di fede, spesso nel contesto di discordie e divisioni che minacciavano il popolo di Dio.  In ogni caso, non deve essere stato solo questo motivo pratico, ma piuttosto l’idea originaria del convergere sulla stessa via a far raccomandare dal prezioso quanto affascinante testo della Didachè : «Riunitevi spesso cercando ciò che conviene alle vostre anime»[15]. Si tratta di una raccomandazione collegata probabilmente allo stesso concetto di ekklēsìa (da ek-kaleō), in quanto essere chiamati da più parti per con-venire e ritrovarsi insieme. L’idea non è peregrina. Ritorna, ad esempio, anche nel Vescovo Ignazio, che suggerisce a Policarpo adunanze «molto frequenti»[16]. Ha un’espressione vistosa, quanto significativa, nel sinodo che papa Vittore indice a Roma nel 197, su un argomento allora di grande importanza, quale la data della celebrazione della Pasqua. 

La restante documentazione storica, come si trova in qualsiasi manuale di Storia della Chiesa,  attesta una prassi sinodale notevole nel secolo III e almeno in parte del IV, tanto nelle chiese orientali che in quelle occidentali.

Si tratta in ogni caso di sinodi che potremmo definire “regionali”, ancora ben al di qua di quella soglia più universale  e universalizzante, che solo più tardi avrebbe creato le condizioni storico-giuridiche e ecclesiologico-pastorali per una sinodalità di natura ecumenica. Tale evoluzione va di pari passo con l’affermarsi di un modello di chiesa che trova una sua particolare configurazione nella svolta costantiniana.

La sinodalità allora da un’impostazione regionale a un’impostazione universale, dopo essere passata da un piano spirituale-teologico a un piano decisionale-disciplinare. Ovviamente ciascuna delle caratterizzazioni successive non annulla quelle precendenti, che restano in vigore anche nei secoli successivi, affiancando quelli che saranno poi chiamati i “concilii ecumenici”.

Prima però di inoltrarci in  questo secondo grande argomento, sembra utile concludere che dal punto di vista teologico più generale sono apparso ecclesiologicamente cogenti alcune conclusioni. Si possono così riassumere: 1) inscindibile rapporto tra sequela Christi e condivisione comunitaria della sua “via”; 2) inequivocabile derivazione della prassi sinodale dalla realtà della comunione trinitaria ad intra e ad extra e della comunione come chiamata ad essa; 3) inestricabile rapporto tra la chiamata alla conversione e la correzione fraterna; 4) indiscutibile valore teologico delle decisioni sinodali in quanto comune partecipazione all'unico e vincolante dinamismo dello Spirito.

Ciascuna della quattro menzionate concatenazioni rimanda a una serie di problemi. Essi riguardano oltre che l’applicabilità e l’effettiva applicazione storica, anche le conseguenze pastorali di una prassi che non può essere che impostata in maniera sinodale. Rimandano alla natura peregrinante del popolo di Dio e alla sua strutturazione di fondo intorno alla Parola, allo spezzare il pane e alla sua vita come condivisione all’interno dell’assemblea  e fuori di essa. Ma rimandano anche alle forme, molte delle quali probabilmente da riprendere dal passato, se non da  inventare nel presente e nel futuro, di un modo sinodale di impostare e di verificare la pastorale. Sono tutti problemi complessi che, come le scatole cinesi, aprono molti problemi. Cercherò di individuarne alcuni, soggettivamente ritenuti tra i più importanti, in una presentazione sebbene sommaria di alcune svolte della storia della Chiesa, a partire dai concili ecumenici.

 

2) Problemi di caratterizzazione storica con conseguenze dogmatiche

A questo proposito, ad utilità dei nostri interlocutori, ricordo che come “concilii ecumenici” sono stati riconosciuti 21 sinodi generali e sono da alcuni così distribuiti: 8 dagli inizi della storia della Chiesa al IX secolo (concili «imperiali»);  7,  dopo un intervallo di quasi tre secoli, (concili «medioevali»);  6,  dopo un intervallo di oltre un secolo, («concili dell’età moderna e contemporanea»).

In essi affiora innanzi tutto il problema di un sempre inseguito equilibrio teologico-giuridico tra due elementi che sono i due fuochi dell’ellissi: la collegialità episcopale e preminenza papale. Riguardano, di conseguenza, tutti gli altri problemi relativi alla coordinazione, alla reciproca informazione e alla comunicazione tra le due parti in causa.

L’equilibrio sembra ottimale a proposito del sinodo di Gerusalemme”[17]. Pur potendo sollevare il dubbio di un’idealizzazione di Luca (similmente alla vita dei primi cristiani), sta di fatto che esso ha come seguito una prassi ecclesiale generale abbastanza coerente e risolve un problema storico di massima importanza: il rapporto tra la continuità giudaica e la novità cristiana. I concili ecumenici riconosciuti come tali hanno alterne vicende nei secoli successivi. L’equilibrio tra la collegialità episcopale e la preminenza papale si fa strada tra non poche difficoltà nei primi concili «imperiali». Essi sono convocati comunque dall’imperatore, vedono la presenza dei delegati pontifici e sono ratificati dal papa. Dopo Nicea (325), Costantinopoli (381) ed Efeso (431), il IV concilio, quello di Calcedonia (451), è ritenuto il migliore esempio di prassi sinodale, per l’imponente presenza, relativamente all’epoca, dell’episcopato (oltre 600 vescovi, sebbene con solo 5 occidentali) e per la ben profilata azione di Leone Magno, consapevole di essere vicarius Petri, pur attraverso i suoi legati, ma comunque ben conscio  del suo “ruolo petrino”.  

Non si può affermare lo stesso dei rimanenti «concilii imperiali», che hanno avuto alterne vicende, tensioni notevoli, scarsa azione del papa e momenti di vera e propria confusione ecclesiale, se non proprio dottrinale, sebbene a ciò si sia sopperito con recuperi,  precisazioni e recezioni papali successivi. Il travaglio sinodale non è risolto, anzi è accentuato nel concilio Costantinopolitano V ecumenico, nonostante, anzi proprio a motivo della presenza del papa Vigilio e di una decina di vescovi occidentali. La contrapposizione tra assemblea e papa fu notevole, fu infine momentaneamente appianata attraverso un’equivoca approvazione da parte del papa della condanna dei tre capitoli[18] e fu risolta solo successivamente attraverso l’azione, più politica che ecclesiale, del successore, papa Pelagio I.

L’accaduto sta comunque a dimostrare come non solo sia possibile, ma come di fatto si sia potuto incrinare il rapporto tra la coscienza sinodale e l’autorità papale. Proprio questo rapporto non sempre è risultato ottimale, essendo precario, di precarietà che, alla fine, limitatamente a ciò che stiamo esaminando, polarizza così tanto l’opposizione tra sinodo e papato, da farla rientrare nel più generale e certamente ben più complesso conflitto tra l’Oriente e l’Occidente.  Un esempio più che evidente di tali difficoltà è il clima conflittuale che fa riconoscere a papa Adriano il concilio di Costantinopoli dell’anno 869 come ecumenico, quello stesso che la Chiesa greca rifiuta come tale, mentre la stessa Chiesa greca riconosce, a sua volta, come ecumenico il sinodo celebrato nell’879 sotto la presidenza del patriarca Fozio: un sinodo noto per la caratterizzazione frontalmente antiromana, foriera dello scisma che si formalizzerà sotto il patriarcato di Michele Cerulario nel luglio 1054.  

La storia della Chiesa registra anche il caso del tutto particolare di un concilio, quello di Costanza (1414 – 1418, 16° ecumenico), che fu convocato, sotto la pressione dell’imperatore Sigismondo, dall’ antipapa Giovanni XXIII, il quale, in pieno svolgimento del sinodo, riparò altrove con una precipitosa fuga. Nello stesso concilio assistiamo alla proclamazione della dottrina conciliare (in pratica l’affermazione della superiorità del concilio sul papa) come dottrina ufficiale della Chiesa, una dottrina, però, formalmente respinta da Martino V, eletto come legittimo papa proprio in quell’assise. La atipicità, venutasi a verificare, è in questa situazione ecclesiale: un concilio elegge un papa, il quale pur avendolo personalmente diretto nella sua fase conclusiva, non lo legittima formalmente, al contrario del suo successore Eugenio IV, che lo riconosce e lo «venera» in tutto ciò non pregiudica la potestà del papa.

Il lungo, successivo concilio convocato  a Basilea, ebbe veri e propri momenti drammatici nell’opposizione tra la posizione dei “conciliaristi” e quella del papa Eugenio IV, che lo trasferì a Ferrara e successivamente a Firenze. Lo stesso conciliarismo di quanti non si erano piegati alla volontà del papa, anzi erano rimasti a Basilea e lo avevano deposto come eretico, subì tuttavia una definitiva delegittimazione dagli eventi storici che ne seguirono. La tendenza a dare supremazia al sinodo non scomparve però del tutto. Si affacciò con particolare insistenza in momenti sconfortanti per la qualità spirituale della prassi di quei pontefici che non seppero o non vollero raccogliere l’anelito verso una riforma diventata improcrastinabile. Tra essi si ricordano Giulio II e Leone X, che pur presiedendo  il concilio ecumenico Lateranense V, non fecero alcunché di significativo per una vera riforma della Chiesa.

La storia dei secoli del secondo millennio della Chiesa è, come si può evincere anche solo da questi esempi, complessa anche dal punto di vista dogmatico. Si intreccia con il bisogno di una riforma che non è adeguatamente soddisfatta e che alla fine , porta – con le altre concause storiche – alle due grandi separazioni della Chiesa, l’Oriente prima e il mondo “protestante” poi. Per ciò che riguarda noi, è vero che in tanta storia tormentata possiamo ravvisare, e di fatto tutti i manuali di storia della Chiesa scritti da cattolici lo fanno, quel filo ininterrotto della corretta dottrina della illegittimità teologica del sinodo senza il papa. Tuttavia non possiamo accontentarci solo di ribadire apologeticamente che il papa è superiore al sinodo e basta[19]. Come conferma la Nota esplicativa del capitolo III della Lumen gentium, il Vaticano II ha affermato, in tempi a noi più vicini, il valore del «collegio» come «soggetto di supremo e pieno potere sulla chiesa universale», certamente non senza il papa o in contrapposizione con lui, e tuttavia si tratta di un vero «soggetto» con suprema e piena autorità[20]. Si può, a ragione, sostenere che la communio, pur essendo sempre una communio hierarchica, presuppone in ogni caso la comunione dei fedeli. Senza di essa non esisterebbe né sinodalità, né gerarchia. A questo proposito, così scrive il celebre ecclesiologo Angel Antón, che cerca di tenere insieme i due termini del problema:

«La communio hierarchica in un certo senso presuppone la communio fidelium. I vescovi, i sacerdoti e gli altri ministri prima sono cristiani, cioè membri della communio fidelium. Per altro verso essa precede la communio fidelium, perché è ordinata a comunicare i doni della redenzione ai fedeli cristiani mediante l’esercizio del ministero della parola e dei sacramenti»[21].

Dando per buona questa posizione, sembra comunque importante non insistere oltre su una contrapposizione che per troppo tempo ha già travagliato la Chiesa e che, a parere di alcuni, appare ancora nella Nota esplicativa previa[22]. Si deve tuttavia senz’altro convenire con chi dice che la prassi della collegialità abbia ancora un notevole tratto di strada da percorrere, anche superando le lacune delle forme nelle quali si realizza, in maniera predominante dopo il Vaticano II, a partire dai sinodi dei vescovi. A questo proposito, già il sinodo straordinario del 1969 faceva richiesta, senza intaccare la dottrina, ma a livello di cooperazione reale,  di una sorta di «reciprocità» tra la Sede apostolica e le conferenze episcopali[23] e in questo contesto invocava un’effettiva valorizzazione dello stesso sinodo. Le due richieste non oltrepassarono la soglia dell’auspicio, perché non si ritrovano né nei vota del sinodo del 1969, né in quelli del 1985.  Esse hanno avuto però un’eco significativa nella relazione introduttiva del sinodo del 1985 tenuta dal Card. Danneels, i cui interrogativi permangono ancora e riassumono quelli fin qui emersi:

«Restano questioni teologiche da risolvere: quale è la relazione tra chiesa universale e chiese particolari? come promuovere la collegialità… Viene inoltre espresso il desiderio di vedere migliorate sensibilmente le relazioni tra le chiese particolari e la curia romana. Infine i rapporti insistono su un’informazione, una consultazione vicendevole e una comunicazione intensificate»[24].

3) Il problema dell’armonizzazione teologica tra magistero episcopale e ruolo primaziale del papa

Riprendendo la prima delle questioni risuonata nel sinodo straordinario del 1985, si può affermare che il valore teologico della collegialità, dopo il concilio, dovrebbe di per sé riguardare il primo luogo i sinodi, essendo questi a prevalente presenza episcopale. Proprio i vescovi, infatti, godono della prerogativa del magistero ordinario e sono corresponsabili, per il ministero della comunità (ministerium communitatis), dell’intera Chiesa. Scrive la Lumen gentium:

«I vescovi hanno dunque assunto il ministero della comunità insieme con i presbiteri e i diaconi loro collaboratori, e presiedono a nome di Dio il gregge di cui sono pastori, in qualità di maestri della dottrina, di sacerdoti del culto sacro e di ministri del governo»[25].

Sulla base di questo principio, il numero successivo della Costituzione dogmatica sulla chiesa indica la collegialità come espressione dell’unità esistente tra papa e vescovi:

«Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano pontefice successore di Pietro e i vescovi successori degli apostoli sono congiunti fra di loro»[26].

Alla dichiarazione dottrinale segue la descrizione storica delle forme sinodali:

«Già per antichissima disciplina i vescovi di tutto il mondo comunicavano tra di loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell'unità, della carità e della pace; e si riunivano nei concili per deliberare di comune accordo su tutti gli argomenti di maggior importanza dopo aver maturata la decisione con l'apporto del parere di molti. Ora, questi fatti stanno a significare il carattere e la natura collegiale dell'ordine episcopale, natura comprovata in modo evidente dai concili ecumenici che sono stati celebrati lungo i secoli»[27]

Il testo non trascura di sottolineare che la natura teologica della sinodalità esige sempre la comunione con il papa, riproponendo le linee fondamentali del Vaticano I[28], tuttavia, come già accennato, rivaluta il ruolo della componente episcopale. Ribadisce, infatti,  che «l’ufficio di legare e  sciogliere» è stato concesso anche al collegio apostolico unito a Pietro e indica proprio nella collegialità il valore di un’unità che non annulla, ma valorizza la diversità[29]. Inoltre ribadisce la corresponsabilità di ogni vescovo per l’intero popolo di Dio: 

«Questo collegio, in quanto composto di molti, sta ad esprimere la varietà e l'universalità del popolo di Dio; in quanto raccolto sotto un solo capo, sta ad esprimere l'unità del gregge di Cristo. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, godono di un potere che è loro proprio, per il bene dei loro fedeli, anzi per il bene di tutta la chiesa, di cui lo Spirito Santo consolida continuamente la struttura organica e la concordia»[30].

Segue nel testo l’indicazione del concilio  ecumenico come atto supremo di tale collegialità, sempre che questo si svolga con i requisiti richiesti e che sia convocato, presieduto e confermato dal papa. In realtà l’ultimo verbo sembra scelto con cura, probabilmente per le ragioni storiche già viste, e ciò è confermato dall’affermazione precedente che ritiene che non ci sia concilio ecumenico che «non sia confermato come tale o almeno recepito dal successore di Pietro».  La precisazione è senz’altro dirimente sul fatto storico di quei primi concili ecumenici orientali, che furono solo “recepiti” dal papa e la cui forma di presidenza era riconducibile alla presenza dei suoi legati. Resta tuttavia da chiarire la problematicità che proprio in questi concili appare circa la convocazione, dato che a convocarli spesso furono gli imperatori e non il vescovo di Roma.

A tale problema più che il diritto canonico  sembra aver dato risposta la successiva storia della Chiesa, sulla linea indicata della recezione papale. Ciò che invece a noi interessa di più è vedere ciò che giustifica che a tale forma di collegialità, espressa al livello più alto, corrispondano forme intermedie riguardanti la vita delle diocesi e delle altre forme associative del popolo di Dio.

Intanto è importante sapere la legittimità di forme  per così dire “sussidiarie” di sinodalità. Queste possono tutte essere ricondotte al principio dell’analogia, che sembra essere qualcosa di più che l’analogia, dal momento che sembra richiamare il principio teologico ben più consistente della attualizzazione:

«I singoli vescovi invece sono il principio visibile e il fondamento dell'unità delle loro chiese particolari, le quali sono formate a immagine della chiesa universale»[31].

Ciò che io vi leggo è che come ogni chiesa particolare attualizza quella universale, analogicamente ogni forma di sinodalità particolare attualizza la sinodalità come valore fondamentale, così come la stiamo considerando a partire dai «seguaci della via» che «percorrono la stessa strada»[32].

Questa proposta dell’attualizzazione come categoria teologica è affiorata più volte, sebbene in termini differenti, tanto al Vaticano II  che ai sinodi dei vescovi. Precisando che le varie modalità di esercizio della sinodalità non sono forme identiche (quanto al valore dottrinale e all’esercizio magisteriale), i dibattiti autorevoli in materia (pochi per la verità, almeno finora, ma ciò non chiude la speranza che ve ne siano altri) hanno parlato di applicazioni concrete e di forme di sussidiarietà senz’altro da approfondire.  E tuttavia non si può misconoscere un fatto ed è  che proprio nel discutere e nell’affrontare problemi così importanti, i sinodi sono stati vere e proprie esperienze dell’esercizio della sinodalità. Una «collegialità vissuta», più che teorizzata e organicamente sistematizzata.

 E’ vero, la proposta della categoria dell’attualizzazione non risolve tutti i problemi, che restano spinosi, soprattutto per l’impervia strada dell’armonizzazione di aspetti apparentemente dialettici, spesso messi in contrapposizione. Tuttavia gioverà ancora ricordare che la prassi concreta della sinodalità, sebbene con i limiti e le variabili storiche menzionate, ha avuto luogo ed ha luogo anche nella Chiesa cattolica. La stessa vicenda della definizione dell’infallibilità   pontificia del Vaticano I, che sembra la punta massima di autovalorizzazione di uno solo dei soggetto in questione, non è passata senza una discussione e senza un approfondimento collegiale, che ne hanno chiarito la natura e fissato i limiti. L’infallibilità, infatti in questo Concilio, durante il pontificato di Pio IX, non fu esente da contrasti. Se la  Costituzione Pastor aeternus, votata il 15 luglio 1870, ha al suo attivo 535 voti a favore, 2 contrari e alcuni assenti, ciò si deve anche alle precisazioni e limitazioni di cui si diceva. I Padri conciliari avevano senza dubbio accettato l’idea di fondo che le definizioni espressamente volute e formulate come irreformabili avessero valore da se stesse e non necessitano del consenso della Chiesa. Tuttavia alla domanda «e quali sono le formulazioni che possono godere di queste prerogative?» la discussione collegiale al Vaticano I aveva già messo in luce che non possono essere né tutte né riguardare qualsiasi ambito e qualsiasi materia. Riprendendo il valore storico dei pronunciamenti del vescovo di Roma, quel concilio ha chiarito che egli è soggetto dell’inerranza non in quanto soggetto privato, ma solo come supremo e diretto pastore storicamente visibile della Chiesa. Le formulazioni per essere irreformabili devono essere strettamente attinenti alla fede o alla morale. Ed inoltre non sono da mettere sullo stesso piano né della rivelazione né dell'ispirazione. Esse poggiano sì sull’assistenza dello Spirito Santo, ma non secondo la forma dell’ispirazione, essendo piuttosto il risultato storico di un’assistenza particolare che vuole evitare all’intera Chiesa l’errore in cui tutta la comunità incapperebbe, con effettivo nocumento della fede e della salvezza[33]. In questo contesto si potrebbe avanzare una proposta che sottolinei non solo il valore veritativo, ma anche quello salvifico-caritativo del magistero irreformabile. Partendo dal principio più volte ribadito al Vaticano II  che la rivelazione di Dio, in quanto autocomunicazione, avviene per la suprema motivazione dell’amore, perché Dio è amore, l’assistenza del suo Spirito per evitare errori relativi all’interpretazione della rivelazione stessa non può non essere ricondotta allo stesso principio. L’esigenza di un amore irreversibile e “senza ritorno” rende plausibile il servizio alla verità innanzi tutto e  principalmente come servizio di carità. Nel duplice senso, oggettivo e soggettivo. Come servizio in nome della carità verso gli altri, in questo caso verso l’intero popolo di Dio, e come servizio a Dio che è Carità[34].

4) Per una sinodalità nell’orizzonte della solidarietà

La documentazione biblica a questo riguardo non manca. Non solo a partire da singoli testi biblici, menzionati anche dal magistero come servizio alla verità e alla comunità[35], ma anche nell’impianto ecclesiologico paolino della Chiesa come corpo di Cristo.  Se l’ecclesiologia di comunione è una categoria teologica particolarmente felice per esprimere la radice e l’orizzonte della sinodalità, ne discende una «communio fidelium come partecipazione e corresponsabilità di tutti», come si esprimeva il teologo Walter Kasper, oggi cardinale.[36]  Le conseguenze sono tutte da tirare anche nel dibattito sul soggetto primario dell’autorità nella Chiesa (problema dell’«autorità suprema»).  Il dibattito, sgombro ormai dell’errore del conciliarismo, registra due posizioni di fondo. Quella di chi afferma che i soggetti sono due (il papa da una parte e il collegio episcopale con il papa dall’altra) e quella che afferma che il soggetto è uno. Cioè è il collegio dei vescovi, la cui autorità è esercitata in due differenti forme: o attraverso il collegio, beninteso sempre con il papa e mai al di fuori di lui, oppure attraverso la sola persona del papa, che però, anche agendo singolarmente, lo fa in quanto capo del collegio dei vescovi.  Questa seconda posizione, che ha dalla sua parte autorevoli teologi[37],  sembra la più convincente, non  solo per l’argomento logico che non si possono dare due autorità egualmente supreme, ma soprattutto per quello teologico già menzionato della koinōnìa.

A questa è da ricondurre tutta la problematica relativa all’esercizio della sinodalità tra e nelle chiese particolari (cioè le diocesi e le varie forme collegiali di reciproca consultazione e decisione). Solo alla luce di una prassi di comunione che fa continuo riferimento alla vocazione alla vita trinitaria, alla prassi evangelica e pertanto alla correzione fraterna, sembra risolvibile il problema affiorato dopo il Vaticano II nei termini espliciti di una «democratizzazione della Chiesa»[38].

Da quanto finora emerso, in un campo che nessuno può prevedere se e come si allargherà o si restringerà per la Chiesa del futuro, il termine «democrazia», al pari degli altri, quali «monarchia», «oligarchia» o «aristocrazia», è inadeguato, perché non può pervenire alla ricchezza della realtà della comunione, realtà sempre donata “dall’alto” e non consensualmente creata “dal basso”.  L’esclusiva consistenza socio-politica anche della “democrazia”, che invece insiste su una delega dal basso, non la rende direttamente applicabile alla vita del popolo di Dio[39]. Una conferma in tal senso viene dal fatto che la Chiesa è continuamente chiamata alla conversione, a ciò che si potrebbe chiamare permanente autoevangelizzazione. La sua resta una realtà di «corpo di Cristo» in membra umane, in uomini e donne continuamente santificati dalla Grazia, ma sempre bisognosi di perdono[40]. Tutto ciò collega la conversione all’autocorrezione della Chiesa sia per ciò che concerne la sinodalità, a tutti i livelli, sia per la vita cristiana in quanto tale. La correzione fraterna nella chiesa diventa pertanto non solo lecita, ma doverosa. Ad essa è da ricondurre il «discernimento», sul quale la Conferenza episcopale italiana ha molto insistito con i suoi documenti[41]. L’ecclesiologia di comunione declinata su tutti questi piani se rende impraticabile l’applicazione meccanica al popolo di Dio di modelli socio-politici, rende anche improponibile, perché contrario al Vangelo e alla Vita trinitaria, una sorta di assolutismo in cui solo l'autorità abbia il diritto di esprimersi, di riprendere e di correggere. Al contrario, proprio perché la conversione è dovere di tutti i membri dello stesso corpo, lo Spirito del Signore guida la sua comunità su quest’itinerario, affinché, qualora sia necessario, anche l'ultimo della comunità possa essere criterio reale di richiamo all'autenticità evangelica.  La storia del popolo di Dio della prima e della seconda Alleanza testimonia abbondantemente questa singolare pedagogia di Dio  che si serve talora dei meno “autorevoli”, per richiamare profeticamente anche i più autorevoli, qualora  fosse necessario[42]. Nessuno può intrappolare lo Spirito di Dio. Il fatto che egli sia presente in una delle componenti della Chiesa, non significa che questa lo possa  esaustivamente possedere, impedendogli di esprimersi in altre. Dio nessuno lo può fermare e il suo Spirito vola sempre più in alto di dove ciascuno di noi pensa di poterlo scorgere. È un criterio teologico che diventa immediatamente  ecclesiologico.

Ciò vale per tutti e in ogni ambito ecclesiale, cosi come vale anche nel non sempre facile rapporto tra i pastori e i teologi, chiamati a camminare insieme sulla via dell'attuazione dell'ultimo Concilio e nel servizio di una verità da presentare sempre nella sua interezza agli uomini, ma da rendere credibile con l'amore. Attualizzando l'espressione  di  Hans Urs von Bathasar che credibile è solo l'amore, si dovrebbe oggi parafrasare: credibile è solo una comunione, e in questa prospettiva una sinodalità,  non declamata, ma praticata.  Rimane pertanto inoppugnabile che l'ufficio-dovere di salvaguardare la fede, che spetta al Magistero, investe anche l'intero popolo di Dio, con il suo sensus fidei[43], al solo ed unico scopo dell'edificazione del Corpo di Cristo, per l'unità della fede e per la conoscenza del Figlio di Dio[44]. Tutto ciò richiede che ciascuno, ai vai livelli della sinodalità, dia il suo specifico contributo, anche se non si possono chiudere gli occhi sulle difficoltà di effettiva comunicazione che ancora travagliano questa fase della storia della Chiesa, successiva al Vaticano II. La correzione reciproca può iniziare proprio qui: dall’individuazione delle resistenze alla conversione, anche relativamente a una prassi effettivamente sinodale, che deve diventare sempre più una prassi solidale.  Su questa strada la Chiesa oltre ad essere comunione data dall’alto può essere anche prassi di dialogo e di reciproco ascolto e pertanto testimonianza d’amore per un mondo che sembra averne bisogno ogni giorno di più[45].


 

[1] Così precisa la Nota esplicativa previa della Lumen gentium, su cui ritorneremo: «Comunione è un concetto tenuto in grande onore nell'antica chiesa (e anche oggi, specialmente in oriente). Per essa non s'intende un certo vago affetto, ma una realtà organica, che richiede forma giuridica e insieme è animata dalla carità» (EV/1, 451).

[2]  Marco usa l’espressione  «deute opìso mou»  per indicare la chiamata dei primi discepoli, Luca invece usa spesso «akoloùthei moi» per indicare il modo con cui Gesù chiama alla sequela (cf., ad es., Lc 5,28).

[3] «…con lui vi erano i dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti maligni e da malattie: Maria, detta Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, l'amministratore di Erode; Susanna e molte altre che assistevano Gesù e i dodici con i loro beni» (Lc 8,1-3). Traduzione: Nuova Riveduta.

[4] Lc 24, 15: «(Gesù) cominciò a camminare con loro».

[5] Ad es.: «Poi chiamò a sé i dodici e cominciò a mandarli a due a due» (Mc 6,7).

[6] At 11,26.

[7] Cf. At 9,2 e, per ciò che riguarda la denominazione della fede cristiana come via, cf. At 16,17; At 19,9.23.

[8] Cf. Mt 16,17-19.

[9] Interessante, a riguardo, il commento di Giovanni Paolo II: «È questo un preciso impegno del Vescovo di Roma in quanto successore dell’apostolo Pietro. Io lo svolgo con la convinzione profonda di ubbidire al Signore e con la piena consapevolezza della mia umana fragilità. Infatti, se Cristo stesso ha affidato a Pietro questa speciale missione nella Chiesa e gli ha raccomandato di confermare i fratelli, Egli gli ha fatto conoscere allo stesso tempo la sua debolezza umana ed il suo particolare bisogno di conversione: “Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32)» (Ut unum sind, 25.5.1995, n. 4).

[10] «Se tuo fratello ha peccato contro di te, va' e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello; ma, se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni. Se rifiuta d'ascoltarli, dillo alla chiesa; e, se rifiuta d'ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano. Io vi dico in verità che tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo». (Mt 18,15-18)

[11] Ut unum sind, cit., n. 88.

[12] ««Ma quando Cefa venne ad Antiochia, gli resistei in faccia perché era da condannare. Infatti, prima che fossero venuti alcuni da parte di Giacomo, egli mangiava con persone non giudaiche; ma quando quelli furono arrivati, cominciò a ritirarsi e a separarsi per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei si misero a simulare con lui; a tal punto che perfino Barnaba fu trascinato dalla loro ipocrisia. Ma quando vidi che non camminavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei giudeo, vivi alla maniera degli stranieri e non dei Giudei, come mai costringi gli stranieri a vivere come i Giudei?”» (Gal 2,11-14).

[13] Cf. 1Cor 5,1-5.

[14] Cf. At 1,14-15.

[15] Didachè  16,2.

[16] Polic. 4,2.

[17] G.C. Menis, «La collegialità episcopale nei concili ecumenici», in Credereoggi (1993/4) 43-63, qui 43.

[18] «Lo scisma dei tre capitoli» ebbe come promotore l’imperatore Giustiniano I, che condannò nel 543-544 i «Capitoli» (cioè gli scritti) dei teologi orientali Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Emessa, accusandoli di nestorianesimo. Il favore riscontrato in Oriente non ebbe corrispondenza nelle chiese occidentali, anche perché fu visto come un atto di prevaricazione sul vescovo di Roma.  Nonostante l’ambigua formula di accettazione del papa Vigilio, sottoposto a vessazioni proprio da Giustiniano, la vertenza fu composta solo successivamente con il papa Pelagio I, con il recupero alla comunione ecclesiale del patriarca di Aquileia e del metropolita di Milano che si erano messi inizialmente dalla parte dello scisma.

[19]  La posizione verticistica che fa derivare qualsiasi valore del collegio dal papa era sostenuta da una minoranza che la difese strenuamente al Vaticano II.  Nella sua forma estrema fu però respinta, sebbene alcune delle sue preoccupazioni furono all’origine della Nota explicativa previa. Sul dipanarsi degli avvenimenti al concilio nei giorni dal 18/10 al 14/11/ 1964 cf. Storia del concilio Vaticano II, (diretta da G. Aberigo), vol. 4, Il Mulino, Bologna,  458-475.  Sul valore da dare alla Nota le opinioni divergono. Si va dalla posizione di chi la ritiene parte integrante della costituzione dogmatica a quella di chi, invece, non le riconosce se non un valore esplicativo, anche perché il suo testo non fu mai  votato in concilio.

[20] «Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto “essere anch'esso soggetto di supremo e pieno potere sulla chiesa universale”. Il che si deve necessariamente ammettere, per non porre in pericolo la pienezza del potere del romano pontefice. Infatti il collegio necessariamente e sempre cointende il suo capo, il quale nel collegio conserva integro l'incarico di vicario di Cristo e pastore della chiesa universale. In altre parole: la distinzione non è tra il romano pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano pontefice separatamente e il romano pontefice insieme con i vescovi. Ma siccome il romano pontefice è il capo del collegio, può da solo fare alcuni atti, che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione, ecc.» (Nota esplicativa previa, 3°: EV/1, 453).

[21] Angel Antón, «Strutture sinodali dopo il concilio. Sinodo dei vescovi – Conferenze episcopali», in Credereoggi (1993/4), cit., 87.

[22] Cf. Herwi Rikhof, «Il Vaticano II e la collegialità episcopale. Un’analisi di Lumen gentium 22 e 23», in Concilium 26 (1990/4) 472-4487.

[23] Cf., Jan Grootaers, «la collegialità ai sinodi dei Vesovi: un problema non risolto», », in Concilium 26 (1990/4) 488-500.

[24] Testo reperibile nell’Osservatore Romano del 30.11.1985. Così citato in Cf., Jan Grootaers, «la collegialità…, cit., 490.

[25] Lg 21,  EV/1  322. Il testo così prosegue: «Come perdura quell'ufficio che il Signore ha conferito a Pietro, il primo degli apostoli, perché venga trasmesso ai successori; allo stesso modo perdura anche l'ufficio apostolico di pascere la chiesa che il sacro ordine dei vescovi deve esercitare senza interruzioni. Perciò il santo sinodo insegna che per istituzione divina i vescovi sono succeduti agli apostoli quali pastori della chiesa; chi ascolta loro ascolta Cristo, chi disprezza loro disprezza Cristo e chi lo ha inviato (cf. Lc 10,16)»; cf. anche il n. 23.

[26] Lg 22, EV/1  336.

[27] Ivi.

[28] «Ma il collegio o corpo dei vescovi non ha autorità se non lo si comprende insieme col romano pontefice successore di Pietro come suo capo; questi conserva integra la potestà primaziale su tutti, sia pastori sia fedeli. In forza del suo ufficio di vicario di Cristo e di pastore di tutta la chiesa, ha sulla chiesa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre liberamente esercitare. L'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo, anzi, che perpetua senza interruzioni il corpo apostolico, è pure, insieme col romano pontefice suo capo, e mai senza questo capo, soggetto di piena e suprema potestà su tutta la chiesa: potestà che non può però essere esercitata se non col consenso del romano pontefice» (Ivi, EV/1  337).

[29] Sul questo cf. Y. Congar, Diversità e comunione, Cittadella, Assisi 1983. Sul ruolo petrino e la comunione tra le Chiese cf. J.M. Tillard, Il Vescovo di Roma, Queriniana,Brescia 1985 e Idem, Chiesa di chiese, Queriniana,Brescia 1989.  

[30] Ivi.

[31] Lg 23, EV/1 338.

[32] Questa proposta dell’applicazione della categoria dell’attualizzazione sembra adatta a risolvere anche il problema dibattuto sul valore delle conferenze episcopali, continentali o di altro genere. Del resto a chi nega a queste forme collegiali il valore teologico sinodale alcuni giustamente replicano che una collegialità in senso teologico è proprio lì dove essa si verifica. A provarlo sono anche le vicende della storia della Chiesa, a partire dai concilii, dove, come si è visto, la componente episcopale era presente a vario titolo e spesso  era solo una sparuta rappresentanza del restante corpus episcoporum. Su quest’argomento cf. D. Valentini, «Panorama delle posizioni teologiche. Esame delle opere principali e attuale stato della questione», in Concilium 26 (1990/4) 501-512.

[33] A completamento di ciò che qui non può essere che accennato, gioverà ricordare che il concetto di infallibilità non nasceva dal nulla. Una sua maturazione ha luogo soprattutto sotto il pontificato di Gregorio VII e corregge quel conciliarismo talora risorgente nel gallicanesimo e il giansenismo. La disputa non ha trascurato di affrontare casi storici di papi giudicati come eretici da qualche concilio (Liberio, Onorio, Vigilio), tuttavia ha anche chiarito che ciò non ha pregiudicato la continuità di un’ortodossia che si è affermata nonostante vicende storiche così gravi.

[34] Sul ruolo petrino secondo questa lunghezza d’onda,  anche i “vecchi cattolici” (presenti in Austria, Olanda e Germania) che respingono l’infallibilità sancita dal Vaticano I solo per il papa, recentemente hanno espresso una posizione di dialogo per una sua impostazione in senso più ecclesiale e collegiale.  Non è una posizione peregrina, perché anche in campo ecumenico qualcosa va nella stessa direzione, cf., ad esempio, dialoghi ortodossi calcedonesi – vecchicattolici, 1. dichiarazioni comuni sulla dottrina di Dio, la cristologia…, EO/1, 2628: «La chiesa sente il bisogno di formulare decisioni dogmatiche quando la sana dottrina è minacciata o quando si rende necessaria una interpretazione o una testimonianza particolare per respingere eresie e scismi e per preservare l'unità ecclesiale. Beninteso, l'infallibilità si riferisce unicamente alla verità salvifica della fede».

[35] Cf.  Mt. 16, 18-19; 28, 20 e Gv 14, 17 e 26.

[36] W. Kasper, Teologia e Chiesa, Queriniana, Brescia 1989, 298 ss.

[37] Tra gli altri vengono ricordati K. Rahner, O Semmelroth, A. Antón, E. Schillebeeckx, H. Legrand e Y. Congar. Cf. D. Valentini, «Panorama...», cit., 510.

[38] Per una carrellata sulla problematica e le varie posizioni cf. Concilium 28 (1992/5) intitolato, provocatoriamente, «Il tabù della democratizzazione della Chiesa».

[39] È anche il parere di G. Alberigo, che nel citato Concilium 28 (1992/5) scrive una articolo equilibrato e nello stesso esigente una prassi comunitaria effettiva, dal titolo «Ecclesiologia e democrazia. Convergenze e divergenze» (Ivi, 735-750). 

[40] Non è mai da dimenticare il celebre passaggio della Lumen gentium, che afferma: «Cristo è stato inviato dal Padre “a portare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore ferito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10); similmente la chiesa circonda di amore quanti sono afflitti da infermità umana, anzi nei poveri e nei sofferenti riconosce l'immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne la miseria, e in loro intende servire Cristo. Però, mentre Cristo era “santo, innocente, immacolato” (Eb 7,26) e non conobbe peccato (cf. 2Cor 5,21), ma venne per espiare i soli peccati del popolo (cf. Eb 2,17), la chiesa invece comprende nel suo seno i peccatori, è santa e insieme ha bisogno di purificazione, perciò si dà alla penitenza e al rinnovamento» (Lumen gentium, n. 8: EV/1, 306).

[41] Di particolare importanza è, a questo riguardo, la Nota pastorale della Conferenza episcopale italiana, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa in Italia dopo il convegno di Palermo, del 1996.  Essa enuncia nel n. 21 condizioni e modalità del discernimento comunitario: «docilità allo Spirito e umile ricerca della volontà di Dio; ascolto fedele della Parola; interpretazione dei segni dei tempi alla luce del Vangelo; valorizzazione dei carismi nel dialogo fraterno; creatività spirituale, missionaria, culturale e sociale; obbedienza ai Pastori, cui spetta disciplinare la ricerca e dare l’approvazione definitiva. Così inteso, il discernimento comunitario diventa una scuola di vita cristiana, una via per sviluppare l’amore reciproco, la corresponsabilità, l’inserimento nel mondo a cominciare dal proprio territorio». Descrivendo una sorta sinodalità di fatto, il testo continua: «[il discernimento comunitario] edifica la Chiesa come comunità di fratelli e di sorelle, di pari dignità, ma con doni e compiti diversi, plasmandone una figura, che senza deviare in impropri democraticismi  e sociologismi, risulta credibile nella odierna società democratica. Si tratta di una prassi da diffondere a livello di gruppi, comunità educative, famiglie religiose, parrocchie, zone pastorali, diocesi e anche a più largo raggio».

[42] L’espressione non deve sembrare irriguardosa, perché è basata sulla «franchezza» che nasce biblicamente più che da una convinzione o da una predisposizione soggettiva, dall’azione dello Spirito Santo, che suscita la parrhs…a (tradotta appunto con «franchezza») come forza interiore per rendere testimonianza. Cf. At 4,13.29.31;  13,46;  26, 26; 28,31; 2Cor 3,12;  Ef 6,20 e  Eb 10, 35, che lapidariamente raccomanda: «Non abbandonate la vostra franchezza (m¾ ¢pob£lhte oân t¾n parrhs…an Ømîn) che ha una grande ricompensa!».

[43] Cf. Lumen gentium, n. 12: EV/1, 316 e Concilium 21 (1985/4) sul tema «L’autorità dottrinale dei fedeli».

[44] Cf. Ef 4,10-13.

[45] Sui sinodi e consigli come aiuto e strumento per «rendere una migliore testimonianza al Vangelo» cf. H. -M. Legrand, «Synode et conseils del l’apres-concile», in Nouvelle Revue Theologique  108 (1976/3) 193-216. Per alcuni sinodi diocesani cf. anche «I sinodi diocesani del post-concilio»,  in  Aggiornamenti sociali (1988/5) e  per la collegialità in Calabria cf. D. Farias, «Comunione comunità e collegialità nelle nostre diocesi», in Orientamenti sociali (1981/3) 85-113, ma cf. anche, successivamente a tale data, i convegni della Chiese in Calabria, che mostrano un avanzamento reale, alemno sul piano delle dichiarazioni, sulla scia indicata da Farias.