Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Testo per gli studenti del “Pastor Bonus” (febbraio 2004)

ADISTA n. 8 (29 gennaio 2001

 

VI SPIEGO COME DIO INTENDEVA LA CHIESA.

UN ARTICOLO DEL CARD. RATZINGER

 

DOC-1046. FRANCOFORTE-ADISTA. Nella storia della recezione del Concilio Vaticano II, si è verificato un indebolimento ma anche una falsificazione del concetto di Chiesa, tanto da trasformare espressioni come "popolo di Dio" o "comunione" in slogan o luoghi comuni. Così si esprime il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede card. Joseph Ratzinger in un lungo articolo pubblicato il 22 dicembre scorso sul noto quotidiano tedesco "Frankfurter Allgemeine Zeitung", intitolato "La grande idea divina di Chiesa non è un'illusione". L'articolo, che ha tra l'altro come obiettivo polemico le tesi del teologo e neo-cardinale Walter Kasper, prossimo presidente del Consiglio per l'Unità dei Cristiani, critico sul centralismo romano, ma anche quelle del teologo della liberazione Leonardo Boff, sostiene la tesi della priorità ontologica della Chiesa universale rispetto alle Chiese locali, imputando ad un errato "orizzontalismo" la tendenza a dare a queste ultime un'eccessiva autonomia dal punto di vista teologico. Di seguito, l'articolo integrale di Ratzinger in una nostra traduzione dal tedesco.

Quale concetto di Chiesa troviamo nella recezione del Concilio Vaticano II, in particolare della Costituzione "Lumen Gentium"? Si può dire che dal Sinodo particolare del 1985 ha cominciato a dominare il tentativo di racchiudere la globalità dell'ecclesiologia conciliare in un concetto di base: nella parola dell'ecclesiologia di comunione. Personalmente ho salutato con favore questa nuova centralità dell'ecclesiologia e, anche in conformità ad essa, ho cercato di elaborare le mie decisioni. Tuttavia, bisogna ammettere che la parola communio non occupa un posto centrale nel Concilio. Ciò nonostante, essa può, correttamente intesa, servire come sintesi per l'ecclesiologia conciliare.

Tutti gli elementi essenziali del concetto cristiano di comunione si trovano nella frase significativa di 1 Gv 1,3, che bisogna considerare come metro di misura per ogni corretta comprensione cristiana della comunione: "Ciò che abbiamo visto e ascoltato lo annunciamo anche a voi perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta".

Qui viene alla luce il punto centrale della communio: l'incontro con il Figlio di Dio incarnato, Gesù Cristo, che nell'annuncio della Chiesa viene agli uomini. Di qui la comunione degli uomini tra loro, che da parte sua poggia sulla comunione con il Dio uno e trino. La comunione viene trasmessa attraverso la comunione con Cristo, la comunione si realizza con lui stesso, e così con il Padre nello Spirito Santo, perciò unisce tra loro le persone.

La parola communio deriva da questa centralità biblica un carattere teologico, cristologico, escatologico e ecclesiologico. Essa ha in sé anche la dimensione sacramentale che appare chiaramente in Paolo: "Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" (1 Cor 10-16). L'ecclesiologia di comunione è di per sé un'ecclesiologia eucaristica. Essa è prossima all'ecclesiologia eucaristica che i teologi ortodossi del nostro secolo hanno sviluppato in modo significativo. In essa, l'ecclesiologia diventa qualcosa di assolutamente concreto, ma resta tuttavia assolutamente spirituale, trascendente ed escatologica. Nell'Eucaristia Cristo, presente nel pane e nel vino, nel dono sempre nuovo di sé, edifica la Chiesa come suo corpo e ci unisce per mezzo del suo corpo risorto al Dio uno e trino e tra di noi. L'Eucaristia avviene in un luogo specifico e tuttavia è sempre universale perché esiste un unico Cristo e solo un corpo di Cristo. L'Eucaristia comprende il ministero sacerdotale della rappresentazione di Cristo e quindi la rete del servizio, la reciprocità di unità e molteplicità a cui la parola communio allude. Così si può dire che questo concetto porta in sé una sintesi ecclesiologica che collega la parola della Chiesa alla parola di Dio e alla vita che viene da Dio e con Dio, una sintesi che raccoglie tutte le intenzioni più importanti dell'ecclesiologia del Vaticano II e le investe nel modo giusto una dopo l'altra. Per tutti questi motivi, sono stato grato e contento quando il sinodo del 1985 ha posto al centro il concetto di communio. Ma gli anni seguenti hanno dimostrato che nessuna parola è scevra da fraintendimenti, nemmeno la migliore e la più profonda. Nella misura in cui communio è diventato un luogo comune abusato, è caduto nella piattezza ed è stato falsificato. Come con il concetto di popolo di Dio, anche qui si è dovuta osservare una progressiva orizzontalizzazione, l'omissione del concetto di Dio. L'ecclesiologia di comunione ha cominciato a ridursi alla tematica del rapporto tra Chiesa locale e Chiesa universale, che sempre più si è limitata alla questione della suddivisione di competenze tra l'una e l'altra.

Questo non vuol dire che nella Chiesa non debba essere seguita anche la disputa sul giusto ordinamento e sulla divisione delle responsabilità. E indubbiamente sono sempre esistite alterazioni dell'equilibrio che richiedono correzioni. Ovviamente ci può essere uno straripante centralismo romano che, come tale, deve essere riconosciuto e risolto. Ma tali questioni non devono sviare dal compito proprio della Chiesa: la Chiesa non deve parlare in primo luogo di sé, ma di Dio, e questo può avvenire se ci sono, all'interno della Chiesa, anche critiche in cui fa da guida l'equilibrio tra il discorso su Dio e il discorso sul servizio comune. Non a caso, in definitiva, in diversi contesti nella tradizione evangelica torna la parola di Gesù secondo cui gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi, come uno specchio, che riguarda sempre tutti.

Di fronte al ridimensionamento del concetto di communio verificatosi negli anni successivi al 1985, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha ritenuto opportuno elaborare una "Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come comunione", che è stata pubblicata il 28 giugno 1992. Poiché oggi, per coloro che si considerano teologi, sembra essere diventato un dovere quello di valutare negativamente i documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, su questo testo si è abbattuto una gragnola di critiche che non ha salvato quasi nulla. La frase più criticata è stata quella secondo cui la Chiesa universale è, nel suo mistero fondamentale, una realtà che precede ontologicamente e temporalmente le singole Chiese locali. Questo è stato brevemente motivato nel testo con il fatto che l'una e sola Chiesa secondo i Padri precede la creazione, e dà alla luce, le Chiese particolari.

I Padri proseguono in questo modo la teologia rabbinica, che aveva concepito la Torah e Israele come preesistenti. La creazione sarebbe concepita, in base a ciò, come spazio per la volontà di Dio; ma questa volontà ha bisogno di un popolo che viva per la volontà di Dio e lo renda luce del mondo. Poiché i Padri erano convinti della definitiva identità tra Chiesa e Israele, potevano vedere nella Chiesa non qualcosa che si è sviluppato in un momento successivo, bensì riconoscevano, in questo riunirsi del popolo sotto la volontà di Dio, l'intrinseca teleologia della creazione.

Con la cristologia si allarga e si approfondisce l'immagine: la storia viene intesa - nuovamente in connessione con l'Antico Testamento - come storia d'amore tra Dio e l'uomo. Dio trova e crea la sposa del figlio, l'unica sposa che è l'unica Chiesa. A partire dalla parola della Genesi, secondo cui l'uomo e la donna saranno "due corpi in uno" (Gn 2, 24), l'immagine della sposa si è fusa con l'idea della Chiesa come corpo di Cristo, che ha il suo punto d'appoggio sacramentale nella devozione eucaristica; Cristo e la Chiesa diventano "due corpi in uno" saranno un corpo solo, e così Dio sarà "tutto in tutte le cose". Questa precedenza ontologica della Chiesa universale rispetto all'unica Chiesa e all'unico corpo, all'unica sposa, di fronte alle realizzazioni concrete empiriche nelle singole Chiese locali, mi sembra così evidente che mi è difficile capire le ragioni della critica .

Esse mi sembrano possibili soltanto se non si riesce e non si vuole vedere, forse a causa della disperazione per la pochezza terrena delle Chiese locali, la grande idea divina della Chiesa; essa appare solo come un sogno teologico, e resta soltanto il prodotto empirico delle Chiese nel loro essere l'una con l'altra e l'una verso contro l'altra. Ma questo significa che la Chiesa, come tema teologico, viene appiattita. Se si vuole vedere la Chiesa solo nelle organizzazioni umane, allora resta solo sconforto. E non si è dimenticata soltanto l'ecclesiologia dei Padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e l'idea di Israele dell'Antico Testamento.

Nel Nuovo Testamento non bisogna considerare soltanto le deutero-Paoline e l'Apocalisse, per ovviare alla priorità ontologica della Chiesa universale sulle Chiese locali sottolineata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Al centro delle grandi lettere di Paolo, nella lettera ai Galati, l'apostolo ci parla della Gerusalemme celeste, non come di una realtà escatologica, ma come di una realtà che ci precede: "Questa Gerusalemme è la nostra madre" (Gal 4,26). Heinrich Schlier sottolinea a questo proposito che per Paolo, così come per la familiare tradizione giudaica, la Gerusalemme superiore è il nuovo Eone. Ma, per l'apostolo, questo nuovo Eone è già presente "nella Chiesa cristiana. Per lui essa è la Gerusalemme celeste nei suoi figli". Se non si può negare la priorità ontologica della Chiesa, la questione dal punto di vista della precedenza temporale è indubbiamente qualcosa di ancora più difficile. La lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede rimanda qui all'immagine lucana della nascita pentecostale della Chiesa dallo Spirito Santo. La questione della storicità di questo racconto non è qui in discussione. Si tratta dell'espressione teologica a cui Luca arriva. La Congregazione per la Dottrina della Fede sottolinea a questo riguardo che la Chiesa inizia nella comunità dei 12 raccolta intorno a Maria, in particolare nella rinnovata comunità dei dodici, che non sono membri di una Chiesa locale, ma sono gli apostoli che porteranno il Vangelo fino ai confini della terra. A mo' di spiegazione si può dire che essi, nel loro essere dodici, sono insieme l'antico e il nuovo Israele, l'unico Israele di Dio che ora - come è espresso fin dall'inizio nel concetto di popolo di Dio - si estende in tutte le nazioni e fonda in tutti i popoli l'unico popolo di Dio.

Questa indicazione viene rafforzata da due ulteriori aspetti: la Chiesa, già in quest'ora della sua nascita, parla tutte le lingue. I padri della Chiesa hanno a ragione considerato questo miracolo della glossolalia come anticipazione della cattolicità: la Chiesa è fin dal primo momento kat'holon, che unisce tutto. A ciò corrisponde il fatto che Luca descrive la schiera degli uditori come pellegrini provenienti da tutta la terra sulla base di una tavola dei dodici popoli il cui senso è quello di rappresentare l'insieme degli appartenenti; Luca ha arricchito questa tavola dei popoli ellenistica con un tredicesimo popolo: i romani, cosa, questa, con cui voleva ancora una volta sottolineare l'idea di Orbis.

Non del tutto correttamente è riportato quanto dice il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede da Walter Kasper quando afferma che la comunità originaria di Gerusalemme sarebbe stata in realtà Chiesa universale e Chiesa locale in una, e poi prosegue: "Tuttavia questa rappresenta una costruzione lucana; infatti, visto storicamente, ci furono probabilmente diverse comunità, accanto a quella di Gerusalemme anche in Galilea". Per noi qui non si tratta di domande alle quali, in ultima analisi, non si può rispondere (esattamente: quando e dove sono esistite comunità cristiane), bensì dell'inizio della Chiesa in quel tempo, che Luca descrive e riconduce, al di là di tutti i fatti empirici, all'azione dello Spirito Santo. In generale, però, non viene resa giustizia al testo lucano quando si dice che "la comunità originaria di Gerusalemme" sarebbe stata allo stesso tempo universale e locale. La cosa più importante nel racconto di San Luca non è la comunità originaria di Gerusalemme, ma il fatto che nei dodici l'antico Israele, che è uno, si rinnova e che questo unico Israele di Dio ora, attraverso la glossolalia, ancora prima di pervenire all'edificazione di una Chiesa locale di Gerusalemme, si mostra come unità che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi. Nei pellegrini che vengono da tutti i popoli, essa fa riferimento subito a tutti i popoli del mondo.

Forse non bisogna sopravvalutare la questione della precedenza temporale della Chiesa universale, che Luca nel suo racconto illustra chiaramente. Tuttavia rimane importante che la Chiesa all'inizio è nata nei dodici dall'unico Spirito per tutti i popoli e, di conseguenza, fin dal primo istante si è dedicata ad esprimersi in tutte le culture e ad essere così l'unico popolo di Dio; non si tratta di una comunità locale che si estende lentamente, bensì è lievito sempre unito al tutto e porta in sé fin dal primo istante l'universalità.

L'opposizione all'affermazione della precedenza della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari è, dal punto di vista teologico, difficilmente comprensibile, se non del tutto incomprensibile. È chiaro che essa deriva da un sospetto che è sintetizzato in questo modo: "La formula è assolutamente problematica se l'unica Chiesa universale viene identificata formalmente con la Chiesa di Roma, di fatto con il papa e la Curia. Se accade questo, non si può considerare il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede un aiuto alla chiarificazione dell'ecclesiologia di comunione, ma deve essere inteso come una sua liquidazione e come un tentativo di una restaurazione del centralismo romano" (Walter Kasper). In questo testo, l'ipotesi dell'identificazione della Chiesa universale con il papa e con la curia viene innanzitutto presentata come un pericolo; ma in seguito appare attribuita al documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, che così risulta come un'operazione di restaurazione teologica e quindi come rinnegamento del Concilio Vaticano II. Questo salto nell'interpretazione stupisce, ma senza dubbio costituisce un sospetto ampiamente diffuso; formula un contorno di accuse e manifesta anche una crescente incapacità di immaginare sotto la Chiesa universale, sotto l'una, santa, cattolica Chiesa, qualcosa di concreto. Come unico elemento rappresentativo restano il papa e la curia e, se da un punto di vista teologico li si colloca troppo in alto, necessariamente ci si sente minacciati.

Qui inseriamo una divagazione solo apparente sull'interpretazione del Concilio. La domanda che ora ci poniamo è: qual è la visione della Chiesa universale del Concilio? Non si dovrebbe dire che "l'unica Chiesa universale viene identificata formalmente con la Chiesa di Roma, di fatto con il papa e la Curia". Questa tentazione nasce se in precedenza si è già identificata la Chiesa locale e la Chiesa universale di Gerusalemme, il che significa che l'idea di Chiesa è stata ridotta alle comunità che appaiono concretamente e la sua profondità teologica si perde di vista. Fa bene tornare a questo testo conciliare con questa domanda. Proprio la prima frase della costituzione sulla Chiesa "Lumen gentium" rende chiaro che il Concilio non considera la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa, ma a partire da Cristo: "Cristo è la luce delle genti; questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa". Sullo sfondo riconosciamo l'immagine della teologia dei Padri, che vede nella Chiesa la luna che non brilla di luce propria ma trasmette la luce del sole Cristo. L'ecclesiologia sembra dipendere dalla Cristologia, appartenere ad essa. Perché nessuno può parlare con ragione di Cristo, il Figlio, senza parlare anche del Padre e perché non si può parlare correttamente del Padre e del Figlio senza prestare ascolto allo Spirito Santo, e con questo la visione cristologica della Chiesa necessariamente si amplia in una ecclesiologia trinitaria (nn. 2-4). Il discorso sulla Chiesa è discorso su Dio, e solo così è corretto. In questa apertura trinitaria, che ci offre la chiave per una giusta lettura dell'intero testo, possiamo apprendere che cos'è l'una, santa Chiesa fuori e dentro tutte le concrete realizzazioni storiche, che cosa significa "Chiesa universale". Questo si chiarisce ulteriormente se successivamente la dinamica interna della Chiesa viene applicata al regno di Dio.

Alle domande: che cos'è l'unica Chiesa universale, che precede ontologicamente e temporalmente le Chiese locali? Dove sussiste? Dove possiamo vederla all'opera?, la costituzione "Lumen Gentium" risponde quando parla dei sacramenti. In primo luogo il battesimo: è un ingresso trinitario, cioè assolutamente teologico, molto più di una socializzazione all'interno della Chiesa locale, come oggi purtroppo viene spesso frainteso. Il battesimo non deriva dalle singole comunità, ma in esse apre a noi la porta di una Chiesa; è la presenza della Chiesa una e soltanto da essa - dalla Gerusalemme celeste, la nuova madre - può derivare.

Nel battesimo la Chiesa universale precede sempre la Chiesa locale e la crea. Per questo la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla comunione può affermare che nella Chiesa non esiste forestiero: ognuno è nella sua casa e non è un semplice ospite. È sempre l'unica Chiesa, l'una e sola. Chi è stato battezzato a Berlino, è a casa propria anche nella Chiesa di Roma o di New York o di Kinshasa o di Bangalore come nella Chiesa in cui è stato battezzato. Non ha bisogno di notificare il cambio di residenza, è la Chiesa una.

Il testo conciliare passa dal battesimo all'eucaristia, in cui Cristo ci dona il suo corpo e ci trasforma nel suo corpo. Questo corpo è uno, è così l'eucaristia per ogni Chiesa locale è il luogo dell'inclusione nell'unico Cristo, il farsi uno di tutti coloro che ricevono la comunione nella comunione universale, che unisce cielo e terra, viventi e defunti, passato, presente e futuro e che apre l'eternità. L'Eucaristia non nasce dalla Chiesa locale e non finisce in essa. Essa significa sempre che Cristo entra attraverso le nostre porte chiuse; essa viene sempre da fuori, dall'intero, unico corpo di Cristo e ci segue all'interno di essa. Questo "extra nos" del sacramento si mostra in modo rinnovato nel ministero episcopale e sacerdotale; che per l'Eucaristia ci sia bisogno del sacramento dell'ordine sacerdotale si fonda sul fatto che la comunità non può darsi da sola l'eucaristia; deve riceverla dal Signore tramite la mediazione della Chiesa. La successione episcopale che costituisce il sacerdozio, rivela tanto l'aspetto sincronico quanto quello diacronico del concetto di Chiesa: l'appartenere all'intera storia della fede degli apostoli e lo stare in comunità con tutti coloro che si fanno raccogliere dal signore nel suo corpo.

La costituzione sulla Chiesa ha trattato esplicitamente il ministero episcopale nel terzo capitolo e ha chiarito il suo significato a partire dal concetto base di collegio. Questo concetto, che appare in modo solo marginale nella tradizione, serve a rappresentare l'unità interna del ministero episcopale. Il vescovo non deve essere considerato come singolo, ma come appartenente ad un corpo, ad un collegio, che significa la continuità storica del collegio degli apostoli. Di conseguenza il ministero episcopale proviene dall'unica Chiesa ed entra in essa. Proprio qui diventa visibile che dal punto di vista teologico non esiste alcuna opposizione tra Chiesa locale e Chiesa universale. Il Vescovo rappresenta nella Chiesa locale la Chiesa una, ed egli edifica la Chiesa una mentre edifica la Chiesa locale e suscita i suoi doni particolari a vantaggio del corpo tutto. Il ministero dei successori di Pietro è un caso particolare di ministero episcopale ed è legato in modo particolare alla responsabilità per l'unità di tutta la Chiesa. Ma questo ministero petrino e la sua responsabilità non potrebbero esistere se non esistesse prima di essi la Chiesa universale. Sarebbe come afferrare il vuoto, e ciò costituirebbe una pretesa assurda. Senza dubbio la giusta reciprocità tra episcopato e primato dovrebbe essere individuata anche tra fatiche e sofferenze. Ma questa lotta è impostata nel modo giusto solo se viene vista a partire dal primato della missione propria della Chiesa ed è ad essa ordinata, dal compito di portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio. Il perché della Chiesa è il Vangelo, e per questo tutto deve ruotare su di esso.

Si può definire come relativismo ecclesiologico l'antitesi, il cui rappresentante è diventato all'epoca il teologo della liberazione Leonardo Boff. Essa si giustifica con l'idea che il "Gesù storico" non avrebbe pensato ad una Chiesa, meno che mai l'avrebbe fondata. Il reale modello di Chiesa avrebbe preso piede solo dopo la resurrezione, nel processo di descatologizzazione per le ineluttabili necessità sociologiche dell'istituzionalizzazione; e all'inizio non ci sarebbe stata nemmeno una Chiesa universale "cattolica", ma solo diverse Chiese locali con teologie differenti, differenti ministeri e così via.

Nessuna Chiesa istituzionale avrebbe inoltre potuto ritenersi la Chiesa di Gesù Cristo voluta da Dio stesso; tutte le strutture istituzionali sarebbero quindi frutto di necessità sociologiche e come tali, perciò, tutte strutture umane che con nuove relazioni possono o addirittura dovrebbero cambiare ancora radicalmente. Nella loro qualità teologica le Chiese differiscono solo in modo trascurabile e perciò si può dire che, in tutte o in molte di esse, sussiste l'"unica Chiesa di Cristo", laddove, partendo da un tale presupposto, la questione è con quale diritto si possa parlare di una Chiesa di Cristo.

La tradizione cattolica ha scelto un altro punto di partenza: essa si fida degli evangelisti, crede in loro. Perché è chiaro che Gesù, che ha annunciato il regno di Dio, ha riunito intorno a sé dei giovani (probabile errore = discepoli)  per questo fine; che non ha comunicato loro la sua parola solo come nuova interpretazione dell'Antico Testamento, ma che nel sacramento della Cena ha donato loro un nuovo unico mezzo attraverso cui tutti coloro che lo riconoscevano diventassero una cosa sola con lui in un modo nuovo - tanto che Paolo poté indicare questa comunità come un "essere un corpo" solo con Cristo, come unità spirituale del corpo. È chiaro, infatti, che la promessa dello Spirito Santo non costituiva un vago annuncio, ma la realtà della Pentecoste; anche il fatto che la Chiesa non sia pensata e fatta da uomini, ma è stata creata dallo Spirito Santo, è e resta opera dello Spirito Santo.

Quindi nella Chiesa coesistono istituzione e Spirito in modo diverso, a differenza di quanto le suddette correnti vogliono farci credere. Infatti l'istituzione non è semplicemente, o a scelta, una struttura da trasformare o da sopprimere, che come tale non avrebbe nulla a che fare con la questione della fede. Perché questa consanguineità appartiene alla Chiesa stessa. La Chiesa di Cristo non è intangibile, nascosta dietro le molteplici costruzioni umane, ma esiste veramente, come Chiesa in carne ed ossa, che dà prova della propria identità nella confessione, nei sacramenti e nella successione apostolica.

Il Vaticano II ha voluto - fedele alla tradizione cattolica - dire proprio il contrario del "relativismo ecclesiologico": esiste la Chiesa di Gesù Cristo. Egli stesso l'ha voluta, e lo Spirito Santo la crea già dalla Pentecoste contro tutti i rifiuti umani e la conserva nella sua identità essenziale. L'istituzione non è una espressione inevitabile ma teologicamente irrilevante o persino dannosa; essa appartiene, nel suo nucleo essenziale, alla concretezza dell'incarnazione. Il Signore dà la sua parola: "Le porte dell'Inferno non prevarranno su di essa".

 

 

 

 

 

11 giugno 2001

 

ADISTA

n. 44

 

LA CHIESA TRA UNIVERSALE E LOCALE. IL RISCHIO DI UNO "SCISMA MENTALE E PRATICO"

 

DOC-1092. MONACO-ADISTA. Chiesa universale/Chiesa locale: un rapporto segnato sempre più da una sorta di "scisma mentale e pratico" alla base del quale vi è la crescente incomprensione - e la conseguente indifferenza - da parte della Chiesa-popolo nei confronti delle direttive della Chiesa universale. Su questo tema si sviluppa una lunga riflessione del card. Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani, pubblicata sul mensile dei gesuiti tedeschi "Stimmen der Zeit" (dicembre 2000), e scritta in risposta "amichevole" alle critiche che a Kasper aveva mosso su tale questione il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel corso di un convegno sull'ecclesiologia del Concilio Vaticano II (v. Adista n. 21/00). In quel contesto, infatti, Ratzinger aveva respinto la critica di Kasper al documento del '92 "Su alcuni aspetti della Chiesa communio", documento che asseriva la precedenza ontologica e temporale della Chiesa universale su quella locale. Di seguito pubblichiamo, in una nostra traduzione dal tedesco, l'articolo di Kasper.

 

IL RAPPORTO TRA CHIESA UNIVERSALE E CHIESA LOCALE

UN'AMICHEVOLE RISPOSTA ALLA CRITICA DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

card. Walter Kasper

 

Il rapporto tra Chiesa universale e Chiesa locale è attualmente oggetto di discussione in diversi contesti. Nel volume pubblicato in onore del vescovo Joseph Homeyer mi sono espresso sull'argomento nel contesto di un ampio articolo dedicato al ministero episcopale (1). Il cardinale Ratzinger ha criticato le mie argomentazioni durante una conferenza importante e piuttosto tesa sull'ecclesiologia del Concilio Vaticano II (2). Le questioni sollevate sono abbastanza importanti da esigere di venire ulteriormente approfondite.

Un urgente problema pastorale

Le mie affermazioni sono scaturite fondamentalmente da un'esperienza pastorale piuttosto che da un'intenzione sistematica. Poiché come vescovo di una grande diocesi ho fatto spesso l'esperienza di una divaricazione sempre maggiore tra le norme della Chiesa universale e la prassi messa in atto nella situazione locale. In alcuni casi si potrebbe quasi parlare di uno scisma mentale e pratico. Molti fedeli e molti preti non riescono più a capire alcune direttive della Chiesa universale e non ne tengono conto. Ciò riguarda questioni etiche come questioni relative alla prassi sacramentale ed ecumenica, per esempio l'ammissione dei divorziati risposati alla comunione o la pratica dell'ospitalità eucaristica nei confronti di fedeli di altre confessioni cristiane.

Un vescovo non può stare a guardare questa situazione senza far nulla. Ma egli si trova in una situazione difficile. In quanto vescovo ha il ministero dell'unità (3). Da una parte come membro dell'episcopato porta la responsabilità della Chiesa universale e si trova in solidarietà con il papa e gli altri vescovi. D'altra parte come pastore della sua Chiesa locale si trova in solidarietà con il suo clero e con le domande, le aspettative e le esigenze dei fedeli ad esso affidati. Il Vaticano II obbliga il vescovo ad ascoltare il suo clero e i fedeli (4).

Ma come fa un vescovo a conciliare questi due aspetti, se le posizioni divergono totalmente così come spesso accade oggi? Un duro "energico intervento", come di tanto in tanto accade, spesso non porta a niente o magari sortisce l'effetto contrario. Una soluzione è possibile solo se nell'applicazione delle norme della Chiesa universale il vescovo possiede un responsabile spazio di azione. Questo non ha niente a che fare con un opportunistico adeguamento. Va da sè che in questioni di fede non ci può essere nessun compromesso, e va da sè che ci si può aspettare da un vescovo che egli si comporti da testimone della verità "in occasione opportuna e non opportuna" (2 Tm 4, 2). Ma accanto alle dottrine immutabili della fede e della morale c'è un vasto campo di disciplina ecclesiastica, che certamente si trova in collegamento più o meno stretto con le verità di fede, ma che è fondamentalmente soggetto a cambiamenti. Negli ultimi decenni i fedeli sono stati testimoni di numerosi di questi cambiamenti, che fino a mezzo secolo fa quasi nessuno avrebbe ritenuto possibili.

La tradizione della Chiesa ha sviluppato una serie di principi e regole per facilitare una applicazione responsabile e flessibile di norme generali a situazioni concrete. Essa parla della virtù cardinale della saggezza, della virtù della discrezione come "superiore giustizia", dell'equità canonica, della possibilità della dispensa e di un diritto di obiezione del vescovo con effetto sospensivo; la tradizione della Chiesa orientale conosce il principio dell'economia, cioè di un'applicazione della legge, al singolo caso, che sia intelligente, adeguata alla situazione, saggia e soprattutto misericordiosa.

Dal punto di vista ecclesiologico, dietro l'affermazione di questi principi sta la dottrina secondo la quale una Chiesa locale non è una provincia o un dipartimento della Chiesa universale; essa è piuttosto Chiesa in quel luogo (5). Il vescovo non è un delegato del papa, bensì un incaricato di Gesù Cristo; egli possiede una responsabilità propria fondata sacramentalmente (potestas propria, ordinaria et immediata) (6). Egli deve avere tutte le deleghe di cui ha bisogno per la conduzione della sua diocesi (7). Tutto questo è chiaro insegnamento dell'ultimo Concilio.

Certo dopo il Concilio si sono nuovamente affermate tendenze centralistiche. Sarebbe ingiusto presumere dietro ad esse solo una curiale volontà di potere. Dietro ad esse c'è anche la giustificata preoccupazione per la situazione di alcune Chiese particolari dove talvolta è presente una esaltazione del pluralismo e delle specificità delle Chiese locali, che porta i segni ideologici di un nazionalismo ecclesiastico; ci si dimentica che nel Nuovo Testamento l'accento è posto sull'unità. Dietro la tendenza all'unificazione c'è poi il fatto che in un mondo globalizzato, che per certi aspetti è divenuto un "global village", isolate soluzioni delle Chiese particolari sono divenute più difficili. Le moderne possibilità di comunicazione hanno essenzialmente facilitato la presa di contatto con la "centrale". E infine dietro la tendenza alla centralizzazione sta di tanto in tanto anche la tentazione di far cadere comodamente la propria responsabilità su "Roma" e di nascondersi dietro questo paravento.

Queste ed altre evoluzioni hanno portato a far sì che il rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare si sia squilibrato. Questa non è solo la mia esperienza, bensì l'esperienza e la lamentela di molti vescovi un po' dovunque nel mondo (8). Il cardinale Ratzinger purtroppo non ha raccolto queste esigenze ed esperienze pastorali. Egli ha affrontato il problema dal punto di vista teoretico e sistematico e ha difeso una frase del documento della Congregazione della Fede "Su alcuni aspetti della Chiesa come communio" (1992), da me criticata. La frase, criticata da più parti, asserisce che la Chiesa universale è "nello specifico del suo mistero una realtà che si pone ontologicamente e temporalmente prima di ogni Chiesa particolare" (9). Alla mia presa di posizione egli ha obiettato che essa porterebbe alla situazione che ci sarebbero solo comunità intese come grandezze empiriche e il profondo significato teologico della Chiesa andrebbe perduto.

Questa è una grave incomprensione e una caricatura della mia posizione. Nel saggio criticato, come in molte altre pubblicazioni, si può leggere l'esatto contrario (10). La riduzione sociologica della Chiesa a singole comunità è proprio la posizione contro cui io, da vescovo, ho combattuto per dieci anni e per cui ho incassato aspre critiche.

Pertanto desidero presentare la mia visione delle cose ancora una volta, e questa volta in modo approfondito. Il problema è importante per la pastorale e - come si mostrerà di seguito - per l'ecumenismo.

Prospettive storiche

Il rapporto tra Chiesa universale e Chiesa locale non si può spiegare in modo puramente astratto e deduttivo. La Chiesa è una realtà storica; ciò che essa è si manifesta nella sua storia guidata dallo Spirito di Dio. Pertanto ogni risposta ad una nostra domanda deve tener conto della concreta storia della Chiesa. La base storica naturalmente è complessa. Qui dovranno bastare solo un paio di accenni.

Se si guarda al fondamento biblico, si riscontra che in Paolo "la Chiesa locale è al centro dell'attenzione" (11). Nelle principali lettere paoline "ecclesia" significa innanzitutto Chiesa singola, quindi comunità singola; per questo Paolo può parlare al plurale di "ecclesie locali". Per lui in ogni comunità locale viene rappresentata la Chiesa di Dio. Pertanto Paolo parla, per esempio, della Chiesa di Dio che esiste a Corinto (1 Cor 1, 2; 2 Cor 1, 1; cfr. Rm 16, 1). La Chiesa di Dio è quindi di volta in volta presente nella Chiesa locale. Nelle lettere dalla prigionia, che oggi per lo più vengono indicate come deuteropaoline, questo significato della Chiesa locale scompare quasi completamente; la lettera agli Efesini e quella ai Colossesi convergono nel fatto che "di volta in volta è presa in considerazione la Chiesa nella sua interezza e nella sua universalità, non la comunità locale" (12). In Luca "ecclesia" può stare a significare tanto la comunità domestica quanto la comunità locale; inoltre è già presente in lui una "concezione ecclesiologica generale" (13).

La Chiesa originaria deriva dalle Chiese locali guidate dai vescovi, nelle quali è presente l'unica Chiesa di Dio (14). Poiché nelle singole Chiese è presente l'unica Chiesa, le singole Chiese stanno tra loro in "communio" (15). Questa communio risulta evidente soprattutto durante l'ordinazione di un vescovo da parte di almeno tre vescovi (16), così come nei sinodi, nei quali si riuniscono i vescovi delle diocesi confinanti già a partire dal III secolo. Nella serie dei canoni del concilio di Nicea (325) le singole Chiese locali vengono ordinate con i loro vescovi nelle rispettive province e queste nei patriarcati (17). Un quadro simile si presenta al sinodo di Sardica (ca. 343) (18), che già formula un ordine procedurale in osservanza - come diremmo oggi - del principio di sussidiarietà. Pur tenendo conto del significato particolare assegnato alla Chiesa locale, non c'era un'autonomia della Chiesa locale, ogni singola Chiesa era piuttosto legata ad una rete di comunione composta da metroplìe, patriarcati e infine dalla Chiesa universale.

All'interno di questa rete di comunione, Roma ha rivendicato ben presto per sè un'autorità e una responsabilità per la Chiesa universale. Già Ignazio di Antiochia ascrive ad essa "il primato nell'amore" (19). Con ciò non viene ancora affermato nessun primato dottrinale e giurisdizionale, ma comunque che "la Chiesa romana, in ciò che determina l'essenza del cristianesimo, è l'autorità dirigente e determinante" (20). L'autorità di Roma come prima tra le sedi vescovili era incontestata. Ciò viene espresso chiaramente nel canone 3 del Concilio di Constantinopoli (381) (21) e nel canone 28 del Concilio di Calcedonia (451) (22). Al vescovo di Roma viene qui riconosciuta una determinante autorità morale, un riguardo che, certo, per l'est non comportava nessuna giurisdizione, ma era comunque ben più di un primato onorifico. Pertanto, con l'ecclesiologia del I millennio un'impostazione univocamente a favore della Chiesa locale è tanto poco conciliabile quanto quella univocamente a favore della Chiesa universale.

Questa situazione storica, qui molto brevemente accennata, è di fondamentale importanza teologica. Perché la Chiesa del I millennio, con il suo patrimonio comune a tutte le Chiese, possiede un significato determinante. È stato Joseph Ratzinger a formulare nella sua conferenza a Graz del 1976 la tesi che "non può essere impossibile oggi per i cristiani ciò che è stato possibile per un millennio.... Altrimenti espresso: Roma deve esigere dall'Est per ciò che riguarda la dottrina del primato non più di ciò che anche nel primo millennio venne stabilito e vissuto" (23). Questa "formula di Ratzinger" ha avuto ampia risonanza e recezione ed è diventata fondamentale per il dialogo ecumenico.

Questa formula è significativa, perché nel secondo millennio, dopo la divisione dall'Est, nell'Ovest si è formata una concezione universalistica della Chiesa, che infine ha portato alla convinzione che ogni autorità nella Chiesa sia da derivare da quella del papa (24). Nonostante tutto, però, una tale concezione papalistica rimase estranea ad un teologo del rango di Tommaso d'Aquino (25), in opposizione con Bonaventura (26). Essa, però, si affermò in contrasto con il conciliarismo, con la Riforma, con il moderno assolutismo statale, col gallicanesimo e col giuseppinismo. Il Concilio Vaticano I (1869/70) con la dottrina del primato giurisdizionale del Papa e il Codex Iuris Canonici (CIC) del 1917 sembrarono porre il sigillo definitivo a questa evoluzione.

Il Concilio Vaticano II cercò di valorizzare la concezione veteroecclesiastica e di conciliarla con il Concilio Vaticano I. Questo è avvenuto attraverso la dottrina della Chiesa locale, della sacramentalità della consacrazione episcopale e della collegialità dell'episcopato. L'ecclesiologia postconciliare della "communio" ha cercato di pro-lungare le linee indicate attraverso il Concilio. Il sinodo straordinario dei vescovi del 1985 ha ripreso questa discussione e ha affermato che la "communio" costituisce l'idea centrale e fondamentale del Concilio Vaticano II (27). Essa si è dimostrata poi sul piano ecumenico oltremodo fruttuosa. "Communio" è divenuto un concetto-guida della finalità ecumenica (28).

Lo scritto della Congregazione per la Dottrina della Fede "Su alcuni aspetti della Chiesa come communio" accoglie questa discussione in un modo fondamentalmente positivo. Esso critica - e giustamente - un'ecclesiologia che prende le mosse esclusivamente dalla Chiesa locale e che porta ad intendere la Chiesa universale come il risultato di un'associazione delle Chiese locali. Chiesa locale e Chiesa universale si compenetrano reciprocamente. Pertanto la Congregazione completa l'affermazione conciliare secondo cui la Chiesa universale sussiste "in e in virtù delle" Chiese locali con la tesi che le Chiese locali sussistono "in e in virtù della" Chiesa universale. E infine contro il primato della Chiesa locale, sostenuto da alcuni, afferma il primato storico e ontologico della Chiesa universale.

Quest'ultima tesi crea problemi, se si prendono in esame i fondamenti storici. La critica, che ha sollevato da più parti, ha costituito probabilmente il motivo per cui un anno dopo la pubblicazione dello scritto si è venuti ad un chiarimento ufficioso (29).

Comuni fondamenti ecclesiologici

Prima di passare alla discussione della tesi sopraddetta, desidero per prima cosa - per evitare possibilmente altri fraintendimenti - spiegare in quali punti io concordi pienamente con la posizione del cardinale Ratzinger. La comune convinzione, alla quale è obbligata ad attenersi ogni teologia cattolica, si può riassumere in tre punti:

1. Gesù Cristo ha voluto solo un'unica Chiesa. Per questo nel credo facciamo professione di fede per "una sancta catholica et apostolica ecclesia". Come riconosciamo un unico Dio e un unico redentore Gesù Cristo, un unico Spirito e un unico battesimo, così riconosciamo un'unica Chiesa. Questa unità non è per noi una dimensione soltanto futura, a cui noi aspiriamo ecumenicamente; essa esiste nel presente, non solo nei frammenti delle Chiese divise. Essa "sussiste" nella Chiesa cattolica, cioè è in essa storicamente presente, nonostante tutte le sue debolezze, in virtù della fedeltà di Dio ed ha in essa il suo luogo concreto (30).

2. L'unica Chiesa di Gesù Cristo esiste "in e in virtù delle" Chiese locali (31) poiché l'unica Chiesa di Gesù Cristo è presente in ogni Chiesa locale, specialmente nella celebrazione eucaristica. Ma poiché in ogni Chiesa locale è presente l'unico signore Gesù Cristo, nessuna Chiesa locale può sussistere isolatamente per sé, ma solo in comunità con tutte le altre Chiese locali. Così come la Chiesa universale sussiste "in e in virtù delle" Chiese locali, così ogni singola Chiesa sussiste "in e in virtù" dell'unica Chiesa di Gesù Cristo. L'unità della Chiesa è perciò una unità di comunione, che esclude egoismo e indipendenza nazionale delle Chiese locali. Chiesa locale e Chiesa universale si implicano vicendevolmente.

3. Come le Chiese locali non sono componenti separate o province della Chiesa universale, così la Chiesa universale non è la somma o il prodotto dell'associazione di chiese locali. Chiesa locale e Chiesa universale sono reciprocamente intime l'una all'altra; esse si compenetrano e sono "pericoretiche" . La Chiesa non è da paragonare né ad uno Stato federale né ad uno Stato unitario. Essa possiede una propria struttura costituzionale, che si sottrae ad ogni considerazione puramente sociologica. La sua unità è in definitiva un mistero. Essa è configurata secondo il modello originario della Trinità, dell'unico Dio in tre Persone (32). Unità non significa quindi uniformità; l'unità della Chiesa non esclude, bensì include la molteplicità.

Con queste tre tesi penso di essere in fondamentale sintonia con "Communionis notio". Henri de Lubac ha espresso l'essenziale di questo discorso con una formula pregnante: "Poiché regna reciproca implicazione, sussiste anche una perfetta correlazione" (33). Lo scritto della Congregazione per la Dottrina della Fede si discosta quindi dalla tesi di una reciproca implicazione e correlazione in quanto parla di un primato della Chiesa universale. Se questo sia possibile dipende dagli argomenti che si fanno valere per una tale tesi. Essa possiede il valore che portano i suoi argomenti. (Nostra sottolineatura)

Controversia intorno ad una disputa scolastica

Nella sua tesi il cardinale Ratzinger difende e spiega la tesi del primato storico e ontologico della Chiesa universale sulla Chiesa locale sia con un argomento storico che con un argomento sistematico.

L'affermazione del primato storico della Chiesa universale si fonda, a suo parere, sulla rappresentazione dell'evento pentecostale negli Atti degli Apostoli.

"In quel tempo la Chiesa si mostra pubblicamente il giorno di Pentecoste nella comunità dei centoventi che erano riuniti attorno a Maria e ai dodici apostoli. Gli apostoli erano i rappresentanti dell'unica Chiesa e i futuri fondatori delle Chiese locali, portatori di una missione indirizzata al mondo. Già allora la Chiesa parla tutte le lingue" (34).

Questa argomentazione pone alcune questioni. Molti esegeti sono convinti che il racconto degli Atti degli Apostoli presenti una costruzione lucana. Probabilmente anche in Galilea ci sono state sin dall'inizio comunità. Michael Theobald ha valorizzato inoltre l'ipotesi che per l'evento della Pentecoste non si abbia in mente la Chiesa universale, bensì la diaspora ebraica che si è raccolta, e che - come vuole mostrare Luca - nel corso del tempo, sotto la guida dello Spirito Santo, si allarga fino a diventare la Chiesa composta da tutti i popoli. Secondo M. Theobald questo intero processo, e non solo la storia iniziale della prima Pentecoste, deve avere un valore normativo (35).

Evidentemente il cardinale Ratzinger è consapevole della debolezza dell'argomento storico, poiché egli stesso dice che la dimostrazione storica sarebbe difficile, ma che infine essa non è tanto importante, quanto piuttosto l'intimo rapporto di Chiesa universale e locale. Più importante è a tal fine la questione del primato ontologico.

Cosa si intende con ciò? Sorprendentemente il cardinale Ratzinger giustifica il primato ontologico con la tesi della preesistenza della Chiesa. Questa tesi trova appiglio nel discorso dell'apostolo Paolo sulla Gerusalemme celeste quale nostra madre (Gal 4, 26) e sulla Gerusalemme celeste, città del Dio vivente, comunità (ecclesia) dei primogeniti, i cui nomi sono scritti in cielo (Eb 12, 22 s.). I padri della Chiesa hanno successivamente sviluppato questa tesi (36). Essa allude ad alcune idee, diffuse nell'antico ebraismo, secondo le quali la Torah sarebbe esistita nella realtà celeste già prima della creazione. A questo proposito ci sono alcuni parallelismi anche in altre religioni, così come nel platonismo (37).

Se si libera la tesi della preesistenza dalla sua formulazione contingente, allora si deve dire che la Chiesa non è il risultato di casuali circostanze, evoluzioni e decisioni storiche; essa si fonda, invece, nell'eterna volontà di salvezza e nell'eterno mistero di salvezza di Dio. Proprio questa idea esprimono le lettere paoline, quando parlano dell'eterno mistero di salvezza di Dio, che era nascosto nei tempi antichi, ma che ora si è rivelato nella Chiesa e attraverso la Chiesa (Ef 1, 3-14; 3, 3-12; Col 1, 26 s.).

Una preesistenza della Chiesa così intesa non si può contestare; essa è irrinunciabile per la comprensione della Chiesa dal punto di vista teologico. Ma ci si domanda cosa comporti essa concretamente per la nostra questione relativa al primato ontologico della Chiesa universale. Infatti, chi dice che la preesistenza sia da intendere solo per la chiesa universale e non anche per la Chiesa concreta "in e in virtù delle" Chiese locali? Perché l'unica Chiesa non può preesistere in quanto Chiesa "in e in virtù delle" Chiese locali? La tesi della preesistenza della Chiesa non dimostra perciò nulla a favore della tesi del primato della Chiesa universale. La tesi della preesistenza della Chiesa può giustificare altrettanto bene la tesi, sostenuta da me e da molti altri, della simultaneità delle Chiese particolari e della Chiesa universale.

Non solo storicamente, ma anche oggettivamente ci sono molti argomenti a favore dell'idea che la preesistenza della Chiesa si dovrebbe intendere a partire dalle Chiese concrete "in e in virtù delle Chiese locali". Niente meno che H. de Lubac giunge ad affermare: "Una Chiesa universale, che si premettesse, o che si rappresentasse come esistente in sè, al di fuori di tutte le singole Chiese, è solo un'astrazione" (38). Poiché - secondo de Lubac - Dio non ama le astrazioni vuote, ma uomini concreti in carne ed ossa. L'eterna volontà di salvezza di Dio si è manifestata nell'incarnazione del Logos e volge la sua attenzione alla Chiesa concreta, presente nella carne del mondo.

Considerata più da vicino, la controversia sulla questione del primato della Chiesa universale si rivela essere non tanto una questione di dottrina ecclesiastica, quanto di orientamento teologico e quindi delle diverse filosofie prese rispettivamente in considerazione: esse o prendono le mosse più platonicamente dal primato delle idee e dell'universale, oppure vedono più aristotelicamente l'universale realizzato nel concreto (39). Il secondo orientamento di pensiero non ha niente a che fare con una riduzione al dato empirico. La disputa medioevale tra teologi con un pensiero più platonico e teologi con un pensiero più aristotelico-tomistico è una disputa scolastica all'interno della comune fede della Chiesa. Bonaventura e Tommaso d'Aquino, che in tale questione, come in quella della autorità universale del papa, percorsero vie diverse, sono entrambi riconosciuti maestri della Chiesa; entrambi vengono onorati come santi. Perché oggi non dovrebbe essere più possibile una molteplicità di visioni che era possibile nel Medioevo?

Prospettiva ecumenica

Le considerazioni sul rapporto tra Chiesa locale e Chiesa universale hanno notevoli conseguenze per i problemi pastorali di cui si è detto all'inizio. Però quello che per me originariamente era un problema pastorale interno alla Chiesa cattolica, è divenuto nel frattempo anche un'urgente questione ecumenica. La finalità ecumenica non è certo la costituzione di un'unica Chiesa uniforme, bensí dell'unica Chiesa nella diversità conciliata. Ciò significa, seguendo la definizione di Ratzinger, che le Chiese devono rimanere Chiese e che comunque devono divenire sempre più una Chiesa (40). Il fine del processo ecumenico è quindi l'unità di comunione delle Chiese, o meglio: l'unità di comunione della Chiesa (41).

Noi possiamo presentare questa finalità in campo ecumenico in modo credibile solo se nella nostra propria Chiesa realizziamo in modo esemplare il rapporto tra Chiesa universale e locale nel senso di una unità nella molteplicità e di una molteplicità nell'unità. Una visione esclusivamente universalistica, invece, risveglia dolorosi ricordi e sfiducia; essa ha un effetto scoraggiante in campo ecumenico. Pertanto per il dialogo con le Chiese ortodosse, come con quelle evangeliche, e quindi con le diverse comunità di Chiesa è importante mostrare che una Chiesa particolare (un patriarcato, una Chiesa evangelica regionale, così come ogni raggruppamento confessionale) può essere Chiesa di Gesù Cristo in senso pieno solo nella comunità della Chiesa universale, ma che, d'altra parte, tale unità di comunione non sopprime e non assorbe le singole Chiese e le loro legittime tradizioni, ma conserva ad esse uno spazio di legittima libertà, perché solo così può essere concretamente conservata tutta la pienezza della cattolicità (42).

Un rapporto equilibrato tra Chiesa universale e locale non contraddice il ministero di Pietro nella Chiesa, ma corrisponde al suo intimo significato. Il suo compito, infatti, è quello di "confermare i fratelli" (Lc 22, 32). Egli deve confermare l'episcopato e con esso le Chiese locali e mantenerle nell'unità (43). Papa Giovanni Paolo II ha invitato ad un fraterno dialogo ecumenico, precisando come in futuro esso possa verificarsi concretamente (44). Se il papa stesso invita ad un tale dialogo fraterno, non può essere allora fuori luogo, se si esprime francamente la propria opinione su una giusta definizione del rapporto tra Chiesa universale e locale

NOTE

1 Zur Theologie u. Praxis des bischöflichen Amtes, in: Auf eine neue Art Kirche sein (FS J. Homeyer, München 1999), 32-48.

2 L'ecclesiologia della Costituzione "Lumen gentium", in: Il Concilio Vaticano II -- Recezione e attualità alla luce del Giubileo, ed. R. Fisichella (Cinisello Balsamo 2000) 66-81.

3 J. Ratzinger ha trattato in modo convincente il tema del doppio servizio all'unità e del vescovo come elemento di collegamento per l'unità tra il ministero dell'unità presente nella propria chiesa e nella chiesa universale, in: Zur Gemeinschaft berufen. Kirche heute verstehen (Freiburg 1991) 89 s.

4 LG 27, 37; CD 16.

5 LG 26; CD 11.

6 LG 27.

7 CD 8.

8 Ha riscosso particolare attenzione la Oxford Lecture del vescovo John R. Quinn, edita in: The Exercise of the Primac', ed. Ph. Zago e T. W. Tille' (New 'ork 1998). In questa direzione vanno diverse affermazioni dei cardinali König, Martini e altri.

9 Congregazione per la Dottrina della Fede, lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come communio del 2. 5. 1992, 9 (redazione tedesca).

10 Cfr. per esempio il mio intervento "Kirche als communio", in: Theologie u. Kirche (Mainz 1987) 272-289, dove con tutta la buona volontà non si può proprio trovare quella comprensione puramente orizzontale della Chiesa, giustamente criticata dal cardinale Ratzinger.

11 J. Gnilka, Theologie des Neuen Testaments (Freiburg 1994) 110.

12 Ibid. 334.

13 Ibid. 218, 224.

14 Ignazio di Antiochia, An die Epheser, Praescr., in: Die Apostolischen Väter, ed. J. A. Fischer (Darmstadt 1956) 142; come in altri scritti epistolari. Altre testimonianze si trovano in H. de Lubac, Quellen kirchlicher Einheit (Einsiedeln 1974) 49.

15 L. Hertling ha offerto una presentazione di fondamentale importanza dell'ecclesiologia della communio nella chiesa antica: Communio u. Primat - Kirche u. Papsttum in der Antike, in: Una Sancta 17 (1962) 91-125. Questa visione è stata successivamente confermata e sviluppata. Si veda anche J. Ratzinger (A. 3) 70-88. Importanti interventi più vecchi in relazione a questo tema in: Ibid., Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie (Düsseldorf 1969).

16 Cfr. canone 4 del Concilio di Nicea, cit. in: Conciliorum oecomenicorum Decreta, ed. J. Alberigo u. a. (Freiburg 1962) 6 s.

17 Cfr. i canoni 4, 6, 8, cit. ibid. 6-9.

18 K. Baus, in: Handbuch der Kirchengeschichte II/1 (Freiburg 1973) 38-42; G. Schwaiger, Päpstlicher Primat u. Autorität der Allgemeinen Konzilien im Spiegel der Geschichte (München 1977) 27

19 Ai Romani, Praescript (A. 14) 183.

20 Su questa interpretazione ibid. 129 s.

21 Conciliorum oecomenicorum Decrata (A. 16) 28.

22 Ibid. 75 s.

23 Si ritrova invariato in: Cardinal Joseph Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 209. Successivamente Ratzinger non è ritornato su questa posizione, ma si è difeso da travisamenti, chiarendo che da ciò non si può derivare il ritorno al primo Millennio e quindi un'ecumene di ritorno: cfr. J. Ratzinger, Kirche, Ökumene, Politik (Einsiedeln 1987) 76 s., 81 s.

24 Cfr. '. Congar, Die Lehre von der Kirche. Von Augustinus bis zum abendländischen Schisma, in: Handb. der Dogmengeschichte, Bd.3, 3c (Freiburg 1971) 57 s., 60s., 63 s. ecc.

25 Cfr. W. Kasper, Steuermann im Sturm. Das Bischofsamt nach Thomas von Aquin, in: ibid., Theologie u. kirche, Bd. 2 (Mainz 1999) 103-127, qui 122 - 124.

26 '. Congar, ibid. 144: "Bonaventura era per il XIII secolo il più importante teorico della monarchia papale".

27 Zukunft aus der Kraft des Konzils. Die außerordentliche Bischofss'node '85. die Dokumente mit einem Kommentar von W. Kasper (Freiburg 1986) 33.

28 W. Thönissen, Gemeinschaft durch Teilhabe an Jesus Christus. Ein katholisches Modell für die Einheit der Kirchen (Freiburg 1996).

29 OR, 23. 6. 1993; ed. in: HerrKorr 47 (1993) 406-411.

30 LG 8. Cfr. a proposito la più recente presa di posizione della Congragazione per la fede "Dominus Jesus. Über die Einzigkeit und die Heilsuniversalität Jesu Christi und der Kirche" del 6. 9. 2000, 16 s.; i problemi sollevati in questa presa di posizione non possono essere trattati in questo contesto.

31 LG 26.[mia annotazione: il testo recita: «Haec Christi Ecclesia vere adest in omnibus legittimis congregationibus localibus, quae, pastoribus suis adhaerentes, et ipsae in Novo testamento ecclesiae vocantur (Cfr. At 8,1; 14,22-23; 20,17, e passim). Haec sunt enim loco suo Populus novus a Deo vocatus, in Spiritu Sancto et in plenitudine multa)…In his communitatibus, licet saepe exiguis et pauperibus, vel in dispersione degentibus, praesens est Christus, cuius virtute consociatur una, sancta, catholica et apostolica Ecclesia» EV/1, 348).

 

32 LG 4; UR 2.

33 H. de Lubac (A. 14) 50.

34 Scritto della Congregazione, 9.

35 M. Theobald, Der römische Zentralismus u. die Jerusalemer Urgemeinde, in: ThQ 180 (2000) 225-228.

36 Clemente di Roma, Epistula II ad Cor., 14, 2; Pastore di Hermas, Vis. 2, 4. Su Origene cfr. P. - Th. Camelot, Die Lehre der Kirche. Väterzeit bis ausschlißich Augustinus, in: Handb. der Dogmengeschichte, Bd. 3, 3b (Freiburg 1970) 9; su Agostino cfr. '. Congar (A. 24) 6-8.

37 Cfr. Art. Präexistenzvorstellungen, in: LThK;, Bd 8, 491-493.

38 Cfr. H. de Lubac (A. 14) 52 s. De Lubac, che in altro luogo mette espressamente in guardia dai pericoli di una visione sociologica e di un nazionalismo eccessivo e che quindi sotto questo punto di vista è un testimone insospettabile, tuttavia chiarisce che nella nostra questione il fattore socio-culturale è di notevole importanza (cfr. 45 s.).

39 La discussione intorno alla questione se il generale esista "prima", "in" o, sulla base di un procedimento astrattivo, "dopo" il concreto, venne dibattuta nella disputa medioevale degli universali.

40 J. Ratzinger, Die Kirche u. die Kirchen, in: Reformatio 13 (1964) 105.

41 Cfr. W. Kasper, Kircheneinheit u. Kirchengemeinschaft in katholischer Perspektive. Eine Problemskizze, in: Glaube u. Gemeinschaft (FS P. W. Scheele, Würzburg 2000) 100-117.

42 UR 4.

43 DH 3961; LG 27.

44 Ut unum sint 95.