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Cultura e profezia in d. Tonino Bello.
Relazione alla 9^ Primavera di Don Tonino. Giovinazzo 28.09.02

Premessa

Il tema affidatomi congiunge cultura e profezia nel magistero e nell’esperienza di don Tonino Bello. Chi lo ha formulato non ignora certo che se per ciò che concerne la profezia, l’ambito lessicale è abbastanza identificabile in un contesto biblico-teologico, quello della cultura è ben più vasto, fino al rischio di essere ingovernabile. Prescindendo dal fatto che di questo termine si danno accezioni molteplici e disparate, mi è sembrato metodologicamente più corretto riferirmi ai diversi contesti in cui esso compare negli scritti di don Tonino e da me utilizzati nella lodevole edizione dei quattro volumi editi da Luce e Vita di Molfetta.

A questo punto affiora già dall’inizio il secondo, strutturale problema: l’identificazione della cultura nel suo rapporto con la profezia. Semplificando, dirò che la cultura può essere considerata non solo come luogo di partenza e come luogo di arrivo, come strumento e come fine, ma anche come realtà conflittuale con la profezia. Ciò avviene di certo nel caso in cui la cultura sia identificata come uno status acquisito da parte di una cosiddetta civiltà o anche di un certo modo di essere cristiano e anche semplicemente di essere Chiesa. Parlo di una condizione sacrale o confessionale forte, attraverso cui la comunità cristiana voglia porsi al riparo dai rischi e delle vicende travagliate e sofferte della storia umana nel suo complesso, al fine di sentirsi più protetta o addirittura invulnerabile. Proprio in questo caso la comunità cristiana tenderebbe di fatto, pur senza mai riuscirci, di sottrarsi alla sfida continua che la profezia rivolge continuamente a qualsivoglia sistema sacrale e istituzionale, non in nome di una sua presunta e, a sua volta, istituzionale superiorità sul sistema, ma in forza di quella salvaguardia della incatturabilità e della libertà dell’Assoluto, che certifica la superiorità di Dio su ogni suo rivestimento sacrale.

Arrivati a questo punto, sembrerebbe affiorare come interessante, oltre che intrigante, la domanda: «Come si rapportano cultura e profezia nel magistero e nella testimonianza di don Tonino?». Così formulato, il tema però mi è sembrato correre il pericolo di diventare troppo intellettuale, fino a stemperare quella carica innovativa, oltre che “eversiva” che invece ritroviamo come la caratteristica dei profeti e don Tonino, permettetelo di affermarlo, pur senza la ben che minima competenza per farlo, di sicuro lo è stato.

L’alternativa a un approccio teoretico all’argomento sembra essere quella di restare più aderente possibile ai testi a nostra disposizione, cercando almeno – come dicevo all’inizio – di individuare la cultura secondo le accezioni in cui essa compare e di rapportarla alla profezia come suo mezzo di contrasto o almeno come sua continua problematizzazione. L’idea mi è venuta da una lettura dei testi, che pur essendo funzionali a situazioni e occasioni tra le più disparate, mostrano però una continua tensione relativamente al binomio che ci riguarda. Cultura e profezia appaiono non sempre in riferimento reciproco e tuttavia mostrano una correlazione talora più palese, talora più segreta, a seconda di come la cultura viene di volta in volta intesa. Elemento discriminante e vero e proprio catalizzatore responsabile di ogni possibile forma di congiunzione o disgiunzione tra la cultura e la profezia mi è comunque sembrata la pace. Si tratta di una pace che costringe la cultura ad uscire allo scoperto, perché la sfida continuamente, in nome della profezia che diventa la sua carica innovativa e performativa. Cioè decide se una cultura sia degna di tale nome e come possa e debba continuamente rigenerarsi, per essere a favore e non a svantaggio dell’uomo, per essere espressione e stimolazione di una positività che significa maturazione di rapporti, intreccio di solidarietà e anticipazioni di possibili convivenze. Stimolata dalla profezia, la cultura subisce una continua autorevisione critica, direi uno screening continuo, se non stessi attento a non incappare negli inglesismi di questa nostra epoca. Tutto ciò non esaurisce l’arco del tema che resta ancora molto vasto. Ne afferra però uno dei nodi centrali. Intende però tralasciare ad altri o ad altre occasioni un’interpretazione piuttosto celebrativa del tema, del tipo: quale e quanta cultura e in quale percentuale ha influito sull’opera di Don Tonino Bello? Ammetto che anche ciò possa avere la sua importanza, se non per un interesse celebrativo, almeno per un interesse storico. In questo senso può e deve lodevolmente procedere un’analisi più dettagliata dei testi, dei suoi riferimenti espliciti o spesso solo impliciti o allusivi, accanto allo studio della biblioteca personale di don Tonino stesso[1]. Non facendo però personalmente né il letterato, né il semiologo, potrò solo, per quel che mi concerne, tentare un’analisi teologica di base sulla cultura in generale, alla luce della profezia della pace. Con queste consapevoli delimitazioni, che sono anche dei limiti oggettivi, procederò secondo alcuni passaggi, che spero siano convincentemente concatenati tra loro: 1) La cultura tra l’appartenenza e la formazione alla pace; 2) La profezia della pace come elemento discriminante della cultura; 3) Verso una cultura di pace come anticipazione storica della profezia.

1)       La cultura tra l’appartenenza e la formazione alla pace

Una delle accezioni della cultura negli scritti di don Tonino, come del resto in ciascuno che abbia a cuore il popolo e ciò che è ad esso collegato, è la cultura popolare. La cultura è nel suo senso più originario ciò che è stato “coltivato” grazie all’esperienza, alla perizia e alla pazienza di intere popolazioni, che pur mantenendo un proficuo quanto lodevole legame con la natura, si sono adoperati perché la natura stessa diventasse sempre più amica dell’uomo. In questo senso la cultura non è contrapposta alla natura, se ne distingue, ma ne è anche come il naturale prolungamento. Meglio di ogni altro discorso, illustra tale nesso certamente vantaggioso per l’uomo e per la sua vicenda sulla terra quel testo biblico in cui Dio affida la terra nuova di zecca alla prima coppia umana dicendo: «Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino  di  Eden,  perché  lo  coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). La cultura è allora ciò che abbellisce la terra e continua l’opera della creazione. Tale pensiero è presente in maniera piuttosto diffusa negli scritti dei quali ci occupiamo, come ad esempio, nel riconoscimento del grande valore dato agli artigiani, di cui Giuseppe, nella famosa lettera a lui indirizzato, è l’espressione più evidente.

In questa scia della cultura come costruzione di ciò che rende più espressiva e piacevole la vita sulla terra, don Tonino menziona talora la cultura popolare, le tradizioni di un popolo, che egli vede come veicoli di valori più grandi, per crescere insieme con un’anima, cioè con un’identità spirituale[2]. Consapevole che una sua esaltazione regionalista o nazionalista porta alla contrapposizione, alla diffidenza e all’inimicizia, egli sottolinea che proprio le diversità culturali sono da armonizzare e da condividere e non da contrapporre. Un esempio toccante sulla possibilità di tale «convivialità delle differenze» è per lui il vedere croati seduti insieme a tavola con i Serbi, come racconta nel diario sul viaggio a Sarajevo[3].

La cultura è, pertanto, nella sua accezione positiva, espressione di un’identità che avvicina agli altri e non allontana da loro. Così essa affiora talvolta in quel mondo contadino dal quale proveniamo, fatto di valori autentici, quali la fedeltà, la semplicità, l’essenzialità, insomma quel crepitio domestico, per dirla alla don Tonino, di «sarmenti di antichi focolari»[4] e quella mai vinta «freschezza di abbandoni all’ala fragile dell’amicizia»[5].

Un’accezione alquanto diversa da questa, ma non scollegata da essa, è la cultura come capacità di sintonizzarsi con il proprio tempo e di farsi comprendere nel contesto dei luoghi nei quali l’operatore pastorale viene a trovarsi. Qui anche don Tonino invoca la scelta e l’utilizzo degli strumenti adeguati della pastorale[6]. Non è una questione di tattica o di semplice metodologia, è fedeltà a quell’avvicinamento all’uomo del proprio tempo che è stato tipico del Vaticano II e a cui il Vescovo di Molfetta ritorna, insistendo sul fatto che occorre fare proprie «le gioie degli uomini d’oggi … dei poveri soprattutto, e di coloro che soffrono»[7]. Con queste premesse, nella sua forma pastoralmente più convincente, la cultura appare così:

«educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come lui, a giudicare la vita come lui, a scegliere e ad amare come lui, a sperare come insegna lui, a vivere in lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo. In una parola, nutrire e guidare la mentalità di fede: questa è la missione fondamentale di chi fa catechesi a nome della Chiesa»[8].

Da qui derivano alcune scelte determinanti: la Parola di Dio, nell’adoperarsi a che essa si faccia carne e venga ad abitare tra gli uomini; la scelta dei lontani (o coloro che si sono o abbiamo allontanato? si chiederebbe don Tonino). Con questa tensione ideale, potremo smettere di essere rifugio e parcheggio protettivo per gli interni, per essere invece «accampamenti di speranza e di salvezza per chi da tempo o da sempre ne sta fuori»[9]. In questa visione pastorale complessiva egli asseconda la cultura anche come scelta degli adulti e parla del catecumenato come «itinerario di formazione graduale e progressiva». Non un indottrinamento, ma un processo che è anche intensificazione dello studio, nel «non disdegnare le tribolazioni della ricerca» e nel «sottoporre a revisione critica il linguaggio»:

«Finché non terremo conto delle variabili culturali, sociali, educative del mondo e non ne adopereremo il modulo cifrato di comunicazione, ci sarà reso difficile trasmettere qualcosa»[10].

La scelta dei lontani è una scelta dettata da questa preoccupazione culturale:

«Oggi ci sembra che una larga fascia del mondo culturale delle nostre città è omogenea nel suo rapportarsi a Cristo e alla Chiesa in termini di indifferenza, di superficialità e di distacco, se non proprio di lotta. Motivazioni ideologiche e personali hanno indotto molti nostri fratelli battezzati a non condividere più con noi né il pane, né la tenda, né la strada»[11].

Che cosa fare allora? Riscoprire le modalità espressive capaci di comunicare, tra le quali la riscoperta della festa, come incontro con il Risorto, con l’assemblea, con i poveri[12]. È il recupero della speranza cristiana, nel senso dell’adoperarsi perché beni escatologici quali «la giustizia, l’uguaglianza, la libertà» non si attendano da venire «prefabbricate dall’alto», ma siano fatte maturare «qui in terra… con alacre passione e senza cedimenti»[13].

Si tratta di una cultura che fa riscoprire il ruolo della persona, della relazione, della comunicazione autentica, scrostandola dal personaggio, dal ruolo, dalla funzione. A cominciare dal vescovo. È questa «la fatica più grossa», tanto che don Tonino afferma che occorre liberare

«il Vescovo dall’ipoteca che vede in lui più il servitore solenne del culto che il testimone povero di Cristo servo, più il funzionario dell’altare che il segno coraggioso e umile di Cristo capo, più l’operaio del rito che il radunatore, mediante la Parola, dell’umanità dispersa attorno al banchetto di Dio»[14].

Ma ciò vale anche per i laici e in genere per la formazione, perché il laicato prenda coscienza del suo compito: «tutto questo è cultura, perenne ricerca, sete di sapere»[15]. Ciò implica rinnovamento, dagli ufficiali di curia, ai parroci, all’arte e alla musica sacra[16]. Insomma vale per l’intera Chiesa la formazione a una cultura che sappia guardare al di là delle stesse mura di cinta:

«Una Chiesa senza pareti e senza tetto, una Chiesa cioè che sa guardare più in alto del soffitto. Una Chiesa che sa rapportarsi continuamente a Dio, perché ci sono molte Chiese che guardano nel piccolo della staccionata di loro interessi».

Il testo prosegue dicendo che sarà possibile solo se la Chiesa saprà «rapportarsi con Cristo Signore, l’unico per il quale vale la pena di vivere e di morire»[17], ma sarà anche «una Chiesa dalle planimetrie umane»[18].

Cultura è ancora comunicazione nel senso che la Chiesa, deve, al pari di Maria, uscire da ogni tipo di isolamento, per parlare con gli uomini ed essere con loro, perché «i nostri sentieri siano … strumento di comunicazione con la gente, e non nostri isolamenti entro cui assicuriamo la nostra aristocratica solitudine»[19]. In questo modo si acquisisce la capacità di leggere i segni dei tempi, rivisitati come

«presenza sacramentale di Dio sotto il filo dei giorni, negli accadimenti del tempo, nel volgere delle stagioni umane, nei tramonti delle onnipotenze terrene, nei crepuscoli mattinali di popoli nuovi, nelle attese di solidarietà che si colgono nell’aria»[20].

In questo rinnovamento della cultura è fondamentale la relazione, l’essere l’uno per l’altro, con un fondamento teologico altissimo: la Trinità in cui non c’è la somma di uno più uno più uno, come spiegò don Vincenzo, parroco degli zingari, a don Tonino, ma uno per uno per uno, dove il risultato è uno: ma di un uno che vive per l’altro, di un volto, come commentava don Tonino, che non può essere tale, cioè volto, se non è ri-volto verso gli altri[21].

Per le comunità cristiane ciò significa avere occhi nuovi, non per commuoversi e basta, ma – e qui è la forza della profezia - «perché risalendo alle cause ultime, si renda sterile l’utero sempre gravido che genera i mostri delle nuove povertà»[22].

Quest’uscita «dai perimetri parrocchiali» è sequela Christi nella misura in cui persegue il suo uscire dall’ostensorio, perfino quello del grembo della Madre e della casa di Nazareth, per entrare nella vita tormentata degli uomini. Ecco un passo centrale di tale cristologia sempre de-culturata e sempre nuovamente in-culturata:

«Questa immagine a me sembra molto suggestiva: Gesù prima era incuneato, prigioniero ovattato, rinchiuso in un luogo, in un abitato. Adesso Gesù è uscito di là e si è spostato altrove. Ha posto la sua tenda qui, dove noi ci riuniamo. Questa dinamica Gesù Cristo la esprime sempre: esce da una cultura e s’introduce in un’altra cultura. Così dovrebbe essere nella nostra vita di credenti, nella nostra vita pastorale. Dovremmo essere sempre capaci di aprire le porte a Cristo, di farlo uscire cioè dalle nostre chiese per portarlo nelle altre culture»[23].

È questa «la nuova cultura del vangelo» che si spinge a far del bene anche a chi ti fa del male[24]. La cultura viene allora visitata e vagliata dalla profezia: solo allora è la capacità di vedere in trasparenza, di vedere oltre. Si direbbe, con la lettera agli Ebrei, è la capacità di cogliere l’invisibile attraverso il visibile. Il suo prototipo è Mose, di cui è detto: « Per fede lasciò l'Egitto, senza temere l'ira del re; rimase infatti saldo, come se vedesse l'invisibile» (Eb 11,27).

2) La profezia della pace come elemento discriminante della cultura

Al punto in cui siamo, possiamo dire che la cultura intercettata dalla profezia, corre in avanti come tensione costruttrice di storia. Ma con quali mezzi? A quale prezzo? Il discorso diventa qui estremamente delicato perché tocca il cuore del messaggio di don Tonino, come tocca – a mio modo di vedere – il cuore dello stesso annuncio del Vangelo. La cultura non può essere che cultura per la pace e cultura di pace, giacché la storia si costruisce in compagnia con i più deboli e attraverso la via del dialogo, della comprensione reciproca, della risoluzione non armata delle vertenze, insomma attraverso la prassi nonviolenta. La cultura illuminata dalla profezia, diventa costruzione della pace, non chiudendo gli occhi davanti alle tante forme di violenza che affliggono l’umanità, ma attraverso la lotta nonviolenta, innanzi tutto contro quelle violenze che abitano più vicino a noi, siano esse palesi siano esse occulte.

La profezia appare in un testo interessante innanzi tutto come il vagheggiare, anticipandola, l’era dei veri amici. Aprendo un suo intervento dal titolo «La profezia oltre la mafia» con una citazione del calabrese Gioacchino da Fiore, don Tonino paragona gli effetti devastanti della mafia a quella non ancora del tutto superata età degli schiavi[25]. Essa rappresenta, infatti, l’eclisse della legalità, con tutto ciò che ne consegue, che ne è al contempo effetto e ragione di ulteriore persistenza: la criminalità violenta del sangue versato sulle piazze e quella meno visibile dei «colletti bianchi», ancora attiva nel suo sistema di tangenti e collusioni; la paura, con la conseguente omertà o indifferenza; l’individualismo di sopravvivenza e quant’altro si è scritto ed è noto sull’argomento. Ma se ciò rappresenta l’era della schiavitù, come erba incolta di un caos tutt’altro che circoscritto, don Tonino scorgeva nel Sud, partendo dalla Calabria, anche i segni premonitori di un’era nova: «l’era dei liberi»[26]. Egli individuava i soggetti di tali tendenza in una parte della società civile, nel volontariato, nella Chiesa, o, come diremmo noi, più modestamente, almeno in una parte di essa. Per cui salutava con simpatia i nuovi laboratori di un modo alternativo di governare, come quelli allora in atto a Palermo e a Catania. Intravedeva la forza profetica di interventi come quelli di don Calabrò, che invitava a «reimpostare la cultura della vita» a «stabilire un costume di nonviolenta ma ferma opposizione alla mafia in tutte le sue manifestazioni», per «reimpostare una cultura della vita»[27]. Condivideva gli sforzi di quelle esperienza di Chiesa impegnate in tal senso e parlava positivamente di quel famoso documento dell’episcopato italiano del 1989, intitolato Chiesa italiana e Mezzogiorno», da lui amabilmente ribattezzata Sollicitudo rei meridionalis[28]. Terminava infine con un epigramma dei Chassidim, invitando a non rassegnarsi mai, a continuare l’impegno intrapreso, giacché «il vero esilio per gli ebrei si ebbe quando essi cominciarono a sopportarlo»[29].

In ogni caso l’esito non è disfattista. L’analisi mira a mettere in luce con il positivo già in atto, anche ciò che ne costituisce la sua molla segreta, una sorta di visione anticipatrice, alimentata dalla speranza. È un nuovo modo di vedere, un intra-vedere, che sconfina senza dubbio nella profezia. Proprio sul vedere sono indimenticabili i passaggi della Lettera a Maria, sottotitolata Voglia di trasparenza[30]. Qui sono tematizzati i diversi modi di vedere: il voler vedere chiaro di Tommaso, fino a voler toccare le ferite del Risorto; la nostra nostalgia di trasparenza, che in un mondo sempre più contraffatto, arriva alla volontà diffusa di vederci chiaro nelle cose, nei volti, negli eventi. Inoltre c’è il vedersi dentro fino a piangere per la scoperta dei propri tradimenti, come Pietro, ma c’è anche il vedere oltre, impersonato da Giovanni, il discepolo dell’amore, che arrivava fin là dove altri non poteva spingersi. Era però spinto dall’amore. Il pensiero di don Tonino è che la profezia arriva a tale spinta in avanti per leggere fin nel di dentro. Essa è «superare il banco di nebbia degli avvenimenti per capirne le linee di tendenza e afferrarne il senso definitivo»[31]. Parlando di Maria, come «donna di frontiera», oltre che «donna del popolo» e «donna dell’attesa»[32], don Tonino indica tale protendersi in avanti di una profezia che ha in Maria un modello e una sorta di concentrato di tipicità. Una profezia che diventa coraggio, sicché Maria è anche la «donna coraggiosa»[33]. È menzionato, a riguardo, quanto Giovanni Paolo II aveva detto di Maria a Zapopan in Messico, scolpendo «il monumento più bello che il magistero della Chiesa abbia mai elevato» alla sua «umana fierezza», presentandola come modello «per coloro che non accettano passivamente le avverse circostanza della vita personale e sociale, né sono vittime dell’alienazione»[34].

Profezia è dunque anche questo, al punto di poter dire a Maria:

«Dunque, tu non ti sei rassegnata a subire l’esistenza. Hai combattuto. Hai affrontato gli ostacoli a viso aperto. Hai reagito di fronte alle difficoltà personali e ti sei ribellata dinanzi alle ingiustizie sociali del tuo tempo. Non sei stata, cioè, quella donna tutta casa e chiesa che certe immagini devozionali vorrebbero farci passare. Sei scesa sulla strada e ne hai affrontato i pericoli, con la consapevolezza che i tuoi privilegi di Madre di Dio non ti avrebbero offerto isole pedonali capaci di preservarti dal traffico violento della vita»[35].

Esagerazioni retoriche, anacronismi edificanti? Non mi sembra, se appena si consideri che quelle strade piene di contraddizioni, di violenza, di sofferta solidarietà hanno un nome storico preciso per Maria: la via del censimento, quella dell’esilio, quella del calvario. A chi si ferma a riflettere su ciò che accomuna lei e chi paga nella sua vita le scelte sbagliate o gli orrori di un potere arrogante quanto gratuito, potranno non risuonare retoriche ma veri aneliti di preghiera, quelli che don Tonino non reprime sulla soglia dell’anima e che risuonano così:

«Perciò, Santa Maria, donna coraggiosa, tu che nelle tre ore di agonia sotto la croce hai assorbito come una spugna le afflizioni di tutte le madri della terra, prestaci un po’ della tua fortezza. Nel nome di Dio, vendicatore dei poveri, alimenta i moti di ribellione di chi si vede calpestato nella sua dignità. Alleggerisci le pene di tutte le vittime dei soprusi. E conforta il pianto di tante donne che, nell’intimità della casa, vengono sistematicamente oppresse dalla prepotenza del maschi. Ma ispira anche la protesta delle madri lacerate negli affetti dai sistemi di forza e dalle ideologie di potere. Tu, simbolo delle donne irriducibili alla logica della violenza, guida i passi delle “madri-coraggio” perché scuotano l’omertà di tanti complici silenzi»[36].

Anche da questa sintetica presentazione, la profezia appare chiaramente non disgiungibile da quella cultura che, informata dalla pace, legge la realtà dalla prospettiva di Dio, una prospettiva che ha nei profeti le sue sentinelle più solerti e più coraggiose. Essi guardano non solo fuori di casa, ma anche in casa propria. Avvistano le linee di demarcazione tra i pensieri umani e i pensieri di Dio anche all’interno dei propri sistemi cultuali e religiosi. Contestano anche una certa cultura religiosa, che diventa talora crosta ripugnante non di Dio, ma del nostro modo di pensarlo e di presentarlo agli altri. In questo senso la profezia è anche, dico a parole mie, rigenerazione del religioso.

Sì, perché profezia è anche smascherare con chiarezza le ideologie religiose che si annidano dietro le guerre e le violenze compiute chiamando Dio come sponsor. È contestare una cultura religiosa che non è altro che ideologia sacrificale, che non ha più niente di religioso. In don Tonino tale denuncia è presente nella struggente lettera all’anonima figlia di Jefte (anonima come tutte le vittime sacrificali, la cui vita è stata stroncata in nome di Dio e della guerra). Il riferimento è al voto, fatto dal giudice d’Israle Jefte, di sacrificare a Dio, se avesse avuto vittoria in guerra, qualsiasi persona gli fosse venuta incontro dopo la vittoria. Orrore! La prima a corrergli incontro al suo ritorno fu sua figlia, quella figlia che il padre non indugiò a sacrificare, pensando che ciò fosse dovuto a Dio[37]. Un orrore e un errore, che non si può non condannare, anche a motivo della bestemmia di attribuire a Dio la soppressione e la violenza contro gli inermi. Si dirà che ciò non succede più, perché era solo appannaggio di visioni religiose superate quanto distorte. Non è così. Oggi l’ideologia sacrificale appare nei tanti assassinii commessi in nome di Dio nelle guerre dichiarate e in quelli striscianti. I loro artefici, i belligeranti, al pari degli artefici di violenza, vogliono – dice don Tonino testualmente -«coinvolgere Dio nelle loro operazioni di violenza, quasi per coonestarle» è davvero «uno squallido tentativo degli uomini», perché «far apparire la guerra più santa ancora della stessa vita appartiene alle ideologie più sacrileghe»[38]. La lettera tocca qui uno dei punti più delicati della profezia: la denuncia della stessa religione costituita, quando questa tradisce il suo spirito di fondo e la natura amorevole di Dio che la genera. Qualcosa di ciò che Gesù rimproverava con veemenza ai farisei, per lo più uomini perbene, scrupolosi osservanti della legge di Dio, e ai dottori della torah, gli scribi. La loro colpa non è la pratica religiosa, ma averne pervertito la natura e l’indirizzo, l’amore di Dio verso gli uomini, la sua misericordia e la sua volontà di giustizia per gli oppressi: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà» (Mt 23,23).

 Con ciò tocchiamo anche un altro aspetto: il superamento della cultura della guerra per una effettiva cultura della pace. Nelle opere di don Tonino la condanna della guerra è netta, nonostante le polemiche al tempo della guerra all’Iraq e nonostante la richiesta, da parte di molti, dell’intervento militare nell’Ex Jugoslavia. A chi accusava i pacifisti di incoerenza e di inettitudine (e tra gli accusatori si leggono nomi come quelli di Bettiza, Veltroni, Mafai, ecc.), don Tonino rispondeva dicendo che la guerra non è mai un atto di coraggio. Revocando il rito mafioso dell’assassinio come battesimo dell’«uomo d’onore», egli dimostrava che non la pratica della violenza, ma quella della costruzione della pace, costituisce autentico motivo di coraggio. Il rifiuto della guerra è simile al rifiuto dell’iniziazione mafiosa, ma ciò non significa indifferenza da parte dei pacifisti verso le vittime delle ingiustizie. Difendendo la loro azione anche ai tempi di quell’interventismo, don Tonino dice che essi non si sono vigliaccamente tirati indietro. A chi chiede dove adesso siano, risponde che essi sono da cercare nei luoghi della formazione e dell’impegno, in un agire non protagonistico e piazzaiolo, ma in un modo diverso di intendere la vita, i rapporti, il valore del denaro (che è uno dei motori sempre più potenti e attuali di ogni guerra). Insomma sono «là dove si svelano le intime connessioni tra i signori della guerra, élites di potere e faccendieri della grande finanza, che già stringono tra loro lucrosi patti sui nuovi confini»[39].

  3) Verso una cultura di pace come anticipazione storica della profezia

Siamo così arrivati all’ultimo punto, quello che congiunge la cultura della pace con l’anticipazione profetica. In sintesi si può affermare che profezia è contemplare seppure da lontano un futuro anticipato, ma non ancora raggiunto. Come Mosè, che dal monte Nebo, può solo scorgere la sospirata terra promessa. Un passaggio toccante di una Lettera a Mosè avvicina a lui la sorte dei profeti, una sorte che don Tonino giunge ad augurarsi:

«Numero degli anni a parte, mi piacerebbe proprio un tramonto come il tuo. Lontano dalle luci della ribalta. Col cuore ancora gonfio di passione per la vita. Con gli occhi fiammeggianti nel riverbero di cento ideali. E col dito puntato verso la terra dei miei sogni»[40].

Nella figura di Mose brilla la sorte di una profezia che, consapevole del suo limite umano dell’oggi, consegna ad altri la fiaccola della speranza. Il testo poco più avanti così prosegue:

«Forse avrai già capito il motivo per il quale ti ho scritto: per recuperare, nella lettura dei tuoi comportamenti, lo stile che deve caratterizzare la nostra speranza. Tu sei, infatti, l’icona di tutti coloro che non entreranno mai nelle terre promesse che hanno additato agli altri come a portata di mano. Sei il simbolo, cioè di tutti i profeti dalla carriera stroncata»[41].

Ma a questo punto occorre chiedersi: «C’è ancora profezia nel mondo? Sono ancora tanti i profeti?». La domanda deve essersi affacciata anche davanti alla coscienza di don Tonino. Se egli spesso ha intravisto e salutato con entusiasmo quanti si adoperano per la pace e per migliorare le sorti dell’uomo non ha, tuttavia, nascosto che la capacità di stupirsi oggi è minacciata da una pervasiva incapacità di sognare, di immaginare il nuovo l’inedito. La meraviglia infatti è non solo «la base dell’adorazione», come ha scritto qualcuno, ma anche la capacità di aprire la propria vita a una trascendenza, e a sfondare il soffitto della propria stanza, per cogliere il cielo[42].

Quando tale capacità di cultura nuova viene offuscata, non c’è che un rimedio: ritornare alla carità, o meglio farsi trascinare da essa. Abbandonarsi a quella corrente della carità che non è la semplice elemosina, ma è l’entrare in sintonia con l’umanità del povero, con la sua sacramentalità. Il contatto con lui porta il cielo nella propria stanza, cioè nella propria esistenza. In questo modo la profezia tocca la sua risorsa più segreta e più profonda, tocca la santità. La santità non è una risorsa ulteriore, ma il fondamento stesso delle risorse. Occorre pertanto vincere ogni tristezza, coscienti che la mancanza di santità è la ragione per cui ci si tedia e ci si incupisce, ci si deprime e si dubita. Stati d’animo allora da colpevolizzare? Tutt’altro. Possono essere cassa di risonanza di tanta sofferenza e di tanto dubbio, di sconfitte senza fine, infatti

«Se il nostro cuore di credenti è destinato a essere il luogo dove si riverberano le tristezze della terra, per neutralizzarne il carico, dobbiamo assoggettarci a una terapia intensiva di santità. È l’unico segreto perché, come per la donna partoriente di cui parla il Vangelo, la nostra tristezza si cambi in gioia e la nostra gioia sia piena»[43].

Grazie alla santità che rende solidali con i più sofferenti, il parlare innanzi della profezia è in definitiva non solo parlare davanti, ma è anche parlare innanzi un parlare prima che. È parlare davanti ai potenti e ai tiranni, davanti ai belligeranti e a coloro che considerano i diversi come nemici; davanti a coloro che non vedono altra risorsa per risolvere i conflitti che quella della clava e del bombardiere. È però anche un parlare prima che le cose succedano. Non come chiaroveggenza, ma come anticipazione prolettica di quel Regno di Dio che è già all’opera nel mondo grazie alla risurrezione di Gesù.

È quel mondo che comincia con ciò che, al pari della nonviolenza viene chiamata non più utopia, ma «eutopia», cioè luogo bello e realizzabile, che si ottiene assecondando l’opera di Dio attraverso l’intervento dell’uomo. L’anticipazione prolettica della profezia partecipa alla costruzione della pasqua ed è una nuova genesi, mentre la guerra non è che antipasqua e antigenesi. Insomma la pace è quella «vera realtà salvante» che la profezia non solo anticipa nel sogno, ma inizia a indicare e realizzare nella realtà quotidiana[44].

Collegata con l’irruzione del regno di Dio sulla terra, la pace anticipata dalla profezia non può non stare a cuore alla Chiesa. Ma ciò ha come conseguenza che proprio questa deve diventare più audace, essendo essa composta da «cercatori d’infinito» che, avendo contemplato il Cristo trasfigurato, proprio per questo sono «costruttori di storia»[45]. Lo stesso grande sogno che è nel cuore è di don Tonino è di una chiesa veramente audace in questa materia, come appariva già in Mosaico di pace, la rivista della Pax Christi Italiana[46].

Tale audacia non è temerarietà gratuita, ma legame con la profezia messianica, quella irrinunciabile del popolo di Dio in quanto popolo messianico, come è scritto nel Vaticano II. Anche la Chiesa deve operare, al pari dei grandi profeti, la saldatura tra messianismo di pace e profezia. Così come fu di Isaia, che riveste nel magistero di don Tonino un ruolo tutto particolare. Il Vescovo di Molfetta lo aveva indicato come il profeta tutto da scoprire nella messa crismale del giovedì santo del 1986, dicendo che occorre «tornare alla scuola di questo grande profeta, del cui messaggio sgronda oggi la messa crismale». Aggiungeva che in quanto comunità cristiana «noi non lo conosciamo abbastanza. Andiamo alla ricerca di architetti sofisticati. Il suo annuncio di pace messianica, dono dello Spirito, non lo apprezziamo per quanto merita»[47].

Essere consacrati in Cristo con l’unzione profetica del Messia, significa ricollegarsi a quella profezia della pace. È il pensiero che percorre il resto dell’omelia della messa crismale già citata, dedicata all’unzione, in quanto partecipazione sacramentale all’unzione di quel Cristo che in ebraico si esprime con la parola Messia. Ecco da dove nasce la saldatura tra vita cristiana e impegno profetico per la pace:

«se la pace è l’insieme dei beni messianici, e noi oggi ci riconosciamo solennemente avanti all’altare come un popolo di “messia” … dobbiamo fare della pace il nostro annuncio fondamentale … non l’appendice del nostro impegno cristiano»[48].

Detto con più chiarezza:

 «la pace non è un problema etico, è un problema di fede. Perché, più che il nostro agire, tocca il nostro essere di persone “conformate a Cristo” in profondità …con l’unzione dell’Olio che penetra e consacra radicalmente[49].

Ne deriva che la profezia della pace è il compito precipuo della comunità cristiana e ciò non in forza di un’urgenza pastorale, ma per quel legame al Messia che rende messianico lo stesso popolo di Dio. Non è un pensiero occasionale, visto che il legame tra la pace e la profezia come anticipazione iniziata, e non solo come prefigurazione del mondo messianico, ricorre in molti testi. È presente in quella sua espressione tipica dell’adunanza domenicale, come anticipazione e inizio di ciò che dovrà venire nella sua completezza. Infatti proprio la domenica diventa per i cristiani il giorno in cui si sogna ad occhi aperti e si agisce di conseguenza, in vista dei grandi ideali messianici che si chiamano con i termini sempre nuovi e sempre antichi della pace, della giustizia, della fraternità, della libertà. Come abbiamo già visto, don Tonino non è però astratto o generico. Dall’anno del suo ingresso attivo nella Pax Christi Italiana (il 1985, l’anno della sua cosiddetta “svolta irenologica”)[50], le intramontabili parole citate, quali la pace, la giustizia, la fraternità e simili sono collegate a scelte storiche concrete: passano attraverso il disarmo, la nonviolenza, le diverse forme di obiezione di coscienza, la scelta dell’essenzialità come stile e come concretezza della sequela del Signore. La domenica è l’occasione e l’evento sacramentale che scatena la concretizzazione dell’eutopia. Egli scrive:

«È dalla Domenica, “ottavo giorno”, che si deve scatenare in noi l’empito entusiasta per ciò che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile: il disarmo, l’unilateralità del disarmo, la non violenza, il perdono, la pace, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità»[51].

Il popolo di Dio è pertanto un popolo di sacerdoti e di profeti. Ma anche qui non in maniera declamatoria o generica. La comunità cristiana è chiamata a scuotersi dall’omertà e a indignarsi «per i soprusi consumati sui poveri», ad abituarsi all’idea che lo Spirito Santo parla anche al di là dei «microfoni delle nostre Chiese», esprimendosi «nelle lacrime dei maomettani e nelle verità dei buddisti, negli amori degli indù e nel sorriso degli idolatri, nelle parole buone dei pagani e nella rettitudine degli atei»[52].

Come abbiamo già accennato, un altro dei grandi temi teologici generatori, dai quali muove il raccordo tra profezia e pace, è il grande tema della pasqua, che compare variamente legato ai temi del Risorto, della risurrezione, dei nuovi cieli e della nuova terra, dell’aurora e delle stesse sentinelle del mattino che anticipano l’aurora. Don Tonino non esita a delineare la pace come impegno e «progetto politico» dell’intera Chiesa, dal giorno della pasqua in poi:

«Chiesa di Dio, dal giorno della Pasqua, questo è dunque il tuo progetto politico. Questa la tua linea diplomatica. Questo il tuo indirizzo amministrativo. La pace. Non la tua sistemazione “pacifica”. Non il plauso dei potenti, che sarebbero disposti a pagare la metà del prezzo ricavato dalla vendita delle armi pur di comprare i tuoi silenzi sulla guerra. La pace non il consenso della gente, che è sempre disposta a barattare la libertà con le cipolle d’Egitto».

Per concludere:

«Non ti scoraggiare, Chiesa di Dio, anche se il compito a casa che ti ha assegnato il Risorto la sera di Pasqua è difficile, richiede una carica eccezionale di speranza, e ti espone costantemente al rischio di essere giudicata ingenua, visionaria o sognatrice a occhi aperti» [53].

Da dove può, infine, la Chiesa continuare ad attingere la forza di credere e di anticipare la pace? Da ciò che è chiamato il «fondo di quella riserva escatologica» che è continuamente dato dal Risorto. È lui l’artefice della pace e l’artefice del futuro dell’umanità, il cui rinnovamento ha ricevuto il suo impulso propulsore dal giorno di quella Pasqua. La stessa Pasqua che ora don Tonino vive accanto a quel Cristo, che lo ha unto con speciale abbondanza, e che ha unto ogni cristiano e l’intero suo popolo perché attesti la credibilità e la fattibilità dell’intramontabile profezia di Isaia.



[1] A questo riguardo, è da segnalare l’ultima parte del libro,intitolata appunto «Uno sguardo in biblioteca» di A. D’elia, E liberaci dalla rassegnazione. La teologia della pace in don Tonino Bello, La Meridiana, Molfetta (BA) 2000, 89-116.

[2] Cf. «Messaggio ai Molfettesi di Port-Pirie», in Scritti, 1,73.

[3] Cf. Scritti, 1/107.

[4] Scritti, 3/241.

[5] Scritti, 3/242.

[6] Scritti, 1/132; 145.

[7] Scritti, 3/242, con riferimento alla Gudium et spes n. 1.

[8] Progetto pastorale «insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi» (Scritti, 1/141).

[9] Scritti, 1/151.

[10] Scritti, 1/155.

[11] Scritti, 1/158.

[12] Cf. Scritti, 1/184.

[13] Scritti, 1/217.

[14] Scritti, 1/218.

[15] Scritti, 1/243.

[16] Cf. Scritti, 1/251; 281; 255.

[17] Scritti, 2/135.

[18] Scritti, 2/270ss.

[19] Scritti, 3/73.

[20] Ivi.

[21] Cf. Scritti, 2/336-337.

[22] Scritti, 2/399.

[23] Scritti, 2/275.

[24] 2/276.

[25] Scritti, 4/274ss.

[26] Scritti, 4/277. Il contributo cui ci riferiamo è stato anche pubblicato in Chiesa e lotta alla mafia.

[27] Scritti, 4/278.

[28] Scritti, 4/280.

[29] Ivi.

[30] Scritti, 3/51-65.

[31] Scritti, 3/62.

[32] Rispettivamente: Scritti, 3/102ss, 3/99ss, 3/76ss.

[33] 3/125ss.

[34] Scritti, 3/126.

[35] Scritti, 3,126-127.

[36] Scritti, 3/127.

[37] Per l’episodio, senz’altro uno dei più inquietanti della Bibbia, cf. Gdc 11,29-40.

[38] Scritti, 4/306.

[39] Scritti, 4/315; cf. anche «Pacifisti dove siete?» [4/331ss.] e «E poi non si dica dove sono i pacifisti» [4/337].

[40] Scritti, 4/282.

[41] Scritti, 4/283.

[42] Cf. Scritti, 3/179-180; 3/225-227.

[43] Scritti, 3/236.

[44] Scritti, 4,/237.

[45] Scritti, 2/183-184.

[46] «I have the dream!», in Mosaico di pace 3 (1992/7-8) 5.

[47] Scritti, 1/39.

[48] Scritti, 1/40.

[49] Scritti, ivi.

[50] Cf. A. D’elia, E liberaci dalla rassegnazione… cit., 42.

[51] Scritti 1/302.

[52] Scritti, 1/74.

[53] Scritti, 1/324.