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Giovanni Mazzillo

Intervento alla presentazione del suo libro L’uomo sulle tracce di Dio, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005

Due domande preliminari e interdipendenti, una più facile, l'altra più difficile:

1) Perché un libro sulle religioni? 2) Perché le religioni, espressioni di una più generica religione?

Per la prima domanda ci sono state e ci sono numerose risposte: a) è innegabile e oggi non più contestato  da nessuno (nemmeno dai cosiddetti a-tei o agnostici) il valore culturale, antropologico, storico e psicologico delle religioni. Anche la psicoanalisi, che ai suoi esordi francesi e freudiani, la snobbava fino a ridurla a pura nevrosi,  oggi sembra ammettere il contrario: “gli dei morti sono diventati nevrosi”.   

Le ricerche storiche, antropologiche ed etnologiche hanno dimostrato che praticamente non si è trovato alcun popolo privo di qualche forma religiosa. Si pensava che la religione se non fosse proprio frutto di un disturbo psichico derivasse soltanto da un condizionamento sociale. Innanzi tutto dalla miseria e dall’oppressione. Karl Marx  in alcuni suoi scritti giovanili, prima di annoverare la  religione tra le sovrastrutture (come ne Il Capitale) diceva che essa è

«il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, cosi come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo»[1].

Sicché «L'uomo fa la religione e non la religione l'uomo. Infatti la religione è la coscienza di sé, dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso (...) La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale»[2].

L’espressione allora ancora di un cuore in un mondo senza cuore, espressione della miseria e protesta contro di essa…

Ma per non continuare in una serie di citazioni che troverete abbondantemente documentate nel libro, l’importanza dello conoscenza  della religione e delle forme nelle quali essa si esprime, le religioni appunto, appare nella nostra variegata società moderna ad ogni angolo di strada, è presente nelle nostre stesse famiglie, nelle scuole, in tutti i luoghi tutti dove l’incontro con il “diverso” passa sempre attraverso le “diverse” religioni, diverse dalla propria e diverse, perché molteplici. Che dire ancora dei fenomeni tristemente famosi e per la maggior parte dei credenti blasfeme, delle forme violente e fondamentalistiche di alcune religioni? Quelle che provocano strage su strage, giorno dopo giorno, notte dopo notte da una parte, e prese di posizioni di guerra preventiva di misure repressive, di altra violenza gratuita e talvolta collegata a un fondamentalismo cristiano, che se di cristiano ha ben poco, di Cristo non ha assolutamente nulla, anzi ne è la negazione pratica? In ogni caso conoscere queste cose è importante e più importante è saper discernere la religione dalle sue patologie, dalle sue follie, dai suoi tradimenti di Dio e degli uomini.

Tutto ciò solo per la prima domanda: perché un libro sulle religioni, anzi di “Introduzione allo studio delle religioni”.

La seconda domanda sul perché della religione è molto, molto più complessa, ma è il cuore stesso e il motore segreto del libro. Partiamo da un’affermazione che può sembrare paradossale, ma risente di quella nostra stessa paradossalità della vita, quella di ciascuno di noi, oltre che di ciascun popolo: la religione risponde al bisogno di  attraversare il nulla senza restarne annullati. L’espressione è mia solo nella formulazione. In realtà la vita stessa umana, cioè quella vita giunta al livello dell’autocoscienza, solleva da sé e da sola, la domanda   del perché essa, vita che pulsa e che è calda, che sente e respira, che ama di un amore incontenibile, si trovi sempre in bilico sul nulla. Un nulla che non è solo fuori di sé, ma che sembra coltivare in se stessa come incubo e come realtà solo differita nel tempo: anni forse, chissà?  Mesi? Giorni?  

Sì, era stato detto che avvertire tale tensione è  già indice di nevrosi, ma oggi non si può più dirlo. Perché? Perché nevrotici sarebbero tutti i poeti, gli artisti, gli innamorati, le persone sensibili e anche quelle meno sensibili. Perché tutti avvertono la violenza dello stacco tra vita e morte,  la ferita lancinante della partenza di chi si ama, la mancanza incolmabile di chi ci ha definitivamente lasciati. Il nulla ci assedia e ci abita, ci insidia e ci ferisce, anche quando ancora non ci ingoia. Ad assediarci, come “un vecchio rimorso” o “un vizio assurdo” è l’idea stessa che prima o dopo “scenderemo nel gorgo muti”, come troviamo scritto in quello sfortunato e sensibile poeta che era Cesare Pavese.

Tutti nevrotici allora? Non lo credo affatto. Certamente non potrò esporre qui adeguatamente il perché, ma dirò solo che oltre il nulla, qualcosa o Qualcuno c’è che lo ha vinto e continuamente lo vince. O se volete, lo ha attraversato e continuamente lo attraversa. 

C’è allora l’Oltre il nulla solo perché è un nostro bisogno? C’è solo perché non ci rassegniamo a finirvi dentro? Se fosse così, il problema sarebbe risolto: l’uomo inconsolato ed inconsolabile si inventa una consolazione ultra-terrena…

Ma non è così semplice, perché c’è un'altra domanda alla quale la ragione è sollecitata a rispondere ed è la seguente: «Ma perché dobbiamo avvertire questo ulteriore bisogno?». Insomma perché desiderare il riso, quando si ha già pane in abbondanza? E da dove nasce il desiderio del pane e del riso? Nasce ovviamente dal fatto che siamo costituiti anche di zuccheri, di minerali, e di quant’altro e sia il pane sia il riso con il loro amido e le loro sostanze vengono a integrare ciò che vivendo ci viene a mancare. Così non abbiamo bisogno di titanio, salvo qualche protesi interna per le ossa fratturate, perché  non siamo fatti di titanio, ma abbiamo bisogno di acqua, di zuccheri, di grassi, di proteine e vitamine, perché proprio questi costituiscono il nostro organismo.   Parimenti abbiamo bisogno di Infinito e di attraversare il nulla, perché non veniamo dal nulla, ma da un Infinito e questo ci ha non solo plasmato un giorno, ma plasma e riplasma ogni nostro moto dell’anima; intesse ogni nostro autentico rapporto d’amicizia e d’amore,  resta lo sfondo duraturo di ogni nostra ricerca…

Una ricerca appunto,  e anche questo libro non vuole essere altro che questo: una ricerca sulle tracce di quell’Assoluto dal quale non possiamo prescindere, perché se tanto ci attira, vuol dire che tanto anche ci apparenta e ci appartiene. O meglio: tanto gli apparteniamo.

 


 

[1] K. Marx, “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”, in Id., La questione ebraica ed altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1974, 91-92.

[2] Ivi, cf. anche: F. Ferrarotti, Una teologia per atei, Laterza, Bari 1983, sottolineature nell'originale.