Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

«Il popolo di Dio come realtà itinerante». Articolo pubblicato in Presenza del Carmelo (1989/1) 11-17

Possiamo prendere l’avvio per questa capitolo dal documento del Convegno ecclesiale di Loreto, del 1985. In maniera descrittiva viene abbozzato ciò che qui svilupperemo tematicamente: «Siamo convenuti (...) come pellegrini di Chiesa, da sempre chiamati a seguire Cristo Gesù e a vivere di Lui, crocifisso, risorto e vivo per riconciliare pienamente gli uomini con se stessi, tra di loro e con Dio»[1].

Sono da sottolineare innanzi tutto le espressioni: "siamo convenuti" e "pellegrini di Chiesa", che evidenziano la natura convocativa e peregrinante di una realtà ecclesiale, che non può che essere quella del popolo di Dio, come ci ricorda anche la Relazione finale del Sinodo dello stesso anno. Qui troviamo l’aggancio tra il carattere "misterico" e il carattere storico della stessa Chiesa: «Il Concilio ha descritto in diversi modi la Chiesa come popolo di Dio, corpo di Cristo, sposa di Cristo, tempio dello Spirito santo, famiglia di dio. Queste descrizioni della Chiesa si completano a vicenda e devono essere comprese alla luce del mistero di Cristo o della Chiesa in Cristo. Non possiamo sostituire una falsa visione unilaterale della Chiesa come puramente gerarchica con una nuova concezione sociologica anch’essa unilaterale. Gesù Cristo è sempre presente nella sua Chiesa ed in essa vive come risorto. Dalla connessione della Chiesa con Cristo si comprende chiaramente l’indole escatologica della stessa Chiesa (cfr. LG 7). In questo modo la Chiesa pellegrinante sulla terra è popolo messianico (cfr. LG 9) che già anticipa in sé la nuova creatura»[2].

Il mistero della Chiesa è dunque congiunto con la sua fisionomia storico-escatologica di popolo di Dio. La Lumen Gentium, che i testi citati riprendono, parla espressamente della realtà del popolo di Dio nel cap. II (De populo Dei) e della sua indole escatologica nel cap. VII (De indole eschatologica ecclesiae peregrinantis eiusque unione cum eccclesia coelesti), mentre questi documenti ribadiscono l’interconnessione storico- misterica della Chiesa, per sottrarla ad ermeneutiche parziali di tipo sociologico e al fine di confermare la validità e l’attualità dell’espressione popolo di Dio, così determinante nella riflesione dogmatica conciliare.

Si tratta di un popolo di Dio con caratteristiche teologiche precise, che se lo distinguono da quello vetero-testamentario, nondimeno ad esso lo congiungono, disegnandone una fisionomia globale che include in genere uomini e popoli che agiscono nella storia. Si tratta di uomini che vivono vicissitudini sociali ed esistenziali, nella fitta rete di complessi rapporti interrelazionali, e che la Chiesa conciliare prende sul serio, con quella sua propensione alla solidale attenzione e alla cura pastorale. Sa infatti che l 'uomo nasce, soffre, agisce e muore in questo tessuto interumano, dal quale il popolo di Dio non è alieno perché è costituito da esso, incarnato com’è nella storia e nella società.

La Lumen Gentium, considera dapprima l’aspetto misterico della Chiesa, per il quale questa è unita a Cristo come sua origine e culmine, come capo e primizia. Ma dedica ben presto la sua attenzione al suo aspetto storico-sociale, una dimensione non solo da non separare da quella escatologica, ma addirittura così inestricabilmente legata a questa, da non poter essere comprensibile se non in un comune contesto che lega la storicità all’escatologia, l’ecclesialità alla socialità.

Per focalizzare questo ganglio di convergenze, varrà la pena vedere più da vicino l’importanza teologica del cap. II della Costituzione dogmatica Lumen Gentium, i tratti fondamentali del popolo di Dio e cosa significhi essere pellegrini di Chiesa.

L’importanza teologica del popolo di Dio nel Vaticano II

Tutti i commentatori del Concilio ecumenico vaticano II mettono in risalto che alcune vicende riguardanti la cronistoria del cap. II della Lumen gentium non sono curiosità aneddotiche, ma chiari segnali di differenti impostazioni teologiche. Il primo schema sulla Chiesa, discusso in aula ai primi di dicembre del 1962, Aeterni Unigeniti Patris comprendeva 11 capitoli, dei quali il primo portava il titolo "Natura della Chiesa militante"; il II: "I membri della Chiesa militante e sua necessità per la salvezza"; il III: "L’episcopato come supremo grado del sacramento dell’ordine e il sacerdozio"; il IV: "I vescovi residenziali"; il V: "Gli stati per acquistare la perfezione evangelica"; il VI: "I laici". Seguivano i capitoli sul magistero (VII); autorità ed obbedienza nella Chiesa (VIII); rapporti tra Chiesa e stato (IX); il dovere della Chiesa di annunciare a tutti e dovunque il vangelo (X); l’ecumenismo (XI). Insieme a questo schema era stato distribuito a parte quello riguardante la Vergine Maria.

Come si noterà, l’impianto generale e l’ordine progressivo dei capitoli non mostra nessuna novità di prospettiva teologica, rispetto all’ecclesiologia dei manuali dell’epoca. Piuttosto mostra la preoccupazione di arrivare al più presto a chiarimenti su punti di vita ecclesiale interna all’epoca scottanti, quali la sacramentalità dell’episcopato, la residenzialità dei vescovi, la necessità dell’obbedienza, il valore e il ruolo del sacerdozio, della vita consacrata, dei laici; e, per ciò che riguardava i rapporti ecclesiali esterni, si volevano chiarire quello relativo allo stato, agli acattolici e in genere ai non convertiti.

Ma questo schema fu respinto perché, si disse, mostrava solo l’aspetto giuridico e non dogmatico-mistico della Chiesa. Qualcuno accusò esplicitamente il documento di clericalismo, mentre per bocca del vescovo argentino Mons. Devoto fu rivolto l’appello ad una rivalutazione chiara di tutto il popolo di Dio nell’impostazione generale del discorso sulla Chiesa.

Lo schema fu rielaborato e concentrato in quattro capitoli, riprendendo in certa misura il progetto del teologo di Lovanio G: Philips. Il I capitolo trattava iI mistero della Chiesa; il II: la struttura gerarchica della Chiesa e in particolare l’episcopato; il III: il popolo di Dio e specialmente i laici; il IV: la vocazione alla santità della Chiesa. Titolo del nuovo schema era già "Lumen Gentium cum sit Christus", cioè "essendo Cristo luce delle genti".

Il dibattito in aula conciliare chiarì che per popolo diu Dio s’intende tutta la Chiesa, inclusa la gerarchia, per cui il III capitolo sul popolo di Dio, divenne il II, mentre quello relativo alla gerarchia diventò il III. Al IV capitolo si collocò il discorso sui laici; al V: l’universale vocazione alla santità; al VI: la vita religiosa; al VII: l’indole escatologica della Chiesa; all’VIII: la Beata Vergine Maria.

Tutta la costituzione fu infine votata e approvata il 19 Novembre 1964, con l’aggiunta della "Nota explicativa praevia", in riferimento al cap. III, sulla collegialità, per le riserve, sollevate in merito, nello stesso dibattito.

L’importanza teologica del popolo di Dio per la coscienza ecclesiale si può comprendere già da questa breve cronistoria del testo e, in particolare, dell’attuale capitolo II. Era in gioco la definizione stessa del popolo di Dio e la sua estensione. Il Concilio accettava e faceva sua la dizione popolo di Dio, estrapolandola dalla serie delle immagini blibliche atte a descrivere la Chiesa, e attribuendogli uno spessore storico- salvifico e storico-sociale, che vanno al di là della metafora, perché connotano dimensioni reali della stessa Chiesa.

Andava al di là dell’accezione puramente liturgica, che tuttavia è rimasta o è stata ripresa nei testi liturgici successivi, che indicava il "popolo di Dio" con ciò che resta dopo la menzione del Papa, dei Vescovi, e, in alcuni canoni più recenti, dei Presbiteri e Diaconi. Il popolo di Dio, al contrario, non è per il Concilio, un’entità sociologica (la base) o liturgica (i laici e religiosi non ministri). Esso supera radicalmente la denominazione, che tradisce poi una concezione ancora legale e giuridica e che da Tertulliano in poi era invalsa nella storia della Chiesa, indicante nella "plebs" o nella "turba fidelium" (plebe o folla dei fedeli) i non consacrati con un ministero ordinato.

Superando tale uso linguistico (che del resto troviamo in altri concili, come ad esempio, quello Vaticano I) il Concilio Vaticano II, attinge direttamente all’espressione greca, che prima della riduzione operata di Tertulliano e di altri latini, aveva parlato di "laòs toù theoù", cioè di popolo di Dio come realtà convocata dalla parola di Dio, alla stessa stregua del "qeal Javhé", del popolo convocato, dei testi veterotestamentari.

Popolo di Dio indica quindi tutta la Chiesa e non una porzione di essa. E’all’interno di questo che si distinguono diversi ordini e ministeri e non è la non ministerialità ordinata a costituire il popolo di Dio.

La valenza che il termine viene ad assumere è, per questa ragione, storico-salvifica. Si tratta di una Chiesa riscoperta come popolo messianico in Cristo. Il testo conciliare è chiaro: "Come già Israele secondo la carne, peregrinante nel deserto, viene chiamata Chiesa di Dio (2Esd. 13,1; Cfr. Num. 20,4; Dt. 23,1ss), così il nuovo Israele dell’era presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente (cfr. Eb.13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt.16,18), avendola Egli acquistata con il suo sangue (cfr. At.20,28), riempita del suo Spirito e fornita dei mezzi adatti per l’unione visibile e sociale" (LG 9).

I tratti fondamentali del popolo di Dio

Il numero 9 della Lumen Gentium presenta pertanto il popolo di Dio come popolo messianico, il quale supera il criterio della razza, essendo esteso a tutti i popoli e si configura come dinamicamente proteso a raccogliere tutta l’umanità. La sua provenienza è da cercare nel mistero salvifico di Cristo, perché va oltre la storia ebraica e abbraccia i pagani convertiti.

Tale estensibilità del popolo di Dio a tutte le genti si riferisce alle sue origini, cioè al passato e al futuro, perché, in quanto popolo messianico", "pur apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità di speranza e di salvezza" (LG 9).

I numeri 10-12 della Lumen Gentium trattano la dimensione sacerdotale del popolo di Dio, approfondendo quanto anticipato al numero precedente che affermava che tutti i battezzati "sono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo". Il popolo messianico è pertanto popolo sacerdotale perché offre il servizio della lode, della testimonianza e della profezia. Per questa ragione viene anche ripreso un dato della tradizione sul "senso di fede" del popolo di Dio, il cui valore teologico è ribadito, accanto a quello magisteriale (LG 12), grazie anche alla giustificazione precedente che asseriva che i sacramenti diventano abbondanti in tutti i credenti (LG 11). E’ in questo stesso contesto che si parla della famiglia come "Chiesa domestica", che vive ed attua il carattere sacerdotale riconosciuto a tutta la Chiesa nel suo insieme.

Il popolo di Dio appare ancora come popolo unico ed universale nei umeri 13-15. Ad esso sono riferiti tutti i popoli della terra, con un diverso grado di appartenenza, che è rapportato al modo di vivere le realtà divine, i cui germi sono comunque presenti in ogni uomo. "Tutti i popoli -si afferma- sono chiamati a formare il nuovo popolo di Dio. Perciò questo popolo, restando uno ed unico si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli che erano dispersi" (LG 13). L’unica cattolicità significa questa universalità che non conosce limiti né frontiere. Ad essa "in vario modo appartengono o sono ordinati -precisa il testo- sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia, infine, tutti gli uomini, dalla grazia di Dio chiamati alla salvezza" (ivi).

Coerentemente con quanto asserito, i numeri successivi considerano i fedeli cattolici "incorporati pienamente nella società della Chiesa" (LG 14), i non cattolici come coloro con i quali "la Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta" (LG 15); i non cristiani come "quelli che non hanno ancora ricevuto il vangelo" e che tuttavia sono in vari modi "ordinati" al popolo di Dio (LG 16).

Ritornano in questa descrizione concentrica i cerchi di appartenenza che sono anche nella Ecclesiam suam di Paolo VI, del 6.8.1964, dove in un contesto di dialogo come non estraneità, ma comunanza si abbraccia ogni uomo (ed. Dehoniane 201); i credenti in Dio, in genere (ivi, 205); gli acattolici (ivi, 206). Il cerchio più interno comprende infine, secondo Paolo VI, il dialogo nella stessa Chiesa cattolica, in cui l’obbedienza deve essere accompagnata costantemente dalla carità (ivi, 209).

L’appartenenza per gradi alla realtà del popolo di Dio non esclude certamente dall’obbligo missionario dell’evangelizzazione. Lo ricorda la costituzione della Lumen Gentium, che ne allarga però la veduta e l’estensione, parlando di obbligo missionario di tutta la Chiesa e della accoglienza dei fattori positivi presenti nelle altre religioni, sicché la Chiesa "procura che quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato" (LG 17).

Essere pellegrini di Chiesa

I caratteri teologici del popolo di Dio ruotano intorno alla sua dimensione peregrinante . Esso è popolo di pellegrini, perché vive tra due fatti storici: la risurrezione di Gesù ed il suo ritorno, la vittoria sulla morte e la sua parusia, in uno stato di itinerazione continua che si protende verso tutto ciò che è umano e verso tutti i popoli. Il popolo di Dio "porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rom. 8,19-22)" (LG 48).

Il capitolo VII parla della Chiesa dei discepoli pellegrini (LG 49) e della Chiesa dei viatori (LG 50), che è in comunione con i santi, cioè con "coloro che hanno seguito fedelmente Cristo", dai quali "ci sentiamo spinti a ricercare la città futura" (LG 50). L’essere sulla via significa - come dice il cap. V - che i cristiani "obbedienti alla voce del Padre e adoranti in spirito e verità Dio Padre, seguono Cristo povero, umile e carico della croce per meritare di essere partecipi della sua gloria" (LG 41).

Il popolo di Dio raccoglie tali pellegrini, che sulle tracce di Cristo, mentre rafforzano la coesione tra loro nello stesso Spirito, sono testimoni di una grazia e di una ricchezza che non viene da loro e che pertanto non possono gelosamente custodire per s], ma devono continuamente offrire ai loro fratelli. Proprio attraverso questo fermento della realtà, secondo l’esempio di Gesù, il popolo di Dio si esplicita sempre più.

Nell’eucaristia questo popolo si ritrova convocato in Cristo, sicché "prega insieme e lavora, affinché l’intera pienezza del cosmo si trasformi in popolo di Dio, Corpo di Cristo e tempio dello Spirito santo" (LG 17).

 



[1] Nota Pastorale "La Chiesa in Italia dopo Loreto", n.2.

[2] La lunga citazione è tratta dalla II parte, n.3, della Relazione conclusiva pubblicata da "Avvenire", il 10.12.1985; il titolo suona Mistero della Chiesa.