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XV corso di aggiornamento – Roma 28/30 dicembre 2004-12-28

Ermeneutica e recezione di L.G.

Quaestiones dispustatae

G. Mazzillo “Chiesa come popolo di Dio o chiesa come comunione”? Roma 29-12-04

Premessa: Una questio vera o fittizia?

Di fronte alla domanda, così come essa è posta, la prima reazione è appunto questa controdomanda: Si tratta di una questio vera oppure è fittizia? Ciò in un duplice senso, vale a dire: 1) tale questio è realmente disputata? 2) e ammesso che lo sia, è davvero una quaestio? Si vuol dire: è una questione ecclesiologicamente e teologicamente rilevante? Oppure è una questione oggi di fatto ecclesialmente irrilevante, perché caduta in una sorta di disinteresse, se non di oblio più o meno calcolato e quindi più o meno colpevole? Ai due interrogativi si può cercare di rispondere in diversi modi, a seconda degli ambiti reali investiti dalle domande. Per intenderci, altro è se le domande si pongono sul un piano di indagine più propriamente bibliografico, diventando così questioni ecclesiologiche, altro è se invece esse mirano ad appurare quale impatto concreto abbia la concezione della Chiesa come popolo di Dio oppure come comunione nel vissuto ecclesiale, diventando così immediatamente delle domande di natura ecclesiale. In questa maniera l’ermeneutica e la recezione della LG sono solo apparentemente la stessa cosa, giacché l’ermeneutica sembra impegnare prevalentemente la coscienza ecclesiologica, mentre la recezione riguarda principalmente quella ecclesiale. L’una e l’altra dovrebbero andare di pari passo, ma tutti sappiamo che così non è. Di solito non sempre è un male, anzi sembra piuttosto abituale il fenomeno di una riflessione teologica che in alcuni casi precede la prassi della  chiesa, in altri l’accompagna e la giustifica. Del resto il servizio “pastorale” della teologia è tutto in questa sua peculiarità che è insieme di anticipazione e di sistematizzazione. Tutto ciò vale in molti casi, ma per ciò che riguarda l’argomento in oggetto, diremo con franchezza, che non sembra essere questo il caso. Qui, invece, come cercheremo di dimostrare, per motivi sui quali è bene riflettere, sia l’ecclesiologia sia la prassi ecclesiale non sembrano aver recepito a fondo la questione o perché non hanno compreso la posta in gioco, o, avendola troppo capita, hanno di fatto optato per scelte che in realtà hanno fatto già cadere sia la questio che la disputatio.  Cominciando dalla seconda, parleremo del disamore in cui sembra essere incappata la disputatio in ecclesiologia e di alcuni dei plausibili motivi  che ne sono all’origine, per giustificare invece la piena legittimità teologica dell’ecclesiologia del popolo di Dio, rivisitato come popolo messianico.

1) L’eclissi della locuzione e della teologia del popolo di Dio

Su questo punto specifico e su altri ad esso afferenti partiremo da un nostro saggio comparso il 1995 nella rivista dell’ATI Rassegna di Teologia[1], dal titolo «Popolo di Dio: categoria teologica o metafora?». Domanda per noi ovviamente retorica, perché l’espressione “popolo di Dio” è molto più che una similitudine, dal momento che essa, a dire anche di qualcuno molto più autorevole di noi, visto il suo coinvolgimento diretto in fase di stesura della costituzione conciliare sulla chiesa, cioè di G. Philips, indica l’essenza e non una qualsiasi immagine[2]. Intanto nel citato articolo, passando in rassegna le pubblicazioni in materia di ecclesiologia allora apparsi e facendo riferimento ai documenti ecclesiali di allora potevamo annotare un’innegabile “eclissi della categoria "popolo di Dio”.

È vero che le allora più recenti ecclesiologie, come del resto le attuali, in riferimento al capitolo II della costituzione sulla Chiesa Lumen gentium non trascurano, né sarebbe possibile il contrario, l’argomento “popolo di Dio”[3]. Ma ciò accade quasi solo a commento della trattazione conciliare, perché sorprendentemente tanto negli studi più sistematici (di teologia fondamentale o dogmatica) che nelle pubblicazioni relative all’ecclesiologia del post-Concilio proprio il “popolo di Dio” perde quella rilevanza che merita[4]. Così sosteneva anche Severino Dianich, pur ritenendolo  «uno strumento ermeneutico irrinunciabile in ecclesiologia»[5]. Un giudizio sostanzialmente replicato  nel più recente Trattato sulla Chiesa, da lui pubblicato insieme con Serena Noceti[6].

Riprendendo, a ragione, l’espressione “popolo di Dio” come categoria e non già come immagine o metafora,  l’ecclesiologo indica anche le ragioni della sua perdita di rilevanza. Tra queste riconosciamo anche quelle già indicate nel nostro citato articolo:

«Probabilmente si è alimentata una certa diffidenza verso questa figura [sic, quando invece nel resto della trattazione si dice che si tratta di una categoria, nostra annotazione], sia perché la si è sentita molto vicina a quella sociologica della società, sia perché se ne è temuta la contaminazione con le ideologie nazionaliste, con il populismo e il marxismo».[7] 

Queste ed altre ragioni hanno fatto cadere l’importanza ecclesiologica della categoria  “popolo di Dio”, giustificando il linguaggio conciliare come puro e semplice linguaggio metaforico, sì da accostare questa alle altre locuzioni sulla chiesa e fino a ritenerla, a torto, intercambiabile con esse.

Arrivati a questo punto ci è sembrata molto pertinente la domanda che già G. Colombo si poneva nel 1985:

«… la categoria “popolo di Dio”, “canonizzata” dalla Lumen gentium, da un lato si propone come principio ermeneutico per la comprensione della ecclesiologia post-conciliare; ma, dall’altro lato e proprio per questo si sottopone alla “verifica” dell'ecclesiologia post-conciliare. In ogni caso, l’interrogativo emergente dovrebbe essere questo: che ne è della categoria “popolo di Dio” nel post-Concilio[8].

In un contesto di verifica più complessiva, il Sinodo straordinario dei vescovi convocato nel 1985 per la valutazione dei vent’anni  successivi al Concilio sembra almeno inizialmente ridimensionare quella categoria «canonizzata dalla Lumen gentium». Riprendendo il dettato conciliare sulla Chiesa sotto la dicitura di «diversi modi» complementari di descrivere la sua realtà misterica derivata dalla sua connessione con Cristo, il testo, nella seconda parte, dedicata agli argomenti particolari, tra i quali «il mistero della chiesa», recita:

 «Il concilio ha descritto in diversi modi la Chiesa come “popolo di Dio”, corpo di Cristo, sposa di Cristo, tempio dello Spirito santo, famiglia di Dio. Queste descrizioni della Chiesa si completano a vicenda e devono essere comprese alla luce del mistero di Cristo o della Chiesa in Cristo»[9].

A questo riguardo è da registrare il fatto che se è vero che tali modi di descrivere la chiesa sono ugualmente presenti nei testi conciliari,  l’espressione  popolo di Dio ha ben altra importanza rispetto alle espressioni corpo di Cristo, sposa di Cristo, tempio dello Spirito santo, famiglia di Dio, non fosse altro perché queste ultime, a differenza di “corpo di Cristo”, si trovano accostate in un solo paragrafo, il n. 6 di LG, e rivestono l’importanza di immagini descrittive, vale a dire di metafore.

È un’opinione che si può appoggiare anche a un testo interpretativo autorevole, come quello, sempre del 1985, pubblicato dalla Commissione teologica internazionale, dal titolo Temi scelti di ecclesiologia. La commissione, all’interno della quale era presente anche G. Colombo, parlava del “corpo di Cristo” come un “paragone” seppure fondamentale per cogliere la realtà della chiesa. Precisava tuttavia che l’”immagine”  del popolo di Dio era stata una netta preferenza conciliare:

«Cosi, si converrà facilmente che, senza il ricorso al paragone del “corpo di Cristo” applicato alla comunità dei discepoli di Gesù, è assolutamente impossibile cogliere la realtà della Chiesa. Le lettere di san Paolo, nel loro insieme, sviluppano, infatti, quel paragone in varie direzioni, come nota la stessa Lumen gentium al n. 7. Tuttavia, benché ponga in giusto rilievo l’immagine della Chiesa “corpo di Cristo”, il concilio dà maggior risalto a quella di “popolo di Dio”, non fosse altro che per il fatto che esso dà il titolo al capitolo II della stessa costituzione. Anzi, l’espressione “popolo di Dio”, ha finito per designare l’ecclesiologia conciliare. Difatti, possiamo asserire che si è preferito “popolo di Dio” alle altre espressioni, cui il concilio ricorre per esprimere il medesimo mistero, quali “corpo di Cristo” o “tempio dello Spirito santo”»[10].

Ora, considerando più attentamente la materia, già l’espressione «corpo di Cristo» che compare nel 7 sembra indicare qualcosa di più di un paragone. Essa fa riferimento, è vero, alla metafora del “corpo e delle diverse membra” dell’epistolario paolino, che nella letteratura pagana indicava il rapporto inscindibile tra le diverse componenti della società civile; ma fa riferimento soprattutto all’unità realizzata attraverso la concretezza  del corpo di Cristo del pane eucaristico. Proprio questo legame alla realtà di questo “corpo” dice di più che una metafora, essendo quel corpo, per la nostra fede, realmente il corpo del Signore risorto. A riguardo troviamo scritto:

«Per mezzo della frazione del pane eucaristico diventiamo realmente partecipi del corpo del Signore e siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: “Poiché c'è un solo pane, noi, benché molti, siamo un solo corpo, per il fatto di partecipare all'unico pane” (1Cor 10,17). In tal modo diveniamo membra di quel corpo (cf. 1Cor 12,27) dove “ciascuno per la sua parte è membro di tutti gli altri” (Rm 12,5)»[11].

Il n. 8, precisando la realtà insieme visibile e spirituale della chiesa, la collega non solo alla realtà teandrica di Cristo, ma anche alla particolarità della sua missione e delle sue scelte fatte nell’incarnazione e nell’annuncio del Regno. Puntualizza che la chiesa non può non camminare sulla via di Cristo. Egli infatti

«per noi “si fece povero, da ricco che egli era” (2Cor 8,9); così anche la chiesa, benché per eseguire la sua missione abbia bisogno di risorse umane, non è fatta per cercare la gloria sulla terra, ma per espandere l'umiltà e l'abnegazione anche col suo esempio. Cristo è stato inviato dal Padre “a portare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore ferito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10); similmente la chiesa circonda di amore quanti sono afflitti da infermità umana, anzi nei poveri e nei sofferenti riconosce l'immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne la miseria, e in loro intende servire Cristo»[12].

In questo contesto teologicamente molto ricco si affaccia, già alla fine del numero 8, la realtà della Chiesa come comunità pellegrina e ciò prepara il capitolo successivo, il II, interamente dedicato al popolo di Dio:

«La chiesa “avanza nel suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunciando la croce e la morte del Signore fino a che egli venga (cf. 1Cor 11,26). Dalla potenza del Signore risorto viene fortificata, per poter superare con pazienza e amore le afflizioni e difficoltà tanto interne che esterne, e per svelare fedelmente al mondo il mistero del Signore, anche se sotto l'ombra dei segni, fino al giorno in cui finalmente risplenderà nella pienezza della luce».

 

2) Sostenibilità teologica di un’ecclesiologia del “popolo di Dio” a partire dalla LG

Il nucleo portante dell’ecclesiologia del popolo di Dio è già qui: nella natura peregrinante della chiesa al seguito di Cristo, in un lasso di storia contrassegnato da due momenti ben precisi: l’ascensione del Signore e la sua parusia, nell’annuncio di Lui “sotto l’ombra dei segni”,  dai sacramenti a tutti gli altri indizi della sua presenza e della sua azione nel mondo.

Il capitolo II  della Lumen gentium, “De populo Dei”  si apre con le parole:

«E' gradito a Dio chiunque lo teme e pratica la giustizia, a qualunque tempo e nazione egli appartenga. Tuttavia è piaciuto a Dio di santificare e salvare gli uomini non separatamente e senza alcun legame fra di loro, ma ha voluto costituirli in un popolo che lo riconoscesse nella verità e lo servisse nella santità. Scelse perciò la stirpe di Israele perché fosse il popolo che gli appartiene…»[13].

Ciò vale solo per la prima alleanza, sì da affermare che in essa abbiamo il “popolo di Dio” mentre nella nuova abbiamo la chiesa? No, di certo. Senza alcuna soluzione di continuità si tratta dello stesso popolo che vive fasi diverse della sua storia, sicché  

«...Questa alleanza nuova l'ha istituita Cristo: il nuovo patto nel suo sangue (cf. 1Cor 11,25). Egli chiama gli uomini dai giudei e dai pagani, per formare di essi un'unità che non è più secondo la carne ma nello Spirito, cioè il nuovo popolo di Dio. Infatti coloro che credono in Cristo, i rinati non da seme corruttibile ma da uno incorruttibile che è la parola del Dio vivente (cf. 1Pt 1,23), non dalla carne ma dall'acqua e dallo Spirito Santo (cf. Gv 3,5-6), costituiscono “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato... quelli che un tempo erano non popolo, ora sono il popolo di Dio”» (1Pt 2,9-10)[14].

È questo lo sfondo teologico complessivo sottostante al già citato Sinodo straordinario, che nonostante qualche incertezza di linguaggio, cui facevamo riferimento, precisa successivamente, pur con alcune calibrature, che la chiesa è il popolo messianico e pertanto il populus Dei del Vaticano II:

«Non possiamo sostituire una falsa visione unilaterale della Chiesa puramente gerarchica con una nuova concezione sociologica anch'essa unilaterale. Gesù Cristo è sempre presente nella sua Chiesa ed in essa vive come risorto. Dalla connessione della Chiesa con Cristo si comprende chiaramente l'indole escatologica della stessa Chiesa (cf. LG c. VII). In questo modo la Chiesa pellegrinante sulla terra è popolo messianico (cf. LG 9) che già anticipa in se stessa la nuova creatura»[15]

“Popolo di Dio” ha in definitiva il valore di una vera e propria categoria, categoria ovviamente teologica e non solo meramente ermeneutica, essendo densa di riferimenti biblici, storici ed ecclesiali. È realtà storica e non metaforica. La sua “corposa” realtà è elemento portante della Lumen gentium, tanto da poter ricondurre ad esso tutti gli altri elementi ivi presenti. Il riferimento a Cristo e alla sua natura di Capo del corpo che è la chiesa e così pure alla sua missionarietà, sacerdotalità e regalità si ritrova interamente nell’indicazione del popolo di Dio come popolo messianico. Ciò non è inficiato nemmeno dall’obiezione che nel “popolo di Dio” si indica il Dio della prima alleanza, giacché, alla luce della compiuta rivelazione di Cristo, quel popolo è assemblea del Dio triunitario: è  congiuntamente del Padre come del Figlio e parimenti dello Spirito Santo.

Se «la chiesa si raccoglie», come recita una parte del volume di G. Lohfink, Dio ha bisogno della Chiesa?[16], ciò avviene ovviamente non per un’operazione umana che va dal basso verso l’alto, ma per convocazione, come indica la stessa parola ekklesìa, da ek-kaleo, che riprende l’espressione kahal Jahvè. Il pericolo dello scadimento in sociologismo è già fugato esegeticamente e teologicamente, più che apologeticamente, dalla natura intrinseca dello stesso kahal, il quale esiste solo perché c’è una chiamata “dall’alto” di più ceppi a costituire l’unica assemblea del Signore.

Il Vaticano II  ha ben inteso il popolo di Dio in questo senso, perché muoveva dai testi biblici e  da quei testi patristici che fino al IV secolo d.C. ancora ne parlavano come di  una realtà globale,  nonostante la svolta di Tertulliano e in genere dei padri latini, i quali invece tendevano a vedere il popolo solo come l’insieme di coloro che non erano insigniti dell’ordine[17]. Si gettavano così le fondamenta di quella che è stata chiamata l’ecclesiologia piramidale: da una parte la gerarchia corrispondente ai principi e ai patrizi della società civile e dall’altra la turba fidelium  o  plebs, corrispondente ai servi della gleba.

 Se il Vaticano II  aveva recuperato il senso originario del popolo di Dio, tanto da collocarlo a monte della stessa composizione della Chiesa, come attesta la distribuzione dei capitoli della LG, ciò costituisce una gradevole sorpresa anche rispetto alle direttive di Giovanni XXIII alla Commissione Teologica Preparatoria

Queste andavano nel senso di un chiarimento della chiesa come corpo mistico nel definitivo superamento della sua concezione come società o come semplice ordinamento giuridico.  Ben al di là di ciò, il dibattito in aula aveva chiarito che la chiesa è da riscoprire come popolo di Dio e questo non in contrapposizione alla sua realtà di mistero (vedi cap. I di LG), ma  proprio perché mistero. Riscoperta così l’assemblea di Dio, essa è direttamente collegata al Mistero di Dio, in quanto creatura della sua Parola[18], e pertanto non entità meramente sociologica, ma vera e propria realtà teologica[19].

Si può parlare di un mutamento di prospettiva operato dal concilio, E questo mutamento è universalmente riconosciuto, anche se diversamente valutato. Per alcuni infatti la riscoperta dell’espressione “popolo di Dio” non è che la rivalutazione di uno dei tanti altri aspetti della chiesa, dal momento che nessuna formula può esaurire la sua natura teologica[20]. Ma a questo punto verrebbe da obiettare che ciò vale anche per lo locuzione “chiesa”, che, a rigore, non è altro che una variante di origine greca del qahal Jahvé e dunque del popolo di Dio.  In ogni caso si riconosce il valore “tradizionale” dell’espressione popolo di Dio, ritrovandola attestata nei  primi secoli d.C[21]. Alla domanda perché solo limitatamente ad essi, Otto Semmelroth ha risposto che, attenuandosi a quell’epoca l’esigenza  di sottolineare l’aspetto storico-salvifico dell’alleanza bilaterale tra Dio e la sua comunità, l’espressione era stata accantonata perché ritenuta in qualche modo eccessivamente “materiale” e troppo legata a contingenze particolari. Nel processo di spiritualizzazione allora subito da non pochi contenuti teologici, sono state preferite altre espressioni bibliche maggiormente evocative, anche se più sfuggenti, ma comunque ritenute più vicine alla novità della “chiesa”, come corpo di Cristo, sposa di Cristo, casa o tempio di Dio ecc.[22]. Queste erano sembrate più idonee a salvaguardarne la natura trascendente[23].

La spiritualizzazione non è comunque durata molto, se nei secoli seguenti, a motivo della strutturazione sempre più politica della chiesa e nel confronto con le sette spiritualistiche ereticali prima e con la Riforma dopo,  si è sempre più accentuata la visibilità e organizzazione della chiesa, fino ad arrivare all’idea della chiesa prevalentemente come societas.  La situazione è risultata alla fine paradossale: dalla storicizzazione ancora corretta perché teologicamente informata del popolo di Dio, si è passati, dopo la prima spiritualizzazione dei padri successivi al IV secolo, a una storicizzazione ben più pesante e comunque teologicamente scorretta: quella della societas, lontana sia dalla koinonia attestata dagli Atti degli apostoli, sia dalla teologia dell’alleanza e della convocazione del popolo di Dio.

Una reale inversione di tendenza passa attraverso la riscoperta della comunità come elemento originario della realtà, grazie al Romanticismo prima e grazie ad autori come Guardini, oppure come  Newman  e Vonier dopo e, in epoca più vicina al Vaticano II , grazie alla riscoperta del valore dei cosiddetti “laici”,  in autori come Congar[24].

Un’importanza tutta particolare ha in questo processo il domenicano M. D. Koster, che in una pubblicazione intitolata Ecclesiologia in divenire, datata 1940, prende chiaramente posizione nella disputa del tempo sul valore primario da attribuire ad una delle due espressioni cardini: corpo mistico oppure popolo di Dio. Egli optava decisamente per il concetto teologico di popolo di Dio, ritenendolo un dato reale, mentre riconosceva nell’altro solo un dato metaforico. Infatti mentre si può affermare che la chiesa è come un corpo mistico, lo stesso non si può dire a proposito dell’espressione popolo di Dio. Non si può affermare che la chiesa è come il popolo di Dio, ma solo registrare la realtà che essa è quel popolo[25]. È una posizione chiara e suscita una certa impressione il fatto che, pur essendo divenuta manifesta in questi nostri anni, sia stata anticipata, coraggiosamente e controcorrente, già nel  1940.

3) Il popolo di Dio come popolo messianico

Senza insistere oltre su questa preferenza che facciamo nostra, e certamente non in contrapposizione, ma agganciandoci ai progetti ecclesiologi più recenti già menzionati,  avanziamo qui l’opinione che una certa ecclesiologia di comunione non solo non contraddica quella del popolo di Dio, ma la richieda. È anche in questo senso che occorre riconsiderare le osservazioni della Congregazione per la dottrina della fede, del 1992, su Alcuni aspetti della chiesa intesa come comunione. Pur riconoscendo nella comunione il «nucleo profondo del mistero della chiesa»,  la Congregazione rilevava anche la sua insufficienza, qualora non fosse integrata con gli altri aspetti. Infatti precisava:

«alcune visioni ecclesiologiche palesano un’insufficiente comprensione della chiesa in quanto mistero di comunione, specialmente per la mancanza di un’adeguata integrazione del concetto di comunione con quelli di “popolo di Dio” e di corpo di Cristo, e anche per un insufficiente rilievo accordato al rapporto tra la chiesa come comunione e la chiesa come sacramento»[26].

A riguardo, si può annotare, di passaggio, che anche la stessa espressione «ecclesiologia di comunione» ha sollevato alcuni problemi, a partire dal valore da dare al genitivo di[27]. È vero, l’espressione compare sempre più frequentemente e soddisfa abbastanza gli ecclesiologici contemporanei, tra i quali quelli citati, pur con dei correttivi: Questi vanno dall’insistenza sull’origine e la natura teologale della comunione (Kehl), alla  sottolineatura sul valore della comunicazione e della missione (Dianich-Noceti). G. Lohfink invece dopo aver tracciato le linee di continuità tra l’assemblea d’Israele, la comunità dei discepoli di Gesù e la Chiesa, fino a scrivere un libro su Come Gesù ha voluto la sua comunità[28],  ha  più recentemente sostenuto che un libro così oggi non l’avrebbe più scritto, avendo acquisito la consapevolezza che Dio agisce in ogni tempo in maniera del tutto inedita[29]. Ha però ribadito che l’assemblea è riunita di volta in volta dall’azione dello Spirito Santo e che questo suo agire ininterrotto e sempre nuovo è la base della comunione.  Da parte sua, con un intento molto più pastorale e pratico Werbick riprende le tracce dell’agire di Gesù come fondamentalmente indicative nel districarsi le diverse questioni  che travagliano la chiesa di oggi.

In tutte queste proposte la comunione non manca: né come principio e fondamento né come modalità esistenziale e comunicativa[30]. Ciò che manca è ricondurla sistematicamente al popolo di Dio in quanto tale.  Se, secondo il parere di alcuni, in qualche caso tale lacuna può portare a una sorta di ideologizzazione della comunione e persino del dialogo fino a sfiorare l’astrattismo[31], le precisazioni della Congregazione sulla comunione non devono far dimenticare che il popolo di Dio è tale perché radicato e continuamente rigenerato dalla Trinità e ad essa continuamente deve tendere[32]. In  questo circuito deve però seguire la via tracciata dal Messia e pertanto vivere non per se stesso, ma per la salvezza del mondo. È così che la comunione feconda il popolo di Dio: nella forza dello Spirito che lo consacra per una missione da compiere che non è altro che il prosieguo di quella di Cristo.

Nella koinonia trinunitaria di Dio e pertanto attraverso l’unione con Cristo il popolo di Dio vive la sua dimensione messianica e vive il moto della solidarietà di Dio verso tutti gli uomini. Il passo già citato di LG 8 collega l’unione a Cristo con il servizio verso i più sofferenti, perché similmente e nello spirito del Cristo,

«la chiesa circonda di amore quanti sono afflitti da infermità umana, anzi nei poveri e nei sofferenti riconosce l'immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne la miseria, e in loro intende servire Cristo»[33].

Seguire Cristo nella sua ministerialità verso gli uomini e in particolare verso i più bisognosi significa svolgere quel compito messianico che LG 9 descrive come compito precipuo del popolo di Dio, teologicamente rivisitato come popolo messianico:

«Questo popolo messianico ha per capo Cristo “consegnato per i nostri peccati, risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,25), che regna glorioso in cielo dopo aver ottenuto il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Lo statuto di questo popolo è la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali, come in un tempio, inabita lo Spirito di Dio. La sua legge è il nuovo comandamento di amare come ci ha amati Cristo (cf. Gv 13,34). Il suo fine è il regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre più, per essere portato a compimento alla fine dei secoli, quando apparirà il Cristo vita nostra (cf. Col 3,4); allora “anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio”»[34].

È un popolo che realizza le promesse messianiche e le speranze più genuine di ogni uomo:

«Perciò il popolo messianico, anche se di fatto non comprende ancora la totalità degli uomini e ha spesso l’apparenza di un piccolo gregge, è però per l’intera umanità germe sicurissimo di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità, viene assunto da lui anche come strumento di redenzione per tutti, ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra»[35].

La conclusione è che attraverso la messianicità la comunione può ricomporsi armoniosamente con la teologia del popolo di Dio, perché la chiesa come comunità d'amore non è in contrapposizione con la dimensione istituzionale né con quella più storicamente e socialmente situata collegata alla sua natura di popolo di Dio. Secondo l’insegnamento di quel grande maestro che era K. Rahner, la chiesa deve assecondare quella continua equilibratura delle varie dimensioni delle quali consta[36], per corrispondere alla sua più intima natura di popolo di Dio, popolo amato e radunato da Cristo e in questo anche chiesa che comunica la speranza agli uomini particolarmente a quanti sono ancora poveri e oppressi[37].

 

 


 

[1] Cf. G. MAZZILLO, «Popolo di Dio: categoria teologica o metafora?», in Rassegna di Teologia 36 (1995) 553-587.

[2] Cf. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, Jaka Book, Milano 1975, 99.

[3] Cf., a titolo d’esempio per l’area italiana,  C. Scanzillo, La chiesa sacramento di comunione. Commento teologico alla Lumen Gentium, Dehoniane,  Roma 1987, e, per quella tedesca M. Kehl SJ, Die Kirche. Eine katholische Ekklesiologie, Echter, Würzburg 1993.

 

[4] Così, ad esempio nel testo di W. Kern, h.j. Pottmeyer e M. Seckler (a cura di), Corso di teologia fondamentale 3. Trattato sulla chiesa, Queriniana, Brescia 1990, dove seppure sia presente la locuzione “popolo di Dio”, proprio il popolo di Dio non diventa argomento determinante dell’ecclesiologia. E così è di  H. Zirker, Ecclesiologia, Queriniana, Brescia 1987, e dello stesso studio di J. Ratzinger, La chiesa. Una comunità sempre in cammino, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991.

 

[5] S. Dianich, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1993, 231-255, 248.

[6] S. Dianich – S. NoceTI, Trattato sulla chiesa, Queriniana, Brescia 2002.

[7] Ivi, 216-217.

[8]G. Colombo,  «Il “popolo di Dio”  e il “mistero” della chiesa nell'ecclesiologia postconciliare», in Teologia 10 (1985)  97-169, qui 103.

[9] EV9/1790.

[10]Commissione Teologica Internazionale, Temi scelti di ecclesiologia, 1985, 2.1: EV/9, 1683. Le sottolineature sono nostre.

[11] Lumen gentium, 7: EV1/297.

[12] Ivi, 8: EV1/ 304.

[13] LG 9: EV1/308.

[14] Ivi.

[15] EV9/1790.

[16] G. LOHFINK, Braucht Gott die Kirche? Zur Theologie des Volkes Gottes, Herder,  Freiburg 1998. [Dio ha bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio]. Cf. anche J. WERBICK, La Chiesa. Un progetto ecclesiologico per lo studio e laprassi, Queriniana, Brescia 1998.

[17] Cf Liber de Exortatione Castitatis, cap. 7: PL 2, 922.  È chiaramente espressa l'idea che l'ordine  conferito ad alcuni nella chiesa li separa dalla restante plebs.

[18] Cf G. Geremia, I primi due capitoli della «Lumen Gentium». Genesi ed elaborazione del testo conciliare, Roma 1971, 23.

[19] Sulla nozione di “popolo di Dio” al Vaticano II oltre al citato G. Philips, cf. anche  M. Schmaus,  «Das gegenseitige Verhältnis von Leib Christi und Volk Gottes im Kirchenverständnis», in R. Baumer - H. Dolch (Hgg.), Volk Gottes, Freiburg in B. 1967, 13-27.

[20] Cf. O. Semmelroth, «La Chiesa nuovo “Popolo di Dio”», in G. Baraùna, La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, 439-452, qui 440ss.).

[21] Cf. J. Eger, Salus Gentium. Eine patristische Studie zur Volkstheologie des Ambrosius von Mailand, München 1947 e a J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, München 1954.

[22] Cf  H. Fries, «Mutamenti dell'immagine della Chiesa ed evoluzione storico-dogmatica» in J. Feiner e M. Löhrer (a cura di), Mysterium Salutis, 7. L'evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 19813, 267-346.

[23]Cf O. Semmelroth, «La Chiesa..., cit., 441.

[24] Cf. R. GUARDINI, Vom Sinn der Kirche, Mainz 1922; ID., Vom Geist der Liturgie, Freiburg 1928; A. RADAMACHER, Die Kirche als Gemeinschaft und Gesellschaft. Eine Studie zur Theologie der Kirche, Augsburg 1931;; E. EICHMANN - KL. MÖRSDORF, Lehrbuch des Kirchenrechts, Paderborn 1964, 21 (ed. originale 1947); J.H. NEWMAN, Die Kirche 1-2, Einsiedeln 1945; A. VONIER, The People of God, London 1937; H. DE LUBAC, Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme, Paris 1938. Y. CONGAR, Esquisses du Mystère de l’Eglise, Paris 1941.

[25] Cf. M. D. KOSTER, Ekklesiologie im Werden, Paderborn 1940.

[26]Congregazione per la dottrina della fede, Alcuni aspetti della chiesa intesa come comunione. Lettera ai vescovi della chiesa cattolica, Paoline, Milano 1992, n. 1: Enchiridion Vaticanum Supplementi, 462.

[27]Cf J.-M.-R. Tillard, Église d'Églises. L'ecclésiologie de communion, Cerf, Paris 1987.

[28] Cf. G.  Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità. La chiesa quale dovrebbe essere, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1987 e Id., Per chi vale il discorso della montagna? Contrinuti per un'etica cristiana, Queriniana, Brescia 1990.

[29] Cf. l’introduzione del citato volume Braucht Gott di Kirche?

[30]Altrettanto pertinente e documentata è l'affermazione di Dianich quando afferma che quello della comunicazione è un tema teologico. L'autore capovolge così la posizione di W. Bartholomäus, «La comunicazione nella chiesa. Aspetti di un tema teologico», in Concilium 14 (1978/1) 165-187. Cf S. Dianich, «Teorie della comunicazione ed ecclesiologia», in Associazione Teologica Italiana, L'ecclesiologia..., cit, 134-178.

[31] Cf P. Franzen, «La comunione ecclesiale principio di vita»,  in G. Alberigo et A. L’ecclesiologia del Vaticano II. Dinamismi e prospettive, Dehoniane, Bologna 1981, 172.

[32]Cf la sintesi di B. Forte: «La Chiesa viene dalla Trinità attraverso le missioni del Figlio e dello Spirito ed è destinata alla Trinità, chiamata a celebrarne la gloria nel pellegrinaggio del tempo, fino a che giungano a compimento le promesse di Dio e Lui sia tutto in tutti e il mondo intero sia la sua patria. In questo “frattempo” fra l'origine e la meta, la Chiesa si struttura a immagine della Trinità, una nella diversità, comunione articolata nella reciproca inabitazione dei doni, dei servizi e delle Chiese..» (B Forte. La chiesa della Trinità...., cit., 203).

[33] LG, 8: EV1/ 304.

[34] Ivi, EV1/ 309

[35] Ivi.

[36]«Possiamo anche dire: [la Chiesa] capisce cosa significhi essere “ istituzione”  di salvezza, solo se si comprende e si attua come un frutto di questa salvezza. ... Essa parla diffusamente anche della Chiesa come istituzione (e perché no?) … quindi della Chiesa come istituto e come mediatrice di salvezza» (K. Rahner, «Il nuovo volto della chiesa», in Id., Nuovi  saggi III, Paoline, Roma 1969 (ed. or. del 1966), 397-426, qui 425).

[37]Cf P. E. Arns, «”Ich habe Mitleid mit dem Volk”», in E. Schillebeeckx (Hg.), Mystik und Politik. Theologie im Ringen um Geschichte und Gesellschaft. Johann Baptist Metz zu Ehren, Grünewald-Verlag 1988, 282-287; I. Ellacuria, «La chiesa dei poveri sacramento storico di liberazione», in Ellacuria - J. Sobrino (a cura di), Mmysterium liberationis. I concetti fondamentali della teologia della liberazione, Borla - Cittadella, Roma - Assisi 1992, 633-645; Id., «Il popolo crocifisso», ivi, 682-704; J. r. Estrada, «”popolo di Dio”», ivi, 671-681.