Giovanni Mazzillo <info autore> | home page: www.puntopace.net
Popolo di Dio è una di quelle espressioni conciliari che
in questi ultimi anni sono state messe
da parte nel linguaggio ecclesiale e, di riverso, anche in quello teologico[1]. Sarebbe interessante dedicare una
specifica ricerca alle cause di questo accantonamento e agli effetti pastorali
che ciò ha comportato. Per ragioni di spazio non possiamo che farvi qualche
rapido accenno, al fine di sgombrare il terreno da un pregiudizio che grava
sull'ecclesiologia contemporanea: la contrapposizione tra la chiesa[2] come mistero e come popolo di Dio.
Proprio il Concilio ci insegna invece la
complementarità dei due concetti qui in gioco. Non solo perché dedica il primo
capitolo della costituzione Lumen gentium
alla chiesa in quanto mistero (De ecclesia Mysterio) e consacra il successivo alla chiesa come popolo
di Dio (De
Populo Dei), ma perché delinea un'ecclesiologia che non è più
concepibile senza il ricorso all'espressione popolo di Dio in quanto categoria
teologicamente qualificante. L'espressione assume il valore di una categoria
teologica di base, nel senso che è la modalità d'intendere la chiesa che sta
più a cuore al concilio: una modalità che abbraccia la storicità e la
particolare presenza della chiesa nel
mondo. Insomma, una categoria nel senso assertivo e predicativo della parola[3].
In conseguenza di questa prima precisazione
è del tutto infondato l'altro pregiudizio che solitamente si accompagna al
primo: l'espressione popolo di Dio sarebbe inficiata di strisciante
sociologismo e sarebbe inquinata ideologicamente. Le ragioni sottostanti a
questa obiezione non sono sempre chiaramente espresse. Vanno da una generale e
diffusa diffidenza verso le nuove rielaborazioni teologiche a un infastidito
ripudio di tutto ciò che è associato a qualsiasi forma di compartecipazione e
democratizzazione nella chiesa. Con il risultato di ritenere inquinato tutto
ciò che in qualche maniera venga a mettere in forse le formulazioni precedenti
già consolidate e di conseguenza indubitabili.
Ma a questo proposito, per chiarezza espositiva
e correttezza metodologica gioverà qui ricordare che, per ammissione ormai
unanime di ogni serio studioso dei problemi previ alla conoscenza scientifica,
una qualsivoglia conoscenza, di qualunque natura sia, non esiste mai allo stato puro. Lo stesso procedimento del
conoscere, il suo inizio, il suo dipanarsi e caratterizzarsi, avvengono sempre
in un più generale contesto che interagisce con l'interesse, le opzioni, le
finalità del conoscente. Senza simili processi interattivi la conoscenza non
potrebbe nemmeno iniziare, perché sarebbe come voler scrivere una parola su una
pagina inesistente o voler incidere uno schizzo su una tavola inconsistente[4]. Ciò non vuole certo dire che la conoscenza
non possa o non debba correggere gli inconvenienti distorsivi in cui incappa.
Al contrario: conoscere è anche correggere ed è soprattutto correggersi. Vuol
dire solo che chi accusa gli altri di inquinamento ideologico e pensa alla
propria posizione come preservata da qualsiasi condizionamento, in realtà o è
un ingenuo (s'intende dal punto di vista scientifico) o è un opportunista
(s'intende dal punto di vista dello status
quo ecclesiale). Ama ripetere acriticamente accuse non provate, per
eventuali e inconfessati interessi che vanno oltre l'interesse conoscitivo. Al contrario,
con una ricerca serena e non prevenuta sul popolo di Dio[5], e cercando di evidenziare il suo spessore
teologico, si può agevolmente giungere alla conclusione che tale categoria,
proprio in quanto categoria teologica, è refrattaria a qualsiasi riduzione
banalizzante a mere categorie sociologiche[6].
Si
tratta infatti di un’idea originale avente una qualifica non meramente logica,
ma teo-logica, vale a dire secondo
una precomprensione che si apre a un
piano e a un progetto che sono trascendenti. La sua radice ultima, non proviene
dall'immanenza storica, ma dal dato di fede. Proprio questo dato è generatore
dell’idea di popolo di Dio, perché
contiene nel suo nucleo portante la realtà della chiesa come mistero, entità non derivata né
deducibile dalla realtà storica (in quanto realtà «immanente») e che tuttavia
vive nella storia e interagisce con essa secondo il principio teologico
dell'incarnazione e quello ancora antecedente della rivelazione.
L'idea di popolo di Dio non contraddice questo dato di fondo, anzi lo
rafforza. Ciò avviene per due ragioni. La prima è che se si volesse ancorare il
concetto al puro dato sociologico, la
sociologia non potrebbe essere di grande aiuto. Ancora al presente la stessa
definizione di popolo è incerta, a motivo della sua intercambiabilità con
termini che hanno il difetto o di
essere troppo generici (vedi popolazione,
gente, folla) o troppo restrittivi
(vedi etnia, classe, paese)[7]. Un'analisi più accurata a riguardo può
evidenziare l'effettivo peso che i presupposti ideologici abbiano nella scelta
che di volta in volta viene fatta. La seconda serie di argomentazioni riguarda
la consistenza biblica di una nozione che nasce e si sviluppa in un suo proprio
contesto, che è prevalentemente religioso. Per alcuni le origini sono in un
contesto eminentemente liturgico, al punto di poter indicare nell'acclamazione
"Jahvè è re!" la matrice di
ogni ulteriore sviluppo teologico legato simultaneamente al regno di Dio e al popolo di Dio[8] Altri ritengono che qehal Jahvè sia stata invece, nei suoi primordi, un'idea più
complessa che abbracciava la storia
presente e quella futura. Dio infatti era sempre avvertito come una presenza
che accompagnava il suo popolo per compiere le sue promesse. La sua regalità
significava che nessuno avrebbe mai potuto resistere al suo confronto, come la
storia passata dimostrava. Per questo Dio rimaneva colui che deve sempre
venire, "il veniente", e il "venturo". Questa è la
ragione per cui il passato ha per
Israele rilevanza per il presente e per l'avvenire[9].
La
categoria teologica del popolo di Dio è collegata, già nel suo nascere, all'escatologia, come orizzonte riguardante
le "ultime cose", e quindi anche il al Regno di Dio nel suo futuro compimento.
Per questo diventa anche dimensione della chiesa nella misura in cui l'eJk;klhsiva
costituisce il luogo e lo strumento per un'immissione nella dinamica di quel
Regno, senza esaurirne né circoscriverne l'estensione e la portata.
In
conclusione a noi sembra che l'espressione «popolo di Dio» sintetizzi bene sia
l’elemento trascendente-misterico, sia quello storico-sociale della chiesa. Si
tratta di un popolo particolare, da considerare come appartenente a Dio. E' di Dio, perché Dio è sua origine, meta e
compagno di cammino; è popolo perché
è comunità di uomini, con tutto ciò che ne consegue. In questa visione
teologica, che ci sembra colga al meglio l’unità tra aspetto umano e divino,
trascendente ed immanente, si comprende anche perché tanto l’agire della
chiesa, che le sue strutture, debbano essere informate da questo principio
unificante le sue due dimensioni.
Ma
arrivati a questo punto si può mettere
meglio a fuoco il nostro tema, contestualizzando l'agire del cristiano
nel più ampio contesto dell'agire del popolo di Dio. Ovviamente anche qui si
sollevano dei quesiti preliminari ai quali non si può fare a meno di accennare.
Il primo riguarda la deducibilità di un comportamento morale
dall'ecclesiologia, mentre il secondo investe il complesso rapporto esistente
tra l'agire della chiesa in generale e l'agire del singolo. Occorre
pertanto chiarire innanzi tutto in che
termini il dato dogmatico possa determinare la dimensione morale del credente e
come la dimensione morale non sia astratta né generica, ma storicamente e
concretamente situata nel più vasto agire del popolo di Dio. Dando una risposta
a questi quesiti sarà più agevole non solo fondare, ma anche caratterizzare un agire cristiano sostenuto da un sistema assiologico interno alla fede
stessa e non sorretta, né puntellata da principi eteronomi, desunti da altre
fonti, per poter fondare una prassi cristiana ancorata alla teologia del popolo
di Dio.
Appartiene
indubitabilmente alla struttura del messaggio biblico non solo vetero-, ma
anche neo-testamentario la fondamentale sequenza diacronica: 1) annuncio delle
opere di Dio; 2) appello a un corrispondente agire dell'uomo. L'agire di Dio
viene sempre al primo posto. Né potrebbe essere diversamente. Lo esige non solo
la logica interna alla stessa idea di una rivelazione che viene, e quindi parte, da
Dio, ma anche la cura con cui si cerca di allontanare da Israele qualsiasi
pericolo di idolatria. Non esiste alcuna possibilità per l'uomo di costringerlo
a un qualche disegno umano, e nemmeno di impossessarsi del suo potere. Anche
l'uso del suo nome è interdetto: la sua sovranità resta un fatto teologico
fondamentale, al punto da ritenere Dio
l'iniziatore di qualsiasi intervento sia nella storia d'Israele che
nella creazione. L'una e l'altra presuppongono sempre il suo libero e sovrano
progetto, anche se è solo verso la fine dell’esilio babilonese che la coscienza
d’Israele può cogliere in una sintesi rigorosamente concatenata l'agire di Dio
nella storia e nella natura, partendo dal principio teologico che quella potenza che riconduce i prigionieri è
la stessa che ha creato i cieli e la terra. Prendendo lo spunto dalla
circostanza storica del ritorno dalla cattività babilonese, si arriva così a
menzionare insieme liberazione e creazione, ritenendo comunque che entrambe non
sono mai il frutto di un tentativo umano, ma sempre il risultato dell'azione
stessa di Dio[10].
Il racconto di ciò
che Dio ha compiuto per il suo popolo, con il conseguente moto di stupore e di
gratitudine che ne derivano, fondano l'impegno morale di quanti a lui appartengono. A rigore, non si dovrebbe
nemmeno parlare nei termini di una teologia morale, perché l'agire del popolo di Dio
è solo una teo-logica conseguenza di
quell'agire previo che è stato già colto in Dio. La prassi del suo popolo si
può solo richiamare alla prassi di Dio. Appartiene alla struttura dell'alleanza
e non è altro che l'adempimento di una sua clausola. Si può aggiungere che non
è solo nel ricordo di ciò che Jahvé ha compiuto, ma è nell'assecondare ciò che
egli ancora compie attraverso il suo popolo che si giustifica il retto
comportamento di questo. Ortoprassi ed ortodossia non sono ancora termini di un
binomio, come succederà successivamente per la coscienza cristiana, da coniugare continuamente, ma sono per Israele la stessa realtà.
Confessare l'unicità di Dio significa magnificarne anche la fedeltà[11]. Celebrare la sua fedeltà significa
mettersi in stato di conversione, sì da riconoscere la propria infedeltà e
impegnarsi ad essere fedeli.
La misericordia da
praticare verso l'altro nasce dalla memoria della misericordia operata da Dio
nei propri confronti e si alimenta di essa. Chi conserva il ricordo di Dio come
liberatore non può diventare oppressore. Il Deuteronomio contiene una
formulazione che rende quasi plastica l'idea che l'agire etico altro non è che
memoria teologica avente valore di principio. Con un doppio aspetto: negativo e
positivo[12]. L'aspetto
negativo ricorda una situazione di sofferenza che accosta nel comune patire
passato e presente, i sofferenti di oggi con quelli di ieri: "Ti
ricorderai che sei stato schiavo in Egitto". Fa appello ad un
accomunamento alla stessa sorte e quindi a una fondamentale solidarietà tra i
poveri, una comunanza di destino che va ben oltre le barriere razziali e quelle
temporali, perché rammenta che le lacrime sono ugualmente amare in qualsiasi
angolo del mondo. L'amore compassionevole di Dio chiama alla comune passione per i propri simili. L'aspetto positivo esige che la compassione non
resti vago sentimentalismo ma si traduca in azione, diventi prassi morale:
"come sei stato liberato tu, devi liberare anche gli altri".
La memoria del
passato cambia così il presente e diventa norma per ogni tempo. Si tratta infatti di una memoria che passa
dall'agire di Dio, che spinge continuamente verso l'esodo il suo popolo,
all'opera stessa della creazione. La liberazione diventa così celebrazione
della misericordia di Dio e la fede nella creazione è moto di compassione e di
solidarietà che si indirizza verso i più poveri e le categorie sociali più
svantaggiate. Si potrebbe giungere ad affermare che non c'è niente che Dio
pretenda dal suo popolo che non sia stato già compiuto dal lui. L'agire del pio
israelita si fonda sull'agire del suo Signore e l'agire del popolo di Dio
ripercorre modalità e moti dell'animo del Dio di Israele.
La teologia non può
tralasciare questa dimensione biblico-storica. Deve sempre metterla a
fondamento non solo della teologia dogmatica, ma anche della teologia morale
fondamentale. Lo esige la rivelazione così come lo richiede una considerazione inerente
alla stessa concezione della scienza teologica (epistemologia)[13]. Si tratta infatti di una modalità di
conoscenza che non può mai ridurre Dio a un mero oggetto di indagine, perché
sempre dipende da Dio come dalla sua sorgente. Deve quindi considerarlo sempre soggetto e su questa base fondare il
valore irrinunciabile della soggettività umana. E' un'impostazione tutt'altro
che ovvia. E' stato infatti scritto che non poche costruzioni teologiche hanno
presentato la stessa idea di Dio come oggetto (operazione che è chiamata oggettivizzazione), senza rendersi conto
che una simile prospettiva annulla
proprio ciò che Dio è: radice di
tutto ciò che si può asserire (cioè di ogni predicabile)
della soggettività (libertà, autocoscienza, responsabilità etc.)[14]. E'
una critica che si può far risalire a molto lontano e che può ritrovare i suoi
capifila in Schleiermacher e in Kant. Entrambi vengono infatti accomunati dallo
stesso rifiuto di pervenire a Dio attraverso una sua oggettivizzazione, un
vizio di fondo di ogni tentativo di carattere metafisico. Kant dedicava
un'intera sezione della sua Critica della
ragion pura a una nuova fondazione che superi l'aporia di un Dio concepito
come concetto-oggetto. Come recita il sottotitolo della sua ricerca, il suo
intento è di condurre una critica di ogni
teologia [che muova] dai principi speculativi
della ragione[15]. Schleiermacher condivideva il rifiuto del
metodo metafisico, in nome di una riscoperta della religione oltre la
"tendenza
a porre essenze e determinare nature, a perdersi in una infinità di cause e
deduzioni alla ricerca dei primi princìpi e a esprimere verità eterne"[16].
Ma immediatamente
coglieva lo stesso difetto di fondo anche nell'approccio etico. A suo modo di
vedere, era un metodo ugualmente nocivo, perché mentre voleva rifuggire dalla metafisica non ne superava le interne contraddizioni, pur argomentando
sul piano morale. Retoricamente l'autore chiedeva infatti ai dotti
"E che
cosa fa la vostra morale? Dalla natura dell'uomo e dal suo rapporto con l'Universo
sviluppa un sistema di doveri, proibisce e comanda azioni con autorità
assoluta",
ed asseriva
perentoriamente:
"Neppure
questo dunque deve osare la religione, non può servirsi dell'Universo per
dedurne dei doveri, non può contenere un codice di leggi"[17].
La storia
successiva ha messo senza dubbio in discussione molte delle intuizioni di
Schleiermacher e ha radicalizzato il suo problema, arrivando anche a negare la
legittimità del termine religione
per il cristianesimo. Quello stesso
mondo protestante in cui si muoveva Schleiermacher ha per bocca di K. Barth
reagito con fermezza contro qualsiasi tentativo di pervenire a Dio a partire
dagli sforzi umani. Non è stato messo in discussione solo il metodo metafisico,
ma anche quello morale e quello più intuitivamente originale di Schleiermacher,
che cercava di cogliere la religione in un fecondo e insopprimibile rapporto
tra l'Universo e il richiamo irresistibile da esso esercitato verso il
sentimento umano (Gefühl). Per
Barth, come del resto anche per altri rappresentanti della teologia evangelica,
così come per qualche studioso cattolico, l'uomo non può mai avere l'ardire di
asserire alcunché di Dio. Deve solo accogliere la sua rivelazione. Deve prestargli l'assenso della fede e lasciarsi
riconciliare dalla sua Grazia[18]. Barth sembra particolarmente categorico:
"Alla
luce della rivelazione appare chiaramente che la religione è il tentativo umano
di prevenire quel che Dio vuol fare e fa nella sua rivelazione, è il tentativo
di mettere al posto dell'opera di Dio una costruzione umana, sostituendo alla
realtà divina che si dà e si manifesta per noi nella rivelazione, un'immagine
di Dio prodotta dall'arbitrio e dalla fantasia degli uomini"[19].
Anche se per completezza, occorre aggiungere
una precisazione del teologo evangelico ugualmente importante, allorquando egli
afferma che il suo giudizio:
"non
contiene una valutazione scientifica o filosofica derivante da qualche
pregiudizio negativo circa l'essenza della religione. Essa non è diretta
soltanto contro gli altri, con la loro religione, ma anche e soprattutto contro
noi stessi che siamo seguaci della religione cristiana. Essa formula il
giudizio della rivelazione divina su tutte le religioni (...) L'unico scopo di
questa tesi è di riprodurre il giudizio di Dio, perciò essa non può essere la
negazione umana di valori umani e non implica la contestazione del vero, del
buono e del bello che, a ben guardare, si possono scoprire in quasi tutte le
religioni e naturalmente crediamo di trovare in misura particolarmente
abbondante nella nostra, se ne siamo seguaci convinti"[20].
Con Barth è
condannato
"il
tentativo impotente eppure ostinato, arrogante eppur vano, che l'uomo
intraprende per procurarsi, facendo uso delle possibilità che egli veramente
ha, anche se non possono essere usate a questo modo, quella conoscenza della
verità e di Dio che egli può avere solo a patto che Dio stesso gliela dia"[21].
E tuttavia, proprio
muovendo dalle superiori esigenze della parola di Dio si può e si deve poter
arrivare alla conclusione che bisogna
ricondurre la teologia
fondamentale alla radice della intersoggettività. Ciò è postulato non da un
nostro ragionamento, ma dagli stessi contenuti della Parola, che rivelando Dio, svela anche la realtà umana. Sicché la non oggettivizzazione di Dio è
contemporaneamente affermazione della soggettività dell'uomo, che in una
relazione continua con Dio e con il suo
simile non solo rimane soggetto, ma realizza tale sua caratteristica nella solidale reciprocità[22] .
Si può condividere
o no il pensiero di H. Peukert che ritiene
che l'esperienza fondamentale contenuta nella Bibbia e i caratteri
intersoggettivo, comunicativo e solidale sono sempre orientati alla libertà
come a loro elemento costitutivo che
superano ogni scacco dell'agire
comunicativo grazie all'agire solidale
di Gesù[23]. Si dovrà comunque convenire che la parola
di Dio e non altro esigono il dischiudersi
della possibilità di una prassi
solidale e universale. A questo punto non può essere più sospettabile di inquinamento ideologico l'asserzione che
l'esperienza fondamentale del credente
nel mondo giudaico-cristiano è l'esperienza della liberazione.
Alla
stessa conclusione si può arrivare, per convergenza, con una riflessione più
squisitamente dogmatica sul valore della redenzione di Cristo in quanto tale[24]. La
soteriologia, proprio in quanto
riflessione sulla salvezza operata da Cristo, si è giustamente interrogata non
solo sul senso proposizionale e
dottrinale della swteriva, ma anche sul suo significato
storico, cioè sull'ampiezza della sua rilevanza. Con alterne vicende, che di
volta in volta risentivano delle situazioni storiche e dei relativi contesti
culturali, nella storia della dottrina ecclesiale e nella conseguente storia
della teologia, tale significato è continuamente oscillato tra poli talora
contrapposti, ma teologicamente molto interessanti, che hanno aperto sempre
nuovi spazi alla riflessione. La
teologia di stampo greco-orientale ha cercato la sintesi all'interno del
binomio umanità-divinità, intendendo
la salvezza come divinizzazione dell'uomo, mentre l'approccio della teologia
latina è sembrata tutta tesa a una conciliazione tra i due termini peccato-giustificazione. La prima bipolarità ruota intorno alla centralità
dell'incarnazione, la seconda a quella della croce. Ci sono, ovviamente, molte
variazioni e sono sempre da tener presenti in una ricerca più mirata[25] e tuttavia
si può agevolmente convenire con chi, come Pröpper, individua la radice
di molti malintesi, per noi non soltanto teologici, ma anche dottrinali, nella
separazione avvenuta tra la redenzione oggettiva e soggettiva[26]. Conseguentemente a ciò, si nota nella
storia della teologia una spiccata tendenza ad esaurire la ricchezza
soteriologica nella realtà della "grazia interiore", lasciando
marginali e rendendo nei fatti
irrilevanti altri aspetti essenziali per la comprensione della globalità
soteriologica che investe tutto l'uomo, così come investe la sua dimensione
politica e lo stesso cosmo.
In
campo più direttamente ecclesiologico la riduzione della swteriva a interiorizzazione,
che ben presto è scaduta nelle tante forme che conosce l'intimismo
spiritualizzante, ha provocato un allontanamento da ogni tipo di impegno da
vivere nel mondo, visto solo come pericolo per la salvezza della propria anima.
Ma in contesto simile ognuno comprende che né l'appartenenza ecclesiale, né la
realtà stessa della chiesa in quanto entità autosufficiente, consentono la
benché minima fondazione di un agire etico. L'alternativa non può che essere la
revisione dello stesso sistema teorico generale di stampo soteriologicamente
individualista. Solo quando la realtà mondana non è recepita come insuperabile
minaccia dalla quale fuggire, è possibile rivedere le modalità del proprio agire, e per giunta di un comune agire nel secolo. Ed ancora solo
una comprensione storicamente rilevante della swteriva giustifica un agire
eticamente qualificante nella stessa storia. Ma è possibile una tale comprensione
che sia al contempo storicamente rilevante e comunitariamente
qualificante? E' possibile solo se
avviene una doppia chiarificazione teologica. La prima è che la norma morale non può prescindere dall'agire
solidale, soccorrevole e liberante di Dio e in particolare di Cristo; la seconda
è che si riscopra la globalità della swteriva in tutta la sua ampiezza ed
estensione, cioè come salvezza della
materia e del cosmo, come liberazione
dal peccato e da ogni forma opprimente la dignità dell'uomo, come riscatto da ogni asservimento di popolo
da un altro popolo.
Non
tanto per garantire oggi una rilevanza, che in realtà poi dipendente dalle
mutazioni epocali[27], ma in forza della doppia chiarificazione
sopraccennata, si può dire che la liberazione non è un nome oggi nuovo, tra i
tanti nomi che la swteriva ha assunto nella storia, ma è concezione teologicamente
fedele e criterio fondamentale normativo di ogni ulteriore comportamento
morale. E' infatti termine che
salvaguarda ampiezza e integrità della salvezza e che consente l'elaborazione
di una conseguentemente vasta e appropriata morale sociale
Riprendiamo l'idea
già vetero-testamentaria, teologicamente consolidata, che l'aver esperimentato
la solidarietà rende ogni partner
dell'alleanza soggetto di solidarietà verso gli altri. Il principio: "tu
stesso hai sperimentato la solidarietà di Dio: per questa ragione non dovrai
opprimere, anzi dovrai essere strumento di liberazione" vale anche per il
cristiano in forza della nuova alleanza fondata nel mistero pasquale di Cristo
e per tutte le ragioni già viste. Partendo da quest'alleanza sono continuamente da ricondurre a un alveo
ecclesiologico gli stessi princìpi morali del cristiano. E' un contesto che non
si può trascurare, pena la ricaduta in modelli comportamentali individualistici
e astorici. L'agire morale ha caratteristiche opposte all'individualismo che
riaffiora anche oggi in forme differenti sia all'interno che all'esterno della
vicenda ecclesiale. Una prassi cristiana autentica è sempre un agire
storicamente situato e responsabilmente impegnato.
Ma tutto ciò ha
anche notevoli conseguenze dal punto di vista teologico. Occorre rielaborare
una teologia morale che parta da un principio salvifico, che essendo saldato
alla realtà del popolo di Dio è un principio salvifico non solo individuale,
come è stato sempre ribadito, ma è anche un principio
collettivo. Non ci si può tirare indietro solo per paura di
ricadute ideologiche. L'ideologia è infatti già in atto. E' quella
dell'individualismo, un individualismo diffuso e propagandato. Al presente si
impone una riflessione serena e profetica sulla solidarietà come principio base
di tutti i valori collettivi[28], valori che oggi sembrano essere
profondamente in crisi e siamo in un'epoca storica in cui la comunità
ecclesiale nel suo insieme ha investito quasi tutto il suo peso ideale e la sua
rilevanza mondiale sul piano dei diritti individuali del singolo. Una teologia
morale che assume come base il principio collettivo della salvezza non può più
accontentarsi della proclamazione dei diritti, siano essi individuali che
collettivi. Anche la società civile non ha smesso un solo instante di
proclamarli, eppure non ha smesso un solo istante di disattenderli. Un'etica
della solidarietà che riscopre il valore collettivo crea anche le condizioni
per un'opera di formazione e una rieducazione al comunitario e al collettivo.
Nessuno ignora che
questa nostra stessa epoca storica, che ha visto il naufragio di grandi
progetti collettivi ideologicamente imposti, riceve una diffusa e strisciante
imposizione di termini e di programmi che suonano sempre allo stesso modo, come
privatizzazione ed economia di mercato. Non ci si accorge
che proprio questi sono i nuovi idoli da cui si aspetta salvezza. Non solo in
quanto idoli, ma perché nascono e prosperano in una sorta di liberismo
incontrollato e incontrollabile, fondamentalmente contrario a un'effettiva
morale cristiana, si deve esigere dalla stessa riflessione teologica un'impostazione alternativa. Qualcuno ha già messo mano a quest'opera che
si prevede anch'essa lunga e difficile. E non di meno se la solidarietà deve avere un valore di
principio[29] in “una nuova formulazione di alcuni
precetti generali in materia di etica economica” si potranno elaborare progetti
e proposte concrete che alla molla del capitalismo dell'arricchirsi sempre e il più possibile sostituiscano l'ideale
cristiano della condivisione e la retta comprensione del significato dell'avere[30]. Ciò esige però che in campo filosofico si
vada ben oltre la fondazione etica illuminista del semplice rispetto della
libertà altrui (l'esercizio della mia libertà non può nuocere alla libertà
altrui). La semplice limitazione della mia libertà individuale attraverso la
libertà dell'altro può al massimo costituire solo la prima parte, quella
negativa, di un principio che è urgente riformulare in termini positivi come
principio di responsabilità che ciascuno ha nei confronti dell'altro[31]. A questa riformulazione, che riscopra l'elemento collettivo come intrinseco alla
stessa radice etica della coscienza
umana in quanto tale, fa da contrappunto, sul piano più propriamente
cristiano, una morale saldamente
collegata al discorso della montagna e alla sequela di Gesù.
Ma è tutto ciò che
si può e si deve dire di un'etica ripensata ecclesiologicamente? Certamente
resta ancora un ampio spezzone di discorso sulla sequela di Gesù come orizzonte etico genuinamente cristiano. La
legittima domanda "per chi vale il discorso della montagna?"[32] esige una risposta che vada bel oltre
l'esortazione parenetica. Un'etica cristiana degna del nome che porta vuol dire
far dipendere il proprio operare dalla continua conversione a Cristo,
nella radicalità della sua sequela. Una radicalità che significa
perfezionamento e superamento della logica umana, perché chiama ad essere
radicali (cioè perfetti) fino a
seguire con totale fiducia e abbandono la logica delle beatitudini e le direttive
del discorso missionario[33]. La specificità evangelica richiede che si
superi quella che è stata, a ragione, chiamata religione borghese. Altrimenti può accadere ancora che la morale di
fatto praticata, invece di essere solidale e liberante, sia tranquillizzante ed
accomodante. Ma così facendo si ricadrebbe nella doppia morale[34], al punto di esigere rigorosità, invece di radicalità,
facendo sì appello continuamente alla conversione del cuore, ma dimenticando la
trasformazione delle strutture da strutture di peccato e di oppressione a
strutture di salvezza e di condivisione[35]. Ora, invece, solo una simile conversione
rende credibile la volontà di costruire la civiltà
dell’amore. Infatti, non si può costruire una società solidale lasciando
immutata un'economia di mercato per sua
natura dispotica e indifferente al dolore dell'uomo. Del resto, è illusorio
pretendere davvero di cambiare l’uomo senza esigere che cambi la società. La
morale cristiana è pur sempre un appello alla conversione del cuore, ma - si badi bene - alla conversione del cuore borghese, l'unica che costituisca una vera
svolta epocale, una “rivoluzione antropologica”, con delle vere e proprie
condizioni:
«i cittadini
del primo mondo devono liberarsi non dalla loro impotenza, ma dalla loro
superpotenza, non dalla loro povertà, ma semplicemente dalla loro ricchezza,
non dalla loro penuria, ma dal loro totale consumismo, non dalla loro
sofferenza, ma dalla loro apatia...»[36].
La vera conversione
richiesta dal discorso della montagna è conversione integrale, giacché la
morale comunitaria ed evangelica salda
insieme l'elemento collettivo con quello storico e la liberazione della singola
persona con la solidarietà concreta,
nelle strutture sociali e verso gli altri popoli. In questa maniera
l'agire etico è anche agire cristiano. La predicazione non può né deve
ignorarlo, se non vuole ridursi a parenesi esortativa che non smuove
l’esistenza, né riesce a cambiare la società. Se talora si consola pensando di
cambiare i cuori, presto si accorge di non aver cambiato nemmeno quelli.
L'agire cristiano è
un agire fondato sulla categoria teologica del popolo di Dio. Si radica
nell'ecclesiologia del Vaticano II, che si può riassumere intorno alla
convocazione alla vita trinitaria di uomini riuniti, che seguendo Cristo e
sotto l’influsso dello Spirito, camminano verso il regno. Per questa ragione lo
stesso popolo di Dio cammina anche insieme al genere umano e alla sua storia,
con la quale i discepoli di Cristo sono realmente e intimamente solidali: «La
loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel
Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno
del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con
la sua storia»[37].
L'agire morale del
cristiano non può essere che quello dell'intera chiesa, cosciente di essere
popolo di Dio in cammino con Cristo e con gli uomini, e pertanto solidale con i
bisogni e le speranze degli uomini. Il cristiano vive non un'etica astratta e filosoficamente motivata, ma è
chiamato a praticare un agire che la Lumen
Gentium descriveva in questi termini:
«Come Cristo [...] è stato inviato dal Padre
ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore
affranto, a cercare e salvare ciò che era perduto (Lc 19,10): così pure la
Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza,
anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore povero
e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza, e in loro intende di
servire il Cristo»[38].
La chiesa è per il
concilio la comunità cristiana nella sua interezza. Il singolo credente non può
sdoppiare la sua morale delegando alla chiesa gerarchica le necessarie opzioni
evangeliche da compiere e limitando la sua prassi di vita a pura e semplice
pratica cultuale o a osservanza individualistica di norme considerate private.
Se intende restare fedele all'agire del popolo di Dio deve anche lui a)
riconoscere Cristo nei poveri e nei sofferenti; b) premurarsi di «sollevarli»
dall’indigenza; c) servire Cristo nei poveri. Solo così facendo, vive la sua
dimensione cristologica ed antropologica nello stesso tempo, ed è
effettivamente solidale con l’uomo e fedele a Cristo[39].
Ma ciò comporta
anche il superamento di modalità di esprimersi ancora sancite dall'uso ecclesiastico,
ma che alla luce di questa impostazione non hanno più ragione di esistere. Tra
queste, la distinzione tra cattolici praticanti e non praticanti, tradisce
ad esempio un'idea della “pratica” completamente inadeguata. Praticante significa nei fatti frequentante, cioè colui che frequenta
la chiesa ed è presente nei momenti di culto, ed è una connotazione
indiscutibilmente positiva, che invece sarebbe ora di sottoporre a verifica
critica. Infatti appena ci si chiede se
la pratica sia la prassi, si evidenzia
immediatamente che si tratta di due realtà diverse. La pratica è qui quella
cultuale e può essere di fatto collegata ad un'effettiva prassi cristianamente
intesa, ma non lo è automaticamente. Anzi lo stesso uso semantico della parola
rivela una mentalità che ha anteposto la dimensione celebrativa e rituale della “pratica” a quella pubblica ed
esistenziale. Ha giudicato l'autenticità dell'agire cristiano dalla frequenza
alla messa (in genere quella domenicale), lamentandosi che i praticanti siano sempre meno numerosi,
senza ulteriormente interrogarsi se alla frequenza alla messa e ai sacramenti
corrisponda un'effettiva prassi cristiana in armonia con quelle scelte di fondo
che sono del popolo di Dio nel suo complesso e sono state prima ancora di Dio e
di Cristo.
A una revisione del
nostro linguaggio etico-pastorale deve portare anche l'applicazione nello
spirito e nella lettera del testo conciliare. A proposito del comportamento dei
cristiani e dell'importanza della testimonianza, sarà bene ricordare che il
Vaticano II ha messo in guardia quanti presumano la salvezza in forza di un'appartenenza solo formale
alla chiesa:
"Non si
salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando
nella carità, rimane sì in seno alla chiesa col «corpo», ma non col «cuore» [40].
E' un monito da non
sottovalutare, se il Concilio ha ritenuto che persino nella diffusione
dell'ateismo gli stessi cristiani abbiano la loro parte di responsabilità:
"Per
questo nella genesi dell'ateismo possono contribuire non poco i credenti, in
quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione
fallace della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa,
morale e sociale, si deve dire
piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della
religione"[41].
A noi sembra che il
compito impegnativo e affascinante di manifestare il "genuino volto di Dio
e della religione" sia considerato dal Concilio un'incombenza dell'intero
popolo di Dio. Spetta ai rappresentanti della componente ministeriale non meno
di quanto non spetti ai laici. Insieme costituiscono una collegialità, ancora da estrinsecare nella nostra chiesa
post-conciliare, se è vero che
"La
teologia del popolo di Dio ha un carattere personale, sulla cui base si può
parlare della chiesa in un senso che va oltre il dato anagrafico (standesübergreifend). Il concilio
afferma perciò espressamente: essa [la
chiesa] non è solo sempre qui, ma possiede forme diverse della sua sussistenza.
E' soprattutto il progetto (Entwurf) dell'esistenza umana in Cristo.
Il singolo si può pertanto identificare con essa a partire dalla
posizione della storia della propria
vita; perché essa è la gioia e la speranza di tutto il mondo. L'appartenenza ad
essa non ha solo un senso istituzionale. Ma si riferisce alla stessa vita dei
suoi membri. Per questo il suo servizio al mondo deve avere carattere
salvifico"[42].
Ma la chiesa in
quanto popolo di Dio è oggi davvero "gioia e speranza di tutto il
mondo?". Posta così, la domanda sembra mozzare il fiato. La frase si
presta a molteplici interpretazioni. Si può accostare con un ermeneutica
pragmatica o relativa all'immagine. Suona allora in questi termini: "la
chiesa sembra essere oggi la gioia e la speranza per tutto il mondo?". E' un quesito che più che rivolgere a se
stessa, la chiesa deve rivolgere gli altri, ai destinatari della speranza: a
quanti costituiscono “il mondo”. Solo essi possono dire se e in che misura la chiesa rappresenti e
concretizzi speranze e ideali, aspirazioni e obiettivi che accomunino tutti. Il
minimo denominatore comune può essere individuato in un diffuso bisogno di
giustizia e di pace, fino ad aspirare a un nuovo ordine mondiale che ponga fine
alla tanta violenza che travaglia popoli tra loro e società al proprio interno,
che ponga fine allo sterminio per fame di milioni di esseri umani. E' solo un
sogno o deve essere un orientamento ed un orizzonte etico al quale l'umanità
non può rinunciare?
Certamente gli strumenti dell'etica filosofica
classica, quelli che pur proclamando la libertà di tutti, nei fatti sono stati
invocati per difendere solo la libertà dei più forti e dei più ricchi, non
modificheranno le cose nel senso indicato. Come già accennato, solo un'etica generatrice
di solidale responsabilità verso il diverso e il povero, il meno capace e meno
abbiente, può costituire un'alternativa[43]. L'alternativa è che l'etica, prima ancora
che la morale cristiana assuma come suo principio che "la responsabilità
per la libertà e la dignità dell'altro diventi responsabilità per il
cambiamento e la trasformazione della società"[44].
In questa
direzione, lo stesso impianto della morale
del popolo di Dio non può restare in disparte, né essere fanalino di
coda. Deve, al contrario, portare la fiaccola per una reale inversione di
tendenza che passa dalla brutalizzazione attuale dei rapporti (economici,
militari, comunicazionali, sessuali) ancora tutti basati sul dominio del più
forte e del singolo soggetto (individuo, casta, tribù gruppo sociale), alla
prassi di una libertà che celebra non se stessa, ma che libera gli altri.
Ma che la chiesa
sia gioia e speranza del genere umano
può essere inteso anche in un altro senso.
E' la convergenza nella grazia (in quanto trascendenza dell'immediato e
dell'utile) di quanto di meglio l'animo umano possa pensare e progettare. In
questo caso è in gioco il popolo di Dio come realtà che si riferisce e mette in
comunione appartenenze differenti e diversità solitamente contrapposte, che
possono e vogliono camminare verso una convivenza di solidale reciprocità.
Proprio una simile ermeneutica restituisce pieno valore a una morale tutta
fondata sulla centralità di un agire che si muove secondo il pensiero e l'agire
di Gesù. Non sarà infatti difficile riscoprire che “la comunità che Gesù voleva”
si è strutturata intorno all'idea di essere sua convocazione, cioè popolo che
grazie alla presenza dello Spirito Santo continua la prassi di Gesù nella prassi della solidarietà[45].
Certamente la chiesa si trova oggi di
fronte a sfide impressionanti. Ciò che
le accomuna sembra essere un diffuso e strisciante rifiuto dell'applicazione
del principio etico della solidarietà. I nazionalismi e le tante forme di
particolarismo che inquinano la vita civile, l'ostilità e persino la violenza
verso i "diversi" e tutto ciò che è "altro"[46], l'indifferenza verso le masse dei
miserabili del mondo esigono, oggi più che mai, che come popolo di Dio e
proprio perché tale, restituiamo un valore di principio etico e diamo spessore
storico a una solidarietà che si faccia carne e diventi speranza per
il mondo.
[1]Nell'ecclesiologia postconciliare l'espressione popolo di Dio non è affatto
ricorrente, nonostante l'importanza
teologica da essa rivestita nel Vaticano II. Cfr. S. Dianich., Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Paoline,
Cinisello Balsamo (MI) 1993, 201ss; G.
COLOMBO, "Il “popolo di Dio ” e il “mistero” della chiesa nell'ecclesiologia
postconciliare", in Teologia 10
(1985) 97-169; A. ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia
giuridica ed ecclesiologia di comunione nella Lumen gentium, Dehoniane, Bologna
1975, 345-360.
[2]Anche se si è soliti indicare con la maiuscola la chiesa come popolo di Dio (scritto invece di solito con la minuscola), si
preferisce seguire l'uso, ormai invalso in alcuni documenti ecclesiali e in
buona parte dell'Enchiridion Vaticanum,
di utilizzare invece la minuscola.
Del resto anche la parola chiesa, traslitterata
dal greco significa ciò che originariamente significava in ebraico popolo di Dio, assemblea, o convocazione.
[3]Il verbo kathgorevw deriva
da katav
ajgorav e significa presentare un'accusa, caratterizzare con
delle proprietà tipiche; in Platone e Aristotele assume il senso specifico di
predicare qualcosa intorno a un soggetto.
[4]E' oggi abbastanza comune l'idea che ogni progresso
della conoscenza scientifica avviene sempre in una sorta di circolarità che
nelle scienze sperimentali ruota intorno all'intuizione, alla sperimentazione e
alla teorizzazione, mentre nelle cosiddette scienze
dello spirito oscilla continuamente tra il momento esperienziale e il
momento teoretico. La rete interattiva tra questi elementi fu esaminata in
maniera sistematica già da W. Dilthey (Cfr. IDEM, Gesammelte Schriften, VI,
Abhandlungen zur Grundlegung der Geisteswisseschaften) e pur con molte
varianti e diverse argomentazioni, ricorre in tutti gli esponenti
dell'ermeneutica. Una ricostruzione critica, documentata, e finalizzata ad una
più ampia teoria dell'agire comunicativo,
è stata fatta - con una prevalente attenzione al versante
filosofico-sociologico - in J. Habermas,
Erkenntnis und Interesse. Mit einem
neuen Nachwort, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 19816.
[5]Un motivo di prevenzione potrebbe essere il fatto che
l'espressione popolo di Dio ricorre molto frequentemente nelle varie
forme assunte dalla “teologia della liberazione”. In particolar modo si recrimina l'accostamento di popolo di Dio all'espressione, in
realtà discutibile, di chiesa popolare.
[6]Alla stessa conclusione perviene S. Dianich, in quale
ritiene che popolo di Dio è "la forma fondamentale
dell'aggregarsi dei cristiani" (S Dianich ., Ecclesiologia.,
op. cit., 231-255).
[7]Per
riferimenti lessicografici più documentati, cfr. S. Dianich "Il concetto di popolo", in IDEM, Ecclesiologia., op.
cit., 202ss.
[8]In questo contesto sono da menzionare alcuni studi
biblici che vedono la regalità di Dio collegata ad una precisa confessione di
fede nella superiorità di Jahvè a
qualsiasi dominatore della terra. Il valore storico di tale formulazione è
immediatamente evidente, se si parte dalla convinzione che Dio è colui che ha
liberato e continuerà a liberare il suo popolo. Si può fare riferimento a:
S.MOWINKEL, Psalmenstudie II. Das
Thronbesteigungsfest Jahwäs und Ursprung der Eschatologie, Kristiania-Oslo
1922; H.SCHMIDT, Die Thronfahrt Jahves am
Fest der Jahreswende im alten Testament, Gießen
1925; M. BUBER, Königtum Gottes,
Berlin 1932.
[9] Sono idee reperibile in un autore tedesco già nel
1931 (Cfr. H.D. Wendland, Die Eschatologie des Reiches Gottes bei
Jesus, Gütersloh 1931) mentre C.H.
Dodd vede la chiave migliore, per capire il rapporto tra Regno e chiesa, nella
frazione del pane, nell' eucaristia, giacché questa rappresenta il banchetto
nel quale il popolo di Dio riceve la forza per il mondo futuro. Cfr. C. H. Dodd, "Die Eucharistie in ihrer
Beziehung auf die christliche Gemeinschaft",
in Theologische Blätter 10
(1931) 164-166.
[10]Si riporta, a titolo d'esempio, Isaia 45,5-8 che
contiene l’affermazione dell’unicità di Dio (v.5), che «ha formato la luce e
creato le tenebre» (v.7) e che «crea (bharà)
giustizia (sedaqà) e liberazione (jeshà)» (v.8). L’atto liberatore di Dio
è collegato a quello creatore. La stessa idea fa da sfondo a Is 45,11-12; 41,4;
48,13-15; 50,2-3. Cfr. il commento a Is 45,5-8 in A. PENNA (ed.), Isaia, Marietti, Roma 1964, 463-465.
[11]Cfr. E. ZENGER, "ortodossia e ortoprassi
nell'Antico Testamento", in Concilium
23 (1987\4) 553-568. L'intero numero è
dedicato a "ortodossia e eterodossia".
[12]"Non lederai il diritto dello straniero e dell'orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore tuo Dio; perciò ti comando di fare questa cosa. Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per il forestiero, per l'orfano e per la vedova, perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai indietro a ripassare i rami: saranno per il forestiero, per l'orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare: sarà per il forestiero, per l'orfano e per la vedova. Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d'Egitto; perciò ti comando di fare questa cosa" (Dt 24,17-22)
[13]Cfr. BOF - A. STASI, La teologia come scienza della fede, Dehoniane, Bologna 1982
[14]Cfr. H. Peukert,
Wissenschaftstheorie-Handlungstheorie-Fundamentaltheologie,
Suhrkamp, Frankfurt 1978, 316ss.
[15]I. KANT, "Kritik aller Theologie aus spekulativen
Prinzipien der Vernunft", in ID. Kritik
der reinen Vernunft 2, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 19555, 556-563.
[16]F. D. E: SCHLEIERMACHER, Sulla religione. Discorsi a
quegli intellettuali che la disprezzano, (a cura di S. Spera), Queriniana, Brescia 1989, 68 (secondo discorso).
[17]Ivi.
[18]Siamo di fronte a una netta linea di demarcazione tra
fede e religione, al punto che non di rado si rifiuta in blocco la religione e
si parla solo di fede, come succede con Scheler, Barth, Bonhoeffer ed altri. Sulla questione cfr. L. BORDIGNON,
Il cristianesimo è una religione? in:
"Credereoggi" 1 (1981/1) 75-84.
[19]K. BARTH, Dogmatica
ecclesiale. Antologia a cura di Helmut Gollwitzer, Dehoniane, Bologna,
1980, 47 [I/2,329].
[20] Ivi.
[21] Ivi 49 [I/2,330] .
[22]Cfr. ancora l'opera citata di H. Peukert, dove si
formula la sua fondazione scientifica
della teologia secondo due tesi: a) nella tradizione
giudaico-cristiana si tratta di una
realtà che viene esperimentata nelle
esperienze del fondamento e del limite dell'agire comunicativo; b) la teologia
fondamentale può e deve diventare
sistema teorico dell'agire anamnetico-solidale
[23]H. Peukert, Wissenschaftstheorie,
op. cit., 324ss.
[24]Cfr. T.
Pröpper, Redenzione e storia della
libertà. Abbozzo di Soteriologia, Queriniana, Brescia 1990.
[25]Così, ad esempio, si coglie una diversa impostazione
nella teologia di Duns Scoto, che in epoca medioevale occidentale reagiva alla
soteriologia anselmiana, oggi ritenuta da alcuni amartiocentrica (per la centralità che vi ha il peccato) e staurocentrica (per la conseguente
centralità che riveste la passione e la croce di Cristo ai fini della di una soddisfazione infinita di un peccato di malizia infinita, come quella di
Adamo).
[26]Cfr. T.
Pröpper, Redenzione..., op.
cit., 64ss.
[27]Il secondo capitolo del citato libro di Pröpper vi fa esplicito riferimento, anche se il seguito
della trattazione dimostra che non è in
gioco una rilevanza d'immagine, ma piuttosto di impostazione di fondo: "teologia della redenzione: come
impostarla e come garantirne la rilevanza" in T. Pröpper, Redenzione...,
op. cit., 93ss.
[28]In questo senso è di grande attualità la lezione della
Pacem in terris. Cfr. S. TANZARELLA
(ed.), Costruire la pace sulla terra,
La Meridiana, Molfetta (BA) 1993. Sulla solidarietà cfr. ancora L. COMINI
(ed.), Alle radici della solidarietà,
La Piccola editrice, Celleno (VT) 1990 e la voce "solidarietà", che
finalmente entra in un dizionario teologico, in G. PIANA,
"solidarietà" in F. COMPAGNONI, G. PIANA e S. PRIVITERA (edd.) Nuovo Dizionario di Teologia Morale,
Paoline, Cinisello B. (MI) 1990, 1263-1271; miei contributi più specifici sono:
G. Mazzillo, "l'assunzione
dell'altro come dimensione etica della Pacem
in terris", in S. TANZARELLA (ed.), Costruire la pace..., op. cit., 81-110; ID., La teologia come
prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1988, 67-101; sulla prassi di Gesù come prassi solidale cfr. ID., Gesù e la sua prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1990.
[29]E' un concetto che si può ritrovare, pur nella
diversità di formulazioni e variazioni, nelle encicliche sociali di Giovanni
Paolo II. La solidarietà come «categoria morale» affiora, ad esempio nella Sollicitudo Rei Socialis,
particolarmente nella IV parte, nn. 35‑40, e nella Centesimus annus, dove il concreto
impegno di solidarietà e carità (n. 49) è interpretato come cura e responsabilità per l'uomo (n. 60).
[30]Cfr. E.
CHIAVACCI, Teologia morale 3/1, Teologia morale e
vita economica, Cittadella, Assisi
1985, 170ss.
[31]Siamo
dell'avviso che anche il precetto elaborato da Chiavacci (Ivi, 209ss) "se hai,
hai per dare" possa essere meglio motivato, anche dal semplice versante
puramente etico, nella formulazione del principio responsabilità che
ciascuno ha di fronte a colui che ha concretamente bisogno del suo intervento.
Cfr. a riguardo H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi,
Torino 1990 (ed.orig. tedesca 1979). La responsabilità non riguarda solo il
vincolo che qualcuno contrae con il suo passato (responsabilità di aver fatto
qualcosa), ma anche assunzione di un obbligo per il futuro (responsabilità per
qualcuno a qualcosa). Ciò che obbliga
eticamente - prima ancora che religiosamente è l'appello morale che ogni
vita fragile e indifesa (è celebre l'immagine del neonato) rivolge a chi gli è
accanto, per lo stesso fatto d'esistere e per la stessa circostanza della
vicinanza effettiva al soggetto etico. Anche il futuro del cosmo, accomunato
nello stesso destino del futuro dell'umanità, sfida la credibilità dell'agire
di pace. Sull'applicazione cristiana di questo principio cfr. G. MAZZILLO, "la pace e la
riscoperta dell'altro", in Bozze 15 (1993\1) 43-52.
[32]Cfr. G. LOHFING, Per
chi vale il discorso della montagna? Contributi per un’etica cristiana,
Queriniana, Brescia 1990.
[33]Ivi, 49ss.
[34]Un fenomeno che risale all'epoca di Costantino, quando
la radicalità evangelica fu ritenuta
compito solo di alcuni prescelti: cfr. “la morale del doppio binario”,
in G. MATTAI, “Verso
una ’coscienza teologica’ della pace”, in Il problema della pace tra filosofia e politica, Edizioni
Augustinus, Palermo 1986, 17. Di G. Mattai cfr. anche ID., Oltre le sabbie mobili. Contributi del Magistero all’etica sociale,
SEI, Torino 1992.
[35] «In tema di conversione, l’alternativa “prima la
conversione personale o prima la conversione delle strutture?” è una falsa alternativa. Non ci sono propriamente da
un lato le strutture e dall’altro le persone in
relazione, bensì relazioni umane strutturate. Sarebbe illusorio pretendere di
ottenere risultati di strutture “giuste” senza modificare, o prima di modificare la moralità
delle coscienze. Ma non meno illusorio sarebbe il pensare ad una vera
conversione delle persone, lasciando tra parentesi per un tempo futuro il
problema delle strutture della convivenza reale» (S. Bastianel, «Strutture di peccato. Riflessione
teologico-morale», in Id. (ed.), Strutture di peccato. Una sfida
teologica e pastorale, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1989, 37-38).
[36] J.B. Metz,
Jenseits bürgerlicher Religion. Reden
über die Zukunft des Christentums, Kaiser-Grünewald, München/Mainz 1980, 100.
[37]GS
1: EV 1, 1319.
[38]LG 8. EV 1,
306.
[39]Cfr. G. MAZZILLO,
«La scelta preferenziale per i poveri: cosa implica, cosa comporta», in Aa.Vv., Motivi e modi della carità ecclesiale, Editrice Queriniana, Brescia
1985, 72-77.
[40] LG 14: EV 1, 323.
[41]GS, n. 19: EV
1, 1375.
[42]E. Klinger,
"Das Amt des Laien in der Kirche. Die Theologie del Volkes Gottes nach dem
II. Vatikanum", in E. Klinger - R.
Zerfaß (edd.), Die Kirche der Laien. Eine Weichenstellung des Konzils, Echter, Würzburg 1987, 79-80.
[43]Cfr. A. RIZZI, L’Europa
e l’altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline,
Cinisello Balsamo (MI) 1991.
[44]H. Peukert, "Praxis universaler Solidarität", in Schillebeekx
E. (ed.), Mystik und Politik.
Theologie im Ringen um Geschichte und Gesellschaft, Mainz 1988, 172-185, qui
177.
[45]Cfr. G.
Lohfing, Gesù come voleva la sua
comunità. La chiesa quale dovrebbe essere, Paoline, Cinisello B. (MI) 1986,
particolarmente pp. 105-178. L'autore
dà anche una serie di preziose indicazioni bibliche sul tema della solidarietà, indicata nelle sue
espressioni bibliche più varie, oltre che dal concetto di koinwniva. Particolarmente originale è lo studio sulla solidarietà elaborata dai pronomi
indicanti reciprocità (a;llhvlwn e simili).
[46]Cfr.
Credereoggi 11 (1991) su "la
giustizia nel mondo economico" e Concilium
29 (1994\4) su "migranti e rifugiati".