Giovanni Mazzillo <info autore> | home page: www.puntopace.net
Sulle tracce storiche di Gesù, nella riscoperta della pace come cuore del
vangelo
(Locri 28-05-03). Origine: Gesù realizza il
messianismo biblico. Relazione alla settimana biblica di Lucera (14-03-03)
L’argomento è sicuramente affascinante, ma anche
complesso. Per procedere con un minimo di ordine in un orizzonte così vasto, lo
svilupperò in riferimento alla tipicità dell’annuncio del Regno di Dio da parte
di Gesù (prima parte); al radicamento nella bibbia dello shalom
messianico (seconda parte); al fatto che Gesù realizza lo shalom
messianico e impegna i suoi discepoli nella sua promulgazione (terza parte).
Almeno alcune delle classiche premesse introduttive sono indispensabili. La
prima riguarda la persona e l’agire di Gesù. Come risulta dalla critica storica
e dagli esiti degli stessi studi biblici, non è possibile la ricostruibilità
storica di un’esatta cronologia degli avvenimenti che ne hanno segnato il suo
passaggio tra noi. Come è noto, non disponiamo di fonti “non canoniche”
sufficientemente informate sulla vita di Gesù, mentre le fonti bibliche
risentono troppo di ricostruzioni letterarie che non sono sembrate concedere
molto, se non limitatamente a ciò che R. Fabris raccoglieva in una "cartella
anagrafica di Gesù"[1].
Ciò riguarda pochi dati come assolutamente certi, tra i quali il nome di Gesù:
Jeshù, abbreviazione di
Jehoshùa;
i suoi genitori, Joseph e Myriam; il tempo
della sua nascita, individuata nell'epoca del re Erode (tra il 5/6 a. C.); il
suo stato civile di celibe e la sua professione di carpentiere.
A ciò sono tuttavia da aggiungere, come elementi decisivi, il messaggio
della via maestra dell’amore e della resistenza al male con il bene, in quanto
elementi collegati comunque all’interiorizzazione del progetto di Dio da parte
di Gesù e a una sorta di radicalità spirituale. Ciò è alla base del suo un
ripudio da parte delle autorità giudaiche e romane di Gerusalemme, fino alla sua
condanna a morte sulla croce, come avveniva per gli zeloti dell’epoca.
Il
più recente studio su
Gesù di J. P.
Meier ne parla come di
“un
ebreo marginale”, il cui messaggio s’incentra su un Regno di servizio, con in
prima fila gli umili. Partendo dall’ebraicità di Gesù, che l’ultima fase
della ricerca storica ha messo in luce, lo studioso americano evidenzia però una
“marginalità” di Gesù, almeno rispetto al mondo religioso e cultuale della sua
epoca[2].
Delle 4 parti della monumentale ricerca di Meier facciamo qui riferimento
soprattutto alla prima e alla seconda[3].
Tale ricerca, minuziosa e persino pignola, appare su alcuni punti molto, troppo,
cauta. Vuole sgombrare il terreno dai numerosi riduzionismi ai quali la
ricostruzione storica di Gesù è stata piegata. Contiene critiche rivolte sia ai
“fondamentalisti e conservatori”, a corto di argomenti storici, sia alle
cosiddette letture parziali, accusate alquanto frettolosamente di essere
sociologicamente inquinate di marxismo[4].
In questo caso occorre però riconoscere che lo studio non mostra un rigore
critico pari a quello
storico, dal momento che spesso identifica un tale sociologismo marxista
semplicemente con una non meglio precisata “teologia della liberazione”[5].
A tale riguardo ci sentiamo di
annotare, pur riconoscendo la distanza di Gesù dalle interpretazioni teologiche
di stampo zelota o di messianismo terreno[6],
che in Meier come in altri autori sembra essere presente un pregiudizio
sistematico verso quanti, e noi siamo tra questi, non accettano che
l’escatologia di Gesù riguardi solo un futuro tutto di là da venire. Il rischio
che affiora è un’interpretazione spiritualistica, non sufficientemente adeguata
alla globalità della salvezza dell’epoca, tipica dell’agire di Gesù, come fatto
interiore ed esteriore, terreno e ultraterreno, personale e collettivo. Un
esempio? Le beatitudini di Gesù, interpretate solo come promesse, trascurando il
fatto, riconosciuto dalla maggior parte dei biblisti, si pensi all’opera di J.
Dupont, che esse sono un pronunciamento salvifico di Dio nell’oggi e
rappresentano uno sconvolgimento del giudizio dell’uomo[7].
Se Meier fa riferimento anche al valore del
presente, questo appare come conversione intima e individuale, che non investe
un cambiamento di prospettiva con risvolti storici e sociali ben precisi.
E
con ciò tocchiamo una seconda premessa, che qui non può che essere accennata e
che è stata trattata in maniera più diretta nel volume “Gesù e la sua prassi di
pace”[8]:
l’attendibilità storica dei vangeli non già sulle vicende cronologiche della
vita di Gesù, ma sul suo progetto teologico, un progetto passato ai suoi
discepoli attraverso la loro frequentazione del maestro.
Quel “progetto teologale”, più che “teologico” è certamente una
rivisitazione e una re-interpretazione di ciò che la Bibbia diceva rispetto a un
argomento particolarmente scottante alla sua epoca, il messianismo. E con il
messianismo l’altro argomento, che nel vangelo sembra fargli coppia, e che è
l’annuncio del Regno di Dio. È a partire dalla congiunzione di questi due grandi
temi che, a mio avviso, si può e di deve cogliere l’agire di Gesù come vero e
proprio agire di pace.
Un riferimento può essere utile,
per evidenziare la paradossalità e la specificità di un tema così vasto come il
Regno di Dio nella predicazione e nell’agire di Gesù. Riguarda il detto di Gesù
che nel Regno di Dio il più piccolo è più grande del Battista (Mt 11,11). Le
spiegazioni del detto di Gesù si sono sprecate e sono lungi dall’essere
approdate a una soluzione unitaria. A noi sembra esemplare, perché ci consente
di cogliere la consapevolezza di Gesù sul fatto che il Regno, da lui annunciato
e impiantato, sia un regno della misericordia e dell'amore. Un regno pertanto
diverso da quello annunciato dal Battista, tratteggiato a tinte fosche come
regno del giudizio e della consunzione del fuoco purificatore che stava per
abbattersi sulla terra[9].
Per
Gesù il Regno costituisce un particolare intervento di Dio tra gli uomini.
Questi sono chiamati sì alla conversione, alla metanoia, ma lo sono
secondo particolari modalità: sono invitati da Gesù a far festa, dopo i giorni
dell’austero richiamo del Battista[10].
Se, giustamente, il Regno non si può ridurre a un "simbolo in tensione", come
affermato da qualcuno[11],
deve essere una realtà escatologica, cioè ormai definitiva e irreversibile, che,
seppure non ancora compiuta, è stata già decisamente avviata.
Se
queste sono le caratteristiche principali del Regno di Dio,[12]non
possiamo trascurare che cammina in questa direzione la beatitudine di Gesù
«Beati i facitori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Sebbene nella sua formulazione questa non si ritenga una delle «ipsissima
verba Jesu», non si può misconoscere che sia una sintesi riuscita di una
predicazione e di un agire che ha per soggetto Gesù e coloro ai quali egli
rivolge il suo messaggio. È, infatti, una partecipazione all’attività benevola
di Dio, ed è nel solco di quella fusione tra agire di Dio e agire dell’uomo, che
troviamo in passaggi evangelici come questo:
«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e
dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti
percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare
in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti
costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da’ a chi ti domanda e a chi
desidera da te un prestito non volgere le spalle. Avete inteso che fu detto:
Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri
nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro
celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa
piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi
amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il
saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno
così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro
celeste» (Mt 5,38-48).
Gesù
allude ad una radicalità nella benevolenza verso gli altri (mi sembra
questo il senso più con vincente dell’espressione «siate perfetti come il
Padre») che partecipa della radicalità dell’amore di Dio verso gli uomini.
Quanti vivono così possono anche essere incompresi e insignificanti secondo la
logica umana. Tuttavia partecipano a quella corrente dell’amore di Dio che
riceve nel Regno una sua rappresentazione teologica. Di esso sono parte
costitutiva e sono pertanto veramente beati. Sono chiamati ad essere tali.
Chiamati a gioire della venuta di Dio tra gli uomini. Ne sono un avamposto nella
storia.
Quello annunciato e avviato da Gesù è un regno che
non nasce dal nulla. Ha una sua lunga preparazione nella Bibbia e affonda le sue
radici nel messianismo, cioè nell’annuncio e nella realizzazione della pace,
dello shalom biblico.
Pur parlando di pace, occorre
dire che la Bibbia ci presenta spesso un Dio “schierato”. Lo troviamo al fianco
degli oppressi e delle vittime dell'ingiustizia. Il suo regno non è simile agli
altri regni che tollerano e persino producono ingiustizia su ingiustizia. È
piuttosto un regno di giustizia e di pace. La pace, che affiora in tutta la
ricchezza dello sholom come realizzazione, felicità e benessere
dell’uomo, è spesso collegata al ristabilimento della giustizia. Talora passa
attraverso l’alleanza e la legge (la torah).
In Isaia, nell'Antica Alleanza, «effetto della giustizia sarà la pace» (Is
32,17), in Giacomo, nella Nuova Alleanza, «un frutto di giustizia viene seminato
nella pace per coloro che fanno opera di pace» (Gc 3,18). Siamo in presenza di
una reciprocità, dalla doppia formulazione «la pace nasce dalla giustizia», «la
giustizia è frutto della pace». Una reciprocità che rimanda a un orizzonte più
ampio, riguardante la presenza di Dio, la sua signoria (il suo regno), la sua
benevolenza verso la storia
di Israele e la storia umana.
Ora il regno di Dio non è da
intendersi come semplice contenitore di pace e di giustizia, ma soprattutto come
catalizzatore di una loro sintesi armonica, a partire dall'agire di Dio, che si
manifesta sempre più chiaramente come agire misericordioso verso i peccatori e
verso gli infelici e
come forza liberante verso gli oppressi e i diseredati. È una regno che tende
continuamente a ristabilire il diritto e la giustizia. Tutto ciò si raccorda con
il tema dell'alleanza e con la promessa del ristabilimento del regno messianico.
Una realtà, in definitiva, che esprime il manifestarsi storico di Dio in un
regno di pace:
«Le
montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai miseri del suo popolo
renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l'oppressore. Il suo
regno durerà quanto il sole, quanto la luna, per tutti i secoli. Scenderà come
pioggia sull'erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi giorni fiorirà la
giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna» (Sal 72,3‑7)
Il binomio
pace e giustizia diventa un trinomio, include il «suo regno» e risuona come
una promessa: allude ai tempi del messia. È un tema frequente, pur nelle sue
tante variazioni. In ogni caso si tratta di un futuro su cui Dio impegna se
stesso, impegna la terra al pari del cielo. Ricordate?
«Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno, la
verità germoglierà dalla terra e la giustizia
si
affaccerà dal cielo» (Sal 85,11‑12).
Nella Bibbia sono ancora menzionati insieme la
giustizia e il diritto come prassi regale di Dio, la grazia e la fedeltà (Sal
89, 15; Sal 97, 1‑2). Si tratta pur sempre della giustizia come zedaqà di
Dio, santità ed equanimità, ma anche misericordia e tenerezza di colui che è
«misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es
34,6). In Zaccaria, la pace è menzionata insieme con la verità e resta
nell’ambito dell’intervento salvifico messianico:
«Così dice il Signore degli eserciti[13]:
Il digiuno del quarto, quinto, settimo e decimo mese si cambierà per la casa di
Giuda in gioia, in giubilo e in giorni di festa, purché amiate la verità e la
pace» (Zc 8,19).
In questo contesto si comprende
perché la salvezza operata da Dio abbia origine da un «seme di pace» (Zc
8,7‑8.12). In sintesi, si può affermare che il messianismo fiorisce dalla pace e
fa germogliare, a sua volta, frutti e semi di pace. Talora alleanza e pace
compaiono in parallelismi che ne fanno quasi dei sinonimi. L'alleanza è talvolta
chiamata alleanza di pace (Nm
25,12; Is 54,10; Ez
34,25), ed è un’alleanza per la vita e non per la morte, al punto che Malachia
parla esplicitamente dell’opera di Dio verso il suo popolo come «alleanza di
vita e di pace» (Ml 2,5).
Venendo a Gesù, il suo agire è in piena sintonia e
continuità con quello di Dio. La sua beatitudine sui costruttori di pace, come
figli di Dio non è che la realizzazione di quanto già visto. Egli proclama che
il Regno è venuto e coloro che vi appartengono ne sono i figli. Ne sono come gli
operai e i tessitori, perché sono facitori (artigiani) della pace. Sono gli
eirenopoioi, cioè i poioi (realizzatori), dell’eirene
(pace). Il pensiero di Gesù ha una continuità anche in quello biblicamente molto
radicato di Paolo, che scrive:
«Il
Regno di Dio...non è questione di cibo o di bevande, ma è giustizia, pace e
gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose è bene accetto a
Dio e stimato dagli uomini» (Rm 14,17‑18).
Come a riecheggiare l’annuncio e la prassi di Gesù,
Paolo eclama:
«diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole» (Rm
14,19).
Del resto, il suo epistolario
rievoca le concatenazioni bibliche già accennate, quando declina lo
shalom messianico con
la giustizia, la gioia (Gal 5,22; Rm 15,13), l'unità
(Ef 4,3).
Ci sembra fuor di dubbio che lo shalom sia
bene il messianico per eccellenza. Essa è pertanto il contenuto più proprio
della promessa di Dio. Il «il popolo giusto che mantiene la fedeltà» (Is 26,2) è
lo stesso di cui si dice che «il suo animo è saldo; tu (Dio) gli assicurerai la
pace, pace perché in te ha fiducia» (Is.26,3).
Occorre tuttavia precisare che nell’intera Bibbia la
pace non è superficiale armonia che lascia intatta la violenza degli oppressori
sugli oppressi. Con parole drammatiche e forti la Bibbia parla della fine della
tirannia e della città dei dominatori. Così, ad esempio, è scritto:
«Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna; perché
egli ha abbattuto coloro che dimoravano in alto; la città eccelsa l'ha
rovesciata fino a terra, l'ha rasa al suolo. I piedi la calpestano, i piedi
degli oppressi, i passi dei poveri» (Is 26,4‑6).
È un tema che mette in risalto la giustizia di Dio
contro l’ingiustizia dei tiranni e dei potenti della terra. Lo ritroviamo nella
spiritualità dei poveri di Dio (gli anawim Jahvè) fino ad arrivare a
Maria di Nazareth e al suo Magnificat:
«Ha
spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro
cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato
di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc
1,51-53).
La pace,
allora, è un bene messianico, anche perché
ristabilisce la giustizia violata
e rappresenta l’effetto dell’opzione di Dio per gli oppressi. Non è la falsa
pace condannata da Geremia: quella superficiale di chi nasconde l’opera di Dio e
tende di sottrarsi a lui, di coloro che proclamano: «Pace, pace» mentre non c'è
pace, «perché dal piccolo al grande commettono frode» (Ger 6, 13‑14).
3.1. Beati i figli della pace e non i figli della
guerra
La pace è allora esigente. Gesù ne è ben cosciente e
ci ha avvertiti:
«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!
C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia
compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico,
ma la divisione” (Lc 12, 49-51).
Si tratta di una divisione non voluta né da Gesù, né
dalla pace, né dai suoi «facitori». Tuttavia sembra una conseguenza di quella
radicalità messianica di tipo particolare, alla quale chiama Gesù, una
radicalità che di certo si distingue da quella dei maestri del suo tempo. Alcuni
di essi erano come ossessionati dall’ideale di una purezza legale tanto esigente
quanto lontana dai semplici e dal popolo della terra.
Gesù
è decisamente lontano dal loro “messianismo radicale”. Si distingue tanto dagli
Zeloti, con il loro integralismo violento, che dagli Esseni, con la loro
esasperata santità opponenti i “figli delle tenebre ai figli della luce”, i
primi destinati alla salvezza, gli altri al fuoco. Sebbene ritroviamo sulle
labbra di Gesù alcune espressioni dei testi di Qumran collegati a tali movimenti
messianici, egli predica e pratica una misericordia che non allontana, ma
avvicina i peccatori e gli impuri. Anziché coltivare progetti di insurrezione
violenta e di un regno che si abbatte sulla terra, Gesù ne disegna le
caratteristiche nella sua lenta e complessa maturazione. Egli attribuisce a se
stesso le caratteristiche del “figlio dell’uomo”, che anche i testi di Qumran
mediano da Daniele, per descrivere il messia come colui che «non si allontanerà
dai comandamenti dei santi»[14],
e che sarà motivo di gioia e di speranza per pii ed i giusti. Così, ad esempio,
troviamo in un frammento:
«Attingete forza voi che lo servite, voi che cercate il Signore. Forse che non
dovreste trovarlo proprio voi, voi tutti che con cuore così perseverante lo
attendete? Perché il Signore si metterà alla ricerca dei pii (hasidim)
e chiamerà per nome i giusti (zaddikim).
Sui miti planerà il suo spirito e i credenti ricreerà attraverso la sua potenza»[15].
Quasi in parallelo, Gesù tratteggia l’adempimento
dei compiti del Messia davanti ai discepoli del Battista con queste parole:
«Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la
vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano
l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato
colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,4-6).
E con ciò, applica a sé la profezia di Isaia 61, già
rievocata nella sinagoga di Nazareth. Una profezia sorprendentemente vicina a un
altro testo di Qumram, dove è scritto del messia:
«I
pii glorificherà al trono del Regno eterno. I prigionieri libererà, i ciechi
farà vedere e gli op[pressi] egli riabiliterà». «...allora guarirà i malati,
risveglierà i morti e annuncerà gioia ai miti, ... guiderà i santi e li
custodirà...»[16]
.
Tuttavia, a fronte di una
giustizia legale, Gesù parla della superiore giustizia,
radicata in quella di Dio, e della sua regalità a vantaggio dei poveri e
di coloro che non contano niente. Per lui il Regno predicato per gli infelici
non dipende dalle virtù dei poveri. È il Regno delle beatitudini che rivelano la
sorprendente gratuità di Dio e la natura “particolare” del suo stile di regnare[17].
Gesù si distanzia decisamente anche da ogni pretesa di purezza legale (tanto
degli Esseni che dei Farisei) e dalla
radicalità apocalittica, che arrivava all’idea della “guerra santa”, come
attestano ancora alcuni scritti di Qumran:
«...
il tempo in cui tu hai loro comandato ... non a ... e voi
mentirete sul suo patto ... essi dicono: “fateci fare la Sua guerra ...
perché abbiamo profanato” ... i vostri [nemi]ci devono essere annientati e non
devono sapere che con il fuoco ...»[18].
La strada di Gesù, invece, è
quella di chi ripudia la violenza. Si potrebbe dire che se nei testi di Qumran
c’è la formulazione della beatitudine dei violenti, tanto da scrivere «...
fatevi coraggio per la guerra e ciò dovrà esservi computato a giustizia…»[19],
nel Vangelo c’è l’affermazione contraria. Si tratta di un’affermazione
certamente vicina al pensiero, all’animus di Gesù ed è la beatitudine dei
facitori di pace. Proprio costoro sono quelli che Dio accoglie, “giustifica” e
chiama suoi figli, sicché essi sono figli della luce e non coloro che si devono
preparare alla guerra.
Sono anche queste le ragioni che ci fanno concludere
che Gesù è un re di pace perché è il messia ed è il messia perché è un re di
pace. Pertanto è l’unto di Dio. Realizza le profezie che lo caratterizzavano
come principe della pace:
«Un
bimbo è nato per noi, c'è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno
della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per
sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul regno che egli viene a consolidare e a rafforzare con
il diritto e la giustizia» (Is 9,5‑6).
Gesù adotta uno stile regale
tutto suo, intriso di mitezza, sì da far ricordare il «re umile»,
venuto sull'asinello dei poveri e degli antichi patriarchi: «Ecco viene a te il
tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio
d'asina» (Zc 9,9).
Lo stesso profeta aveva preannunciato il disarmo,
affermando del messia:
«Farà sparire i carri (di guerra) da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l'arco
da guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle genti» (Zc 9,10).
Ciò in armonia con la grande profezia che nel tempo
messianico vedeva i popoli dediti finalmente alla costruzione della pace:
«forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance
in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si
eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is
2, 4; cf. anche Mi 4,3).
Per tutte queste ragioni la notte della nascita del
Messia è un annuncio inequivocabile: «gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in
terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Come a dire: la pace costituisce il
motivo fondamentale per rendere gloria a Dio. La pace sulla terra è la gloria di
Dio.
È un programma confermato e mai smentito da Gesù,
che, come abbiamo visto, collega nel suo insegnamento la gloria di Dio nel cielo
e la venuta del suo Regno con la pace da costruire sulla terra (Mt 5, 1-11). Al
punto che, quando ne vede i primi frutti, esulta di gioia indicibile (Lc
10,21-22; Mt 11, 25-26).
Egli coinvolge i suoi discepoli
nella stessa missione, in un annuncio che si traduce in gesti: «Entrando nella
casa, rivolgete il saluto [cioè
augurate lo shalom]» (Mt 10, 11). È
lo shalom
che prende corpo nella prassi, conformemente all’imperativo: «guarite gli
infermi , risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni»(Mt 10,8).
Non dobbiamo inoltre dimenticare che il binomio
pace-gloria è presente anche nella
scena dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Luca riformula infatti
l'acclamazione messianica di «Osanna al figlio di David», con «Pace in cielo e
gloria nel più alto dei cieli». Ricollega la gloria a Dio e la pace questa volta
nei cieli, ma quasi a dire: «si realizza oggi la pace che Dio vuole nel cielo».
Si tratta del compimento di ciò
che Gesù ha perseguito in tutta la sua vita. Con quella prassi che si può
chiamare “prassi di pace”. I suoi passaggi più importanti sono, come già visto
altrove[20],
un agire che valorizza la convivialità, che esalta la misericordia che richiama
continuamente al servizio. Pertanto: il perdono predicato e praticato, la
resistenza al male con il bene, le reiterate indicazioni a recare un messaggio
che aggreghi i dispersi e rinfranchi gli scoraggiati.
Cosciente di tutto il valore di
un agire informato dalla pace e ad essa sempre orientato, Gesù
non si stanca di affermare la novità del regno: «avete inteso che
fu detto agli antichi ... ma
io vi dico»
(Mt cc 5,20-48), richiamando alla speranza persino nel momento del giudizio:
«Alzatevi e sollevate la testa, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc
21,28)[21].
Egli dà finalmente corpo a quelle parole di Geremia,
che dalla sofferenza dell’esilio rievocava il cuore della promessa di Dio:
«Io
conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di
sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).
In Gesù si realizzava
l'identificazione del profeta Michea tra il messia e la pace, quando
preannunciandone la venuta, affermava: «e sarà lui la pace» (Mi 5,4)[22].
Identificatosi nella sua missione di pace, Gesù
diventava infine pace egli stesso, soprattutto negli ultimi giorni della sua
vita terrena. Al punto che Paolo ha potuto scrivere di lui: «Egli infatti é la
nostra pace», in un contesto storico che confessa che Cristo è «Colui che ha
fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era
frammezzo, cioè l'inimicizia» (Ef 2,14). Facitore di pace («beati i facitori di
pace!)», Gesù compiva adesso la pace nel suo corpo e attraverso la croce (Ef
2,15‑17).
Nella lettera agli Efesini di Paolo troviamo
menzionato soprattutto uno dei grandi effetti della riconciliazione operata da
Cristo: la rappacificazione tra ebrei e pagani.
Non è però da dimenticare che la riconciliazione che
Cristo morto e risuscitato opera sui diversi i livelli e tra tutte le realtà
esistenti.
La sua pace è ri-donata da Gesù
ai suoi discepoli la sera della Pasqua dopo la sua risurrezione. Gesù riconferma
la “sua” pace[23]
che riconcilia con Dio tutti gli uomini, tutto l’uomo e la stessa creazione. È
una pace che passa attraverso il ministero della riconciliazione e che Gesù
ugualmente affida ai suoi apostoli[24].
È una pace che avvia l’era definitiva della pace messianica e diventa
fermentazione di una liberazione destinata a tutta la realtà cosmica[25].
Si comincia così a realizzare il sogno profetico di quella nuova creazione, che
vedrà la riconciliazione anche tra gli animali dei campi, gli uccelli dell'aria
e i rettili della terra (Os 2,20).
Compito di riconciliazione e di discernimento
«La creazione stessa attende con impazienza la
rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità -
non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la
speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per
entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio».
La nuova giustizia superiore all'antica:
Mt 5,19-22
«Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non
supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà
sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello,
sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto
al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna».
Mt 5, 38-48
a)
Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma
io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia
destra, tu porgigli anche l'altra;
b)
e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu
lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con
lui due. Dá a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le
spalle.
c)
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo
nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,
perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i
malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.
Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così
anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa
fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?
[1]
R. FABRIS,
Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, Cittadella Ed., Assisi
1983, 85ss.
[2]
J. P.
MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il
Gesù storico 1, Queriniana, Brescia 2001.
[3]
La
prima parte è intitolata Le radici del
problema e tratta oltre alle questioni di
metodo anche quella delle fonti e dei differenti
approcci al Gesù storico; la seconda è su Le
radici della persona, per un’identificazione
dell’ambiente in cui visse
Gesù e del rapporto della sua persona con
esso; la terza
riguarda il suo ministero pubblico; la
quarta si occupa degli ultimi giorni tragici
della vicenda di Gesù.
[4]
J. P.
MEIER, Un ebreo marginale…, cit., pag.
20.
[5]
Così,
ad esempio, nel 2° volume alla nota 33, Meier
manifesta un’idea preconcetta e piuttosto
generica quando evoca la teologia della
liberazione, scrivendo di una «forzata attualità
al modo della teologia della liberazione».
Tale posizione non sembra del tutto
coerente con la presa di posizione contro le
interpretazioni
recenti americane su Gesù solo come
maestro di sapienza individuale. Di Gesù
l’autore dice che ha condiviso le posizioni
escatologiche di Giovanni (ivi, 143-144).
Ma allora è legittimo domandarsi: perché non
fare un passo avanti nel senso di una prassi
che, distanziandosi dal Battista, manifesta la
concretezza di una salvezza con innegabili segni
di guarigione e liberazione degli uomini? Uno
studio più attento della teologia della
liberazione avrebbe messo in luce, non solo le
differenti forme da questa assunte, ma anche il
fatto che questa collega la prassi cristiana
alla storicità degli atti salvifici di Gesù. Si
sarebbero evitate le generiche insistenze contro
la summenzionata teologia (cf. ancora nel 1°
vol. la pag. 40 e nel 2° la nota 38 di pag.
447).
[6]
Cf., ad
esempio, quanto scritto su R. A. Horsey¸
Jesus and the Spiral of Violence. Popular
Jewish resistance in Roman Palestine, Harper &
Row, San Francisco 1987, pur con il giudizio più
temperato sul volume dello stesso autore
in collaborazione con J. S. Hanson, trad.
it. Banditi, profeti e messia, Paideia,
Brescia 1995.
[7]Al
contrario, tutto è rimandato alla fine della
storia, dal momento che Meier può scrivere:
«Allora e, solo allora, gli affamati sarebbero
stati saziati, i piangenti finalmente consolati,
le iniquità di questo mondo rovesciate e tutte
le promesse elencate
nelle beatitudini di Gesù mantenute, per
lui oltre che per coloro che a lui prestavano
ascolto» (J. P. MEIER, Un ebreo marginale…,
cit., 2,
1242).
[8]
G.
Mazzillo, Gesù e la sua prassi di
pace, Merdiana, Molfetta (Ba), 1990.
[9]
Su questo cf. J. P. MEIER, Un ebreo
marginale 2 ..., cit., p. 209 ss.
[10]
Mt 11,16-19: «Ma a chi paragonerò io questa
generazione? Essa è simile a quei fanciulli
seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri
compagni e dicono: Vi abbiamo suonato il flauto
e non avete
ballato, abbiamo cantato un lamento e non
avete pianto. E' venuto Giovanni, che non mangia
e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. E'
venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e
dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei
pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è
stata resa giustizia dalle sue opere».
[11]
Meier
critica a riguardo l’opinione di Perrin cf.
ivi
293 ss.
[12]
Cf.
ivi, pag. 365 ss.
[13]
Più
opportunamente da tradurre “delle schiere
celesti”, cioè “dell’universo”.
[14]
Mia
traduzione dal tedesco, dalla raccolta dei testi
originali di
R.
Eisenman - M. Wise (Hgg.),
Jesus und
die Urchristen. Die Qumran-Rollen
entschüsselt, Bertelsmann, München
1993, 4Q521 (tavola
1)
I frammento, 2 colonna, pag. 29 (ed. oginale
inglese:
Id.,
The Dead
Sea Scrolls Uncovered, Element Books, Dorset
1992, England, tr. Italiana:
Id.,
Manoscritti segreti di Qumran, Piemme,
Casale monferrato 1994). Altra edizione:
F. GARCÍA MARTÍNEZ (a cura di), Testi di Qumran
(edizione italiana a cura di Corrado Martone),
Paideia, Brescia 1996.
[15]
Ivi.
[16]
Ivi.
[17]A
questo riguardo, il biblista Dupont scrive: «Gli
autori che abbiamo ora citato, e molti altri con
essi, si rendono conto che le beatitudini hanno
un valore religioso, e in questo hanno
certamente ragione. Ma pensano di poter scoprire
questo senso religioso soltanto nelle
disposizioni spirituali di coloro ai quali sono
rivolte le beatitudini. Noi cercheremo di
dimostrare che il privilegio dei poveri e degli
sventurati trova, al contrario, il suo vero
fondamento non tanto nelle disposizioni
spirituali attribuite a queste categorie di
persone, ma nella natura del Regno che sta per
venire, nelle disposizioni di Dio il quale
intende esercitare la sua regalità a favore dei
pii diseredati. Le beatitudini sono prima di
tutto una rivelazione sulla misericordia e sulla
giustizia che devono caratterizzare il Regno di
Dio» (J.
Dupont,
Le beatitudini I¸
Paris 1969, pag. 516.
[18]
R. Eisenman - M. Wise
(Hgg.),
Jesus...,
cit., che fa riferimento a 4Q471, Framemnto 1,
pag. 39.
[19]
Ivi.
[20]
Cf. il già citato G. Mazzillo,
Gesù e la sua prassi di pace, cit. cc. 8-9-10.
[21]
Pur con
un discorso che riprende schemi del linguaggio
talora spaventoso di quel genere letterario
profetico, Gesù annuncia la speranza e la gioia
e sostanzialmente ripete il tenore delle
beatitudini: il capovolgimento da una situazione
di persecuzione e di sofferenza in una
situazione di gioia e di liberazione messianica.
Il rinnovamento reca anche quella
palingenesi, cioè la rigenerazione totale
già accennata, dell'intero cosmo (Is 66,22; cf.
Is cc. 60‑62) ed è, in definitiva, il tramonto
di un mondo violento e peccaminoso e l'inizio di
quei cieli nuovi e terra nuova, «nei quali avrà
stabile dimora la giustizia» (2 Pt 3,13). Del
resto, alla ristabilita armonia creaturale,
tipicamente messianica, allude anche la scena di
Gesù nel deserto, in compagnia con le fiere e
con gli angeli, di Mc 1,12‑13. Ciò potrebbe
essere una testimonianza che la coscienza
messianica, già presente nell' interpretazione
teologica di Gesù, sia poi passata a quella
della comunità primitiva: non una coscienza
vuota, ma dai contenuti tipicamente messianici.
[22]
Così come si trova in alcune accurate traduzioni
di questo passo, il Messia
è la pace
e non piuttosto
egli
porterà la pace. Cf.
Das Neue
Testament, la traduzione adottata dalle
conferenze episcopali di lingua tedesca, che
traduce: «Und er wird der Friede sein».
[23]
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace.
Non come la dà il mondo, io la do a voi»
(Gv 14,27)
[24]
«Gesù disse loro di
nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me,
anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo,
alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito
Santo; a chi rimetterete i peccati saranno
rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno
non rimessi”» (Gv 20, 21-23).
[25] Proprio per questo la pace di Gesù è diversa da come la dà il mondo (Gv 14, 27), ma è pur sempre salvezza da annunciare all’intera creazione (pase te ktìsei), perché “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19-21).
Per una
spiritualità sacerdotale dopo Loreto –[Articolo per Vivarium, Rivista
del Pontificio Seminario Regionale “S. Pio X”
Catanzaro, anno 6
(1985, n 1-2) 13-23]
Il convegno ecclesiale,
tenutosi a Loreto dal 9 al 13 aprile, si è concluso
con una Nota pastorale elaborata dalla XXV assemblea della Conferenza
Episcopale Italiana. Il documento, pubblicato il 7 giugno u.s., traccia un bilancio del convegno e, riassumendone il
messaggio, fissa alcuni traguardi dell'impegno che deve caratterizzare la
Chiesa Italiana in questi nostri anni. Non contiene indicazioni specifiche per
una spiritualità sacerdotale. Ci può offrire tuttavia degli spunti, a partire
dai quali possiamo enucleare una spiritualità, che se può essere valida per la
Chiesa italiana in tutte le sue componenti, è
sicuramente valida anche per i sacerdoti. A mo' di premessa, devo però, a mia
volta, confessare che parlare di una "spiritualità sacerdotale"
specifica mi crea qualche difficoltà. Non perché non veda lo
specifico del ministero ordinato. Lo riconosco e lo insegno. Ma perché
troppo spesso la "spiritualità sacerdotale" è stata estrapolata dalla
spiritualità del cristiano, quello comune, o dalla spiritualità battesimale,
quella, per intenderci, che viene prima, e non solo cronologicamente, ma anche
come presupposto, di ogni altra.
Il testo della Nota
pastorale preferisce parlare un linguaggio che, fatte le debite
precisazioni e i dovuti adattamenti, vada bene per
l'intera compagine ecclesiale. Sulla scia della teologia del popolo di Dio,
tale impostazione sembra migliore dell'altra, perché recupera e sottolinea il senso dell'unità e del comune cammino che sta
davanti a tutti: laici, religiosi, sacerdoti.
La spiritualità che
personalmente riesco a cogliere dal Convegno di Loreto
vale di conseguenza per tutti i cristiani; vale, se vogliamo, a fortiori per
i sacerdoti. Nella mia proposta di riflessione la suddivido secondo quattro
linee principali: 1) spiritualità dell'itineranza - 2) spiritualità
dell'accoglienza - 3) spiritualità del discernimento - 4) spiritualità
della ministerialità. La quarta è qui citata all'ultimo posto, per essere
meglio focalizzata ed esplicitata, tuttavia costituisce lo sfondo e il tessuto
connettivo di tutte le altre.
1) Spiritualità
dell'itineranza
La Chiesa di Dio convenuta a
Loreto presenta se stessa come Chiesa di pellegrini. I partecipanti al Convegno
sono, nelle parole della Nota, «pellegrini di Chiesa» (n. 2). Vogliamo
ricavare una prima indicazione spirituale per il sacerdote? Il sacerdote è,
insieme con gli altri, Chiesa peregrinante e contemporaneamente pellegrino
di Chiesa. Sa di vivere con i suoi fratelli in una realtà in cammino,
essendo da sempre chiamato «a seguire Gesù Cristo e vivere di Lui, crocifisso, risorto e vivo per riconciliare pienamente gli
uomini con se stessi, tra di loro e con Dio» (n. 2). Il compito della
riconciliazione che agli celebra, annuncia e realizza,
avviene strada facendo, in un'itineranza che è innanzi tutto coscienza dei
limiti intrinseci a una situazione in movimento verso un futuro, che si attua
pienamente solo e sempre oltre le sue realizzazioni immediate.
«Dobbiamo avere l'umiltà di
renderci conto - dice la Nota - che a questo mondo
riconciliazioni compiute non ce ne sono. La consumazione del mistero
della riconciliazione appartiene ad un'altra patria, appartiene ad un'altra
epoca della nostra storia, quella che va oltre il tempo» (n. 43). Il sentirsi
in cammino nasce da questa coscienza "escatologica" e nasce dalla
condivisione di quella condizione umana che caratterizza il nostro tempo, con i
suoi problemi, le sue inquietudini, le sue ricerche. Da fratello a fratello, il
sacerdote camminerà accanto agli altri, sapendo che nonostante la ricchezza del
messaggio e dei tesori che porta, egli rimane pur sempre homo viator, uomo
della via. Indicherà il cammino e l'ultimo traguardo, ma non si sottrarrà alla
fatica di chi deve camminare con la vicinanza dell'amico fedele e discreto e la
responsabilità del fratello maggiore.
Egli sa che la terra sulla
quale passa è una terra dura, intrisa di lacrime e talvolta di sangue. Non
passerà dall'altra parte della strada, come il sacerdote della parabola del
samaritano, per non contaminarsi e per poter celebrare con l'immacolatezza
superficiale, che è in realtà indifferenza e falsa neutralità. Egli sa che il
sacrificio che celebra è quello di Cristo. Alzando il suo calice, alzerà verso
il Padre la storia tormentata di una terra che conosce la morte violenta della
delinquenza criminale, dell'aborto e quella lenta ed inesorabile, ma non meno
violenta, della droga, dell'emarginazione, dell'inefficienza delle strutture
che dovrebbero tutelare la salute e la vita. Il sacerdote
farà questa strada e annunciando il "vero" modo di intendere e
rispettare la vita, denuncerà ogni sopraffazione e ogni atto ad essa contraria.
Nondimeno, da uomo che celebra la riconciliazione e il mistero
della redenzione, egli non si sentirà estraneo al peccato degli altri, poiché
lo sentirà anche nella sua carne e, come l'agnello di Dio, lo porterà su di sé,
per vederlo sconfitto dalla potenza della croce di Cristo. Secondo questa
spiritualità, il sacerdote dovrà avere il coraggio e talora la veemenza del
profeta e, al contempo, la sofferta solidarietà del ministro che assolve.
Un sacerdote che non
conoscesse il patire, non sarebbe secondo l'ordine di Cristo, ma ancora e solo
secondo l'ordine di Levi.
Se di Mons.
Romero si poté dire che seppe bere il doppio calice, quello del sangue di
Cristo e quello del suo popolo, con una sola mano consacrata al servizio,
analogicamente si dovrà dire che nella messa di Cristo c'è ogni giorno per noi
la messa del nostro popolo e la nostra messa; quella del nostro avanzare talora
a fatica, del nostro tergiversare e della nostra tiepidezza. Nella messa del Signore offrendo sovente le mani
vuote, staremo, come Mosè, con le braccia sollevate, perché Dio risparmi e benedica il suo popolo.
Tale senso di partecipazione
alla sorte di tutti, il sacerdote l'attinge al suo
ministero sacerdote, al suo mandato specifico di un'intera Chiesa, che, secondo
il documento, «viene così a sentirsi partecipe di tutti i frammenti di umanità,
in questa società italiana che porta ancora le ferite di tanta violenza, non
solo di quella terroristica e delinquenziale, ma anche della violenza dei
poteri occulti, della sempre possibile violenza culturale sui poveri, della
violenza emarginante» (n. 38).
Una spiritualità
dell'itineranza fa sì che si vada sempre «là dove è l'uomo per salvarlo, con i
mezzi della Grazia e dell'amore» con il «coraggio di amare senza riserve» (n.
51). E questo coraggio uno di quei semi, o di quei fermenti
che noi dobbiamo mettere dentro la società dell'uomo e la città dell'uomo,
«quei fermenti - dice il testo - di cui hanno bisogno per non essere
esilio, di cui hanno bisogno per non essere fugaci e puramente provvisorie» (n.
43). E questo, «l'impegno dell'eternità», come si
aggiunge nello stesso numero, ma ciò non significa assolutismo e integrismo di
sorta. Se il ruolo del nostro agire, in quanto facenti
parte della Chiesa, è pubblico ed è per la promozione dell'uomo e per il
bene della comunità civile, ciò deve avvenire - si precisa, citando Giovanni
Paolo Il, - «nel pieno rispetto, anzi nella convinta promozione della libertà
religiosa, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica»
(v. 37).
Alla base di questa
chiarificazione c'è la consapevolezza che la Chiesa ha da realizzare un cammino
di comunione, sia al suo interno, sia all'interno della società civile, «senza
irenismi e senza paure - si afferma - nella consapevolezza che la comunione
ecclesiale è per tutti un cammino mai esaurito, un
traguardo da perseguire sempre nella storia personale e comunitaria» (n. 26).
Quest'ultima affermazione si trova in un passaggio che porta il titolo "Il
dialogo e l'accoglienza". Parlando della comunione
ecclesiale, ricorre il termine conciliare del dialogo come stile di
vita, atto che congiunge insieme verità ed amore. L'itineranza diventa
capacità di ascolto e di accettazione, diventa
accoglienza dell'altro.
2) Spiritualità
dell'accoglienza
Accogliere significa
accogliersi. Sapersi generati come Chiesa dall'unico Spirito, che è Spirito di
santità, sapersi unica Chiesa, pur nella molteplicità delle Chiese particolari,
comporta un « saper "convenire" con senso di maturità ecclesiale».
Comporta, inoltre, - dice il testo di Loreto - una promozione
della "cultura di comunione", che si esprima nell'accoglienza,
nel perdono, nell'ascolto, nella complementarietà dei servizi, nella ordinata
collaborazione pastorale» (n. 48). Accoglienza significa in primo luogo
confessione della propria povertà. Questo vale sia per il singolo, che per la
stessa Chiesa nei confronti della società civile, come pure delle singole
Chiese particolari. Citando un discorso di Giovanni Paolo Il,
si afferma testualmente «La comunità cristiana è ben conscia di non
poter essere la sola promotrice di valori nella società civile. Essa dà, ma al
tempo stesso riceve, in una sorta di dialogo esistenziale» (n. 39). Per il
sacerdote accoglienza significa riscoprire e valorizzare la propria umanità. In
modo analogico alla Chiesa, anche egli ha molto da
ricevere e da imparare. Essere disposti all'accoglienza significa per lui
riscoprire la presenza dello Spirito di Dio nel cuore di ogni
uomo e le tracce del suo passaggio negli avvenimenti che ci succedono intorno. Se l'itineranza ci ricorda come ispirazione e modello Maria
che si mette sulla strada verso Betlemme, verso l'Egitto e poi verso
Gerusalemme e il Calvario, l'accoglienza ci ricorda la visita ad Elisabetta, e
la sua presenza alle nozze di Cana, come pure nel Cenacolo, dopo l'ascensione.
Ma ci richiama soprattutto quel suo atteggiamento fondamentale di accoglienza e di ascolto, con cui sapeva meditare nel suo
cuore, custodendole con amore, ogni parola di Dio e anche le parole degli
uomini.
Accogliere è una sostanziale
recettività verso l'uomo e verso la storia. Significa promuovere la vita,
favorire un'economia che sia per l'uomo, realizzare la
solidarietà (nn. 33.34.38), favorire il volontariato e la cooperazione (nn.
35.41); ma significa, al fondo di tutto ciò, saper sempre coniugare la
"coscienza di verità" di chi ascolta la Parola di Dio con la sostanziale
recettività verso ciò che si coglie nella parola dell'uomo come espressione
della sua ricchezza o meglio del mistero che lo inabita.
È un compito arduo, perché
implica un atteggiamento particolare, quello del discernimento.
3) Spiritualità del
discernimento
Se la nostra spiritualità è venuta caratterizzandosi
come itineranza ed accoglienza, ci chiediamo anche noi, come si chiedevano i
Vescovi dopo Loreto, «come allora continueremo il nostro cammino?» (n. 44). La
risposta suona: con l'evangelizzazione, in
tutta la pienezza del suo significato, «che comporta la proclamazione della
Parola, la sua celebrazione nella Liturgia, la coerenza della carità» (ivi).
E un'evangelizzazione che, entrando nel vivo della
storia, svela il senso dei problemi e delle contraddizioni dell'uomo, «facendo
esercizio di sapienza cristiana, traducendo in progetti e in concretezza le
analisi, secondo la legge dell'incarnazione» (ivi). E
questo il discernimento, che comporta l'attenzione e l'ascolto della Parola di
Dio e l'attenzione e l'ascolto del cuore dell'uomo, che cerca di leggere
entrambi alla luce dello Spirito di Dio e che fa esercizio di sapienza
cristiana. L'equilibrio tra i due aspetti è delicato ed è della massima
importanza. L'ascolto della Parola conduce alla conversione ed è solo «una elevata qualità di vita cristiana» ciò che può
riassumere la risposta da dare a Dio e il segno testimoniante e credibile da
dare agli uomini (n. 46). Il sacerdote, volendo fare delle applicazioni in sede
spirituale, vive in prima persona questo compendio dove la sapienza cristiana è
sapienza evangelica, è conversione, testimonianza e risposta a Dio e agli
uomini. La proposta che egli fa agli altri di quegli «itinerari personali e
comunitari di fede più viva, coerenze morali più chiare e più credibili, virtù
cristiane ed atteggiamenti spirituali» (ivi), per dirla ancora una volta
con le parole della Nota pastorale, è una proposta che passa
attraverso il suo personale coinvolgimento: in prima persona egli è colui che celebra la misericordia sugli altri, perché sa di
doverla celebrare ogni giorno su di sé. Se anche non potesse
testimoniare una vita realmente santa, può e deve sempre testimoniare di essere
un miracolo vivente della bontà, della gratuità e della misericordia del
Signore.
4) Spiritualità della
ministerialità
Lo specifico della
spiritualità del sacerdote consiste nel poter essere contemporaneamente
strumento e destinatario della Grazia.
La struttura fondamentale
della Chiesa è la ministerialità, come diaconia. Essa è "fondata su Cristo
povero e servo" (n. 53). È una ministerialità che passa attraverso il suo
agire, la sua vita. Si tratta di un orientamento di fondo
al quale non possiamo rinunciare, pena lo scadimento in un esercizio di
mestieranti che se non convince gli altri, non convince più nemmeno noi stessi.
La struttura fondamentale del nostro essere preti si esplicita
attraverso quella struttura dialogale che la Conferenza episcopale italiana
ritiene sia la caratteristica specifica dell'intera Chiesa. La nostra
spiritualità si viene allora a definire come ministero, cioè
servizio, o diaconia. La possiamo guardare più da vicino, considerandola come
a) diaconia della verità, b) diaconia della carità e c) diaconia
della missione. Sotto questi tre titoli raccolgo i
tre punti fondamentali del Documento in questione, che dopo una prima parte sul
convegno come "Una esperienza che impegna", ne sintetizza il
messaggio in 3 paragrafi, parlando dello stesso convegno come a) evento
della Parola: la riconciliazione nella verità; b) evento della
pace: la riconciliazione nella carità; c) evento di missione:
riconciliazione e missionarietà; mentre dedica l'ultima parte ai
"traguardi del nostro cammino".
Ritornando a
i tre paragrafi del messaggio diremo:
a) La diaconia della verità
fa di noi degli uditori e degli educatori:
b) la diaconia della carità
fa sì che noi siamo ricostruiti dalla pace e costruttori di pace;
c) la diaconia della missione
ci rende ad un tempo evangelizzati ed evangelizzatori.
a) Uditori ed educatori significa per noi essere innanzi tutto
"uditori della Parola", come si dice nella Nota pastorale, con
la ormai celebre espressione di Rahner. Il servizio alla verità comporta quel
fondamentale atteggiamento che vediamo nelle pagine nel Vangelo
contraddistinguere la Vergine Maria. Saper udire diventa sempre più difficile.
Nella società del frastuono (sia quello esterno a noi, sia quello interiore,
fatto di migliaia di informazioni, di immagini, di
“impegni”) ritornare ad ascoltare, quando tutti vorrebbero parlare, è l'inizio
di una inversione di tendenza, che alla quantità sostituisce la qualità e alle
cose da fare e da dire fa premettere quelle da recepire e da imparare. Ascolto
significa preghiera e capacità di contemplazione. Significa meditare custodendo
con amore la Parola che leggeremo e spiegheremo agli altri nella Liturgia.
Significa celebrare la Parola nella propria vita e per la propria vita,
confrontandosi con il Cristo povero e servo, per vivere con rinnovato slancio e
senza rimpianti il proprio sacerdozio. La nostra stanchezza nasce infatti non dall'eccessivo ascolto. Ha origine nella nostra
mediocrità. Il Vangelo pesa per chi non lo vive interamente e con pienezza.
L'ascolto della Parola di Dio deve essere accompagnato dall'ascolto del popolo
di Dio. Se Dio parla in esso, ascoltarne la voce non è
solo un dovere, è ascoltare il Dio vivente che parla nella storia degli uomini.
Per valutare ciò che è umano, ciò che viene da Dio, è necessario restare
nell'ascolto dello Spirito Santo, per poter operare il discernimento ed
esercitare la sapienza evangelica. Si tratta di un ascolto non precipitoso, non
prevenuto, condotto all'insegna dell'amore per «giudicare e discernere ciò che
c'è di valido negli altri, come dice il documento della CEI, anche nei sistemi
culturali e nelle ideologie» (n. 17).
La diaconia della verità
comporta anche la nostra opera educativa: uditori ed
educatori. Siamo chiamati ad educare alla verità: ancora una volta, a
quella che viene dalla Parola di Dio e a quella di cui è intrisa la storia
umana, almeno come domanda o insieme di problemi che attendono una risposta. La
«pastorale della cultura è, dopo Loreto, un puntare su tutto ciò che affina
l'uomo ed esplica le molteplici sue capacità di far
uso dei beni, di lavorare, di formare costumi, di praticare la religione, di
esprimersi, di sviluppare scienza ed arte: in una parola, di dare valore alla
propria esistenza» (n. 17, che riprende il n. 29 di La Chiesa italiana e le
prospettive del paese). Come si noterà, è un'opera educativa, dove si
valorizza tutto ciò che sale dal cuore umano (l'esistenza) come affinamento e
perfezionamento. Il servizio della verità è servizio a Dio e servizio all'uomo,
chiamato da Lui. Richiede discernimento perché mai si confondano, identificandosi,
il vangelo e la cultura, l'evangelizzazione e
l'inculturazione. Ma richiede altresì la carità, che è
la giustificazione teologica dell'essere costruttori di pace e ricostruiti
dalla pace, vale a dire riconciliati e riconciliatori.
b) Ricostruiti dalla pace
e costruttori di pace significa essere riconciliati in se stessi e con se
stessi, riconciliarsi con la propria esistenza ed anche riconciliarsi con le
proprie realtà ecclesiali, accettando le differenze e ricercando l'unità, oltre
il facile irenismo e l'intolleranza animosa (n. 18). Viene perciò auspicata una
riconciliazione della quale siamo destinatari ed artefici, superando rivalità e
contrapposizioni di associazioni e movimenti, come in
più di un passaggio precisa la Nota pastorale (cfr. n.
18 e 55). In questa diaconia della pace l'ecumenismo viene
recuperato come atteggiamento spirituale complessivo, affinché ogni nostra
comunità sia ecumenica (n. 26) così come dovrebbe essere missionaria. Se la
verità esige che si sia facitori di essa, si precisa
che «la carità di Cristo domanda di essere realizzata nell'amore, per condurre
in tal modo alla fraternità» (n. 18).
Essere artefici di pace
richiede che nelle nostre chiese locali passi la pacificazione, sia con le
nostre realtà ecclesiali interne sia con i problemi e le difficoltà
dell'ambiente circostante. Esige anche che con umiltà si fronteggi «oggi con
nuova decisione il dramma del peccato e del mistero di iniquità»
(n. 20). Ma in che modo? Con l'opera educatrice e con
una proposta di pace che diventa poi segno liturgico e sacramentale attraverso
l'eucaristia e la penitenza, con lo sguardo rivolto al crocifisso,
restando sotto la croce, per vivere ogni volta gioiosamente il mistero della
nostra rinascita e quella del mondo (n. 21).
La ministerialità sacerdotale
va inquadrata in quel ministero della riconciliazione, che si dirige a
tutti e non a gruppi ristretti, e tuttavia ama la gente povera e sa parlare il
linguaggio della gente (n. 22).
c)Evangelizzati ed
evangelizzatori sono infine quanti praticano la diaconia della missione. Se «missione è avere il coraggio di amare senza riserve» (n.
51), «la missione della Chiesa ha una sola origine, un solo contenuto, un unico
fine: la proclamazione del Vangelo». (n. 32). Il sacerdote sa che la Chiesa è
continuamente generata dallo Spirito, che è Spirito di santità e che in questa
sempre nuova rigenerazione, seguendo il Cristo e guardando alla sua croce, egli
sente rivolto a sé l'annuncio del vangelo. Sa di doversi sempre convertire e si
sente destinatario oltre che strumento dell'evangelizzazione.
Il suo annuncio sarà tanto
più convincente, quanto più sarà convinto. Destinatario dell'annuncio, che egli
trasmette, è l'uomo secondo il piano di Dio, in un'antropologia che non può non
essere teologica e in una teologia che è sempre antropologica. La centralità
del Cristo lo fa andare alla ricerca di quell'uomo che è da promuovere in tutte
le sue manifestazioni esistenziali: nella vita, nell'economia, nei rapporti
sociali come pure nei vari contesti culturali nei quali egli vive.
Se essere missionari è avere
il coraggio di amare senza riserve, colui che percorre
le strade degli uomini, lo farà come Cristo, senza la preoccupazione di avere
una sua città, una sua casa, una sua sicurezza e perfino un suo futuro.
Seguendo Cristo povero e
servo, il sacerdote riscopre spazi nuovi nei quali vivere ascoltando e
testimoniando, celebrando il memoriale di Gesù e le speranze degli uomini. Il
suo ministero della riconciliazione riporta gli altri alla ricomposizione di
un'identità umano-divina minacciata e perfino ferita, mentre riporta il
sacerdote stesso al centro della sua vocazione.