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CORSO DI FONDAZIONE ECCLESIOLOGICA DELL’ETICA SOCIALE

APPUNTI

A. A. 2004/2005

Prof. G. Mazzillo

[NB. Il testo contiene caratteri greci. Se questi non vengono visualizzati occorre caricare nel proprio sistema il font GREEK].

1. Quali fondamenti per quale morale?

Parlando dei "Fondamenti della morale"- Simon Weil distingueva le morali basate sull’interesse (l’eudonismo, in cui il bene è il piacere; cf. Socrate ed Epicuro che ritenevano il bene il piacere calcolato), le morali basate sull’istinto (cf. Hume ed Adam Smith, Guyau: la morale è senza obbligo né sanzioni) e le morali sociologiche (per i suoi propugnatori l’etica deriva dal condizionamento sociale, legato a un’epoca e a un gruppo umano ben determinati)[1].

Se tali fondamenti sono chiaramente insostenibili, diceva la Weil, da altri gli stessi fondamenti sono cercati in una concezione teologica che parte da Dio o dagli dèi e dalla loro volontà. Tuttavia, commentava, anche tali morali sembrano cambiare con il passare del tempo. Sicché, ad esempio, un sacrificio umano, un tempo ritenuto atto sommamente religioso, oggi è comunemente ritenuto immorale dalle religioni. Alla stessa maniera le guerre "di religione", l’inquisizione con i suoi metodi (delazione, tortura, condanna a morte) ecc. In realtà una religione impone di combattere gli altri e persino di distruggerli nella misura in cui è intollerante. Al contrario, quanto più una religione è pura più i suoi imperativi assomigliano agli imperativi morali[2].

A fronte di tutto ciò, l’autrice sollevava la domanda, che era già di Socrate: «Diremo che l’uomo è santo perché gli dei lo approvano o che gli dei lo approvano perché egli è santo?», per concludere che se Dio è visto come gendarme (Dio esterno all’uomo) l’etica è fondata sulla paura e su principi estrinseci e mutevoli. Se, invece, è avvertito come un Dio interiore (scoperto e da scoprirsi continuamente con l’adesione della propria anima) allora non fornisce soluzione alla questione morale posta da Socrate[3]. Alla fine non si può affermare che Dio risolve la questione morale, ma piuttosto che l’ideale morale prova Dio. Il pensiero della Weil sembra molto netto a riguardo:

<<Kant: «Se potessimo constatare o provare Dio, la legge non sarebbe mai trasgredita». Coloro che credono di entrare in contatto con Dio mediante l’esperienza (mistica) commettono una sorta di bestemmia. Così si distrugge il divino. Per definizione, in quanto è il valore supremo, Dio è indimostrabile. Dio non può essere sentito. «Vere tu es Deus absconditus». Si può dire che Dio ha voluto nascondersi proprio perché se ne avesse la nozione. Ogni tentativo per fondare la morale sulla teologia distrugge contemporaneamente la morale e la teologia. Non bisogna dire: «Io devo fare questo perché Dio lo vuole», ma: «Dio lo vuole perché io devo farlo». In questo caso, Dio aggiunge solo la forza per farlo. Il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento segna il passaggio dal Dio esteriore al Dio interiore. Claudel: «Che cosa c’è di più debole e impotente di Dio, dal momento che Egli non può niente senza di noi?»>>[4].

Tale concezione della morale passa attraverso la scelta convinta dell’uomo, chiamato a decidere da Dio stesso, il quale, a sua volta, è impotente di fronte alla libertà dell’uomo, perché non vuole né può forzarla, avendola voluta come tale, cioè come libertà. È una concezione che tende, in ogni caso, ad affermare l’assolutezza dei principi morali. Questi vengono così messi al riparo dalle morali sociologiche (Weil include anche quelle “teologiche”), mutevoli e spesso lassiste: derivano da una sorta di lassismo sociale, visto che alla fine è la società a fondarle, richiamandosi agli dei oppure a delle semplici consuetudini o a una tradizione. Ma in questa maniera la morale diventa irrimediabilmente relativa.

Quale alternativa c’è? Simone Weil, passando in rassegna i pensatori classici, da Socrate a Kant, mette in risalto la connessione da loro operata tra la conoscenza, come sforzo per capire e superare se stessi e la virtù. Rifacendosi a Platone, al cui pensiero spesso attinge, conclude:

«La salvezza morale e la salvezza intellettuale sono una sola e unica cosa: occorre distaccare la propria anima da ciò che è passeggero per rivolgerla verso ciò che è, ossia liberarla dalle passioni. Se non ci si è esercitati a pensare senza passione per mezzo del ragionamento puro, non ci si può riuscire. L’intelligenza dipende dalla virtù e la virtù dall’intelligenza»[5].

Da tale assunto di fondo l’autrice, passando infine per il pensiero di Kant, ne mostra una sorta di naturale ineluttabilità dell’esistenza di Dio:

«L’uomo virtuoso prova Dio con la sua virtù[6]. Non è la virtù che procede da Dio, ma Dio che procede dalla virtù»[7].

Le riflessioni di S. Weil non sono da sottovalutare. Vengono da una frequentazione assidua e convinta di autori di grande spessore, come quelli citati. Sono di un’autentica testimone di un modo genuinamente impegnato di impostare la propria esistenza. Condivisione e dedizione totale della propria vita attestano la serietà con la quale lei pensava vivendo e viveva pensando.

All’inizio delle nostre lezioni sulla fondazione ecclesiologica dell’etica sociale, dobbiamo anche noi chiederci quale consistenza reale abbia lo stesso titolo del corso. Cioè: se un’impostazione teologica (sebbene condotta sul versante dell’ecclesiologia) non cada sotto la critica che ritiene insufficientemente motivata una morale che non si giustifichi da sé, ma ricorra a giustificazioni estrinseche. In altre parole, ammesso che la nostra appartenenza alla chiesa fondi adeguatamente l’etica sociale, che cosa n’è di coloro che nella chiesa non credono o di essa non fanno parte? Non sono anch’essi richiamati all’assolutezza del comportamento etico socialmente responsabile dell’altro e degli altri?

Qui però tocchiamo il cuore del problema. In realtà, quanti asseriscono di non credere ad una chiesa, non per questo sono completamente al di fuori di un riferimento e di un contesto ecclesiale. Partiamo infatti dal presupposto che altro è rinnegare un rapporto, altro è esserne tagliati fuori in maniera irreversibile e irrimediabile. Come, ad esempio, non basta rinnegare un congiunto, per tagliare la realtà storica di quel rapporto, così non basta ritenersi al di fuori della società, per esserne completamente separati. Con la realtà del popolo di Dio il legame è ancora più consistente. Legati a Dio esistenzialmente, siamo tutti e comunque in rapporto con la sua redenzione operata in Cristo e con il suo mistero pasquale, del quale anche i non cristiani ugualmente, sebbene misteriosamente, partecipano.

Infatti il mistero pasquale della salvezza

«non vale solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale»[8].

Una prima provvisoria conclusione è pertanto che la fondazione ecclesiologica non si basa su qualche “credenza” teologica, ma sul fatto che tutti costituiamo il popolo di Dio, sebbene a diverso titolo e con diversi gradi di appartenenza. Dalla stessa natura ecclesiale dell’uomo scaturisce una morale socialmente rilevante, così come dalla sua socialità e relazionalità costitutiva scaturisce l’agire etico socialmente responsabile. Se si può sostenere che non ci sarebbe etica senza relazione interumana, si deve anche poter affermare che non ci sarebbe agire sociale moralmente qualificato senza questa fondamentale e costituiva relazione della singola soggettività con le altre. Proprio questa relazione costituisce la chiesa e pertanto è possibile ripensare alla morale sociale a partire da essa.

2. Il popolo di Dio soggetto di morale evangelica

Sarà bene dire subito che la morale sociale della chiesa non è un puro e semplice sistema dottrinale autonomo e a sé stante. Già il fatto che il popolo di Dio si presenti strutturato e diversificato nei suoi vari soggetti che lo compongono comporta una prima e prioritaria riflessione sulla corretta impostazione delle relazioni, tanto a livello orizzontale che a livello verticale. Ciò che a prima vista si impone è una rilettura di quella dinamica tipica di ogni vivere associato che passa sotto il nome di esercizio di potere.

Nella comunità cristiana, in quanto popolo di Dio, il potere è esso stesso innanzi tutto un problema morale. Per poterlo considerare più adeguatamente, si può partire da una prima distinzione tra la potestas (che è potere statale, civile, in genere di natura politica) e l’auctoritas (che corrisponde ad un’autorità nel campo morale e sociale). Il potere civile fa riferimento ad una coercizione; il potere spirituale non può ricorrere alla coercizione in senso fisico. Quando ciò è successo o succede, si assiste ad una confusione di questi due aspetti, mentre il potere spirituale finisce con il diventare vera e propria potestas anche negli altri campi della vita sociale[9]. Ma ciò significa anche l’allontanamento dalla prassi e dall’insegnamento di Gesù. A questo riguardo, o noi recuperiamo la genuina logica evangelica, oppure l’auctoritas diventa inesorabilmente e nefastamente una potestas con le caratteristiche di un potere coercitivo civile[10].

In realtà, l’auctoritas si fonda sul soggetto in causa e non sulla coercizione, cioè sul potere in quanto tale. Trattandosi di Dio, egli ha autorità in se stesso e non in forza della coercizione che esercita. Non di meno, quest’auctoritas è vissuta sovente dalle religioni anche come potestas. Il mana, forza inerente al sacro e alle sue manifestazioni, è infatti potere. Come tale genera il tabù, proibizione ancestrale e primordiale dalla quale ogni altra discende. Tutte le religioni si basano sul concetto di mana: forza a cui ci si riferisce, potere numinoso (da numen, Dio), che è sembrato il fondamento della stessa religiosità umana, oltre che delle religioni. Ma il mana è un potere così forte da suscitare paura, è sottomissione totale e immotivata, fino al punto che l’uomo ha ritenuto di dover sacrificare tutto a Dio. In forma sintetica, si potrebbe dire che in questa concezione religiosa non è il pericolo che diventa santo, ma è il santo che diventa pericolo e quindi atterrisce l’uomo, nel mentre lo attrae con il suo fascino di mistero, vale a dire ciò che è sconosciuto.

Con la venuta di Gesù sulla terra le cose cambiano radicalmente e la religione mostra aspetti completamente inediti. In Gesù l’Onnipotente mostra il suo aspetto più inedito e sconvolgente, del tutto inimmaginabile: rinuncia alla sua onni-potenza, per rendersi così vicino e solidale agli uomini, da diventare come uno di loro, da farsi uno di loro.

L’ineffabile ed inavvicinabile Dio, il mana che richiedeva il tabù supremo dell’inaccostabilità del sacro, è ormai il Dio vicino e toccabile, udibile e visibile. La suprema potestas è divenuta in Gesù la voce di un fragile e indifeso bambino e, successivamente, l’insegnamento di un Maestro particolare, che parla con autorevolezza, nella meraviglia delle folle e degli stessi dottori della legge. L’onnipotenza dell’amore diventa strada e cammino tra gli uomini. Non si impone con alcuna violenza, ma solo con la sua autorevolezza, grande eppure indifesa, a rischio di essere rifiutata e disprezzata, perfino odiata, fino alla soppressione e alla morte. Proprio la croce diventa allora l’autorità più grande e la testimonianza più credibile dell’amore, realizzando le parole di Gesù:

<<«Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire>> (Gv 12, 32-33).

In questo modo si rende comprensibile anche l’altro suo detto di fronte al suo giudice, Pilato:

«Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36).

Asserendo questo, Gesù ha ricordato che il suo potere non è secondo la logica di questo mondo. La conseguenza più vistosa è che la venuta di Gesù mette in crisi tutto il processo religioso con il quale l’uomo cerca e accosta Dio come l’Onnipotente, come sconfinato e incondizionato potere, fonte solo di tabù, di sacrifici e sottomissione. In Gesù, al contrario, l’onnipotenza di Dio diventa impotenza, dono totale di sé, e persino apparente assenza di Dio stesso.

Ciò significa anche l’importanza della debolezza e della follia della croce, nella quale si mostra ancora più grande la potenza di Dio:

«La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti» (Cf. 1Cor 1,18-19).

Si può ben dire, con la liturgia, che Cristo regna dal “legno” della croce, tenendo presente che il legno è contrapposto al “ferro” delle armi e all’oro delle ricchezze, con cui dominano i re di questo mondo.

Le conseguenze per la Chiesa sono della massima importanza. Essendo essa chiesa di Cristo, popolo di Dio adunato dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, non può appellarsi ad un concetto di potestas lontana dalla auctoritas Jesu, che è la l’autorità della croce, attraverso la quale l’amore dimostra tutta la sua radicalità e la sua totale intensità. Il potere che Gesù ha ricevuto dal Padre e che conferisce ai suoi è della stessa natura, non è assimilabile a quella di natura di politica e civile.

Matteo parla, è vero, della potestas piena di Gesù Cristo (p©sa ™xous…a), ma non è da dimenticare che si tratta del  Signore crocifisso e risorto. È lui che dice:

«Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20).

Se la chiesa è comunità di Cristo, non è fatta per essere servita e riverita, ma per servire, al pari di Gesù. Il potere che ha ricevuto è potenza benefica di aiutare e di salvare, di redimere e trasmettere la lieta notizia della redenzione che Dio continuamente opera tra gli uomini.

La Chiesa, insomma, proprio perché collegata a Cristo, agisce e vive per liberare gli uomini, e non per opprimerli. Sta sotto la sovranità di Cristo. È lui il Signore, del quale si afferma la presenza e il continuo sostegno attivo e reale. La presenza dinamica del KÚrioj richiama il concetto biblico della shekinah, la presenza, di Dio, come ad esempio succede con la tenda del convegno, con il tempio e con l’arca. Simboli che progressivamente furono identificati, dopo la distruzione del tempio e dopo l’esilio, nella pura e semplice vicinanza di Dio accanto al popolo disperso, umiliato e smarrito. Si arrivò, infatti, all’idea teologica che se Dio è nel suo popolo, la sua vera arca è il cuore dell’uomo.

In continuità con tale progresso teologico della presenza di Dio, Gesù non nasce nel tempio, e nemmeno nella città santa; non ha attorno a sé dei sacerdoti, non vive in una reggia. Tutti i segni del potere (religiose, sacrale e civile) vengono da lui demitizzati, prima ancora che dai suoi gesti, dalle sue scelte. Gesù abbandona il potere, per impostarlo come autorità, facoltà di conferire salvezza agli uomini, e proprio questo egli dona alla Chiesa.

3. La forza vincolante delle beatitudini

3.1. Le Beatitudini come proclamazione dell’autorità di Gesù

Il nostro tentativo è quello di trovare una fondazione ecclesiologia sull’etica sociale. Lo facciamo a partire dalla PAROLA DI DIO,  Parola fatta carne, che ha il corrispettivo in una concezione della Chiesa come comunità che vive nella storia; e la CARITÀ DI DIO, che ha il corrispettivo in una chiesa che vive la solidarietà.

Se la Chiesa è qualcosa, lo è nella misura in cui dipende, ascolta e vive la Parola.

La Chiesa agisce e vive in una particolare temperie culturale e in un particolare contesto storico. Conoscerli ci permette di riflettere sui compiti che l’attendono , a partire dalla sua identità.

La Chiesa non può ignorare né la realtà né ciò che si prepara per la storia futura. Deve partire dalla storia del Crocifisso-Risorto per dare un senso all’intera storia umana.

L’uomo non ha perseguito il suo scopo sulla terra, ma si potrebbe dire che sta ancora nascendo, occorre allora tutto il nostro impegno per dargli un nuovo inizio. Tale impegno morale sociale prevede diverse dimensioni: tra le quali, l’analisi, la progettazione, la verifica.

3.2. Sull’analisi

Occorre prendere sul serio alcune provocazioni che sono venute dal mondo "laico" e che hanno preconizzato la situazione del mondo nel quale viviamo e di quello futuro. Si richiede da noi che consideriamo gli spazi che effettivamente avranno nella storia avvenire gli uomini e soprattutto i più poveri, dei quali esso è la festa. Non sarà tempo perso ripensare a quanto si legge in A. Kojève, che già nel 1947 nella sua Introduzione alla lettura di Hegel[11], affermava, a commento della Fenomenologia dello Spirito, che non solo il servo, ma anche il signore saranno alla fine dominati dal capitalismo. Più recentemente, il filosofo E. Severino ha condotto una critica serrata all’attuale situazione socio-politica mondiale. L’ha vista ormai avviata verso un dominio sempre più greve e globalizzato della tecnica, che si va consolidando con l’uso massiccio dei mass-media. La stessa Chiesa, ha aggiunto, cercando di porvi un argine, ricorrerà sempre di più agli stessi mezzi. Resterà però soccombente, non potendo gareggiare con gli altri potenti della terra[12], a motivo dei suoi principi, improntati al rispetto dei diritti umani e a motivo delle sue risorse economiche più limitate. Siamo così avviati verso una futuro massificante, che sfrutterà la globalizzazione per imporre ancora più pesantemente la legge del più forte. L’opera di Severino arriva a conclusioni che vanno vicino a quanto F. Fukuyama, aveva affermato, dopo il crollo del muro di Berlino su La fine della Storia e l’ultimo uomo[13].

La riflessione non può e non deve evitare di interrogarsi su quanto di vero ci sia in queste e in altre tesi ad esse simili, non per un gusto accademico ed intellettualistico, ma per amore degli uomini e del loro futuro. Forti della promessa di Dio e della parola di grazia, nuovamente pronunciata su di noi e sull’umanità intera, dobbiamo pertanto esaminare le basi (se ci sono) di una riconsiderazione della condizione dell’uomo, per una ri-partenza della storia verso l’uomo nuovo. Se la fine preannunciata della storia non è avvenuta, almeno non nelle forme previste, non si può negare che sia tuttavia in atto una fine lenta, a stillicidio e a macchie di leopardo, soprattutto per i più marginali, i più dimenticati, i meno organizzati, i peggio governati. Con l’imposizione di alimenti, cultura e ambiente pesantemente deteriorati dalla tecnica, se non è in atto una vera e propria fine (chi può affermarla, ma chi può anche escluderla?), certamente la situazione nella quale viviamo è contraria al progetto di Dio e va contro il suo progetto salvifico di rinnovamento dell’uomo, del mondo e della storia. Ci sono oggi infatti le condizioni per cui la tragedia può essere solo differita, perché sovente sembra già programmata, a partire dalle situazioni di equilibrio precario e instabile causato da situazioni di malgoverno e di violenza, seppure sotterranea, sull’uomo oltre che sulla stessa terra.

3.3. «Dire le cose vere e farle»

Un nuovo inizio moralmente responsabile rispetto al nostro futuro, per come esso è stato pensato da Dio, muove da una riconciliazione con Lui e da un ricorso autentico e sistematico alle sorgenti che egli ha messo a nostra disposizione: la sua Parola e la realtà ecclesiale come luogo di conversione e di annuncio, di comunione e di solidarietà con tutti, a partire dai più svantaggiati. In questa maniera, si asseconda l’invito contenuto in un celebre frammento di Eraclito, che afferma che la virtù suprema è nel «dire le cose vere e farle». Fare la verità, insomma, come insegna a noi cristiani il vangelo di Giovanni e come insegnano soprattutto la Parola e l’agire di Gesù: quella Parola e quell’agire che sono ben visualizzate nella predicazione e nella pratica da parte di Gesù delle sue beatitudini. Ma come ricominciare per agire in un modo nuovo e per un mondo nuovo? Basta l’uomo nuovo e che significa tale novità? Per le nostre comunità il rinnovamento non è solo interiore, anzi, per essere veramente tale, investe un’interiorità che è proiettata indispensabilmente sulla realtà nella quale si colloca. Fa le cose vere, mentre le dice. Se non si situa così, nell’ottica dell’incarnazione di Gesù, non è nemmeno interiore, è solo un cambiamento declamato e pertanto fittizio. Può e deve avvenire attraverso un cammino che è evangelizzazione e comunione, ma tenendo ben presente che entrambe queste due realtà, tanto menzionate, passano attraverso la verifica del fare oltre che del dire. Le beatitudini sono in realtà la motivazione e il prosieguo dell’agire di Gesù: sono celebrazione della grazia di Dio e festa degli oppressi della terra. Richiedono per la nostra prassi sociale alcune condizioni previe, che si esigono per un’evangelizzazione efficace e per una comunione reale con i destinatari delle beatitudini. Si possono ricondurre a quelle che, attingendo alle fonti degli stessi documenti ecclesiali sui temi in gioco, sono indicate in questi due passaggi: a) lasciarci parlare da Gesù e così convertirci; b) ritrovarci intorno a Gesù e così rivivere il respiro e le tappe della comunione.

3.3.1. Dov’è il nostro tesoro, lì sarà anche il nostro cuore

Sul primo passaggio è esemplare il brano di Marco sull’identità di Gesù e sull’annuncio della sua realtà agli uomini.

<<Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: «Chi dice la gente che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti». Ma egli replicò: «E voi chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno>> (Mc 8,27-30).

Il brano ci insegna che la confessione di fede avviene mentre si va verso i luoghi non cristiani (Cesarea di Filippo era un luogo pagano). Non è solo un movimento geografico, ma un lasciar penetrare dalla luce del Vangelo la stessa realtà nella quale viviamo e quella che ritroviamo in noi, nella stessa Chiesa, che deve continuamente convertirsi dal suo sempre ritornante paganesimo. Del resto i non cristiani non sono solo al di là dei luoghi dove noi abitiamo, oggi vengono da noi. Né giova molto, anzi è controproducente (per la testimonianza e per l’accoglienza della quale siamo segnali di Dio) dire che non debbano venire. Gesù inoltre ci interpella, come tutte le Chiese calabresi hanno riflettuto a Paola nel 1997 ad esprimere il parere degli altri su di Lui e la nostra esperienza di Lui. Che cosa possiamo dire? E’ veramente il "tesoro" della nostra vita? Dove abbiamo il nostro tesoro? Non potremo sfuggire alla sua logica. Il nostro cuore sarà dov’è il nostro tesoro. Di fronte ai problemi avvertiti da noi singolarmente e dalle nostre realtà ecclesiali, non sembra che il nostro tesoro sia veramente nell’essenzialità e nella radicalità di Cristo. Ciò che ci preme è altrove. È lì il nostro tesoro, pertanto è anche lì il nostro cuore. Per questo occorre riascoltare il vangelo e convertire il proprio cuore. La Chiesa stessa deve rivolgere continuamente il suo cuore al suo unico Maestro e Signore. L’indicazione, data ai discepoli, a non parlare della sua identità prima della risurrezione, oltre a caratterizzare il "segreto messianico", può essere colta come un’ammonizione: è controproducente parlare di Cristo, senza vivere in stretta comunione di intenti con Lui. Non mancano oggi i mezzi (siamo presenti in maniera massiccia nell’opinione pubblica) mancano le convinzioni autentiche e le testimonianze. Occorre "gridare il vangelo con la vita", più che moltiplicare e perfezionare gli altoparlanti.

3.3.2. Vivendo nella familiarità di Gesù si vive la sua  sequela

Il secondo passaggio da compiere, per una comunione autentica e non solo professata formalmente, è ritrovarsi intorno a Gesù insieme e così rivivere il respiro e le tappe della comunione. Ci è di riferimento un secondo brano evangelico:

<<Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre»>> (Mc 3,31-35).

 L’episodio ci segnala che la prima e più indispensabile cosa da fare è essere intorno a Gesù, per lasciarsi ammaestrare da Lui. Essere continuamente "seduti" intorno a lui. Non basta un primo annuncio e un primo ascolto, per poi di fatto farsi ammaestrare da altri. Non ci sono altre scuole, se non la scuola di Gesù, e nemmeno ci sono primogeniture e meriti reali o presunti. «Fratello, sorella e madre» di Gesù è chi resta in ascolto di Lui e così comincia a compiere la volontà del Padre che è nei cieli. La comunione va rilanciata nei fatti e non tanto nei programmi ufficiali. Occorre che alcuni diminuiscano, come diceva di sé il Battista, e il Cristo cresca, nella loro vita e nella stessa esperienza ecclesiale, qualunque essa sia e qualunque beneficio o punto di partenza essa abbia costituito per loro.

Ciò significa e conclude la dinamica del cammino di un’evangelizzazione da vivere e di una comunione da compiere nell’assecondare la volontà di Dio. Ciò che bisogna di nuovo cominciare a condividere è il suo progetto, e non quello della propria realtà di appartenenza, sicuri che il progetto di Dio realmente assecondato ci fa essere meno introversi e più protesi alla scambio e alla solidarietà, riconoscendo i limiti e le chiusure delle proprie esperienze. Queste possono essere e sono talora protettive e gratificanti, hanno il merito di aver avviato alcuni alla fede, ma sono anche ingabbiamenti o voliere dentro le quali si vola, fin dove se ne ha lo spazio, ma non si vola lontano. Oggi fare la verità passa anche attraverso il coraggio di elevarsi più in alto, contemplando sempre Cristo e ascoltando la sua voce, ma protendendosi nello stesso tempo a cogliere la voci della storia che sono i segni dei tempi. In questa maniera si propone non di eliminare gruppi e associazioni, ma di considerarle nella loro realtà di esperienze limitate e pertanto di ritmare il proprio respiro su quello di Cristo, che certamente è più universale, perché più esigente. Evangelizzazione e missione sono anche questo, soprattutto questo e non un lustro per la propria appartenenza. In questa maniera chi fa la verità viene alla luce, consapevole della perenne attualità delle consegne del vangelo di Giovanni:

«Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3, 20-21).

                                                       

3.4. Le beatitudini come manifesto dell’amore di Dio e della morale cristiana

La Chiesa, al seguito di Gesù deve realizzare l’amore e la cura che Dio ha per gli oppressi. Vediamo in quale maniera.

Innanzi tutto nella contemplazione della sua Parola e contatto con Cristo si scopre che Dio non è il Dio dei dominatori, ma il Dio degli oppressi.

C’è infatti un’universale paternità di Dio e c’è il suo schierarsi per i figli più deboli. Distinguiamo pertanto diversi modi di accostare Dio:

- l’approccio razionalista, di natura cosmologica: Dio motore immobile;

- l’approccio sociologico: Dio garante della stabilità sociale;

- l’approccio antropologico: Dio compimento della realizzazione umana.

Preferiamo partire dall’approccio biblico, anche se questo non esclude, ma include l’umanizzazione del mondo e la realizzazione dell’uomo. In ogni caso, ci appare dalla Parola di Dio che egli sta dalla parte delle vittime della storia. È contro il ritualismo, l’idolatria del potere e a vantaggio dei diseredati, e delle categorie sociali più deboli.

Il documento che attesta e proclama tale intenzione di Dio è costituito dalle beatitudini.

Con un tentativo di natura più sistematica che biblica, noi distingueremo le nove beatitudini di Matteo (tenendo separate le ultime due) secondo uno schema ternario che le rilegga verticalmente ed orizzontalmente.

Sul piano verticale, le prime tre possono essere considerate beatitudini relative ai beni o alle cose: la ricchezza (per i poveri); la felicità (per gli afflitti); la potenza (per i miti). Le tre beatitudini centrali possono invece riferirsi alle persone, più che alle cose: la beatitudine degli affamati e assetati di giustizia è il cuore dell’invito di Gesù a superare l’egoismo verso gli altri; la beatitudine dei misericordiosi rappresenta l’etica nuova che vince la vendetta; la beatitudine dei «puri di cuore» costituisce l’appello evangelico alla trasparenza e alla gratuità, contro ogni doppiezza e ogni calcolo. Le ultime tre si possono ricondurre alla prassi del cristiano nel mondo e nella storia. La beatitudine dei facitori di pace rappresenta la concretizzazione storica del superamento dell’indifferenza verso le sorti degli uomini, per realizzare un mondo di pace; la beatitudine dei perseguitati costituisce un appello a non inseguire il successo, ma a cercare innanzi tutto «il regno di Dio e la sua giustizia»; l’ultima beatitudine, che si rivolge direttamente ai perseguitati per «causa» di Gesù, sembra potersi sintetizzare come superamento di ogni preoccupazione di fare carriera, nella chiesa o nella società, per avere sempre come riferimento centrale, anche se umanamente controproducente, soltanto Cristo e la sua causa.

Leggendo le beatitudini in maniera orizzontale, lo schema ternario si può ricostruire secondo una struttura che per le prime tre beatitudini mette in relazione la mancanza di beni terreni con l’arricchimento da parte di Dio. Alla mancanza di ricchezza terrena corrisponde il dono più grande che Dio possa concedere, il suo regno; alla mancanza di felicità terrena corrisponde una consolazione definitiva, quella della carezza stessa di Dio; alla mancanza di potere e alla rinuncia alla violenza corrisponde il dono della terra escatologica. Per il secondo gruppo, al superamento dell’egoismo di quanti hanno fame e sete di giustizia Dio risponde con il suo banchetto dei beni messianici; alla prassi dell’amore e della misericordia Dio risponde con una sovrabbondante misericordia; alla trasparenza del cuore e dello sguardo risponde mostrando il suo volto, che è la cosa più ardita e ambita. Per il terzo gruppo quanti costruiscono rapporti di pace e di umanità vera sono detti figli di Dio sulla terra e nel cielo, coloro che sono perseguitati per la giustizia ricevono il regno dei cieli, quanti sono emarginati sulla terra per amore di Gesù ricevono una più grande ricompensa.


 

 

I GRUPPO

Situazione negativa di partenza

Soggetti evangelici

Gratificazione di Dio

cose

ricchezza terrena

poveri

regno dei cieli

 

felicità mondana

Afflitti

consolazione di Dio

 

potere oppressivo

miti

terra promessa

II GRUPPO

Situazione negativa di partenza

Soggetti evangelici

Gratificazione di Dio

persone

egoismo

affamati di giustizia

banchetto messianico

 

vendetta

misericordiosi

perdono di Dio

 

doppiezza

puri di cuore

visione di Dio

III GRUPPO

Situazione negativa di partenza

Soggetti evangelici

Gratificazione di Dio

prassi

indifferenza

facitori di pace

figliolanza di Dio

 

successo

perseguitati per la giustizia

regno dei cieli

 

carriera

perseguitati a causa di Gesù

grande ricompensa nei cieli

 

Come si noterà, il popolo di Dio è chiamato da Gesù a vivere conformemente al suo pensare e al suo agire, secondo modalità proprie che né la sociologia, né altre scienze possono adeguatamente giustificare. Le beatitudini sono una sorta di paradigma di un agire oltre ogni mondano agire, per il quale le scienze umane possono e devono  essere di aiuto fino a un certo punto e in determinati limiti: quelli riguardanti la descrizione, l’ampiezza e lo studio positivo di ciò che è collegato a quella prassi. Niente di più, perché non potranno nemmeno lontanamente fornire parametri valoriali o interpretativi dei contenuti che sono in gioco in quell’agire. L’attività fondamentale del popolo di Dio e quindi l’agire morale del cristiano è inserita e deve essere in piena continuità e senza scollamenti inutili, nel più vasto complesso dell’agire di Dio e dell’agire di Cristo.

È collegata, secondo una formulazione negativa e positiva, a due compiti che si possono chiamare denuncia profetica e progettualità testimoniale. Ma ciò riguarda l’agire personale e l’agire comunitario, sicché lo stesso popolo di Dio è impegnato in una prassi che, non nasce dal nulla, ma per noi deve articolarsi secondo il progetto proclamato da Gesù e che solo dopo può prendere in considerazione la modalità triplice, oggi diventata punto di riferimento di ogni teorizzazione pastorale: la martyrìa, la koinonìa e la diakonìa. Tre modalità di agire della chiesa, che corrispondono a tre modalità di essere dell’intero popolo di Dio: la dimensione profetica, quella sacerdotale e quella regale, ma che non avrebbero senso se non discendessero da un’originalità che va oltre la pastoralità organizzativa, perché muove dall’agire di colui che resta sempre il Pastore del suo popolo.

Si è soliti indicare di ciascuna di essa alcune ulteriori specificazioni con conseguenti determinazioni pratiche. Sicché la martyria si esprime nell’annuncio e nella formazione; la koinonìa nella celebrazione e nel coordinamento, la diakonìa nella cura pastorale vera e propria (in tedesco Seelsorge)[14].

Integrandole con le tre dimensioni suddette si arriva questo schema

 

Dimensione profetica

Dimensione sacerdotale

Dimensione regale

diakonìa

martyrìa

koinonìa

annuncio

formazione

celebrazione

coordinamento

cura d’anime

attività sociale

           

 

Lo schema sembra ineccepibile dal punto di vista formale, avendo il fascino di una buona integrazione tra il dato tradizionale (il triplice ufficio di Cristo partecipato alla chiesa) e l’aggiornamento pastorale (l’attività di coordinamento attribuito alla componente sacerdotale e l’attività sociale). Ha però il limite di recepire in modo acritico sia le basi teologiche che l’aggiornamento stesso, senza analizzarli nei loro orientamenti e nelle scelte di fondo. «Attività sociale» (in tedesco propriamente Sozialarbeit) può voler dire tutto: dai pellegrinaggi a Lourdes ai pacchi dono di Natale. Così come la voce celebrazione può coprire anche le messe a ripetizione (su ordinazione per defunti) o quelle nostalgiche  secondo il rito di Pio V.

Lo schema va allora corretto, se non addirittura riscritto. Deve includere la componente ineludibile del giudizio esercitato sempre dalla parola di Dio sullo stesso agire della Chiesa e deve, di conseguenza, includere il discernimento come via privilegiata alla conversione per la prassi delle beatitudini. Deve inoltre contenere le conseguenze delle opzioni espresse dalla parola di Dio come opzioni ugualmente partecipate al suo popolo. Non basta parlare di testimonianza senza qualificarla. Così come non basta parlare di attività sociale senza una scelta preferenziale per i poveri. Con queste premesse e tirando le conseguenze di quanto già asserito, senza voler intaccare la triplice dimensione profetica, sacerdotale e regale, anzi riconoscendovi una certa contiguità con la triplice funzione della chiesa (martyrìa, koinonìa, diakonìa), ci sembra più proponibile uno schema così concepito:

 

ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO

(L’amore che salva)

(La prassi di Gesù)

eujaggeliva

ejleuqeriva

sugklhriva

annuncio

giudizio

guarigione

risurrezione

riconciliazione

convivialità

attività

kerygmatica

attività

liberatrice

attività

convocatrice

evangelizzazione

profetica

 

progettualità

testimoniale

 

anticipazione

escatologica

 

formazione critica

ed autocritica

ministerium

visitationis

 

ministerium

consolationis

 

ministerium

medicationis

 

ministerium

attestationis

impegno

per la vita

 

impegno

per la pace

 

salvaguardia

del creato

 

difesa degli

oppressi

fraternità

contemplante

 

significanza

esistenziale

 

trasparenza

sacramentale

 

condivisione

materiale

(La prassi del popolo di Dio)

           

Alcune chiavi per leggere lo schema

Eujaggeliva (euangelìa) significa «buona notizia». È il lieto annuncio del vangelo. L’attività della chiesa non deve mai dimenticare il carattere benefico e gioioso (questo è il senso del prefisso eu) della notizia (ajggeliva) che essa reca al mondo. Se di testimonianza (marturiva, martyrìa) si tratta, questa è attestazione di un fatto nuovo e inaudito: l’amore gratuito e soccorrevole di Dio verso quanti normalmente sono ritenuti e/o si ritengono esclusi dal circuito della salvezza, dai canali della gioia. Sono i destinatari delle beatitudini. L’evangelizzazione passa attraverso le tante vie della predicazione e della formazione. Ma deve essere anche precisato che entrambe non possono essere né indottrinamento, né insegnamento morale o intellettuale. Si tratta, invece, di un messaggio che mentre discerne la volontà di Dio, pronuncia anche un giudizio preciso sul mondo e sulle vicende umane. La formazione mira ad una coscientizzazione che sia doverosamente critica, ma anche tendente alla continua conversione, e quindi autocritica.

Il termine ejleuqeriva (eleutherìa) viene da ejleuqerei~n (eleutherèin), che significa rendere liberi, affrancare. Proprio perché recano l’annuncio della gioia, l’agire di Dio e la prassi di Gesù sono liberazione in senso pieno. Sono affrancamento da tutto ciò che rende l’uomo meno uomo. Restituiscono all’oppresso la sua dignità, danno il coraggio di continuare a vivere, guariscono le ferite dell’animo. Il servizio che la comunità cristiana deve prestare non può deviare da questa via maestra della prassi di Dio. Conformemente al suo modello, va alla ricerca e visita (ministerium visitationis), sa consolare e confortare gli affranti (ministerium consolationis), guarendo le ferite della condizione umana (ministerium medicationis) e rinvigorendo i fratelli con la certezza che Dio ci è vicino (ministerium attestationis). Da qui nasce l’esigenza di una pastorale concreta che privilegi l’impegno continuo per la liberazione di tutto il creato, oltre che di tutti gli esseri umani e di tutto l’essere umano, con una particolare preferenza per i più infelici[15], e in una continua ricerca di un’effettiva giustizia, da conseguire con i mezzi nonviolenti e convincenti della pace.

L’impegno è dei singoli, ma anche di tutta la comunità. È infatti sugklhriva (synklerìa), parola che indica la comunanza nella stessa sorte e che può ben affiancare l’altra, la koinwniva (koinonìa). Potremmo anche tradurla con reciprocità. È il dono e il carisma di una fraternità che si riscopre ogni giorno nella preghiera e nello spezzare il pane, ma che sa condividere anche i beni materiali, oltre che quelli spirituali, per dare trasparenza ai segni sacramentali e per non rendere irrilevanti le speranze di cui è custode.


 

4. L’amore che si spende per aiutare l’Amore

4.1. Due testi e un titolo di cronaca per iniziare:

Rm 8,16-24a: «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati».

Etty Hillesum[16], «La prossima settimana probabilmente tutti gli olandesi saranno chiamati al controllo. Di minuto in minuto desideri, necessità e legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà, sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato, e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così come sono, ora. Abbiamo ricevuto in noi tutte le possibilità per sviluppare i nostri talenti, dovremo ancora imparare a far buon uso di queste nostre possibilità. È come se in ogni momento altri pesi mi cadano di dosso, come se tutti i confini che oggi ci sono tra persone e popoli non esistano più; in certi momenti è proprio come se la vita mi fosse divenuta trasparente e così anche il cuore umano, e io vedo e vedo e capisco sempre di più, e dentro di me sono sempre, sempre più in pace, e c’è in me una fiducia in Dio che in un primo tempo quasi mi spaventava per la sua crescita veloce, ma che sempre più diventa parte di me. E ora al lavoro»[17].

Il titolo: «E ora sarà l’apparenza a fare la STORIA»[18].

 È una provocazione, ma sarà bene meditarla, per riflettere sul valore del fare la storia e sui veri soggetti che la fanno.

A riguardo riporto un testo sull’argomento da me pubblicato in Rassegna di teologia.

4.2. L’ingresso della teologia nella storia.

4.2.1. Introduzione al tema

Si è soliti indicare nell’ingresso della storia in teologia ciò che rappresenta la più considerevole eredità del Novecento. Se ciò vale a livello più generale, particolarmente sul versante epistemologico, vale anche per i contenuti, che in questo caso sono gli eventi che hanno determinato e determinano il progresso della riflessione teologica. L’enumerazione di questi ultimi (quali siano e perché proprio essi) presta il fianco a una problematizzazione teoretica previa, certamente non irrilevante. Non ci si riferisce solo un legittimo quanto doveroso richiamo ad una cautela di carattere ermeneutico. E nemmeno a un’avvertenza, previa alla stessa rilevazione, sulla natura arbitraria di un’inevitabile scelta tra i tanti elementi che nell’arco di tempo in oggetto potrebbero essere registrati. Se tale arbitrarietà sembra strutturale in qualsiasi scrittura storica che si occupi di fatti del passato, appare ancora più insidiosa quando si ha a che fare con idee e movimenti di natura prevalentemente spirituale e religiosa. Nel caso poi della teologia (anche se ci riferiamo ovviamente a quella specificamente cattolica, ma che tuttavia interagisce con le altre e in primo luogo con quella evangelica), se assumiamo come campo d’indagine il secolo trascorso, sarà indispensabile dichiarare da subito che mai come nel trapasso da questo al nuovo la stessa teologia appare più un mosaico di tante teologie che un corpo omogeneo al quale fare riferimento.

Sono nodi problematici dei quali sarà bene tener conto, ma che a noi sembrano collegati a una complessità della materia teologica che si annida ancora più a monte. Essa tocca infatti la natura stessa del teologico e del “fare teologia”, che per essere contemporaneamente un “sapere” e un “fare” del tutto particolare, richiede almeno qualche accorgimento suppletivo, per evitare, da un lato, scorciatoie riduttive e, dall’altro, ricadute in luoghi comuni non sufficientemente sottoposte a vaglio critico. Giacché non solo la materia, ma, come a nessuno sfugge, la stessa questione è complessa, il nostro intento è di portare un contributo su un punto che sembra attraversare l’intera problematica del rapporto tra storia e teologia e che riassumo parlando di valore della storia in teologia come svolta non solo teologica ma anche storica, nel senso che non è solo la storia ad aver influito sulla teologia, ma è anche la teologia che ha influito e influisce sulla storia (leggi: principalmente sul modo di intenderla e di scriverla), giacché proprio la scrittura storica risente di una concezione generale sugli eventi e soprattutto sui soggetti dei quali si occupa.

4.2.2. Dai “segni dei tempi” a una “storia segnata”

A questo proposito, il valore della storia e dei conseguenti segni dei tempi (che ne sono come l’espressione più densa oltre che più nota) rimanda al bisogno di qualche indicazione ulteriore che potrebbe essere di un certa utilità. Intanto se già riflettere in maniera non naïf sulla storia non è semplice (qualcuno ha già risposto esaustivamente alla domanda che cos’è la storia? - sembra francamente di no), riflettere sul suo valore teologico, su chi scrive la storia e a partire da quale prospettiva, richiede una maggiore attenzione. Al punto in cui siamo anche la sola riflessione sui segni dei tempi giustamente rileva che perché i tempi siano teologicamente leggibili nella prospettiva della grazia, in quanto suoi segni (si potrebbe aggiungere: come segnali indicatori e anticipatori dell’azione di Dio), si richiede almeno un approfondimento sul rapporto che essi hanno con l’evento Cristo. Ma da ciò deriva che riguardo allo scrivere la storia un’ermeneutica teologicamente informata rimanda inevitabilmente a quell’evento Cristo che ne costituisce non solo il centro, ma anche il motore e il suo cuore segreto. Non tanto per delineare un loro reale o presunto valore “cristico” (è sempre bene vigilare per non cadere in una sorta di cristomonismo di natura vaga se non mitologica), ma per scoprire un loro effettivo valore “redentivo”, almeno nell’accezione di un valore liberatorio, oltre che liberante, contenuto in determinate congiunture epocali (di situazioni, di uomini e di idee).

Certamente non basta ricorrere al puro e semplice criterio di un’umanizzazione (o, come diceva il primo J. B. Metz) di un’ominizzazione in quanto processo migliorativo dell’umanità. Lo stesso autore ha continuamente rimandato alla memoria di Cristo come memoria sovversiva e pericolosa, nel senso che essa non è solo una leva trasformatrice della realtà, ma è anche una risposta all’azione di Dio, una risorsa non tanto storico-intamondana, quanto teo-escatologica, che spinge a cambiare il presente e a modificarlo secondo il piano salvifico. Questo piano passa attraverso il Crocifisso-Risorto, con una salvezza che redime e abbraccia anche la dimensione politica della fede.

Ma aggiungeremo che ciò rimanda anche a quella che chiameremo una storia segnata: segnata dal passaggio di Cristo, dal suo sangue e da quello dei martiri e dei perdenti del mondo. Proprio essi nella e per la sconfitta della morte da parte di Cristo sono già indirizzati verso la glorificazione. Sono segnati, come in una delle grandiose visioni dell’Apocalisse, per la loro gloria, o, come gli stipiti delle case degli ebrei nella notte della Pasqua, da un sangue che questa volta è il loro, mescolato a quello dell’agnello sgozzato, che per i cristiani è, appunto, il Cristo.

Qual è il senso storico di ciò che andiamo dicendo? Da quale sangue è segnata la nostra storia, a partire da quella più recente? Basterà qui accennare al fatto che le tragedie immense programmate dagli uomini e le guerre nel secolo che si è appena concluso hanno accumulato più cadaveri in cento anni di quanti forse ce ne sono stati in tutto il millennio. Se l’uomo, almeno per la parte del mondo a noi più vicina, è complessivamente più libero, il prezzo pagato è immane e lascia il sapore di una sconfitta sempre bruciante, che non abbiamo, né forse avremo mai, la capacità di trasformare in semplice memoria. E tuttavia la teologia cristiana non può rinunciare a riflettervi, pena la perdita del valore, per essa centrale, dell’evento Cristo. La domanda ulteriore è se il carico di dolore di cui gronda la stessa memoria interpelli solo la teologia o se non esiga anche una resa dei conti con la storia. Qualcuno, proprio nel secolo che si è chiuso, ha avanzato, su un piano che è simultaneamente filosofico e teologico, la proposta di cogliere nella memoria una solidarietà che abbia, insieme con un contenuto appellativo messianico, una validità che guardi non solo proletticamente al futuro, anche retrospettivamente al passato. Il riferimento più immediato è qui ad autori come Walter Benjamin, ma anche a testimoni come Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil, Hetty Hillesum, che hanno registrato e portato su di sé i segni di una storia tragica e tuttavia aperta alla salvezza. La loro voce - che con quella di altri testimoni dello stesso calibro, valica la soglia del secolo - ha sollevato e solleva ancora la domanda sul senso da dare alla memoria da parte della teologia. Ci soffermeremo in particolare, seppure brevemente, sulla concezione di W. Benjamin e di alcuni autori che hanno affrontato in maniera diretta la domanda sul valore teologico della storia.

4.2.3. Un appello messianico che sale dalla storia

La risposta che a noi personalmente appare sempre convincente, e che tuttavia merita di essere approfondita, è quella già accennata di un’anamnesi che si congiunge non a un’idea astratta o puramente commemorativa di Cristo, ma al suo evento storico decisivo: quello della sua tragedia e della sua glorificazione. Non come sintesi cosmica e mitologizzante, ma come cifra emblematica e rivelatoria - e pertanto salvifica – del dolore del mondo e del carico messianico in esso latente. In W. Benjamin e in altri, sebbene in una zona non ancora esplicitamente teologica, è emersa non sempre e non tanto la (ri)scoperta di una finalità apocalittica insita nella storia, la quale marcerebbe verso un approdo comunque liberante, in forza di un suo intimo e insuperabile dinamismo. In alcuni è affiorato un vero e proprio messianismo, per altri un umanesimo, comunque capace di trascendersi verso forme che liberano l’umanità dai condizionamenti e dai limiti nei quali essa rischia ogni volta di restare imprigionata. Per molti si tratta di una visione positiva della storia, nella quale l’umano si realizza e si invera in movimenti di liberazione intrastorici, ma che contengono una sorta di eccedenza “trascendente”. Da costoro si distingue chi, invece, partendo da una concezione eminentemente tragica tanto di Dio quanto dell’uomo, pur non negando la possibilità di una vittoria definitiva del bene sul male, ha offerto una serie di considerazioni doloranti e problematiche sulla “sconfitta di Dio”, passando in rassegna, a partire dalla Bibbia, le promesse messianiche non realizzate[19].

Se per molti il lievito messianico della storia è riconducibile a una sorta di surplus in termini di speranza come molla verso un futuro che fa superare le stesse premesse che esso di volta in volta si dà, per altri si tratta di un futuro già anticipatamente in atto, in forza dell’evento escatologico della risurrezione di Cristo.

A questo riguardo, altri hanno osservato che il principio speranza – con o senza messianismo - non basta, perché non è bastato, né nel secolo che si è chiuso e nemmeno nei due millenni di storia cristiana già vissuta, a evitare stragi innumerevoli quanto insensate. Non ha salvato né dallo shoah, né dalle tante, troppe guerre, spesso ingaggiate e combattute anche in forza di una indomita speranza. Nonostante l’affermazione di un principio di speranza – anzi forse anche a motivo del suo insuperabile ottimismo – il mondo si è trovato, dopo le due grandi guerre, sull’orlo del baratro della distruzione nucleare, un baratro dal quale ci siamo un poco allontanati, ma che è ancora aperto da qualche parte. Per questa ragione al Prinzip Hoffnung (principio speranza) Hans Jonas ha preferito il Prinzip Werantowortung (principio responsabilità), un principio etico che impegna la mia vita per e nella difesa della vita dell’altro. La storia è sembrata così affidata alla responsabilità umana: una responsabilità che grandi esponenti di quel pensiero che è stato chiamato “ebraico” hanno voluto vedere più da vicino in un’etica oltre che della reciprocità, anche della scoperta, dell’accoglienza e della cura del volto dell’altro[20]. E tuttavia anche in questo caso, ammesso che un’etica della responsabilità e del reciproco coinvolgimento etico possa, come ci auguriamo, garantire un futuro migliore al mondo, resta ancora aperta la ferita dei trafitti del passato. Come guardare al passato e al presente che lo sta già diventando e cosa possiamo teologicamente cogliere in esso? Che cosa unisce questo secolo all’altro e che cosa associa questo nuovo millennio a quello che si è chiuso? Che cosa ha in comune questa mia generazione con quelle che l’hanno preceduta? Che cosa avrà in comune con quelle che la seguiranno? W. Benjamin ha saputo individuare come un «appuntamento misterioso» tra le generazioni del passato e quella del presente. Ha colto il senso della redenzione in qualcosa che attraversa la comunicazione tra le diverse epoche storiche. Sebbene, solo di scorcio, e come in una sorta di testamento, che non è stato sviluppato sistematicamente, anche perché non è ha avuto il tempo[21], ha potuto affermare: «Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto»[22]. Si tratta di un’attesa che si estende fino all’«umanità redenta», come la chiama Benjamin, perché «solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato» e ciò significa che non ci sono avvenimenti piccoli e avvenimenti grandi, essendo tutti ugualmente significativi ai fini della redenzione stessa[23] 

Commentando questo modo di intendere la storia, espressione di un «pensare sensibilmente» (e chi ha mai detto che si debba pensare solo freddamente o peggio cinicamente?), Giancarlo Gaeta annota che in questo modo di accedere alla realtà, pensiero, eventi e cose interagiscono così dinamicamente e profondamente tra loro, da rivelarsi nel loro «segreto significato»[24]. Si tratta di un significato messianico, colto nella stessa storia, sebbene appena ad un passo da un messianismo forte, di fede ebraica e/o di fede cristiana. Eppure si tratta molto di più di ciò che potrebbe apparire solo un atto di dolorante pietà per una vicenda umana, che comunque accomuna un’epoca all’altra. W. Benjamin ci offre l’esempio di come si possa arrivare a scorgere da lontano il Messia, anche solo attraverso un pensare sensibilmente, che qualcuno ha voluto considerare secondo la sua valenza metaforica e nella sua suggestione poetica[25], ma che fa venire in mente la necessità di non rinchiudere la ricerca al puro e semplice pensiero filosofico. Ci può e ci deve essere un altro pensiero, come sosteneva M. Heidegger[26]. Dopo aver profuso i suoi maggiori sforzi nell’analisi filosofica dell’Essere e il tempo, il filosofo era infatti pervenuto a quella svolta, che gli consentiva di accostare la realtà con altri mezzi, che s’intrecciavano e assumevano senso non al di fuori del pensiero, e nemmeno in contraddizione con esso, ma piuttosto affiancando al primo un altro pensiero, per svelare ciò cui il primo non era pervenuto, né – restando all’interno delle sue rigide leggi fenomenologiche – poteva pervenire[27]. Era un approccio guidato dall’intuizione poetica ed estetica, quanto dall’esperienza religiosa, con un metodo d’indagine più complessivo che guardava al mondo intero e pertanto alla storia nel suo insieme. Questo mondo e questa storia erano visitati, nel secondo Heidegger, dal divino, o dagli dei, come egli spesso si esprimeva, riprendendo il linguaggio classicheggiante di Hölderlin[28]. In realtà è proprio Dio, scoperto come ultimo Dio (der letzte Gott) che garantisce la continuità della storia e impedisce così che essa cada nel totale non senso[29].

Quale che sia un’ermeneutica più approfondita di questo autore, non si può non cogliere l’interconnessione tra la vicenda storica e la riscoperta di Dio. Nel caso specifico di Benjamin, da quanto finora detto sembra trasparire l’esigenza di cogliere densità messianica in una storia che, per essere stata vissuta, non solo ne conserva per sempre le tracce, ma ne rappresenta la sua concrezione ed espressione. Fino al punto di affermare in un frammento, riconosciuto da qualcuno come dichiarazione di fede nel messia: «Solo il Messia stesso compie tutto l’accadere storico e precisamente nel senso che egli soltanto redime, compie e crea la relazione tra questo e il messianico stesso»[30]. Si tratta di una messianicità che più che tendere al personaggio Messia, si compie nello stesso consumarsi degli eventi e in particolare delle persone, con un compimento che però travalica la singolarità, aprendola e correlandola a quell’eterna contemporeeità che è una delle caratteristiche della storia. È il tempo che è sempre adesso (Jetzt-Zeit) e, in quanto tale, trabocca del suo fermento messianico.

4.2.4. Un’anamnesi dal «rovescio della storia»

In questo modo quella storia, che già alla fine degli anni ‘20 W. Benjamin andava leggendo come «storia della passione del mondo»[31], si addensa di grumi sempre più problematici che alla fine diventano una vera e propria invocazione di senso. Siamo di fronte a una vera e propria «tradizione degli oppressi», il cui sangue grida, al pari di quello di Abele, che, «benché morto, [...] parla ancora» (Eb 11,4). Si tratta di un’affermazione densa e oscura, ma che s’illumina nel contesto più universalmente teologico della voce di Cristo, una voce che sale dalla sua morte, prima ancora che dalla sua risurrezione[32]. Del resto, il sangue di Abele, che ancora grida dalla terra [33], è tanto espressivo da assumere un carattere rappresentativo di ogni altro uomo oppresso nella storia. Il pensiero evoca l’immagine dell’Apocalisse che presenta i martiri risorti in piedi e stretti intorno a Cristo, agnello sgozzato eppure vivente[34]. Da Abele in poi la storia degli oppressi, passando attraverso quella di Cristo, reclama giustizia, diventa preghiera e invoca salvezza, una salvezza che redima l’intera vicenda umana sulla terra[35]. Se con Cristo assistiamo alla «sconfitta di Dio», quella sconfitta non chiude però la partita. Al contrario, innesta un capovolgimento, che i cristiani non solo devono chiedere e attendere nella preghiera e nella vigilanza, ma devono anche adoperarsi di accelerare nella storia che è toccata loro in sorte.

Non si tratta solo di quella memoria storica che sovverte gli attuali rapporti di poteri, secondo una tesi presente già in H. Marcuse[36]. La memoria non si riduce a una sorta di insuperabile ansia che tiene sempre vive tragedie e speranze del passato e funge da reagente per una società più giusta. Siamo inoltre ben lontani da quella posizione di stampo tradizionalmente materialista, espressa ad esempio da M. Horkheimer, per il quale non bisogna farsi illusioni: i trafitti del passato sono già morti, l’ingiustizia è stata commessa e non può essere in nessun modo riparata. È solo questa l’ultima risposta a un’impossibile speranza che può venire solo da un sentimento religioso[37].

La posizione contraria, da qualcuno chiamata «messianismo politico», sostenuta da Benjamin e l’intero dibattito che si è sviluppato sulla questione possono darci un’idea di quanto sia stato avvertito, già nella prima parte del secolo scorso, il problema non solo della storia nella teologia, ma anche della teologia nella storia. Senza voler disquisire sulla correttezza o meno delle interpretazioni filosofiche affiorate, annotiamo la rilevanza qui assunta dall’elemento teologico per quanti guardano alla storia nella sua complessità. L’argomento, come si è accennato, è stato però riproposto nella seconda parte dello stesso secolo in area più prettamente teologica. La storia come «tradizione degli oppressi» ha portato, nelle varie forme assunte dalla teologia della liberazione, a parlare di un «Dio degli oppressi»[38]. La stessa storia – si dice anche - esige in primo luogo che i cristiani prestino la debita attenzione al «carattere peculiare della memoria cristiana»[39].

Da tutto il discorso fin qui condotto si capirà più agevolmente che cosa voglia dire l’ingresso della teologia nella storia. Ma si intende anche meglio il capovolgimento di prospettiva che ne consegue. Infatti dall’intreccio tra l’elemento teologico e quello storico ci sembra emerga una particolare qualità dell’ermeneutica storica qui in gioco. Essa riguarda soprattutto i suoi soggetti, che non sono più i semplici “agenti”, generalmente noti per le loro imprese e le testimonianze grandiose con le quali hanno cercato di imporre il loro nome alla storia. Di essi certamente si interessa la storia tradizionale ufficiale: sono i re ed i papi, i principi e i guerrieri, gli uomini che contano e quanti hanno lasciato una scia dietro di sé. Certamente anche costoro sono soggetti della storia e tuttavia non sono solo loro. A costruire la storia sono stati e sono soprattutto coloro che hanno anche solo materialmente edificato le loro torri e i loro palazzi, hanno versato sangue e lacrime per le loro imprese, similmente agli schiavi che hanno costruito le piramidi. Essi hanno dato espressione e consistenza al messianismo che l’attraversa da cima a fondo. Le teologie emergenti dai paesi un tempo colonizzati e sfruttati sono più che un lascito prezioso del secolo scorso e si aprono un varco consistente nella teologia del futuro. Tracciano le linee direttrici e offrono i criteri teologici per leggere la storia, come si diceva, dal suo rovescio[40]. E che non si tratti di assunti teologici regionali, lo dimostra, da una parte, la loro convergenza con quanto è venuto emergendo anche nella migliore e più sensibile produzione anche sul piano teoretico in Europea. Lo dimostra, dall’altra, la riscoperta della storia come memoria, anzi memoria dolorosa da purificare[41]. Ciò che è in gioco è l’immagine di Dio e la concezione escatologica ad essa collegata. Si può pur sempre parlare della fine del tempo come ritorno totale a Dio (reditus) corrispondente ad un’uscita (exitus): quella della creazione e dell’intera vicenda dell’uomo nel cosmo[42]. Su questa scia la storia scorre nella sua linearità e assorbe il dolore e persino la tragedia come passaggio non voluto propriamente da Dio, ma da lui permesso per la maturazione dell’uomo stesso e per il compimento del progetto salvifico attraverso l’annuncio e l’opera della Chiesa. Sta di fatto che anche all’inizio del nuovo millennio la teologia sente ancora di dover fare i conti con ciò che è stato chiamato in tutta la sua problematicità «parlare di Dio dopo Aschwitz»[43]. In ogni caso sia il discorso su Dio che quello sull’uomo non possono ignorare una sofferenza che brucia nella memoria, non fosse altro perché è anche la sofferenza di Dio, patita in Cristo, su questa nostra stessa terra[44].


 

4.3. La consapevolezza di fare storia anche perdendo se stessi

4.3.1. Non fuggire per salvare te stesso se ciò significa la morte dell’altro

La storia dei perdenti vittoriosi si può ritrovare nell’esempio di Etty Hillesum, sicura anche nell’ora della tragedia:

«Quando dico che fuggire o nascondersi non ha il minimo senso, che non ci sono scappatoie e che è meglio rimanere con gli altri e cercare di essere per loro quel che ancora siamo in grado di essere, sembra che io sia molto, troppo rassegnata - sembra che il mio atteggiamento sia del tutto diverso da come l’intendo io. Ancora non ho trovato il tono giusto per spiegare questo mio sentimento intatto e gioioso, in cui sono compresi tutti i dolori e tutte le passioni»[45].

Viene in mente la fiducia espressa nei salmi, come il Salmo 118,73-77:

«Le tue mani mi hanno fatto e plasmato; fammi capire e imparerò i tuoi comandi. I tuoi fedeli al vedermi avranno gioia, perché ho sperato nella tua parola. Signore, so che giusti sono i tuoi giudizi e con ragione mi hai umiliato. Mi consoli la tua grazia, secondo la tua promessa al tuo servo. Venga su di me la tua misericordia e avrò vita, poiché la tua legge è la mia gioia».

Ma non è solo una sorte personale che si affida, è la realtà di un popolo, che fa dire alla stessa Etty:

<<Un giorno pesante, molto pesante. Un «destino di massa» che si deve imparare a sopportare insieme con gli altri, eliminando tutti gli infantilismi personali. Chiunque si voglia salvare deve pur sapere che se non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo posto. Come se importasse molto se si tratti proprio di me, o piuttosto di un altro, o di un altro ancora. È diventato ormai un «destino di massa» e si dev’essere ben chiari su questo punto. Un giorno molto pesante>>[46].

La consapevolezza incrollabile è che Dio sarà comunque a fianco, sempre accessibile appena ad un soffio di voce o ad un pensiero soltanto accennato:

«Ma ogni volta so ritrovare me stessa in una preghiera - e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più ristretto. E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade»[47].

Ciò non significa rassegnazione fatalista. C’è la consapevolezza che le parole raccontate faranno storia:

«Dovrei impugnare questa sottile penna stilografica come se fosse un martello e le mie parole dovrebbero essere come tante martellate, per raccontare il nostro destino e un pezzo di storia com’è ora e non è»[48].

Al contrario, la preghiera è di non cadere nella rete nell’inumanità, quella che è germinata dall’odio e acuisce l’odio. Se così fosse, la via di Dio, quella del suo amore avrebbe un’altra pesante sconfitta e proprio da coloro che Dio si aspetta siano i suoi testimoni d’amore in un mondo di violenza. La preghiera è allora più segreta, ma non meno forte, è la più forte di tutte, per essere liberati da questa caduta nella spirale del violento.

Ricorda ancora alcuni salmi, come il Salmo 58, 2-4a.10-11a.17-18:

«Liberami dai nemici, mio Dio, proteggimi dagli aggressori. Liberami da chi fa il male, salvami da chi sparge sangue. Ecco, insidiano la mia vita, contro di me si avventano i potenti. ..A te, mia forza, io mi rivolgo: sei tu, o Dio, la mia difesa. Dio, mio amore, mi viene in aiuto[49] ... Ma io canterò la tua potenza, al mattino esalterò la tua grazia perché sei stato mia difesa, mio rifugio nel giorno del pericolo. O mia forza, a te voglio cantare, poiché tu sei, o Dio, la mia difesa, tu, o mio Dio, sei la mia misericordia».

4.3.2. Aiutare l’amore a restare sulla terra

Etty esprime un pensiero ardito, ma coerente: aiutare Dio a portare il fardello e la sfida nell’amore, quando esso è messo in scacco:

«E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. Su tutta la superficie terrestre si sta estendendo piano piano un unico, grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà rimanerne fuori. È una fase che dobbiamo attraversare. Qui gli ebrei si raccontano delle belle storie: dicono che in Germania li murano vivi o li sterminano coi gas velenosi. Non è granché saggio raccontarsi storie simili, e poi, se anche questo capitasse in una forma o nell’altra, è per responsabilità nostra? Da ieri sera piove con una furia quasi infernale. Ho già vuotato un cassetto della mia scrivania»[50].

4.3.3. Preparare un grembo capace di accogliere l’Amore che viene

Il pensiero è tratto da Osea (11,8-9)[51], il profeta cantore dell’amore di Dio verso il suo popolo.

Il Dio che viene ricorda l’amore che va, verso Aschwitz, in un treno dal quale vola un foglio, appena una cartolina, un segno di vita, un insopprimibile grido di amore. Qualcuno, come Etty, sapeva andare incontro all’amore, con la stessa indifesa semplicità di colui che era venuto e tornerà nel mondo.

Un po’ di tempo prima aveva scritto:

«... Già diecimila sono partiti da questo luogo, vestiti e svestiti, vecchi e giovani, malati e sani - e io ero ancora in grado di vivere e pensare e lavorare e essere lieta. Adesso anche i miei genitori dovranno partire, se non questa settimana per virtù di un qualche miracolo, certamente la prossima - e io devo imparare ad accettare anche questo. Mischa vuole accompagnarli e mi sembra che debba farlo, perderà la testa se li vedrà partire. Io non lo farò, non posso. È più facile pregare per qualcuno da lontano che vederlo soffrire da vicino. Non è per paura della Polonia che non voglio seguire i miei genitori, ma per paura di vederli soffrire. E dunque, anche questa è viltà»[52].

La sua cartolina, datata 7 settembre 1943 trovata da qualcuno, fu spedita; diceva così:

«Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: «Il Signore è il mio alto ricetto». Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty»[53].

4.4. Conclusioni

Nelle immagini che l’uomo ha dato di sé stesso e del suo futuro, non ci si può e non ci si deve arrendere, neanche davanti ad un evidente tracollo in verticale dell’eticità del mondo.

L’eticità non si misura dalla sua efficienza, ma dalle motivazioni che porta. Essa, nel sociale, è responsabilità personale, ma anche di rapporti che sono all’infuori di sé. L’etica fa sì che quella che potrebbe essere vista come la fine dell’uomo, sia invece un nuovo inizio. Ciò richiama il grande tema della salvezza, collegata alla vita eterna e alla pienezza di vita nel mondo in cui viviamo. Si tratta di una salvezza da vivere collettivamente come popolo di Dio: da attendere e da realizzare.

5. Essere comunità che si adopera nell’attesa di una nuova terra e di nuovi cieli

L’attesa non è solo un atteggiamento psicologico effimero, ma un atteggiamento teologico profano. At – tendere  Ad – tendeo significa tensione verso qualcosa o qualcuno. Etimologicamente ha un significato attivo e non passivo, come invece sembrerebbe nella lingua corrente. Questo significato attivo ritroviamo nella “teologia dell’attesa”, la quale è incentrata su un incontro. Andare incontro., lo stesso in – contro, in tedesco Begegnung (da gehen) indica movimento. Per noi l’attesa è tendere verso l’incontro. Affinché il soggetto si muova e vada verso l’incontro, è necessario che in lui scatti la molla che lo spinge: questa è l’attesa. Occorre inoltre considerare che l’incontro con l’altro non si esaurisce mai, per cui c’è un continuo tendere verso, proprio perché l’incontro non cattura mai completamente, né colui che attende , né colui che si attende.

In questo contesto trattiamo della salvezza in rapporto alle aspettative umane e della conseguente attitudine spirituale come attesa volitiva e fattiva di salvezza.

5.1. Aspettative di salvezza come integrità, guarigione e riconciliazione

5.1. Punto di avvio: Ef 2,12-19 «ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti [=dichiarazioni testamentarie] della promessa (xšnoi tîn diaqhkîn tÁj ™paggel…aj), senza speranza e senza Dio in questo mondo (™lp…da œcontej kaˆ ¥qeoi ™n kÒsmJ). Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio».

5.2. Situazioni di non salvezza

Per Paolo

Estranei e stranieri,

Non avendo speranza e senza Dio,

Quanti pongono la speranza nella pura legge di Dio(cf. Gal Rm).

Per Gesù
nei Vangeli

Bisognosi fisicamente e moralmente (i poveri nello spirito) Mt 5, 1ss; Mt 11,25: «In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli -> Chi sono? Ecco la risposta: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime (Mt 12,28-29).

Abbandonati a se stessi, come pecore vaganti senza meta,
essendo il luogo deserto e la notte incombente (cf. Mc 6, 33-35: Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: «Questo luogo è solitario ed è ormai tardi».

Affamati di pane e di giustizia: (Cf. Beatitudini) non meno che di Parole di vita eterna (Gv, 6,67s: Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna»).

Per le religioni

Perdere se stessi, perdendo i legami con il clan, la famiglia, la vita.

Per l’uomo di oggi

Perdere il proprio sé (disturbi psichici); il proprio io (smania di libertà totale); perdere l’occasione di una felicità totale (ricerca di paradisi “artificiali”).

Per noi

Restano le stesse situazioni di paura, che spesso non si affrontano come tali e che la religione cristiana, più che la fede, non attraversano, passandovi solo accanto. Uomo diviso, mondo diviso, popoli divisi = bisogno di unità.

2.3. Perseguimento della salvezza

Per Paolo

La gratuità immeritata ed inedita del lieto annunzio della salvezza; la promessa (™paggel…a) è diventata vangelo (eÚaggšlion). È liberazione, in accordo con tutta la tradizione ebraica sul Dio go’el (salvatore=liberatore): «Allora ogni uomo saprà che io sono il Signore, tuo salvatore, io il tuo redentore e il Forte di Giacobbe» (Is 49,26b)[54].

Per i Vangeli

La salvezza è liberazione promessa e realizzata, sicché Gesù è liberatore in quanto inviato da Dio, di cui prende le prerogative[55].

La salvezza è la vita eterna: perché vita? perché eterna? Parole di vita eterna (·»mata zwÁj a„wn…ou): vita = ogni essere con moto autonomo; oppure in rapporto alla psiche (vita dell’uomo: chi vuol salvare la sua psiche, la perderà ), corrisponde a un concetto ebraico complessivo che significa interezza ed essere sani, ma anche ciò che l’uomo ha ricevuto dal soffio vivificante del Creatore. Eterna nel senso di duratura, collegata alla vita di Dio.

Per le religioni

Il senso pieno della vita (realtà di Dio?) , che è come il lato oscuro e mai attingibile della luna[56]. È collegato a bisogni fondamentali: quello di protezione dal pericolo -> sacro dalla radice sano[57]; quello della integrità come totalità -> salvo[58]. Qualcosa di più che risolvere i problemi immediati.

Salvezza è non andare perduti /non perdere il legame con il cosmo, né quello con la storia. Ciò è visibile presso la culla di civiltà antiche, antecedenti gli stessi egiziani e sumeri. Cf. ritrovamenti dei graffiti del Sahara - epoca neolitica, uomini ed animali, ma anche raffigurazioni del divino (figure femminili: maternità e fecondità, figure maschili adorate da donne con braccia alzate)[59].

Sfuggire alla caducità e al naufragio unendosi al Tutto (religioni asiatiche).

Nel buddhismo e nelle religioni ad esse vicine (induismo e giainismo) la salvezza è liberazione da ciò che scinde l’uomo in se stesso e lo rende infelice. È rifugio, come ricovero e luogo di gestazione nel Buddha, l’Illuminato, nel dharma, la dottrina che sottrae alla catena del karma, e nel sangha, la comunità dei discepoli pertanto è ricerca del nirvana, con la liberazione dal dolore e dall’ignoranza che lo perpetua.

Nel giudaismo la natura e l’identificazione storica del messia restano problematiche e sono tuttora discusse. Nell’Islam manca il messia. Dio è Salvatore.

Per noi oggi

La fede può essere la via per una vita in pienezza / una gioia piena / un legame incorruttibile

 


 

5.2. L’attitudine spirituale dell’attesa

5.2.1. Imparare a vivere sapendo ascoltare anche il silenzio

«Per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione. La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino. Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione li ha privati»[60].

«Ogni disgrazia viene agli uomini da una cosa sola: il non saper restare in riposo in una camera»[61].

«Se Dio non si fosse rivelato l’uomo ne avrebbe avvertito il silenzio» (Rahner).

Ambiguità del silenzio. C’è il "grande silenzio" della morte (Shakespeare, Ibsen), fino a scendere "nel gorgo muti" (Pavese)[62]. Ma c’è anche il silenzio dell’estasi che è paradossalmente uscire dalla stasi ek-stasis. È il silenzio di chi si mette in cammino, anzi è il silenzio del cammino; è il cammino stesso, che è silenzio. Nel silenzio non si coglie una voce: il silenzio stesso è voce.

1Re 19,12-13: <<[12]Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero [13] Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?»>>.

Ciò che Elia sente è in realtà, testualmente, una «voce di silenzio sottile»[63], una voce che è silenzio penetrante.

5.2.2. Il silenzio come grembo di Dio

Le parole di Gesù che sulla croce riprende il salmo 22 attestano un’esperienza di attesa drammatica, ma anche una memoria storica:

<<[2]«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza» : sono le parole del mio lamento. [3]Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo. [4]Eppure tu abiti la santa dimora, tu, lode di Israele. [5]In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati; [6]a te gridarono e furono salvati, sperando in te non rimasero delusi>>.

È la memoria che se Dio si nasconde è per essere cercato e per mostraci un amore più grande. cf. Is 54,7-8, un brano in cui Dio parla alla sua comunità dicendo:

<<Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore>>.

La lontananza di Dio è solo apparente: è come il silenzio che parla di lui:

Cf. Is 49,14-15 <<Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»>>.

In realtà, la Bibbia attesta l’«amore eterno» di Dio per il suo popolo (cf. Is 43,4; Dt 4,37; Dt 10,15; Ger 31,3; Sof 3,17; Ml 1,2 ), come amore di un padre per i suoi figli (Is 1,2; Is 49,14-16; Ger 31,20; Os 2,25 ; 11,1s) e ancora come passione di un uomo per la sua donna ( Is 62,4-5; Ger 2,2; Ger 31,21-22; Ez 16,8; Ez 16,60 , Os 2,16-17; Os 2,21-22; Os 3,1), amore comunque come gratuità (cf. 1Gv 4,10; 1Gv 4,19 ) e come amore senza ritorno, cioè irrevocabile (cf. Rm 11,29 ¢metamšlhta, cioè senza cambiamento di decisione è la sua chiamata = klÁsij, la stessa radice da cui viene chiesa, chiamata da, con-vocazione).

Gesù ha parlato del seme nascosto in terra (ma anche del tesoro e della perla non conosciuti che vengono amati di più fin ché non sono raggiunti).

Mc 4,26-27: <<Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga>>.

5.2.3. Dio stesso si nasconde e si rivela contemporaneamente

Di Dio non si potrà mai adeguatamente parlare. Si può al massimo dire ciò che Egli non è, limitandosi a raccontare la sua inenarrabilità. Cf. la cosiddetta teologia apofatica, la via della negazione (apóphasis) che nella tradizione cristiana ha il suo referente più noto in Dionigi l’Aeropagita[64].

Nella Bibbia Dio contemporaneamente si rivela e si sottrae alla conoscenza del credente, la cui massima aspirazione è di vederne il volto. Dio vicino è così lontano e viceversa, sicché tanto la ricerca intellettuale, che quella più propriamente etica non possono fare altro che tentare di andare «al di là del volto»[65].

Secondo la più genuina tradizione islamica, Dio tra i tanti, ha due nomi che, pur nella loro apparente contraddittorietà affermano la sua evidenza e il suo nascondimento. Il primo è al-Dhàhiru, che si riferisce ad Allah come l’Evidente, che appare, si manifesta; l’altro è al-Bhàtinu, cioè il Nascosto (Corano LVII,3).

Per Buddha non si può dare un nome e un volto all’Inimmaginabile, anzi l’uomo si sottrae definitivamente all’Indicibile, precludendosi la stessa possibilità di parlarne[66].

Infine il Catechismo della Chiesa Cattolica raccomanda una continua purificazione del linguaggio umano, «per non confondere il Dio “ineffabile, incomprensibile, invisibile, inafferrabile” (Liturgia di san Giovanni Crisostomo, Anafora) con le nostre rappresentazioni umane. Le parole umane restano sempre al di qua del Mistero di Dio» (n. 42).

Il manifestarsi di Dio all’uomo è manifestare la sua realtà, ma è anche rivelare la nostra umanità: siamo chiamati ad essere più autenticamente umani e nello stesso tempo a vivere la nostra interiorità: quella di figli di Dio, voluti da lui, da lui salvati e da lui continuamente attesi.


 

6. La preghiera e il suo valore nell’etica sociale

6.1. Le motivazioni dell’agire nella sete dell’uomo verso Dio

Sal 42, 2-3: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?».

Sal 63,2-4: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua. Così nel santuario ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria. Poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la tua lode».

Sal 36, 8-10: «Quanto è preziosa la tua grazia, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie. E’ in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce»[67].

6.2. Ricerca di Dio e comunità

La cerva raffigurata nei più antichi dipinti cristiani rievoca il battesimo e la comunità dove questo era ricevuto.

La sete di Dio nell’esperienza del dolore: quando il proprio dolore è domanda sul dolore degli uomini. La testimonianza di Sergej Bulgakov. Alla morte del figlio di quattro anni la sua domanda a Dio sul perché di tale perdita riceve una qualche risposta solo in un lungo e raccolto silenzio:

«Il Padre mi ha risposto in silenzio: al suo capezzale (del figlioletto defunto) s’è drizzato il crocifisso del Figlio unico. Ho capito questa risposta e mi sono piegato. Ma tra il Crocifisso e il suo corpo, le sofferenze innocenti e il sarcasmo di qualcuno formavano come una nebbia spessa, impenetrabile. E là, io lo so per certo, c’era il mistero della mia propria esistenza. Da quel momento io seppi che vi è una grande facilità, una facilità tentatrice nel cercare di dimenticare questa nube, di passare accanto. È in fin dei conti sgradevole portare in sé qualcosa d’interamente incomprensibile ed è più conveniente vivere nel mondo in compagnia di personaggi importanti... Invece, è solo attraverso un exploit spirituale, attraverso la croce di tutta una vita che io potrò dissipare la nube; perché essa può dissolversi, lo percepivo senza dubbio alcuno [...]. Ho imparato come Dio parla, ho capito che cosa significa: Dio ha detto! Attraverso una visione del cuore mai fino ad allora conosciuta, insieme al dolore crocifisso, una gioia celeste discendeva in me e, nella notte dell’abbandono da Dio, Dio prendeva dimora nell’anima. Il mio cuore aprì il varco al dolore, alla sofferenza degli uomini, s’aprìdi fronte ai loro cuori che gli erano rimasti estranei fino a quel momento, chiusi, con la loro angoscia e i loro affanni. Per la prima volta nella mia vita, comprendevo che cosa vuol dire amare, non d’un amore umano, egoista e cupido, ma divino, quello di Cristo per noi»[68].

Quando si erge la croce il cuore si apre al dolore, ma l’anima può cogliere in un unico attimo la sofferenza di Cristo e quella dell’uomo. L’altro di Dio non mi è più altro, ma è quanto diventa di più mio. È il mio dolore e il mio è certamente il suo. Allora però accade qualcosa di veramente straordinario. Qualcosa o qualcuno ti chiama accanto e ti chiama al di là di quella sofferenza. È la consolazione, la paraklesis nel senso di parà-kaleo. Un richiamo e una chiamata insieme, il cui senso non basterà una vita per poterlo comprendere. Il Paraclito chiama oltre te stesso e al di là di te stesso. Che non sia anche questo uno degli aspetti della consegna dello Spirito nel momenti cui Gesù muore sulla croce? Certamente tale voce si erge con la croce e sarà quest’esperienza tutt’altro che da dimenticare. Sarà la vera esperienza della venuta drammatica e gloriosa di Cristo.

6.3. La sete di Dio in quella di Cristo

Gv 4,4-7: «[Gesù] doveva perciò attraversare la Samaria. Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere».

Lc 12,49-50: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!».

Mt 3,13-15: <<In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia»>>[69].

Lc 22, 14-16: <<Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio»>>.

La domanda dell’uomo diventa anche la domanda di Cristo: ««Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza»: sono le parole del mio lamento» (Sal 22,2). La sete dell’uomo diventa sete di Dio: <<Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: « Ho sete ». Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, diede lo Spirito»>> (Gv 19,28-30).

6.4. Gesù offre se stesso come acqua dissetante:

Gv 6, 35: «Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete».

Gv 4,13-15: <<Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna»>>;

Gv 7,37-38: <<[Gesù diceva] «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno»>>.

Gesù proclamava beati gli affamati e assetati di giustizia,

Mt 5,6: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (cf anche M 8,10)[70].

L’attesa deve essere una dimensione costante della comunità, che ha sete di Dio, ha fame di giustizia, (rap)-presenta il dolore del mondo e non si stanca di consolare se stessa e gli altri con la profezia:

<<Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio»>> (Is 40,1-3).

6.5. la continua ricerca dell’ulteriore come ricerca di alternatività sociale

6.5.1. Un inquietudine senza scampo

«Mezzanotte rintocca. / Seguitate il vostro cammino, entrate dentro! / Dov’è il cuor duro / che non fonda a questa vista che viene offerta? / Non desistete, ascoltate la vostra inquietudine, / date un volto alla stranezza che non vi lascia tranquilli!

È il giorno di Natale del 1886. Un giovane diciottenne, agnostico e indifferente, varca la soglia della cattedrale di Notre-Dame a Parigi. È l’ora del Vespro, una luce debole illumina le vetrate e le volte gotiche percorse dal canto purissimo della liturgia. Il coro intona il «Magnificat» e per quel giovane le parole del cantico di Maria trasformano la sua esistenza. Molti avranno riconosciuto il protagonista di questa vicenda, il poeta Paul Claudel, il futuro cantore della fede cristiana. È a lui che siamo ricorsi in questa solennità dell’Epifania, raccogliendo alcuni versi della sua «Marcia di Natale». Ciò che ci interessa è quell’appello: «Seguitate il vostro cammino, entrate dentro!». È un appello che ben s’adatta a tutti gli uomini in ricerca, simili ai Magi che, «seguitando il loro cammino» nonostante tutte le difficoltà, entrano nella casa per adorare il Bambino. In particolare vorremmo sottolineare quell’imperativo: «Non desistete!». C’è in tutti un’inquietudine che spinge a cercare un senso alla vita, una spiegazione non più di seconda mano, una meta da raggiungere. Mille ostacoli si frappongono, il mondo offre mille narcotici per cancellare quell’inquietudine, tanti suggeriscono di considerarla una «stranezza». E, invece, non bisogna desistere ma cercare, interrogarsi e sperare perché - lo diceva già Platone - «una vita senza ricerca non è degna d’esser vissuta» (Gianfranco Ravasi)[71].

6.5.2. L’inquietudine per la giustizia da rendere ai poveri

Sal 72: 4] Ai miseri del suo popolo renderà giustizia,  salverà i figli dei poveri   e abbatterà l’oppressore. 12] Egli libererà il povero che invoca  e il misero che non trova aiuto, 13]avrà pietà del debole e del povero e salverà la vita dei suoi miseri. 14] Li riscatterà dalla violenza e dal sopruso,  sarà prezioso ai suoi occhi il loro sangue.

A partire da questo salmo (ed altri simili) occorre poter enucleare, alla luce di quanto detto, una morale sociale che:

- renda giustizia, pur nella solidarietà;

- sia indirizzata ai poveri (in tutta la gamma di significati che questa riveste: povertà economica, materiale, morale, sociale, fisica, esistenziale);

- porti effettivo riscatto (con un’azione che liberi dalle schiavitù interiori ed esteriori);

- che valuti sempre in maniera privilegiata la memoria delle vittime e dei perdenti.

In tal modo si può anche passare da una concezione mercificante del tempo a una concezione teologica.

 


 


[1] S. Weil, Lezioni di filosofia, Adelphi, Milano 1999, 191ss. L’originale, tratto dagli appunti di una sua studentessa è apparso nel 1959. Le lezioni furono tenute tra il 1933-1934.

[2] Ivi, 198.

[3] E tuttavia cf. la massima della mistica sufi Rabi’a al-Adawiyya, morta nell’801, che pregava: «O Dio, se Ti adoro per paura dell’inferno, bruciami nell’inferno;  se Ti adoro nella speranza del paradiso, escludimi dal paradiso; ma se Ti adoro per Tuo Amore, non nascondermi la Tua eterna bellezza» (cit. in J. Bowker, Religioni del mondo, ed. Corriere della Sera, Milano 1997, 172.

[4] Ivi, 198-199.

[5] Ivi, 203.

[6] Qui la virtù è intesa come forza morale ed abito per agire moralmente, anche se non bisogna dimenticare che in quanto “virtus”, essa originariamente indicava la fortezza virile (da vir: «appellata est enim ex viro virtus; viri autem propria maxime est fortitudo» [Cicerone, Tusc. 2.18.43 ]); altri fanno derivare la virtù da vis: non esiste virtù ove non è contrasto (Rousseau), ma ciò è anche all’origine della parola  “violenza” e derivati.

[7] Ivi, 212.

[8] GS 22, EV /1 1389.

[9] Cf., ad esempio, le limitazione della libertà in nome di Dio, come le carceri a Serra San Bruno, le prigioni nelle curie diocesani, ecc.

[10] Cf. J. Blank, «Sul concetto di ‘potere’ nella chiesa», in Concilium 24 (1988/3) 19-32.

[11] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996.

[12] Cf. E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli 1998.

[13] F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo Rizzoli 1992).

[14] Una simile struttura si può trovare, ad esempio, in R. Zerfaß, Der Selbstvollzug der kirche in Wort, Sakrament und Sozialem Dienst. Eine Einführung in die Grundfragen der Praktischen Theologie, Dispense ad uso degli studenti, Würzburg 1982, 16.

[15] Cfr. le osservazioni di C. Boff in J. Pixley - C. Boff, Opzione per i poveri, Cittadella, Assisi 1987, cc. 6-13.

[16] Ebrea olandese che non si oppone al suo internamento nei campi nazisti per condividere la tragica esperienza del suo popolo. Morì ad Auschwitz, a meno di trent’anni.

[17] Etty Hillesum, Diario. 1941-1943, a cura di J. G. Gaarlandt, Adelphi, Milano 1985, pag. 160.

[18] Corriere della sera (29/11/00) 33, con riferimento al libro L’Italia del Millennio di Montanelli e Cervi: sommario degli eventi che vanno dalle paure medievali a Prodi, Amato, Berlusconi e Rutelli.

[19] Il contributo è reperibile in internet a questo indirizzo: www.teologia.it/fati200.html#3 che fa parte della rivista Rassegna di Teologia 41 (2000) n. 2 , intervento 3. nelle pp. 271-286.

[19] Non è possibile un elenco nemmeno essenziale delle tante posizioni che sono emerse sull’elemento (o gli elementi) generatore/i del “teologico”. A titolo indicativo si rimanda, per iniziare, a G. Colombo, «La ragione teologica», in: Id. (a cura di), L’evidenza e la fede, Glossa, Milano 1988 e a B. Lonergan, Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia 1975 per due esempi abbastanza delineati, sebbene problematici. Ma cf. anche L. Bordignon, «Chi fa teologia nella chiesa?», in Credereoggi 1 (1980/0) 59-70, dove si parla della fede cristiana, che per sua natura «dà da pensare» (ivi, 60). Sulla teologia come servizio ecclesiale cf. A. Staglianò, La teologia “che serve”. Sul compito scientifico ecclesiale del teologo per la nuova evangelizzazione, Società Editrice Internazionale, Torino 1996. Sul metodo e la metodologia cf. G. Lorizio - N. Galantino (edd.), Metodologia teologica. Avviamento allo studio e alla ricerca pluridisciplinari, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, 13-38. Sull’intima natura del ricercare come carattere insito della teologia cf. B. Forte, La teologia come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia, Paoline Cinisello Balsamo (Milano) 1987. Per la teologia nel suo dialogo con le istanze del pensiero contemporaneo cf. P. Coda, Teo-logia. La Parola di Dio nelle parole dell’uomo, PUL - Mursia, Roma 1997. Sulla «teologia come scienza della storia» cf. questa stessa locuzione (III) in O. Bayer, «Teologia. B. Prospettiva evangelica», in P. Eicher (a cura di), Enciclopedia evangelica, Queriniana, Brescia 19902, 1018-1020; Id., Systematische Theologie als Wissenschaft der Geschichte, in E. Jüngel u. A. (Hgg.), Verificationen. Festschrift für Gerhard Ebeling, Tübingen 1982, 341-361. Sulla teologia nel suo “farsi” cf. Z. Alszeghy - M. Flick, Come si fa la teologia, Paoline, Roma 1978; ma cf. anche H. Küng, Teologia in cammino. Un’autobiografia spirituale, Mondadori 1997; C. Boff, Theologie und Praxis, München 1983, e per ciò che ci riguarda G. Mazzillo, Teologia come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta 1988. La posizione di un ricerca di principi generatori all’interno del teologico (la fede e la coseguente esperienza ortopratica) e non in altri surrettizi (del tipo l’ermeneutica, l’esperienza umana, la fenomenologia e simili) risulta essere stata apprezzata da alcuni, come, ad esempio in E. Klinger, Der neue Begriff von Pastoral und die Option für die Armen. Ein neuer Standpunkt der Theologie, in: ID., Armut. Eine Herausforderung Gottes. Der Glaube des Konzils und die Befreiung des Menschen, Benzinger, Verlag, Zürich 1990, 277 (cf. nota 7).

[19] Il pensiero corre immediatamente a O. Culmann e alle sue impostazioni cardini che hanno fatto scuola: Cristo e il tempo (1946) e la Salvezza come storia (1965). Cf. anche C. Rocchetta, R. Fisichella e G. Pozzo (a cura di), La teologia tra rivelazione e storia. Introduzione alla teologia sistematica , Dehoniane, Bologna 1985. Inoltre cf. W. Pannenberg, Rivelazione come storia, Dehoniane, Bologna 1969, 12. Per le successive precisazioni di Pannenberg su quest’ultima locuzione, anche al seguito delle critiche, alcune delle quali veementi, ricevute in ambito protestante, cf. Cf. W. Pannenberg, Teologia sistematica 1, Queriniana , Brescia 1990, 256-261 e il successivo paragrafo «Rivelazione come storia e come parola di Dio», ivi, 261-292.

[19] Cf. J.B. Metz, La fede, nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978. Per una riflessione a più voci sulla sua opera e la sua impostazione cf. E. Schillebeeckx (Hg.), Mystik und Politik. Theologie im Ringen um Geschichte und Gesellschaft, Mainz, 1988, che raccoglie contributi non solo di autori europei come Kuno Füssel, Helmut Peukert, Herbert Vorgrimmler, Jürgen Moltmann, Dorothee Sölle, ma anche di autori latino-americani come il Card. Paolo Evaristo Arns, Gustavo Gutièrrez, Leonard Boff ed altri.

[19] Cf. Ap 7,4 e 14,1. In altro contesto il sigillo ricevuto per la salvezza è per Paolo il battesimo, che sostituisce la circoncisione (Rm 4,11, che rimanda a Gen 17,11 per la circoncisione di Abramo quale segno di salvezza scaturente dalla fede). Per il rimando al sangue apposto sulle case degli ebrei cf. Es 12,7.

[19] In campo più specificamente teologico un primo riferimento può essere a W. Peukert, che lo affrontava esplicitamente già alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso in un magistrale saggio, che non ci sembra sia mai stato tradotto in italiano: Id Wissenschaftstheorie Handlungstheorie Fundamentale Theologie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1978.

[19] Su questo aspetto specifico un utile punto di partenza sintetico può essere reperibile in Ramon Vargas –Machuca Ortega, «Umanesimo», in M. A. Quintanilla (diretto da), Dizionario di filosofia contemporanea, (edizione italiana a cura di M. Martini), Cittadella, Assisi 1979, 585-508; cf. anche A. Capizzi, Dall’ateismo all’umanismo, Ateneo, Roma 1967; G. Girardi, Marxismo e cristianesimo, Cittadella, Assisi 1970.

 

[20] Cf. J. Moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970.

[20] Cf. H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990 (orig.1979).

[21] Le sue Tesi sul concetto di storia sono il suo ultimo lavoro. Furono redatte entro aprile-maggio del 1940, lo stesso anno in cui, dopo le drammatiche peripezie con le quali il filosofo, braccato dalla polizia nazista, cercò scampo, varcando diverse frontiere europee, già malato di cuore e stremato, nella notte del 26 settembre, per non essere riconsegnato dalla polizia spagnola a quella francese, si tolse la vita con una dose fatale di morfina.

[22] W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, (a cura di R. Solmi), Einaudi, Torino 1995, 76 (gli Schriften originali apparsero presso l’editore Suhrkamp il 1955). Il contesto complessivo in cui tale affermazione si trova parla di redenzione e di senso del futuro che recupera il passato. Proprio ciò mette a dura prova il materialista storico: «Nell’idea di felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l’idea di redenzione. Lo stesso vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa» (ivi).

[23] Infatti «Il cronista che enumera gli avvenimenti senza distinguere tra i piccoli e i grandi, tiene conto della verità che nulla di ciò che si è verificato va dato perduto per la storia. Certo, solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato. Vale a dire che solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una “citation à l’ordre du jour” - e questo giorno è il giorno finale» (ivi).

[24] G. Gaeta, Religione ..., cit., 51.

[25] Cf. H. Arendt, «Walter Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle», in Il futuro alla spalle, Il Mulino, Bologna 1966.

[26] Sull’altro pensiero, come ultima ancora di salvezza, cf. M. Heidegger, quando afferma: «Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare (Vorbereiten) nel pensare e nel poetare, una disponibilità (Bereitschaft) all’apparizione del Dio o all’assenza di Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)» [M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, (a cura di A. Marini), Guanda, Parma 1987, 136])

[27] Come primo approccio al tema del divino in questa fase di M. Heidegger cf. E. Coreth, «Fuga o avvento degli Dei? Sulla questione di Dio in Martin Heidegger», in Rassegna di teologia (1996) 581-595, anche se a noi sembra eccessivo il giudizio ivi espresso di un rifiuto esplicito di Dio da parte del filosofo, che – si afferma - non avrebbe compiuto nessun passo significativo verso di lui. Più complesso e alla fine anche più sereno quanto emerge dal saggio dal quale spesso si parte: -F. Courtine, «Les traces et le passage de Dieu dans les "Beiträge zur Philosophie" de Martin Heidegger», in Archivio di Filosofia 1-3 (1994) 519-538.

[28] Cf. il suggestivo racconto su Eraclito, che rassicura i suoi ammiratori sorpresi per averlo trovato a scaldarsi davanti a un forno dove si cuoce il pane: «Venite, perché anche qui ci sono gli dei», in M. Heidegger, Che cos’è la metafisica? (Con estratti della "Lettera su l’Umanismo"), (a cura di A. Carlini), La Nuova Italia, Firenze 1953, 124-125. Su Hölderlin e la recezione heideggeriana cf. M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968.

[29] Cf. su questo punto quanto scritto sul «secondo Heidegger» da U. Regina, «Oltre la modernità ripercorrendo la via esistenziale da Kierkegaard al secondo Heidegger», in Acta philosophica vol 8 (1999), fasc. 2, 223-250. L’autore rimanda a un passo denso e inatteso dei Beiträge zur Philosophie, che per noi conferma il rapporto tra realtà di Dio e possibilità di senso della storia: «L’ultimo Dio non è la fine, ma l’altro inizio, l’inizio delle innumerevoli possibilità della nostra storia. Grazie a lui alla storia che c’è stata finora è consentito di non perire; grazie a lui essa deve essere portata alla sua fine. Dobbiamo far sì che venga approntata per tale passaggio la trasfigurazione [Verklärung] delle sue essenziali posizioni di fondo. La preparazione dell’apparire dell’ultimo Dio è l’impresa estrema della verità dell’essere; solo sulla sua base può riuscire la restituzione dell’ente all’uomo» [traduzione e indicazione ivi, 246, in riferimento a M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, (Vom Ereignis), a cura di F. – W. Von Hermann, in Id., Gesamtausgabe, Bd. 65, Klostermann, Frankfurt a. M. 1989; originale del 1936-1938].

[30] Si tratta del Frammento teologico-politico, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, 51, cit. secondo G. Gaeta, Religione..., cit., 50.

[31] Cf. W. B.Benjamin, Urprung des deutschen Trauerspiels, Frankfurt a. M., 1965 (originale del 1928).

[32] Cf. Eb 11,24: «al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele» .

[33] L’idea del sangue dell’ucciso che non trova riposo fino a quando non gli è stata resa giustizia si trova nella letteratura rabbinica anche a proposito dell’assassinio di Zaccaria, che fu perpetrato del tempio e di cui parla Gesù (Mt 23,34-35). Si racconta che dal momento che nessun numero di sacrifici, e nemmeno di esecuzioni di quanti erano ritenuti colpevoli della morte di Zaccaria, cancellava la macchia di quel sangue rimasta sulle pietre e che esso continuava a muoversi, Nebuzarsadan alla fine lo fece fermare solo ponendo fine allo spargimento di altro sangue [H. L. Strack - P. Billerbeck (a cura di), Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrasch 4, C. H. Beck, München 19899, 241].

[34] Cf. Ap 7, 9.14: «Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. [...] Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello».

[35] Non possiamo omettere il rimando ad uno scritto fondamentale in campo teologico, capofila di molti contributi in questo senso, che mette in rapporto la Chiesa ed Abele, il popolo di Dio e il sangue del Messia: Y. Congar, «Ecclesia ab Abel», in Festschrift für Karl Adam, Düsseldorf 1952, 79‑108.

[36] H. MARCUSE, Der eindimensionale Mensch, Neuwied 1968, 117ss.

[37] Cf. M. Horkheimer, Kritische Theorie, 2 Bd.,Frankfurt a. M. 1968. La critica alla posizione di Benjamin è reperibile nel primo dei due volumi (risalente al 1936). In una lettera del 16/3/1937, Horkeimer gli aveva scritto chiaramente:che ultimo effetto la Sua formulazioane è teologica». Per questa lettera e per l’intero dialogo sviluppatosi intorno al tema, che comprometteva lo stesso materialismo storico, si rimanda a R. Tiedemann, «Historischer Materialismus oder politischer messianismus?», in P. Bulthaupt (Hg.), Materialien zu Benjamins Thesen “Über den Begriff der Geschichte”. Beiträge und Interpretationen, Frankfurt. A. M., 1975, 77-121.

[38] Cf. J. Cone, Il Dio degli oppressi, Queriniana, Brescia 1978 (originale del 1975). Il testo è uno dei più espressivi di quella che è stata chiamata Black Theology. Cf. Id. Teologia nera della liberazione and Black Power, Claudiana Torino 1973. Per il rapporto tra questa teologia e quella latino americana cf. Aa. Vv, Teologie dal terzo mondo. Teologia nera e teologia latino-americana della liberazione, Queriniana, Brescia 1974.

[39] «Essa fu e continua ad essere frequentemente una memoria di vinti e umili, emarginati e disprezzati e come tale non si articola in una “storia” secondo la tradizione egemonica della storiografia nelle grandi culture, attraverso discorsi, monumenti, archivi, documenti, iconografia e architettura. Al contrario, si trasmette di generazione in generazione come una cultura popolare, una tradizione orale, una resistenza culturale». (E. Hoornaert, A memória..., cit., 21-22, la traduzione è nostra).

[40] Oltre ai testi precedentemente citati, cf. il grosso volume (pp. 928) che offre un esempio concreto di questo modo di intendere e scrivere la storia dell’America Latina: E. Dussel (a cura di), La Chiesa in America Latina. Il rovescio della storia, Cittadella, Assisi 1992.

[41] Cf. Commissione Teologica Internazionale, Memoria e riconciliazione: la chiesa e le colpe del passato, Paoline, Milano 2000.

[42] Ci sembra questo il filo conduttore dell’intervento di J. Ratzinger al convegno organizzato in onore di J. B. Metz, nel compimento del suo 70° anno: cf. Id., «Das Ende der Zeit», in T. R. Peters – K. Urban (Hgg.), Ende der Zeit. Die Provocation der Rede von Gott, Grünewald, Mainz 1999.

[43] Cf. soprattutto l’intervento dello stesso J. B. Metz, che dichiara «Io appartengo a quella generazione di tedeschi che lentamente – suppongo troppo lentamente – ha dovuto imparare a considerare se stessa come la generazione “dopo Auschwitz” e a questa rendere ragione del modo di fare teologia. Capire Auschwitz come contro-domanda critica alla propria teologia è l’opposto di una sottile strumentalizzazione di questa catastrofe [...] Questa catastrofe segnala piuttosto per me uno spavento, per il quale io non ho trovato né un luogo, né un linguaggio nella teologia, uno spavento che spezza ogni abituale sicurezza ontologica e metafisica del discorso su Dio [...] Il discorso cristiano su Dio [...] è gia esso stesso impregnato di una sua propria memoria e può giustificare la sua parola su Dio solo in corrispondenza critica con la situazione di volta in volta costringente [...] Il Dio dell’annuncio della chiesa è un tema riguardante l’uomo oppure non è alcun tema» (Id., «Gott. Wider den Mythos von der Ewigkeit der Zeit» in T. R. Peters – K. Urban (Hgg.), Ende... cit., 33-34, nostra traduzione).

[44] Gioverà annotare infine che il problema teologico, che in Europa recita ancora: «Come parlare di Dio dopo Auschwitz», altrove è «Come parlare di Dio permanendo tuttora Ayacucho». Auschwitz rappresenta il cimitero delle speranze di una cultura occidentale e Ayacucho, nome quechua (oggi è una città peruviana) designa il cimitero di antiche civiltà soppresse violentemente dai conquistatori. È però anche emblema di tutti gli sterminati dalla fame, dalla violenza e dall’indifferenza della storia ufficiale Il significativo raffronto è reperibile in un dibattito tra due grandi esponenti della teologia contemporanea, in: «Dire Dio dopo Auschwitz, durante Ayacucho. Dialogo tra Jürgen Moltmann e Gustavo Gutierrez», in Mosaico di pace 4 (1993/2) 11-26.

[45] Etty Hillesum, Diario. 1941-1943, a cura di J. G. Gaarlandt, Adelphi, Milano 1985, 160.

[46] Ivi, 162.

[47] Ivi.

[48] Ivi.

[49] La traduzione ufficiale del Sal 59,11 riporta: «La grazia del mio Dio mi viene in aiuto, Dio mi farà sfidare i miei nemici.: BJ traduce: «il Dio del mio amore»alcuni manoscritti e altre versioni hanno: «mia forza», «mio amore» (cf. v 18) il TM ha: «la sua forza», «il suo amore». Ecco le altre traduzioni più abituali: Mon Dieu vient au-devant de moi dans sa bonté;. El Dios de mi misericordia me prevendrá; Ð qeÒj mou, tÕ œleoj aÙtoà Deus meus voluntas eius praeveniet me.

[50] Etty Hillesum, Diario, cit., 163.

[51] «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Zeboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perchè sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira.

[52] Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, a cura di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1990, pag. 105.

[53] Ivi, pag. 149 -Etty Hillesum morì a Auschwitz il 30 novembre 1943.

[54] Cf. anche Is 60,16b: «Saprai che io sono il Signore tuo salvatore e tuo redentore, io il Forte di Giacobbe».

[55] Lc 1,46-47: «Allora Maria disse: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore”»; 1Tm1,1; 1Tm 2,3; 1Tm 4,10; Tt 1,3; Tt 2,10; Tt 3,4; Gd 1,25. Per l’applicazione a Cristo cf. Lc 2,10-11: «ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore”»; Gv 4,42: «e dicevano alla donna: “Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”» At 5,31: (Stefano diceva): «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati»; At 13,23: «Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù» (testimonianza di Paolo davanti ai Giudei ad Antiochia); Rm 11,26, che riprende Is 59,20-21; Ef 5,21; Fi 3,20; 2Tm 1,10; Tt 1,4; Tt 2,13-14: «nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone»; Tt 3,6; 2Pt 2,1-2: «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro che hanno ricevuto in sorte con noi la stessa preziosa fede per la giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo: grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro»; 2Pt 1,11; 2Pt 2,20; 2Pt 3,2; 2Pt 3,18; 1Gv 4,13b-14: « egli ci ha fatto dono del suo Spirito. E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo».

[56] Cf. in Rilke, ripreso da M. Heidegger, l’idea dell’esistenza come ciò di cui ci sfugge e ci sfuggirà sempre una parte. Il riferimento è alla morte in quanto «la faccia della vita a noi opposta e per noi non illuminata» (Briefe aus Muzot, 332: citato da M. Heidegger, Sentieri Interrotti, La Nuova Italia, Firenze , 279.

[57] Il mondo anglosassone collega inscindibilmente la sacralità (das Heilige in tedesco, con il corrispettivo holy in inglese) alla salute o salvezza (das Heil), termine dal quale essa deriva.

[58] Il temine stesso salvezza deriva da salvo e rimanda al sanscrito sarvas e al persiano antico harvas,. Significa tutto, integro; sarebbe da ricondurre a questo ceppo anche il greco ojvlo", derivando dal termine più antico sovlFo", e avente lo stesso significato di intero, indiviso, similmente al gotico sêla (fino ad arrivare al tedesco selig e all’inglese save), con il significato originario di buono, valente, felice. Cf. «salvo» in O. Pianigiani, Vocabolario etimologico, Polaris, Varese 1991 e SAbatini - Colletti, Disc-Compact. Dizionario Italiano, Giunti Multimedia, Firenze 1997.

[59] Cf. F. Mori, Le grandi civiltà del Sahara antico, Bollati - Boringhieri 2000.

[60] Alberto Moravia, L’uomo come fine e altri saggi 1963.

[61] B. Pascal, Pensiero 139 (Edizioni Brunschwieg).

[62] C. Pavese il 22/3/1950 (fu trovato morto il 28/8 dello stesso anno).scriveva: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo. I tuoi occhi / saranno una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio. / Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio. O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla. // Per tutti la morte ha uno sguardo. / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. / Sarà come smettere un vizio, / come vedere nello specchio / riemergere un viso morto, / come ascoltare un labbro chiuso. / Scenderemo nel gorgo muti» (C. PAVESE, Poesie, Mondadori, Milano 1980, 201).

[63] Traduzione letterale, come evidenzia G. Ravasi, «Pagine alla ricerca del silenzio», in Domenica- Sole 24 ore (1 agosto 199) 29, che recensisce S. Lombardini, La voce del silenzio, Interlinea (tel 0321-612571), Novara 1998.

La voce di silenzio sottile è presente solo come residuo in alcune traduzioni. In realtà a partire dal greco e latino si inserisce il «vento leggero» Cf. ingl. still small voice, franc. murmure doux et léger, spag. silvo, grec. fwn¾ aÜraj leptÁ, lat. sibilus aurae tenuis.

[64] Autore detto anche Pseudo-Dionigi, noto come filosofo cristiano di lingua greca. Sebbene se ne discuta la paternità, gli sono attribuite opere come Della gerarchia celeste, Della gerarchia ecclesiastica, Nomi divini, Teologia mistica. Si tratta di una teologia avente caratteristiche neoplatoniche e quindi certamente successiva all’età apostolica, anche se a partire dagli Atti degli Apostoli (At 17,34) egli è stato identificato nel Dionigi, membro dell’Aeropago convertito dal discorso di Paolo ad Atene.

[65] Cf. E. Lèvinas, «Al di là del volto», in Id., Totalità ed infinito. Saggio sull’eteriorità, Jaka Book Milano 19902, 257-295.

[66] Costretti ad esprimersi sull’argomento Dio dal governo islamico indonesiano, i buddhisti di quella nazione diedero risposte diversificate, dicendo che Dio per alcuni è il Nirvana, ciò che non si può descrivere se non dicendo che cosa non è, oppure il totalmente Altro o il Trascendente. Altri, riprendendo l’idea dell’Adibuddha, ritennero di poter parlare di Dio come Buddha originario, dal quale tutti gli altri sarebbero derivati, o anche come Shunyata, cioè «Vuoto».

[67] Cf. anche Is 26, 9: «La mia anima anela a te di notte, al mattino il mio spirito ti cerca, perché quando pronunzi i tuoi giudizi sulla terra giustizia imparano gli abitanti del mondo».

[68] La Iumière sans declin, p 28; tr. di P. CODA, L’altro di Dio, Città Nuova, Roma 1998, 37.

[69] Nota su ogni giustizia: <<Gesù intende soddisfare, così, la «giustizia» salvifica di Dio che presiede al piano della salvezza. Matteo pensa forse alla nuova «giustizia» per mezzo della quale Gesù compirà e perfezionerà quella dell’antica legge (cf. Mt 5,17; Mt 5,20 ). - Una leggenda apocrifa si è insinuata a questo punto in due manoscritti della vet. lat.: «E mentre egli veniva battezzato, una luce intensa si diffuse al di sopra dell’acqua, al punto che tutti i presenti furono colti da timore»>> (Bibbia di Gerusalemme).

[70] Cf. anche Is 51,1 «Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia, voi che cercate il Signore; guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti». Cf. Am 8,11-12: « Ecco, verranno giorni, dice il Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore».

[71] AVVENiRE da Prima Pagina - Sabato 06 Gennaio 2001.

[72] Cf. il documentato intervento di A. Franco in Forum Ati RdT 41 (2000/1) sull’origine, la natura e la problematica dei «segni dei tempi».

[73] Cf. J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969, ma cf. anche Id., «Die Theologie der Welt und die Askese», in R. V. Bismark / W. Dirsks, Neue Grenze I, Stuttgart-Deten 1966, 171-174.

[74] In una presentazione rapida ed incisiva del profilo degli autori menzionati, G. Gaeta ha affermato che la religione ereditata dal nostro tempo è come una «porta chiusa e che si implora che venga aperta» (cf. G. Gaeta, Religione del nostro tempo, Edizioni e/o, Roma 1999, 5). Da parte nostra riteniamo che la teologia debba compiere lo sforzo, se non di aprire da sola questa porta – è compito della Grazia e soprattutto dello Spirito Santo che ne suscita la forza- almeno di cercare di indicare quei segni che accomunano gli “uomini persi” nella storia e nel suo dolore con i segni della sofferenza e della gloria del Cristo.

[75] Cf. l’opera fondamentale di E. Bloch, da noi consultato nell’edizione da E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Bd. I-III, Suhrkamp, Frankfurt a M., 1980.