Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Firenze 05.08.02

 

Gesù di Nazareth vive e propone la nonviolenza come sequela radicale

1. Gesù: “un ebreo marginale” che propone la via insolita della nonviolenza

Già R. Fabris compilalando una "cartella anagrafica di Gesù" indicava questi dati come dati assolutamente certi[1]: 1) il nome di Gesù: Jeshù, abbreviazione di Jehoshùa; 2) i genitori: Joseph e Myriam; 3) il tempo della nascita: l'epoca del re Erode (in genere si parla del 5/6 a. C.) (3); 4) lo stato civile: celibe; 5) la professione: carpentiere.

La nuova ponderosa ricerca di Meier ha ripreso la già evidenziata l’ebraicità di Gesù, ma anche la sua “marginalità” rispetto al mondo religioso e cultuale della sua epoca[2].

L’insegnamento di Gesù è apparso non scindibile da una prima cornice, che è costituita del giudaismo, all’interno della quale Gesù  si è però differenziato da altri predicatori della sua epoca, proponendo una sua particolare concezione.

Allontanandosi dalle pretese di una purezza legale praticabile solo da pochi, Gesù si è distaccato da quel “messianismo radicale” che vedeva alla fine vicini gli Zeloti con il loro integralismo violento e gli Esseni con la loro esasperata accentuazione di una santità che opponeva i “figli delle tenebre ai figli della luce”. Pur riprendendo l’espressione, che compare nei testi di Qumran, Gesù si è decisamente schierato a favore di una misericordia che perdona e avvicina tutti, dando a tutti la possibilità di salvarsi. Si è pronunciato decisamente anche contro la violenza, inclusa quella di stampo zelota, indicando la via del dialogo, del perdono e della riconciliazione come la via maestra del Regno di Dio. Un regno che cresce lentamente e non piomba dal cielo all’improvviso (contrariamente a quanti potevano pensare così, incluso forse il Battista, che però a differenza degli Esseni vedeva una possibilità di salvezza per tutto il popolo, purché pentito e purificato dall’acqua). Un regno che non è per i puri che si distinguono dalla massa e si preparano con la preghiera, con la purificazione continua e la vita comunitaria al suo arrivo, come faceva la comunità di Qumran. Al contrario, è un regno dove la zizzania cresce insieme con il buon grano ed è così frammisto ad esso, da no potersene distinguere fino al giorno della mietitura, che comunque spetta solo a Dio.

Gesù vedeva il regno come regno che si sarebbe affermato con la forza della sua energia e quella ad esso impressa dallo Spirito di Dio e non dalla guerra che, come in Qumran i figli della luce  dichiaravano e praticavano contro i figli delle tenebre.

Nei testi di Qumran ci sono alcune volte espressioni perfino vicine al messaggio delle beatitudini. Si parla del messia in collegamento con la figura del “figlio dell’uomo” (cf. libro di Daniele). Sarà un messia che «non si allontanerà dai comandamenti dei santi»[3], e costituirà motivo di immensa gioia per i pii, i miti e i giusti che lo hanno atteso e ancora lo cercano:

«Attingete forza voi che lo servite, voi che cercate il Signore. Forse che non dovreste trovarlo proprio voi, voi tutti che con cuore così perseverante lo attendete? Perché il Signore si metterà alla ricerca dei pii (hasidim) e chiamerà per nome i giusti (zaddikim). Sui miti planerà il suo spirito e i credenti ricreerà attraverso la sua potenza»[4].

I suoi compiti sono simili  a quelli della profezia di Isaia 61, che Gesù applica a se stesso nella sinagoga di Nazareth: «I pii glorificherà al trono del regno eterno. I prigionieri libererà, i ciechi farà vedere e gli op[pressi] egli riabiliterà». Infatti egli «...allora guarirà i malati, risveglierà i morti e annuncerà gioia ai miti, ... guiderà i santi e li custodirà...»[5].

Sono termini che Giovanni Battista, vicino alla spiritualità essenza, può ben comprendere e che giustifica la risposta di Gesù ai suoi ambasciatori, venuti a chiedere se sia proprio lui il messia atteso. «Gesù rispose: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11,4-6).

Poveri ed infelici sono invitati a gioire perché che Dio viene in loro aiuto. Essi sono i soggetti preferenziali del suo Regno attestano la superiore giustizia, che nasce dalla giustizia di Dio e dalla sua regalità a vantaggio dei predenti della terra. No nonostante quest’idea di fondo ben presente nei testi di Qumran, non mancano le differenziazioni con quelli evangelici.

Sebbene entrambi partano dalla giustizia di Dio e non da quella dei poveri per il favore che Dio mostra per loro, per la concezione teologica di Qumran le virtù morali e la purità legale sono di fondamentale importanza nel preparare l’irruzione del Regno. La sua venuta è da preparare e da chiedere nella meditazione, nella preghiera, nel ritiro nel deserto, luogo privilegiato di incontro  con Dio e di rinnovamento spirituale[6].

La predicazione di Gesù, che pur insiste su tale preparazione, mette invece in luce continuamente la gratuità di Dio. Il suo schierarsi per gli infelici non dipende né dall’agire del popolo di Dio, né tanto meno dalle virtù dei poveri. Il regno di Dio è quello delle beatitudini che rivelano la sorprendente gratuità di Dio e la natura “particolare” del suo stile di regnare[7].

Attraverso Gesù Dio rivela la sua predilezione per gli infelici e il modo da lui giradito per mettersi al loro fianco. Contro le pretese cultuali e legali di tipo radicale (degli Esseni e dei Farisei che riprendevano di quella spiritualità solo gli aspetti più formali), c’era una sorta di radicalità apocalittica, incarnata dal Battistae che era incentrata sul giudizio di Dio, fuoco divorante che stava per abbattersi sulla terra. Ma c’era anche una sorta di radicalità nazionalistica o zelota, che ricorreva all’idea della “guerra santa” (pur presente nei testi di Qumran), contro i romani che occupavano la Palestina. Ma c’era anche una forma di radicalità profetica, che ribadiva l’assoluta esigenza di quella perfezione spirituale cara agli Esseni.

Gesù non condivide il fariseismo e nemmeno le radicalizzazioni del messianismo. Propone una radicalità della sequela. Contro la netta separazione tra «servitori delle tenebre» e «figli della luce» che richiamava alla «guerra di Dio»[8], fino alla purificazione come traverso il fuoco, Gesù propone la spiritualità dei facitori di pace e dei miti nonviolenti. Egli è all’opposto di quanti, in riferimento all’era messianica, affermano:

«... fatevi coraggio per la guerra e ciò dovrà esservi computato a giustizia ...voi dovete interrogare quelli che sono al corrente del giusto giudizio, e il servizio di ... voi dovete essere innalzati, perché egli vi ha scelto ... per il grido ... e voi dovete ardere ... e dolcemente»[9]

Se in una frase volessimo racchiudere il senso che si coglie in questo testo, che sebbene sia corrotto, mette insieme i soggetti delle “beatitudini” con l’appello alla guerra e con l’urgenza di farla per innalzare i miseri, si potrebbe dire che nei testi di Qumran c’è la formulazione delle beatitudini dei violenti, mentre in Gesù abbiamo le beatitudini dei facitori di pace. Per Gesù sono proprio costoro quelli che Dio accoglie, “giustifica” e chiama suoi figli, sicché i figli della luce non sono i figli della guerra, ma i figli della pace.

2. Prassi profetica e convocatrice

La predicazione di Gesù è un tutt’uno con il suo agire. La sua prassi nonviolenta intercetta realtà che sono di carattere biblico ed etico, profetico e politico. In primo luogo la natura del popolo di Dio nella Palestina dell'epoca, che vedeva convivere strutture di dominatori e situazioni di adattamento da parte dei dominati, idealità religiose ed opportunismi e calcoli politici[10]. Come province dell'impero, la Galilea e la Giudea erano in un circuito amministrativo, economico e militare che per la loro identità costituiva un processo disgregante, sul piano strutturale e teologico.

La proprietà latifondiaria sopprimeva i piccoli appezzamenti di terreno, con il conseguente aumento del numero dei braccianti a giornata. I responsabili  politici e religiosi d’Israele si erano piegati alla nuova situazione ed erano contestati dai gruppi menzionati.  Erano annoverati tra i traditori  i collaboratori attivi alle operazioni di esazione, l'aristocrazia sacerdotale, i sadducei, la famiglia di Erode ed i circoli a lui legati, cui sono da aggiungere i latifondisti. Il Sinedrio raccoglieva i detentori del potere religioso e giudiziario succube del potere romano e opportunista. L'impero e le sue strutture s'impiantavano, mentre cresceva il disorientamento dell’’am ha-arez",il popolo della terra (gli incolti e in genere la gente semplice e modesta, con coloro che avevano perso i loro pochi beni o la loro identità socio-religiosa).

Di fronte all'impiantarsi dell'impero e al rispettivo sgretolarsi dell'identità e delle speranze di un popolo siffatto, l'agire di Gesù si va delineando come sovrana, libera e decisiva predicazione del regno di Dio e dei suoi irrinunciabili diritti.

Si tratta di un regno la cui originalità sulla bocca di Gesù è ben sottolineata dai commentatori, che ne mettono in luce l'inafferrabilità e l'immediatezza della presenza ma anche il suo inarrestabile venire, a favore dei piccoli, dei poveri e dei lontani.

3. Prassi di gratuità e di solidarietà

La predicazione del regno avviene, in primo luogo, nella e attraverso la prassi di Gesù, che è essa stessa messaggio di gratuità e contestazione della logica dell'accumulazione e del profitto.

In una situazione che sul piano etico-economico stravolge il cuore della "torah", perché favorisce il profitto, l'accumulazione e l'opportunismo, il messaggio e la prassi del regno di Dio ne contestano l'impostazione complessiva perché sono prassi ed annuncio del dono e della gratuità. E' la prassi di una povertà, che mentre si esprime in Gesù con il fatto di non avere nemmeno dove posare il capo (Lc 9,58; Mt 8,20) (10), si radica nella strabiliante certezza di avere Dio per padre. L'invito a scorgere l'agire provvido ed amorevole di Dio nel nutrire gli uccelli del cielo e nel vestire i gigli dei campi (Mt 6, 26-32; Lc 12, 22-31) non è pertanto panacea consolatoria ed alienante per i derelitti, è piuttosto denuncia e profezia contro chi si affanna, dicendo: "Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?...Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi... Poi dirò a me stesso: Anima mia hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia" (Lc 12,17-19). Su colui che ragiona così, nella logica della tesaurizzazione e con la soddisfazione dell'avidità appagata, la parola di Gesù si abbatte con la virulenza delle più dure profezie: "Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?" (Lc 12,20).

Gesù vuole inoltre sottolineare che la prassi della solidarietà, legata alla coscienza dell'agire di Dio nei confronti dell'uomo, è indispensabile per far parte del regno ed esprimere la sua novità e le sue caratteristiche. Perciò condanna l'ingordigia di chi banchetta lautamente tutti i giorni, lasciando Lazzaro fuori della porta (Lc 16, 19-30) e di chi è occupato esclusivamente in problemi di eredità e di garanzie economiche (Lc 12, 13-15; Mt 6,25); l'altalenarsi di chi non sa mai decidersi tra il servizio al denaro, a "mammona", e il servizio a Dio (Mt 6,24; Lc 16,13).

Il regno esige una prassi di gratuità e di condivisione, quella stessa con la quale Gesù va incontro ai peccatori e agli afflitti, ai poveri ed ai sofferenti. L'appello di Gesù non è prevalentemente etico, ma è un invito ad entrare nel circuito della sua prassi, che è poi quella del regno di Dio che viene. In quest'ottica acquistano una nuova luce parole come queste: "Ebbene io vi dico: procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché quando verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Lc 16,9).

Gesù aveva di frontedifferenti scuole rabbiniche, che si diversificavano in una miriade di interpretazioni della "torah", e che si possono disporre a ventaglio tra due estremi, un'ermeneutica rigorista, risalente a Shammai, ed una moderata, che faceva capo a Hillel. Ciò aveva per risultato la proliferazione di molteplici partiti religiosi e politico-religiosi, ma anche la confusione e la divisione del popolo. Come anche Ben-Chorim riconosce, la particolarità dell'insegnamento di Gesù non consiste nel fatto che egli abbracci l'interpretazione di Hillel e la diffonda, poiché la sua interpretazione è talora umanizzante, talora rigorista[11]. Egli si pone piuttosto al di fuori e al di sopra del dibattito, perché afferra, ci sembra, il vero capo del problema: l'urgenza di una riconvocazione del popolo d'Israele.


La coscienza messianica si manifesta in lui attraverso questa prima forma di ermeneutica teologica: l'impellenza di una raccolta escatologica del "qehal Jahvè", cioè del popolo di Dio. Dicendo ciò, noi non ricadiamo nello psicologismo delle vite di Gesù precedenti a Bultmann, né nell'interpretazione dell'"escatologia conseguente" di Schweitzer. Infatti non ricorriamo a spiegazioni di tipo psicologico, dicendo, come Schweitzer, che Gesù si sarebbe sbagliato nell'attendersi un'irruzione imminente del regno di Dio e ne avrebbe ripensate le condizioni fino a considerare la sua morte indispensabile per forzarne la venuta. Ma ricorriamo ai tratti teologici di quella "biografia" di Gesù, che può essere riletta solo alla luce delle "forme" ermeneutiche con le quali egli giudica la sua missione. I vangeli ci testimoniano senz'ombra di dubbio questa volontà convocatrice di Gesù, mentre i risultati dell'indagine storico-sociale della Palestina dell'epoca ci parlano di alcune cifre, anche se approssimative: circa seimila farisei, quattromila esseni e un numero ancora più ridotto di sadducei, di fronte ai sei-settecentomila membri del "popolo della terra".

E'a quest'ultimo che Gesù pensa e al quale si indirizza, perché lo vede sbandato come gregge disperso, in cui ognuno va per la sua strada come "pecore senza pastore" (Mc 6,34; Mt 9,36; cfr. Nm 27,17; Ez 34, 5; 1 Re 22,17). Il vangelo sottolinea ripetutamente lo sguardo di attenzione e di misericordia di Gesù per questo popolo (12), che accorre intorno a lui come era accorso alla predicazione del Battista. Mc 8,1-2 parla della compassione di Gesù per la folla che lo segue da tre giorni e non ha nulla da mangiare. Mt 14, 13-14 e Mc 6,34 mettono in risalto il moto di commozione che coglie Gesù nel vedere la gente che lo ha preceduto a piedi lungo la riva del lago, per poterlo ascoltare. Mt 15, 29-31 indica la composizione di queste "folle" (ochlòi, cfr. anche Mt 15, 36), che però in 15, 32.33 sono indicate con il termine al singolare (òchlos). Si tratta di un popolo in cui ci sono zoppi, storpi, ciechi, muti e molti altri, che Gesù guarisce, ma è anche un popolo assettato di ascoltare la sua parola.

 

Non è un'iperbole letteraria, ma un concetto teologico, l'informazione: "e una grande moltitudine dalla Galilea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Trasgiordania e dai dintorni di Tiro e Sidone, una gran folla venne da lui, avendo udito ciò che faceva" (Mc 3, 7-8). Come, del resto, è teologico il concetto "lo seguì" (da acoluthein), in parallelismo con "venne da lui", perché è lo steso verbo che indica la pronta reazione degli apostoli e di quanti Gesù chiama ad essere suoi "compagni di strada", concetto che sembra implicito in acoluthein.

2.3.2. Le folle e il popolo di Dio

I luoghi evangelici in cui compare il popolo, nelle diverse accezioni di "folla", "le folle" o "popolo" (rispettivamente corrispondenti a "ochlos", "ochloi", e "laos") sono molto numerosi. La traduzione italiana scambia spesso questi termini che, a rigore, anche se non sempre presentano una netta distinzione, nondimeno possiedono sensi differenti. Volendo dare delle indicazioni generali su queste differenze, si può dire che il senso concettuale oscilla tra quello narrativo (la folla o le folle = la gente), sociologico (la popolazione), politico (il popolo d'Israele e gli altri popoli) e teologico (il popolo di Dio), che non di rado è indirettamente o implicitamente in alcuni dei sensi precedenti.

Siamo dinanzi a un senso più che altro narrativo lì dove si parla di folla, che fa ressa e si accalca da ogni parte, come, ad esempio, nel caso dell'emorroissa (Lc 8,42), o della folla che accompagna il feretro del figlio della vedova di Naim (7,11) o della folla sobillata a chiedere la liberazione di Barabba e la morte di Gesù (Mt 27,20; Mc 15,11; Lc 23, 1, che ha "moltitudine" = "plethos"). Il senso tende a diventare sociologico, quando invece si parla del "popolo" come di un'unità a sé stante, come quando si dice che si teme un suo tumulto (Mt 26,5; Mc 14, 2; Lc 22, 2; Mt 14, 5; Mt 26,5) o che viene sobillato da Gesù (Lc 23, 5). Con maggiore chiarezza si può individuare un senso politico nei contesti che parlano dei "popoli" al plurale, indicando le genti ("éthna", o "laòi") (Mt 11,17, che riprende Is 56,7 e Lc 2,31, che riprende Is 52, 10).

Nella restante maggior parte dei casi la situazione diventa più complessa. Il popolo può essere un'entità chiaramente biblico-teologica, il "popolo di Dio", salvato, conformemente alle antiche promesse (Mt 1,21; Mt 2,6; Mt 4,16; Lc 1,68; Lc 2,11; Lc 2,32) o il popolo rimproverato da Gesù, come dai profeti, perché manifesta un cuore duro e lontano dal suo Dio (Mt 13,15; Mt 15, 8). Anche se a prima vista sembra debba subire l'ira di Dio (Lc 21, 23), è un popolo per il quale Gesù muore (Gv 11, 50; Gv 18, 12) e perciò è ancora chiamato alla salvezza.

 Lo troviamo pertanto intento ad ascoltare la parola di Giovanni, sulla cui identità esso si interroga e dal quale tuttavia si lascia battezzare (Lc 3,7.10; Lc 3,15; Lc 3,21), ma è intento più frequentemente ed intensamente ad ascoltare Gesù (Lc 7,1; Lc 8,42; Lc 19,48; Lc 20,1.9.45). A questo popolo Gesù parla, perché lo vede assetato di ascoltare la sua parola e perché le maggiori controversie con i suoi oppositori avvengono alla sua presenza (Mc 2,2; Mt 14,13-14; Mc 6,34; Lc 20,26.45). La disponibilità del popolo all'ascolto, tanto che esso pende dalle labbra di Gesù, quando egli parla nel luogo più qualificato, nel tempio (Lc 19,48; Lc 20.1; Gv 8,2), e la sua frequentazione di Gesù, sottolineata soprattutto da Luca, sembrerebbero connotarne l'identità teologica. L'esistenza e la vita del popolo di Dio, suggerisce il Vangelo, dipendono direttamente dalla parola del "Signore", che in questo caso è Gesù, subentrato ai profeti che parlavano a nome di Jahvé. Sembrerebbe confermarlo anche il brano di Marco che presenta Gesù circondato dalpopolo, seduto ad ascoltarlo e che Gesù riconosce sua famiglia, prendendo lo spunto dal fatto che sono sopraggiunti i suoi consanguinei (Mc 3,31-35).

Il senso concettuale del popolo pertanto oscilla tra l'accezione teologica e narrativa lì dove si parla di esso come di un'entità temuta dai potenti, perché in qualche modo fa da sentinella all'autenticità profetica di Gesù, così come aveva fatto nei confronti del Battista (Mt 14,5; Mt 26,5; Mc 14,2; Lc 22,6). Ha un'identità più teologica, quasi liturgica, quando loda Dio per ciò che vede compiersi in Gesù (Mc 2,12; Mt 2,8; Lc 18,43), così come era in preghiera nel tempio al momento dell'offerta di Zaccaria (Lc 1,10). Ciò che Gesù compie avviene "davanti a Dio e a tutto il popolo" (Lc 24,19) ed è, come si è detto, per la sua liberazione e salvezza. Sembrerebbe un popolo che segue Gesù, e dovrà seguirlo -suggerisce forse l'evangelista- fino al calvario, giacché la folla composita che gli sta dietro sulla via dolorosa ricorda l'umanità peccatrice e dolorante che correva da lui ad ascoltarlo sulle rive del lago. Ora che l'ora della croce è scoccata, dietro Gesù troviamo "un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna", cui è imposta la sua croce (Lc 23,26), ma troviamo anche, intenta a seguirlo, (il verbo è di nuovo "acoluthein") una gran moltitudine di popolo ("plethos toù laoù"), in cui ci sono le donne che fanno lamento e persino i due malfattori che stanno per esseregiustiziati (Lc 23,27-32). Di questi ultimi uno seguirà Gesù, in quello stesso giorno, fin nella sua dimora del Paradiso (Lc 23,39.43).

Sembra essere, infine, del tutto ambivalente ciò che riferisce Luca, a proposito di un popolo, e qui il tono si fa più discorsivo, che "sta a guardare" Gesù ormai pendente dalla croce, quasi a sottolinearne, - si direbbe - se non proprio l'indifferenza, la curiosità, che lo avrebbe spinto fin là (Lc 23, 35). Ma dello stesso popolo (questa volta indicato con "ochloi"), Luca però afferma di lì a poco che, avendo visto il modo con cui Gesù era morto, se ne tornava a casa percuotendosi il petto, in un atteggiamento quasi liturgico-penitenziale (Lc 23,48). Ciò solleva naturalmente il dubbio se l'interpretazione dello "stare a guardare" sia da intendere solo in un senso narrativo o se piuttosto, come ci sembra, in un senso più teologico: cercare di scorgere in quella morte l'agire di Dio attraverso la persona di Gesù. Non è da escludere un'allusione alla fondamentale ambivalenza delle masse e degli uomini di ogni tempo di fronte alla croce del Signore: la compunzione del cuore e la conversione, oppure una sostanziale indifferenza, ammantata di fredda e abulica curiosità.

Per ciò che riguarda complessivamente la coscienza di Gesù sul popolo di Dio, si deve, in conclusione, ritenere che egli aveva ben chiaro il concetto del "qehal Jahvé" della Scritture, ma confrontandolo con la realtà dell'epoca, vedeva anche l'urgenza non tanto di un intervento come quello del Battista, ma di una sua riconvocazione e di un suo profondo rinnovamento interiore. Il suo parlare quasi senza tregua a quel popolo e a coloro che Gesù associa a sé nella predicazione, al di là di tutti i problemi letterari sollevati dalle raccolte dei discorsi, manifesta questa sua volontà riconvocatrice. In questo contesto riceve anche significato la vocazione dei "dodici", che oggi comunemente si mette in rapporto alle dodici tribù d'Israele, la cui unità e conversione stanno sommamente a cuore a Gesù (13). Attraverso tale convocazione, predica il regno. Esso è venuto ed è già in mezzo agli uomini (Lc 17,21). Il tempo è compiuto, perciò occorre convertirsi (Mc 1,15; Mt 4,17). E'la raccolta escatologica dove pubblicani e peccatori, prostitute ed emarginati da un lato, ma anche farisei e sadducei, esseni e zeloti, dall'altro, vengono tutti convocati ad una radicale conversione per entrare, rinnovati, nello stesso regno (14).

Gesù avverte l'impellenza della raccolta escatologica del regno, alla quale lega la coscienza della sua messianicità, anche perché i responsabili d'Israele non pensano che a pascere se stessi. Egli riprende l'invettiva di Ezechiele che denunciava: "Per colpa del pastore si sono disperse (le pecore) e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura (Ez 34,5-6)". Anche la denuncia di Gesù è netta: chi si comporta così "è un mercenario e non gli importa delle pecore" (Gv 10,13). Gesù avverte di essere venuto per radunare il gregge che è del Padre: "Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio" (Gv 10,29-30).

Gesù riconvoca solennemente il popolo di Dio disperso (Mt 11,28-30) e accusa quanti non compiono il loro dovere verso il popolo di Dio, di inettitudine e rapina: "Chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte è un ladro e un brigante" (Gv 10,1). sono parole che non possono essere fraintese in senso spiritualistico, ma testimoniano una forte prassi di riaggregazione, che si basa sulla coscienza di un profondo legame con il Padre. Lo dimostra il fatto che queste parole furono intese in un senso così concreto da alcuni giudei che si erano sentiti investiti dalla denuncia di Gesù, che essi "portarono di nuovo le pietre, per lapidarlo" (Gv 10,31).

4 Prassi della misericordia e della liberazione

E'singolare nel Vangelo il movimento crescente e contrapposto tra l'amore misericordioso ed aggregante di Gesù, che si va sempre più affinando e precisando fino al dono della propria vita, e l'ostilità sempre più dura e minacciosa, fino a diventare omicida, di quanti detenevano il potere nella Gerusalemme di allora.

Gesù aveva iniziato a realizzare sua la missione messianica cominciando ad annunciare il vangelo dopo l 'arresto di Giovanni ordinato da Erode e nel triangolo costituito da Cafarnao, Betsaida e Corazin (Mc 1,14-15; Mt 4,12-17; Lc 4,14-15), più a al Nord di Nazaret, sulla punta settentrionale del lago di Tiberiade. Il fatto che Gesù non si sia recato dalla sua città di Nazaret direttamente a Gerusalemme, ma si sia spinto verso il Nord, ci indica la coscienza della continuità, ma anche del superamento che egli ha rispetto alla missione del Battista. Mostra anche la sua intenzione convocatrice del popolo di Dio, a partire da quella regione che era a confine con i pagani, sicché si potesse realizzare la parola profetica di Isaia: "il popolo che sedeva nelle tenebre ha visto una grande luce, e per coloro che sedevano nella regione ed ombra di morte è sorta una luce" (Is 8,23-9,1 riportata da Mt 4,12-15, ma cui allude anche Lc 1,78-79). Di là Gesù si reca fino a Cesarea di Filippo, nella regione pagana di Tiro e Sidone (Mt 16,13; Mc 8,27), dopo aver espresso la sua amarezza per la poca accoglienza che trovata in città come Cafarnao, Corazin e Betsaida ed aver affermato che proprio Tiro e Sidone sarebbe state, al confronto, più sensibili e si sarebbero convertite (Mt 11,20-23; Lc 10,13-15). In questa regione, distante da Cafarnao circa 40 chilometri, avvengono la domanda di Gesù sulla sua identità rivolta ai discepoli, la risposta di Pietro e il primo annuncio della passione (Mc 8,27-33; Mt 16,13-23; Lc 9,18-22).

Ma proprio qui si intravede un primo ganglio coscienziale e decisionale di Gesù nel contesto della risposta di Pietro, che lo riconosce come Messia. "A partire da questo avvenimento, -scrive W. Feneberg- c'è una doppia risposta di Gesù,la cui seconda parte è tematizzata solo da Matteo: è deciso che io debba andare volontariamente incontro alla morte, che come servo di Dio debba portare i peccati di molti (cfr. Mc 10,45); ma per adesso mi dedico alla fondazione ("Gründung") del vero Qahal. La formazione dei discepoli e un nuovo modo di esprimersi in parabole - diventare come i bambini, il perdono, non darsi alcuna preoccupazione, il Padre misericordioso - segnano questa via di circa 150 chilometri, che Gesù ha rifatto da Cesarea di Filippo in direzione di Gerusalemme": Qui l'aspetta la citta santa. E'la citta del Messia"[12].

Ma Gerusalemme è anche il luogo del tempio. Proprio per questa ragione è il crocevia obbligato di ogni transazione civile, religiosa ed economica. Ma è anche il luogo che visualizza le tante contraddizioni e tensioni presenti in Israele. In questa citta è palese più che altrove il divario tra la crescente ricchezza delle caste legate al potere politico e religioso e l'impoverimento di un popolo lasciato in balìa di se stesso e delle suggestioni di gruppi nazionalisti estremisti. Ma a Gerusalemme le aspirazioni più genuine delle classi popolari sono verso una purificazione ed una restaurazione insenso messianico delle istituzioni religiose. Mentre, come si è accennato, a ciò corrisponde, nelle classi elevate una situazione di commistione e compromesso con il potere, con casi evidenti di corruzione, intrighi e ipocrisie istituzionali.

In questa amministrazione il popolo geme dappertutto sotto un giogo di pesanti fardelli legati sulle sue spalle dalle autorità civili e religiose. Le invettive di Gesù a questo riguardo fotografano, come molti personaggi delle sue parabole, la società del tempo. Qui sono da trovare, infatti, un giudice iniquo e arrogante che si sottrae ripetutamente al suo dovere di compiere giustizia ad una povera vedova (Lc 18,1-8); un fattore che si garantisce il futuro favorendo i suoi clienti con la manomissione degli atti amministrativi (Lc 16,1-13); i nuovi ricchi, spensierati e spendaccioni che ammazzano il tempo banchettando lautamente, mentre i nuovi poveri, come Lazzaro, aspettano che si svuotino fuori della porta i contenitori dei rifiuti, per mangiare gli avanzi (Lc 16,19-31). Nella regione di Gerusalemme e dintorni non mancano ancora, si diceva, diatribe teologico-dottrinali senza fine

Chi detiene il potere della scienza non solo non lo mette a servizio degli umili, ma si abbandona ad atti sistematici di indottrinamento forzoso e perfino di plagio verso gli sprovveduti. Le parole di Gesù a questo riguardo sono collocate da Matteo, molto significativamente, dopo la purificazione del tempio. Sono di una chiarezza e di una forza inaudite: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi ed i farisei. Quanto vi dicono fatelo ed osservatolo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito" (Mt 23,2-3). E poco dopo, apostrofandoli direttamente, esclama: "Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi" (Mt 23,15).

La proposta di Gesù è invece liberante. Il suo insegnamento non è quello di una scuola tra le altre, ma si può indicare in un rapporto personale e dinamico tra lui ed i suoi discepoli. Egli supera ogni discussione, che spesso era solo accademica, sulla gerarchia dei comandamenti, proponendo non un altro comandamento, ma il suo modo di vivere la torah: l'amore che diventa fedeltà e sequela. Tutta la torah ruota intorno all'amore e non avrebbe ragion d'essere, senza di essa (Mc 12,29-33; Mt 22,36-40; cfr. anche Gv 15,9-17). A chi chiede di poter accedere all'esperienza nuova e radicale dell'amore di Dio attraverso l'amore dell'uomo, Gesù propone come al "giovane" ricco di Matteo l'unica strada possibile, quella che egli ha tracciato: lasciare tutto e seguirlo (Mt 19,20-22; Mc 10,20-22; Lc 18,22-23). In questo modo si realizza l'unità di intenti e di destino tra lui e quanti sono diventati suoi compagni di strada, quell'unità profonda che è il fondamento e la giustificazione ultima dell'amore (Gv 15,1-8).

In questa nuova ottica, Gesù riporta la "legge" al suo nocciolo essenziale: la giustizia, la misericordia, la fedeltà. Riporta l'uomo al cuore di sé stesso: la fiducia , l'amore, il perdono. Per questa ragione il modo di intendere la "torah" da parte di Gesù avviene su due piani: la radicalizzazione della stessa legge, perché egli ne coglie l'anima profonda che l'ha generata e la sua umanizzazione, perché la vede sempre a beneficio dell'uomo e mai contro l'uomo. Può affermare ripetutamente "Avete inteso che fu detto agli antichi...", ma può aggiungere ogni volta "ma io vi dico...", perché sa di non abolire ma di dare spessore e compimento alla stessa "torah" (Mt 5,17-48). La chiave di volta del suo insegnamento è nell'essere perfetti, come il Padre è perfetto (Mt 5,48), giacché non viviamo più nella logica del servo o nel timore dell'uomo religioso, ma viviamo nella logica dei figli (Mt 6,5-18).

Sarebbe errato ritenere la posizione di Gesù rispetto alla legge come una semplice liberalità o maggiore tolleranza, perché egli in effetti esige un cambiamento radicale di prospettiva. Capirne le tensioni ideali che lo muovono significa entrare nella sua prassi di misericordia e di amore incondizionato verso i disprezzati e i derelitti, a differenza non solo dei farisei, che insistendo sulla legge ne hanno dimenticato il cuore ed hanno dimenticato l'uomo (Mt 23,23; Lc 11,42; Mc 7,6-17; Mt 15,1-20) ma anche degli zeloti e degli stessi esseni, la cui intransigenza li rendeva sprezzanti verso gli erranti ed i pubblicani. Gesù può perciò affermare un principio che contiene, in maniera lapidaria, ciò che egli pensa della legge.

Questa ha valore salvifico per l'uomo, non può schiacciarlo, ma, al contrario, lo libera, perché lo immette in un circuito di vita e di benedizione che è quello di Dio: "Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato" (Mc 2,27), o , come traduce Ben-Chorin, "Il sabato è dato a voi e non voi siete dati al sabato"[13].

E'ancora la pratica di una misericordia liberante che giustifica la convocazione dei poveri del popolo della terra, ai quali non si sarebbero mai rivolti né i dottori della legge (chabherim), né i farisei (perushim). Ciò apparirà ancora più rivoluzionario, se si pensa che in costoro il disprezzo verso l''am ha-arez è tale che essi consideravano, come riferisce Ben-Chorin, il matrimonio tra uno della loro casta e una ragazza del popolo della terra alla stessa stregua dei rapporti di bestialità aborriti dalla Scrittura[14].

L'annuncio del vangelo ai poveri non deve perciò destare scandalo in nessuno (Mt 11,5-6; Lc 7,22-23). Le beatitudini (Mt 5,1-12; Lc 6,20-23) e il discorso programmatico, ed il suo modo di agire in ogni circostanza dimostrano che Gesù è cosciente dell'importanza di questo fatto per la sua missione (Lc 4,16-21). Anche in questo caso la sua prassi è informata alla misericordia che libera gli oppressi. Egli non vuole offrire semplicemente sollievo a chi soffre ed è economicamente, culturalmente o moralmente oppresso, ma propone un nuovo modo di guardare alla vita, alla società, perché propone un modo nuovo di guardare a Dio e a se stessi. E'come se dicesse: "Voi che soffrite e siete disprezzati e poveri, affamati e dimenticati, state in piedi e camminate a testa alta, perché il regno di Dio appartiene a voi!" .

La misericordia di Gesù, sembra il filo rosso che percorre trasversalmente tutto il Vangelo. Storicamente, nessuno più dubita che sia una delle caratteristiche della sua predicazione e del suo agire. La prassi di misericordia si esprime in motivazioni teologiche che hanno il loro centro nell'atteggiamento misericordioso di Dio. Gesù si sente in piena comunione con il Padre proprio per la sua prassi di misericordia e di liberazione. Egli trasalisce di gioia indicibile, nel constatare che il vangelo viene compreso da quei piccoli e poveri ai quali egli ha inteso rivolgersi (Mt 11,25-27).

Interviene con tutta la sua autorità per precisare che è venuto per i malati che hanno bisogno del medico (Mc 2,16-17; Mt 9,9-13; Lc 5,30-31). Illustra l'amore misericordioso e liberante di Dio con le più toccanti parabole che siano state mai pronunciate (Mt 18,12-14; Lc c. 15). Interviene a favore dei bambini (Mc 10,13; Mt 19,13-15; Lc 18,15-17; Mt 21,15-17) considerati incapaci di rapportarsi a Dio e alla "torah" fino al giorno della loro iniziazione alla lettura della legge, quando si diventa "figli del comandamento" (bar-mitzvàh). Difende la peccatrice e ne elogia la sua conversione e l'amore nei suoi confronti (Lc 7,36-47; Mc 14,3-9; Mt 26,6-13). Salva dalla lapidazione l'adultera, prendendo le sue difese (Gv 8, 1-9ss). Valorizza la donna (Mc 1, 29-31 e paralleli; Lc 13,10; Gv 4,1-21; Gv 20,11-15) ed ammette, cosa inaudita per l'epoca, le donne alla sua sequela e al suo discepolato (Lc 8,1-3; Lc 10,38-42) (20). Cerca un ultimo, estremo contatto con Giuda, nell'ora del tradimento (Mt 26,21- 25.48-50; Lc 22,47-48). Perdona i suoi crocifissori (Lc 23,34). Ha comprensione e parole di salvezza per il "ladrone" che pende accanto a lui dalla croce (Lc 23,39-43).

Oltre a provare misericordia per il popolo, come già si è visto, e per i tanti sofferenti ivi presenti, egli aveva anche voluto allestire per loro una sorta di banchetto messianico, in un luogo deserto, dove la gente era accorsa ad ascoltarlo (Mc 6, 35-44; Mt 9,15,21; Lc 9,12-17; Gv 6,4-14). Aveva voluto "ardentemente" mangiare la Pasqua con i suoi, nell'ora suprema della sua vita, nell'imminenza dellla dispersione dei discepoli e della sua consegna ai crocifissori (Lc 22,14-18).

Sono tutti momenti che ci manifestano il mondo interiore che muoveva Gesù. Ci additano non solo e non tanto i tratti umani del suo carattere, ma le sue intime convinzioni e le sue ragioni teologiche autentiche. In forza di queste, si può dire che dal tempo della confessione di Cesarea di Filippo, Gesù va operando un collegamento che diventa sempre più chiaro, sempre più ineludibile tra la sofferenza e la sorte del suo popolo e la sofferenza e la sorte della sua persona. In lui la prassi misericordiosa della liberazione è così legata alla sua persona e alla teologia che la sorregge, da essere prassi diaconale e, alla fine, oblativa.

5. Prassi diaconale ed oblativa

Il modello di un esercizio di potere come arrivismo, sistemazione personale e dominio sugli altri, dominante nella Palestina dell'epoca, contagiava anche i discepoli di Gesù. Luca ce li presenta intenti a discutere animosamente su chi di loro debba essere il più grande, proprio mentre Gesù parla della sua fine imminente. A questo punto egli smaschera la logica del dominio che si ammanta, in molti, con la virtù della beneficenza, e propone un modo nuovo di esercitare una qualsiasi autorità. Dice: "I re delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così. Ma chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi, come colui che serve" (Lc 22,23-27). L'evangelista Giovanni ci presenta Gesù mentre dà un esempio sconcertante di questa nuova prassi del servizio, nella scena della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15).

L'atteggiamento critico di Gesù davanti al potere esercitato dai grandi della terra muove dalla consapevolezza che se esso viene dall'alto, come si dice, non può non essere esercitato che a beneficio degli uomini, altrimenti viene dal maligno. Per questo motivo, nessuno può fermare la sua missione, perché questa viene dal Padre. Gesù inizia a predicare subito dopo l'arresto di Giovanni Battista (Mc 1,14), dimostrando che l'Erode di turno della storia, anche se può fermare e perfino uccidere un profeta, non può arrestare la Parola di Dio, il correre della buona novella. Quando Erode Antipa vorrà sbarazzarsi di lui, facendogli pervenire minacce di morte, Gesù risponde dicendo che egli deve compiere la sua opera fino a quando non avrà terminato e che deve andare per la sua strada, non esitando a chiamare il re "quella volpe" (Lc 13,32).

E'da leggere nella stessa ottica il tanto citato (spesso a sproposito) "logion" del "date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,20-26). Alla domanda se sia lecito o no pagare il tributo, postagli dagli erodiani (collaborazionisti con l'impero) e dai farisei (che pur essendo contro l'impero, vorrebbero sfruttare abilmente l'occasione propizia, ai danni di Gesù), Gesù risponde facendosi mostrare la moneta del tributo. Su di essa c'è l'effigie dell'imperatore con l'iscrizione che a lui si riferisce. Ad un ebreo era vietato dalla "legge" farsi qualunque effigie "di ciò che sta su in cielo o giù sulla terra, nell'acqua o sotto terra" (Dt 5,8). Adottare monete con l'effigie dell'imperatore, in una terra che era di Dio, era una contraddizione stridente, una bestemmia per gli ebrei osservanti quali i farisei. La controdomanda di Gesù è vòlta ad evidenziare questa contraddizione: "Di chi è l'immagine e l'iscrizione?". La risposta non può essere che "di Cesare". "Allora restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio". Ma cosa apparteneva a Cesare? Cosa appartiene a Dio? Cesare era un intruso in quella terra, in quella religione. Doveva essere ridimensionato al suo ruolo, giacché aveva preteso di essere Dio, come alludevano sia l'immagine che l'iscrizione della moneta. Ben lo sapevano i cristiani lettori del Vangelo di Marco, che subivano ogni genere di persecuzione perché negavano a Cesare un culto che si deve dare solo a Dio. Tale diniego deve essere ricondotto - suggerisce il Vangelo - alla volontà di Gesù.

In conclusione, anche in questo caso,e sopratutto qui, l'agire di Gesù ci riporta al suo progetto messianico più profondo: restituire a Dio ciò che gli appartiene: il suo popolo disperso, la sua terra dominata, il suo culto inquinato. In questo contesto va anche intesa la purificazione del tempio (Mc 11, 15-17; Mt 21, 12- 13; Lc 19, 45-46) e la conseguente attività messianica, con la predicazione e le guarigioni ivi operate (Mt 21,14). I rischi che Gesù corre sono tanti. Ne è coscienze e prende le sue contromisure, come appare evidente da altri riferimenti evangelici relativi alla sua prassi messianica.

Il fraintentimento più grossolano in cui poteva incorrere l'agire di Gesù agli occhi dei suoi discepoli e delle folle che lo seguivano, era quello di pensare che egli volesse e persino dovesse prendere in mano le redini di un messianismo politico-rivoluzionario, rispondendo alle attese del popolo con una sorta do golpe politico-popolare. Diventare insomma un vero re d'israele, visto che l'altro re non era che un fantoccio di re, lontano dal cuore e dall'anima d'Israele. Gesù è cosciente di correre questo rischio, date le attese semplici ed immediate dei suoi ascoltatori. Perciò deve ripetutamente intervenire su questo punto, fino a respingere chiaramente l'idea di impadronirsi di un potere terreno, sfruttando l'ondata di favore popolare dopo il banchetto messianico (Gv 6,15). Anche in questo momento Gesù smaschera la vecchia tentazione che si era affacciata fin dall'epoca del ritiro nel deserto, agli inizi della sua attività pubblica (Mt 4,8-10; Lc 4,5-8), così come la respingerà pochi istanti prima di morire (Mt 27,39-37; Mc 15,29-32; Lc 23,35-38). Proprio allora l'iscrizione che sarcasticamente lo indica come "re dei Giudei" e gli scherni degli astanti ripropongono la tentazione di sempre: "mostra quello che tu sei", "manifestati come re e tutti saranno con te!".

E'un dilemma esistenziale: apparire come colui che regna o come colui che incarna le profezie del profeta perseguitato e del servo sofferente di Jahvé? Gesù non ha dubbi. Quando vengono a proporgli di diventare re, non può essere più esplicito: "voi mi cercate non perché avete visto dei segni" (non avete capito chi realmente io sia e che cosa io voglia), "ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati...Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il figlio dell'uomo vi darà" (Gv 6,26-27).

Il discorso del pane è fondamentale per comprendere la missione di Gesù. Egli non sarà un distributore di pane, nè sfrutterà l'ondata di simpatia che il miracolo della cosiddetta "moltiplicazione dei pani" gli ha suscitato attorno. Il banchetto messianico, ivi sotteso, come giustificazione teologica (cfr. Is 65,13-14), è il punto di partenza per presentare se stesso come il pane. Gesù vuole diventare il pane del suo popolo. Offrirà non pane a buon mercato, ma la sua esistenza, spezzata come il pane, per la salvezza di tutti, e il suo sangue costituirà la nuova alleanza, una nuova e definitiva fonte di aggregazione. La sua è perciò una prassi che si può chiamare diaconale ed oblativa, oltre che convocatrice, misericordiosa e liberante.

Gesù ha davanti agli occhi la situazione del suo popolo, descritta con molta vivacità da un salmo con queste parole: "I malvagi divorano il mio popolo come il pane" (Sal 14,4). Capovolge la situazione e si presenta come il pane che sarà mangiato dal suo popolo e che conferisce la salvezza e la vita: "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (Gv 6,51), perché, aggiunge, "la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda" (Gv 6,55).

Il racconto dell'istituzione dell'eucaristia realizzerà queste sue parole,le drammatizzerà liturgicamente nella luce tragica e gloriosa della crocifissione ormai imminente. E'il momento di andare fino in fondo su questa strada. E'l'ora di aggregare nel patto del suo sangue una Chiesa che sta nascendo umanamente disgregata. Nella notte del tradimento, come già si è detto nel capitolo precedente, Gesù raduna i suoi e dà per la loro unità tutto ciò che può donare. Cerca, crea unità nel momento della fuga e della dispersione. Nell'ora delle tenebre il pane spezzato e il sangue versato illumineranno di gloria discreta e regale una Chiesa che nasce nell'angoscia, nell'incertezza, ma alla quale Gesù, dopo il dono del pane, darà sulla croce anche il suo Spirito. Come infatti interpreta una certa esegesi, teologicamente bene informata, Gesù muore sulla croce non "spirando", ma facendo dono del suo Spirito: "E chinato il capo, donò il suo Spirito" (Gv 19,30).

Il dono del suo Spirito, si aggiunge, è da contestualizzare con l'indicazione che dal suo costato ferito scaturiscono acqua e sangue. Da qui, l'interpretazione teologica ritiene che la comunità dei seguaci nasce dunque dalla croce, con i sacramenti fondamentali del battesimo e dell'eucaristia, ma nasce soprattutto con l'ultimo dono di Gesù, il piùgrande, il suo Spirito. Per il suo popolo egli dà veramente tutto. La sua regalità è nell'atto di questo supremo sacrificio e ciò non può essere che la suprema evidenziazione di tutta la sua prassi e dei motivi che l'hanno sorretta. Per questo motivo il suo regno "non è di questo mondo", nel senso che non è nella logica e nella prassi dei regni di questo mondo, non può essere paragonato ad essi, e tantomeno a quello rappresentato da Pilato, che si impone con la forza e la violenza delle armi (Gv 18,33-38). Gesù dimostra come si deve regnare nel regno di Dio e cosa vuol dire diventare pane per il proprio popolo. Con la sua croce pone il segno profeticamente più alto della critica al potere, a un potere che non è servizio, ma asservimento degli altri ed indica la strada del servizio e del dono che arriva ad offrire anche la vita per i propri amici (Gv 15,13-15).

Cosa può giustificare un sacrificio così grande, un'offerta così totale, una critica così radicale? Sono le convinzioni profonde di Gesù, le motivazioni teologiche che lo hanno spinto. Ma è anche, contemporaneamente, l'avvenuto collegamento tra il regno di Dio e la sua stessa persona. Gesù sa ormai, dal tempo della decisione di salire a Gerusalemme, che la sua vita e lo stesso regno di Dio sono inscindibilmente uniti nell'unico atto dell'oblazione e dell'offerta di sé. Con questo dono egli realizzerà la riaggregazione salvifica del popolo di Dio. Egli interiorizza e fa suoi i modelli biblici che offrivano una chiave ermeneutica per comprendere il rifiuto e la sofferenza che stavano per abbattersi su di lui. Anche in questo caso, come vedremo nel capitolo seguente, la sua prassi è teologicamente fondata e il suo modo di porsi dinanzi alla ineluttabilità della condanna, prima, e durante la stessa esecuzione, poi, dimostra la presenza in Gesù di un preciso progetto, che è parte costitutiva della sua "biografia teologica".

 

 



[1] R. FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, Cittadella Ed., Assisi 1983, 85ss.

[2] J. P. MEIER, Un ebreo marginale, Queriniana, Brescia 2001

[3] Mia traduzione dal tedesco dalla raccolta dei testi originali di R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus und die Urchristen. Die Qumran-Rollen entschüsselt, Bertelsmann, München 1993, 4Q521 (tavola 1) I frammento, 2 colonna, pag. 29 (ed. oginale inglese: Id., The Dead Sea Scrolls Uncovered, Element Books, Dorset 1992, England, tr. Italiana: Id., Manoscritti segreti di Qumran, Piemme, Casale monferrato 1994).

[4]Ivi.

[5]Ivi.

[6]La spiritualità del ritorno al deserto, è ben fondata nella Bibbia. Basti pensare a Isaia 40,3-5, che da movimenti come quello legato al Battista o a gruppi simili probabilmente fu interpretato come appello a una vera e propria forma di radicale conversione: «Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato"».

[7] A questo riguardo  il biblista Dupont scrive: «Gli autori che abbiamo ora citato, e molti altri con essi, si rendono conto che le beatitudini hanno un valore religioso, e in questo hanno certamente ragione. Ma pensano di poter scoprire questo senso religioso soltanto nelle disposizioni spirituali di coloro ai quali sono rivolte le beatitudini. Noi cercheremo di dimostrare che il privilegio dei poveri e degli sventurati trova, al contrario, il suo vero fondamento non tanto nelle disposizioni spirituali attribuite a queste categorie di persone, ma nella natura del Regno che sta per venire, nelle disposizioni di Dio il quale intende esercitare la sua regalità a favore dei pii diseredati. Le beatitudini sono prima di tutto una rivelazione sulla misericordia e sulla giustizia che devono caratterizzare il Regno di Dio» (J. Dupont, Le beatitudini I¸ Paris 1969, pag. 516.

[8] Cf. il  frammento che afferma: «... il tempo in cui tu hai loro comandato ... non a ... e voi mentirete sul suo patto ... essi dicono: “fateci fare la Sua guerra ... perché abbiamo profanato” ... i vostri [nemi]ci devono essere annientati e non devono sapere che con il fuoco ...»  (R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus..., cit., che fa riferimento a 4Q471, Framemnto 1, pag. 39).

[9]Ivi.

[10] Le contestualizzazioni storico-geografiche hanno notevole rilievo nella maggior parte delle opere già citate. Ciò che qui si riporta cerca di tener conto dei fattori sui quali esse convergono, con una particolare attenzione a quelli che sembrano nevralgici per la prassi di Gesù. Cfr., a titolo d'esempio: R. FABRIS, Gesù di Nazareth, op. cit., L'ambiente di Gesù, ivi pp. 64-85; e Prese di posizioni di Gesù, ivi, pp. 135-149. Cfr. anche A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, op. cit., soprattutto la III parte: La buona novella. Per la parte relativa alla convocazione operata dalla prassi di Gesù, cfr. J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento I, op. cit., 194-205: Il raduno della comunità dei salvati. Cfr. H. ECHEGARAY, La prassi di Gesù, Cittadella Ed., Assisi 1983, cui siamo debitori dell'espressione "prassi convocatrice" (ivi 10 ss.) e di alcune indicazioni tanto di carattere sociale che di carattere biblico.

[11] Cfr. S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul nazareno, Morcelliana, Brescia 1985, 3ss. L'autore documenta che già per Hillel era centrale l'idea dell'amore del prossimo.

[12] R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, op. cit., 274.

[13] S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù, op. cit., 88. L'autore citando una sentenza simile, riportata nel Talmud (Joma 85b), commenta dicendo "il sabato è dato come un piacere e una gioia, e non come una camicia di forza imposta dalla legge".

[14]  Ivi, 89.