Giovanni Mazzillo <info autore> | home page: www.puntopace.net
Firenze 05.08.02
Gesù di Nazareth vive e propone la nonviolenza come
sequela radicale
1. Gesù: “un
ebreo marginale” che propone la via insolita della nonviolenza
Già R. Fabris compilalando una "cartella
anagrafica di Gesù" indicava questi dati come dati assolutamente certi[1]:
1) il nome di Gesù: Jeshù,
abbreviazione di Jehoshùa; 2) i
genitori: Joseph e Myriam; 3) il tempo della nascita:
l'epoca del re Erode (in genere si parla del 5/6 a. C.) (3); 4) lo stato
civile: celibe; 5) la professione: carpentiere.
La nuova ponderosa ricerca di Meier ha ripreso la
già evidenziata l’ebraicità di Gesù, ma anche la sua “marginalità” rispetto al
mondo religioso e cultuale della sua epoca[2].
L’insegnamento di Gesù è apparso non scindibile da
una prima cornice, che è costituita del giudaismo, all’interno della quale
Gesù si è però differenziato da altri
predicatori della sua epoca, proponendo una sua particolare concezione.
Allontanandosi dalle pretese di una purezza legale
praticabile solo da pochi, Gesù si è distaccato da quel “messianismo radicale”
che vedeva alla fine vicini gli Zeloti con il loro integralismo violento e gli
Esseni con la loro esasperata accentuazione di una santità che opponeva i
“figli delle tenebre ai figli della luce”. Pur riprendendo l’espressione, che
compare nei testi di Qumran, Gesù si è decisamente schierato a favore di una
misericordia che perdona e avvicina tutti, dando a tutti la possibilità di
salvarsi. Si è pronunciato decisamente anche contro la violenza, inclusa quella
di stampo zelota, indicando la via del dialogo, del perdono e della
riconciliazione come la via maestra del Regno di Dio. Un regno che cresce
lentamente e non piomba dal cielo all’improvviso (contrariamente a quanti
potevano pensare così, incluso forse il Battista, che però a differenza degli
Esseni vedeva una possibilità di salvezza per tutto il popolo, purché pentito e
purificato dall’acqua). Un regno che non è per i puri che si distinguono dalla
massa e si preparano con la preghiera, con la purificazione continua e la vita
comunitaria al suo arrivo, come faceva la comunità di Qumran. Al contrario, è
un regno dove la zizzania cresce insieme con il buon grano ed è così frammisto
ad esso, da no potersene distinguere fino al giorno della mietitura, che
comunque spetta solo a Dio.
Gesù vedeva il regno come regno che si sarebbe
affermato con la forza della sua energia e quella ad esso impressa dallo
Spirito di Dio e non dalla guerra che, come in Qumran i figli della luce dichiaravano e praticavano contro i figli
delle tenebre.
Nei testi di Qumran ci sono
alcune volte espressioni perfino vicine al messaggio delle beatitudini. Si
parla del messia in collegamento con la figura del “figlio dell’uomo” (cf.
libro di Daniele). Sarà un messia che «non si allontanerà dai comandamenti dei
santi»[3],
e costituirà motivo di immensa gioia per i pii, i miti e i giusti che lo hanno
atteso e ancora lo cercano:
«Attingete forza voi che lo servite, voi che cercate il Signore. Forse che non dovreste trovarlo proprio voi, voi tutti che con cuore così perseverante lo attendete? Perché il Signore si metterà alla ricerca dei pii (hasidim) e chiamerà per nome i giusti (zaddikim). Sui miti planerà il suo spirito e i credenti ricreerà attraverso la sua potenza»[4].
I suoi compiti sono simili a quelli della profezia di Isaia 61, che Gesù
applica a se stesso nella sinagoga di Nazareth: «I pii glorificherà al trono
del regno eterno. I prigionieri libererà, i ciechi farà vedere e gli op[pressi]
egli riabiliterà». Infatti egli «...allora guarirà i malati, risveglierà i
morti e annuncerà gioia ai miti, ... guiderà i santi e li custodirà...»[5].
Sono termini che Giovanni Battista, vicino alla
spiritualità essenza, può ben comprendere e che giustifica la risposta di Gesù
ai suoi ambasciatori, venuti a chiedere se sia proprio lui il messia atteso.
«Gesù rispose: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I
ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i
sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona
novella, e beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11,4-6).
Poveri ed infelici sono invitati a gioire perché che
Dio viene in loro aiuto. Essi sono i soggetti preferenziali del suo Regno attestano
la superiore giustizia, che nasce
dalla giustizia di Dio e dalla sua regalità a vantaggio dei predenti della
terra. No nonostante quest’idea di fondo ben presente nei testi di Qumran, non
mancano le differenziazioni con quelli evangelici.
Sebbene entrambi partano dalla giustizia di Dio e
non da quella dei poveri per il favore che Dio mostra per loro, per la
concezione teologica di Qumran le virtù morali e la purità legale sono di
fondamentale importanza nel preparare l’irruzione del Regno. La sua venuta è da
preparare e da chiedere nella meditazione, nella preghiera, nel ritiro nel
deserto, luogo privilegiato di incontro
con Dio e di rinnovamento spirituale[6].
La predicazione di Gesù, che pur insiste su tale
preparazione, mette invece in luce continuamente la gratuità di Dio. Il suo
schierarsi per gli infelici non dipende né dall’agire del popolo di Dio, né
tanto meno dalle virtù dei poveri. Il regno di Dio è quello delle beatitudini
che rivelano la sorprendente gratuità di Dio e la natura “particolare” del suo
stile di regnare[7].
Attraverso Gesù Dio rivela la sua predilezione per
gli infelici e il modo da lui giradito per mettersi al loro fianco. Contro le
pretese cultuali e legali di tipo radicale (degli Esseni e dei Farisei che
riprendevano di quella spiritualità solo gli aspetti più formali), c’era una
sorta di radicalità apocalittica,
incarnata dal Battistae che era incentrata sul giudizio di Dio, fuoco divorante
che stava per abbattersi sulla terra. Ma c’era anche una sorta di radicalità nazionalistica o zelota, che
ricorreva all’idea della “guerra santa” (pur presente nei testi di Qumran),
contro i romani che occupavano la Palestina. Ma c’era anche una forma di radicalità profetica, che ribadiva
l’assoluta esigenza di quella perfezione spirituale cara agli Esseni.
Gesù non condivide il fariseismo e nemmeno le
radicalizzazioni del messianismo. Propone una radicalità della sequela. Contro la netta separazione tra
«servitori delle tenebre» e «figli della luce» che richiamava alla «guerra di
Dio»[8],
fino alla purificazione come traverso il fuoco, Gesù propone la spiritualità
dei facitori di pace e dei miti nonviolenti. Egli è all’opposto di quanti, in
riferimento all’era messianica, affermano:
«... fatevi coraggio per la guerra e ciò dovrà esservi computato a giustizia ...voi dovete interrogare quelli che sono al corrente del giusto giudizio, e il servizio di ... voi dovete essere innalzati, perché egli vi ha scelto ... per il grido ... e voi dovete ardere ... e dolcemente»[9]
Se in una frase volessimo racchiudere il senso che
si coglie in questo testo, che sebbene sia corrotto, mette insieme i soggetti
delle “beatitudini” con l’appello alla guerra e con l’urgenza di farla per
innalzare i miseri, si potrebbe dire che nei testi di Qumran c’è la formulazione
delle beatitudini dei violenti, mentre in Gesù abbiamo le beatitudini dei
facitori di pace. Per Gesù sono proprio costoro quelli che Dio accoglie,
“giustifica” e chiama suoi figli, sicché i figli della luce non sono i figli
della guerra, ma i figli della pace.
2. Prassi
profetica e convocatrice
La predicazione di Gesù è un tutt’uno con il suo
agire. La sua prassi nonviolenta intercetta realtà che sono di carattere
biblico ed etico, profetico e politico. In primo luogo la natura del popolo di
Dio nella Palestina dell'epoca, che vedeva convivere strutture di dominatori e
situazioni di adattamento da parte dei dominati, idealità religiose ed
opportunismi e calcoli politici[10].
Come province dell'impero, la Galilea e la Giudea erano in un circuito
amministrativo, economico e militare che per la loro identità costituiva un
processo disgregante, sul piano strutturale e teologico.
La proprietà latifondiaria sopprimeva i piccoli
appezzamenti di terreno, con il conseguente aumento del numero dei braccianti a
giornata. I responsabili politici e
religiosi d’Israele si erano piegati alla nuova situazione ed erano contestati
dai gruppi menzionati. Erano annoverati
tra i traditori i collaboratori attivi
alle operazioni di esazione, l'aristocrazia sacerdotale, i sadducei, la
famiglia di Erode ed i circoli a lui legati, cui sono da aggiungere i
latifondisti. Il Sinedrio raccoglieva i detentori del potere religioso e
giudiziario succube del potere romano e opportunista. L'impero e le sue
strutture s'impiantavano, mentre cresceva il disorientamento dell’’am
ha-arez",il popolo della terra (gli incolti e in genere la gente semplice
e modesta, con coloro che avevano perso i loro pochi beni o la loro identità
socio-religiosa).
Di fronte all'impiantarsi dell'impero e al rispettivo sgretolarsi dell'identità e delle speranze
di un popolo siffatto, l'agire di Gesù si va delineando come sovrana, libera e
decisiva predicazione del regno di Dio
e dei suoi irrinunciabili diritti.
Si tratta di un regno
la cui originalità sulla bocca di Gesù è ben sottolineata dai commentatori, che
ne mettono in luce l'inafferrabilità e l'immediatezza della presenza ma anche
il suo inarrestabile venire, a favore dei piccoli, dei poveri e dei lontani.
3. Prassi di
gratuità e di solidarietà
La predicazione del regno avviene, in primo luogo, nella e attraverso la prassi di Gesù, che è essa stessa messaggio di
gratuità e contestazione della logica dell'accumulazione e del profitto.
In una situazione che sul piano etico-economico
stravolge il cuore della "torah", perché favorisce il profitto,
l'accumulazione e l'opportunismo, il messaggio e la prassi del regno di Dio ne
contestano l'impostazione complessiva perché sono prassi ed annuncio del dono e
della gratuità. E' la prassi di una povertà, che mentre si esprime in Gesù con
il fatto di non avere nemmeno dove posare il capo (Lc 9,58; Mt 8,20) (10), si
radica nella strabiliante certezza di avere Dio per padre. L'invito a scorgere
l'agire provvido ed amorevole di Dio nel nutrire gli uccelli del cielo e nel
vestire i gigli dei campi (Mt 6, 26-32; Lc 12, 22-31) non è pertanto panacea
consolatoria ed alienante per i derelitti, è piuttosto denuncia e profezia
contro chi si affanna, dicendo: "Che farò, poiché non ho dove riporre i
miei raccolti?...Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più
grandi... Poi dirò a me stesso: Anima mia hai a disposizione molti beni, per
molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia" (Lc 12,17-19). Su
colui che ragiona così, nella logica della tesaurizzazione e con la soddisfazione
dell'avidità appagata, la parola di Gesù si abbatte con la virulenza delle più
dure profezie: "Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita.
E quello che hai preparato di chi sarà?" (Lc 12,20).
Gesù vuole inoltre sottolineare che la prassi della
solidarietà, legata alla coscienza dell'agire di Dio nei confronti dell'uomo, è
indispensabile per far parte del regno ed esprimere la sua novità e le sue
caratteristiche. Perciò condanna l'ingordigia di chi banchetta lautamente tutti
i giorni, lasciando Lazzaro fuori della porta (Lc 16, 19-30) e di chi è
occupato esclusivamente in problemi di eredità e di garanzie economiche (Lc 12,
13-15; Mt 6,25); l'altalenarsi di chi non sa mai decidersi tra il servizio al
denaro, a "mammona", e il servizio a Dio (Mt 6,24; Lc 16,13).
Il regno esige una prassi di gratuità e di
condivisione, quella stessa con la quale Gesù va incontro ai peccatori e agli
afflitti, ai poveri ed ai sofferenti. L'appello di Gesù non è prevalentemente
etico, ma è un invito ad entrare nel circuito della sua prassi, che è poi
quella del regno di Dio che viene. In quest'ottica acquistano una nuova luce
parole come queste: "Ebbene io vi dico: procuratevi amici con la disonesta
ricchezza, perché quando verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore
eterne" (Lc 16,9).
Gesù aveva di frontedifferenti scuole rabbiniche,
che si diversificavano in una miriade di interpretazioni della
"torah", e che si possono disporre a ventaglio tra due estremi,
un'ermeneutica rigorista, risalente a Shammai, ed una moderata, che faceva capo
a Hillel. Ciò aveva per risultato la proliferazione di molteplici partiti
religiosi e politico-religiosi, ma anche la confusione e la divisione del
popolo. Come anche Ben-Chorim riconosce, la particolarità dell'insegnamento di
Gesù non consiste nel fatto che egli abbracci l'interpretazione di Hillel e la
diffonda, poiché la sua interpretazione è talora umanizzante, talora rigorista[11].
Egli si pone piuttosto al di fuori e al di sopra del dibattito, perché afferra,
ci sembra, il vero capo del problema: l'urgenza di una riconvocazione del
popolo d'Israele.
La coscienza messianica si manifesta in lui
attraverso questa prima forma di ermeneutica teologica: l'impellenza di una
raccolta escatologica del "qehal Jahvè", cioè del popolo di Dio.
Dicendo ciò, noi non ricadiamo nello psicologismo delle vite di Gesù precedenti
a Bultmann, né nell'interpretazione dell'"escatologia conseguente" di
Schweitzer. Infatti non ricorriamo a spiegazioni di tipo psicologico, dicendo,
come Schweitzer, che Gesù si sarebbe sbagliato nell'attendersi un'irruzione
imminente del regno di Dio e ne avrebbe ripensate le condizioni fino a
considerare la sua morte indispensabile per forzarne la venuta. Ma ricorriamo
ai tratti teologici di quella "biografia" di Gesù, che può essere
riletta solo alla luce delle "forme" ermeneutiche con le quali egli
giudica la sua missione. I vangeli ci testimoniano senz'ombra di dubbio questa
volontà convocatrice di Gesù, mentre i risultati dell'indagine storico-sociale
della Palestina dell'epoca ci parlano di alcune cifre, anche se approssimative:
circa seimila farisei, quattromila esseni e un numero ancora più ridotto di
sadducei, di fronte ai sei-settecentomila membri del "popolo della
terra".
E'a quest'ultimo che Gesù pensa e al quale si
indirizza, perché lo vede sbandato come gregge disperso, in cui ognuno va per
la sua strada come "pecore senza pastore" (Mc 6,34; Mt 9,36; cfr. Nm
27,17; Ez 34, 5; 1 Re 22,17). Il vangelo sottolinea ripetutamente lo sguardo di
attenzione e di misericordia di Gesù per questo popolo (12), che accorre
intorno a lui come era accorso alla predicazione del Battista. Mc 8,1-2 parla
della compassione di Gesù per la folla che lo segue da tre giorni e non ha
nulla da mangiare. Mt 14, 13-14 e Mc 6,34 mettono in risalto il moto di
commozione che coglie Gesù nel vedere la gente che lo ha preceduto a piedi
lungo la riva del lago, per poterlo ascoltare. Mt 15, 29-31 indica la
composizione di queste "folle" (ochlòi, cfr. anche Mt 15, 36), che
però in 15, 32.33 sono indicate con il termine al singolare (òchlos). Si tratta
di un popolo in cui ci sono zoppi, storpi, ciechi, muti e molti altri, che Gesù
guarisce, ma è anche un popolo assettato di ascoltare la sua parola.
Non è un'iperbole letteraria, ma un concetto
teologico, l'informazione: "e una grande moltitudine dalla Galilea e da
Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Trasgiordania e dai dintorni di Tiro e
Sidone, una gran folla venne da lui, avendo udito ciò che faceva" (Mc 3,
7-8). Come, del resto, è teologico il concetto "lo seguì" (da
acoluthein), in parallelismo con "venne da lui", perché è lo steso
verbo che indica la pronta reazione degli apostoli e di quanti Gesù chiama ad
essere suoi "compagni di strada", concetto che sembra implicito in acoluthein.
2.3.2. Le
folle e il popolo di Dio
I luoghi evangelici in cui compare il popolo, nelle
diverse accezioni di "folla", "le folle" o
"popolo" (rispettivamente corrispondenti a "ochlos",
"ochloi", e "laos") sono molto numerosi. La traduzione
italiana scambia spesso questi termini che, a rigore, anche se non sempre
presentano una netta distinzione, nondimeno possiedono sensi differenti.
Volendo dare delle indicazioni generali su queste differenze, si può dire che
il senso concettuale oscilla tra quello narrativo
(la folla o le folle = la gente), sociologico
(la popolazione), politico (il popolo
d'Israele e gli altri popoli) e teologico
(il popolo di Dio), che non di rado è indirettamente o implicitamente in alcuni
dei sensi precedenti.
Siamo dinanzi a un senso più che altro narrativo lì
dove si parla di folla, che fa ressa e si accalca da ogni parte, come, ad
esempio, nel caso dell'emorroissa (Lc 8,42), o della folla che accompagna il
feretro del figlio della vedova di Naim (7,11) o della folla sobillata a
chiedere la liberazione di Barabba e la morte di Gesù (Mt 27,20; Mc 15,11; Lc
23, 1, che ha "moltitudine" = "plethos"). Il senso tende a
diventare sociologico, quando invece si parla del "popolo" come di
un'unità a sé stante, come quando si dice che si teme un suo tumulto (Mt 26,5;
Mc 14, 2; Lc 22, 2; Mt 14, 5; Mt 26,5) o che viene sobillato da Gesù (Lc 23,
5). Con maggiore chiarezza si può individuare un senso politico nei contesti
che parlano dei "popoli" al plurale, indicando le genti ("éthna",
o "laòi") (Mt 11,17, che riprende Is 56,7 e Lc 2,31, che riprende Is
52, 10).
Nella restante maggior parte dei casi la situazione
diventa più complessa. Il popolo può essere un'entità chiaramente
biblico-teologica, il "popolo di Dio", salvato, conformemente alle antiche
promesse (Mt 1,21; Mt 2,6; Mt 4,16; Lc 1,68; Lc 2,11; Lc 2,32) o il popolo
rimproverato da Gesù, come dai profeti, perché manifesta un cuore duro e
lontano dal suo Dio (Mt 13,15; Mt 15, 8). Anche se a prima vista sembra debba
subire l'ira di Dio (Lc 21, 23), è un popolo per il quale Gesù muore (Gv 11,
50; Gv 18, 12) e perciò è ancora chiamato alla salvezza.
Lo troviamo
pertanto intento ad ascoltare la parola di Giovanni, sulla cui identità esso si
interroga e dal quale tuttavia si lascia battezzare (Lc 3,7.10; Lc 3,15; Lc
3,21), ma è intento più frequentemente ed intensamente ad ascoltare Gesù (Lc
7,1; Lc 8,42; Lc 19,48; Lc 20,1.9.45). A questo popolo Gesù parla, perché lo
vede assetato di ascoltare la sua parola e perché le maggiori controversie con
i suoi oppositori avvengono alla sua presenza (Mc 2,2; Mt 14,13-14; Mc 6,34; Lc
20,26.45). La disponibilità del popolo all'ascolto, tanto che esso pende dalle
labbra di Gesù, quando egli parla nel luogo più qualificato, nel tempio (Lc
19,48; Lc 20.1; Gv 8,2), e la sua frequentazione di Gesù, sottolineata
soprattutto da Luca, sembrerebbero connotarne l'identità teologica. L'esistenza
e la vita del popolo di Dio, suggerisce il Vangelo, dipendono direttamente
dalla parola del "Signore", che in questo caso è Gesù, subentrato ai
profeti che parlavano a nome di Jahvé. Sembrerebbe confermarlo anche il brano
di Marco che presenta Gesù circondato dalpopolo, seduto ad ascoltarlo e che
Gesù riconosce sua famiglia, prendendo lo spunto dal fatto che sono
sopraggiunti i suoi consanguinei (Mc 3,31-35).
Il senso concettuale del popolo pertanto oscilla tra
l'accezione teologica e narrativa lì dove si parla di esso come di un'entità
temuta dai potenti, perché in qualche modo fa da sentinella all'autenticità
profetica di Gesù, così come aveva fatto nei confronti del Battista (Mt 14,5;
Mt 26,5; Mc 14,2; Lc 22,6). Ha un'identità più teologica, quasi liturgica,
quando loda Dio per ciò che vede compiersi in Gesù (Mc 2,12; Mt 2,8; Lc 18,43),
così come era in preghiera nel tempio al momento dell'offerta di Zaccaria (Lc
1,10). Ciò che Gesù compie avviene "davanti a Dio e a tutto il
popolo" (Lc 24,19) ed è, come si è detto, per la sua liberazione e
salvezza. Sembrerebbe un popolo che segue Gesù, e dovrà seguirlo -suggerisce
forse l'evangelista- fino al calvario, giacché la folla composita che gli sta
dietro sulla via dolorosa ricorda l'umanità peccatrice e dolorante che correva
da lui ad ascoltarlo sulle rive del lago. Ora che l'ora della croce è scoccata,
dietro Gesù troviamo "un certo Simone di Cirene, che veniva dalla
campagna", cui è imposta la sua croce (Lc 23,26), ma troviamo anche,
intenta a seguirlo, (il verbo è di nuovo "acoluthein") una gran
moltitudine di popolo ("plethos toù laoù"), in cui ci sono le donne
che fanno lamento e persino i due malfattori che stanno per esseregiustiziati
(Lc 23,27-32). Di questi ultimi uno seguirà Gesù, in quello stesso giorno, fin
nella sua dimora del Paradiso (Lc 23,39.43).
Sembra essere, infine, del tutto ambivalente ciò che
riferisce Luca, a proposito di un popolo, e qui il tono si fa più discorsivo,
che "sta a guardare" Gesù ormai pendente dalla croce, quasi a
sottolinearne, - si direbbe - se non proprio l'indifferenza, la curiosità, che
lo avrebbe spinto fin là (Lc 23, 35). Ma dello stesso popolo (questa volta
indicato con "ochloi"), Luca però afferma di lì a poco che, avendo
visto il modo con cui Gesù era morto, se ne tornava a casa percuotendosi il
petto, in un atteggiamento quasi liturgico-penitenziale (Lc 23,48). Ciò solleva
naturalmente il dubbio se l'interpretazione dello "stare a guardare"
sia da intendere solo in un senso narrativo o se piuttosto, come ci sembra, in
un senso più teologico: cercare di scorgere in quella morte l'agire di Dio
attraverso la persona di Gesù. Non è da escludere un'allusione alla
fondamentale ambivalenza delle masse e degli uomini di ogni tempo di fronte
alla croce del Signore: la compunzione del cuore e la conversione, oppure una
sostanziale indifferenza, ammantata di fredda e abulica curiosità.
Per ciò che riguarda complessivamente la coscienza
di Gesù sul popolo di Dio, si deve, in conclusione, ritenere che egli aveva ben
chiaro il concetto del "qehal Jahvé" della Scritture, ma
confrontandolo con la realtà dell'epoca, vedeva anche l'urgenza non tanto di un
intervento come quello del Battista, ma di una sua riconvocazione e di un suo
profondo rinnovamento interiore. Il suo parlare quasi senza tregua a quel
popolo e a coloro che Gesù associa a sé nella predicazione, al di là di tutti i
problemi letterari sollevati dalle raccolte dei discorsi, manifesta questa sua
volontà riconvocatrice. In questo contesto riceve anche significato la
vocazione dei "dodici", che oggi comunemente si mette in rapporto
alle dodici tribù d'Israele, la cui unità e conversione stanno sommamente a
cuore a Gesù (13). Attraverso tale convocazione, predica il regno. Esso è
venuto ed è già in mezzo agli uomini (Lc 17,21). Il tempo è compiuto, perciò
occorre convertirsi (Mc 1,15; Mt 4,17). E'la raccolta escatologica dove
pubblicani e peccatori, prostitute ed emarginati da un lato, ma anche farisei e
sadducei, esseni e zeloti, dall'altro, vengono tutti convocati ad una radicale
conversione per entrare, rinnovati, nello stesso regno (14).
Gesù avverte l'impellenza della raccolta
escatologica del regno, alla quale lega la coscienza della sua messianicità,
anche perché i responsabili d'Israele non pensano che a pascere se stessi. Egli
riprende l'invettiva di Ezechiele che denunciava: "Per colpa del pastore
si sono disperse (le pecore) e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono
sbandate. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in
cerca di loro e se ne cura (Ez 34,5-6)". Anche la denuncia di Gesù è
netta: chi si comporta così "è un mercenario e non gli importa delle
pecore" (Gv 10,13). Gesù avverte di essere venuto per radunare il gregge
che è del Padre: "Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e
nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio" (Gv 10,29-30).
Gesù riconvoca solennemente il popolo di Dio
disperso (Mt 11,28-30) e accusa quanti non compiono il loro dovere verso il
popolo di Dio, di inettitudine e rapina: "Chi non entra nel recinto delle
pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte è un ladro e un
brigante" (Gv 10,1). sono parole che non possono essere fraintese in senso
spiritualistico, ma testimoniano una forte prassi di riaggregazione, che si
basa sulla coscienza di un profondo legame con il Padre. Lo dimostra il fatto
che queste parole furono intese in un senso così concreto da alcuni giudei che
si erano sentiti investiti dalla denuncia di Gesù, che essi "portarono di
nuovo le pietre, per lapidarlo" (Gv 10,31).
4 Prassi della
misericordia e della liberazione
E'singolare nel Vangelo il movimento crescente e
contrapposto tra l'amore misericordioso ed aggregante di Gesù, che si va sempre
più affinando e precisando fino al dono della propria vita, e l'ostilità sempre
più dura e minacciosa, fino a diventare omicida, di quanti detenevano il potere
nella Gerusalemme di allora.
Gesù aveva iniziato a realizzare sua la missione
messianica cominciando ad annunciare il vangelo dopo l 'arresto di Giovanni
ordinato da Erode e nel triangolo costituito da Cafarnao, Betsaida e Corazin
(Mc 1,14-15; Mt 4,12-17; Lc 4,14-15), più a al Nord di Nazaret, sulla punta settentrionale
del lago di Tiberiade. Il fatto che Gesù non si sia recato dalla sua città di
Nazaret direttamente a Gerusalemme, ma si sia spinto verso il Nord, ci indica
la coscienza della continuità, ma anche del superamento che egli ha rispetto
alla missione del Battista. Mostra anche la sua intenzione convocatrice del
popolo di Dio, a partire da quella regione che era a confine con i pagani,
sicché si potesse realizzare la parola profetica di Isaia: "il popolo che
sedeva nelle tenebre ha visto una grande luce, e per coloro che sedevano nella
regione ed ombra di morte è sorta una luce" (Is 8,23-9,1 riportata da Mt
4,12-15, ma cui allude anche Lc 1,78-79). Di là Gesù si reca fino a Cesarea di
Filippo, nella regione pagana di Tiro e Sidone (Mt 16,13; Mc 8,27), dopo aver
espresso la sua amarezza per la poca accoglienza che trovata in città come
Cafarnao, Corazin e Betsaida ed aver affermato che proprio Tiro e Sidone
sarebbe state, al confronto, più sensibili e si sarebbero convertite (Mt
11,20-23; Lc 10,13-15). In questa regione, distante da Cafarnao circa 40
chilometri, avvengono la domanda di Gesù sulla sua identità rivolta ai
discepoli, la risposta di Pietro e il primo annuncio della passione (Mc
8,27-33; Mt 16,13-23; Lc 9,18-22).
Ma proprio qui si intravede un primo ganglio
coscienziale e decisionale di Gesù nel contesto della risposta di Pietro, che
lo riconosce come Messia. "A partire da questo avvenimento, -scrive W.
Feneberg- c'è una doppia risposta di Gesù,la cui seconda parte è tematizzata
solo da Matteo: è deciso che io debba andare volontariamente incontro alla
morte, che come servo di Dio debba portare i peccati di molti (cfr. Mc 10,45);
ma per adesso mi dedico alla fondazione ("Gründung") del vero Qahal.
La formazione dei discepoli e un nuovo modo di esprimersi in parabole -
diventare come i bambini, il perdono, non darsi alcuna preoccupazione, il Padre
misericordioso - segnano questa via di circa 150 chilometri, che Gesù ha
rifatto da Cesarea di Filippo in direzione di Gerusalemme": Qui l'aspetta
la citta santa. E'la citta del Messia"[12].
Ma Gerusalemme è anche il luogo del tempio. Proprio
per questa ragione è il crocevia obbligato di ogni transazione civile,
religiosa ed economica. Ma è anche il luogo che visualizza le tante
contraddizioni e tensioni presenti in Israele. In questa citta è palese più che
altrove il divario tra la crescente ricchezza delle caste legate al potere
politico e religioso e l'impoverimento di un popolo lasciato in balìa di se
stesso e delle suggestioni di gruppi nazionalisti estremisti. Ma a Gerusalemme
le aspirazioni più genuine delle classi popolari sono verso una purificazione
ed una restaurazione insenso messianico delle istituzioni religiose. Mentre,
come si è accennato, a ciò corrisponde, nelle classi elevate una situazione di
commistione e compromesso con il potere, con casi evidenti di corruzione,
intrighi e ipocrisie istituzionali.
In questa amministrazione il popolo geme dappertutto
sotto un giogo di pesanti fardelli legati sulle sue spalle dalle autorità
civili e religiose. Le invettive di Gesù a questo riguardo fotografano, come
molti personaggi delle sue parabole, la società del tempo. Qui sono da trovare,
infatti, un giudice iniquo e arrogante che si sottrae ripetutamente al suo
dovere di compiere giustizia ad una povera vedova (Lc 18,1-8); un fattore che
si garantisce il futuro favorendo i suoi clienti con la manomissione degli atti
amministrativi (Lc 16,1-13); i nuovi ricchi, spensierati e spendaccioni che
ammazzano il tempo banchettando lautamente, mentre i nuovi poveri, come
Lazzaro, aspettano che si svuotino fuori della porta i contenitori dei rifiuti,
per mangiare gli avanzi (Lc 16,19-31). Nella regione di Gerusalemme e dintorni
non mancano ancora, si diceva, diatribe teologico-dottrinali senza fine
Chi detiene il potere della scienza non solo non lo
mette a servizio degli umili, ma si abbandona ad atti sistematici di
indottrinamento forzoso e perfino di plagio verso gli sprovveduti. Le parole di
Gesù a questo riguardo sono collocate da Matteo, molto significativamente, dopo
la purificazione del tempio. Sono di una chiarezza e di una forza inaudite:
"Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi ed i farisei. Quanto vi
dicono fatelo ed osservatolo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono
e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della
gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito" (Mt 23,2-3). E
poco dopo, apostrofandoli direttamente, esclama: "Guai a voi scribi e
farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito
e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi" (Mt
23,15).
La proposta di Gesù è invece liberante. Il suo
insegnamento non è quello di una scuola tra le altre, ma si può indicare in un
rapporto personale e dinamico tra lui ed i suoi discepoli. Egli supera ogni
discussione, che spesso era solo accademica, sulla gerarchia dei comandamenti,
proponendo non un altro comandamento, ma il suo
modo di vivere la torah: l'amore che diventa fedeltà e sequela. Tutta la torah ruota intorno all'amore e non
avrebbe ragion d'essere, senza di essa (Mc 12,29-33; Mt 22,36-40; cfr. anche Gv
15,9-17). A chi chiede di poter accedere all'esperienza nuova e radicale
dell'amore di Dio attraverso l'amore dell'uomo, Gesù propone come al "giovane"
ricco di Matteo l'unica strada possibile, quella che egli ha tracciato:
lasciare tutto e seguirlo (Mt 19,20-22; Mc 10,20-22; Lc 18,22-23). In questo
modo si realizza l'unità di intenti e di destino tra lui e quanti sono
diventati suoi compagni di strada, quell'unità profonda che è il fondamento e
la giustificazione ultima dell'amore (Gv 15,1-8).
In questa nuova ottica, Gesù riporta la
"legge" al suo nocciolo essenziale: la giustizia, la misericordia, la
fedeltà. Riporta l'uomo al cuore di sé stesso: la fiducia , l'amore, il
perdono. Per questa ragione il modo di intendere la "torah" da parte
di Gesù avviene su due piani: la radicalizzazione
della stessa legge, perché egli ne coglie l'anima profonda che l'ha generata e
la sua umanizzazione, perché la vede
sempre a beneficio dell'uomo e mai contro l'uomo. Può affermare ripetutamente
"Avete inteso che fu detto agli antichi...", ma può aggiungere ogni
volta "ma io vi dico...", perché sa di non abolire ma di dare
spessore e compimento alla stessa "torah" (Mt 5,17-48). La chiave di
volta del suo insegnamento è nell'essere perfetti, come il Padre è perfetto (Mt
5,48), giacché non viviamo più nella logica del servo o nel timore dell'uomo
religioso, ma viviamo nella logica dei figli (Mt 6,5-18).
Sarebbe errato ritenere la posizione di Gesù
rispetto alla legge come una semplice liberalità o maggiore tolleranza, perché
egli in effetti esige un cambiamento radicale di prospettiva. Capirne le
tensioni ideali che lo muovono significa entrare nella sua prassi di misericordia
e di amore incondizionato verso i disprezzati e i derelitti, a differenza non
solo dei farisei, che insistendo sulla legge ne hanno dimenticato il cuore ed
hanno dimenticato l'uomo (Mt 23,23; Lc 11,42; Mc 7,6-17; Mt 15,1-20) ma anche
degli zeloti e degli stessi esseni, la cui intransigenza li rendeva sprezzanti
verso gli erranti ed i pubblicani. Gesù può perciò affermare un principio che
contiene, in maniera lapidaria, ciò che egli pensa della legge.
Questa ha valore salvifico per l'uomo, non può schiacciarlo,
ma, al contrario, lo libera, perché lo immette in un circuito di vita e di
benedizione che è quello di Dio: "Il sabato è stato fatto per l'uomo e non
l'uomo per il sabato" (Mc 2,27), o , come traduce Ben-Chorin, "Il
sabato è dato a voi e non voi siete dati al sabato"[13].
E'ancora la pratica di una misericordia liberante
che giustifica la convocazione dei poveri del popolo della terra, ai quali non
si sarebbero mai rivolti né i dottori della legge (chabherim), né i farisei (perushim).
Ciò apparirà ancora più rivoluzionario, se si pensa che in costoro il disprezzo
verso l''am ha-arez è tale che essi
consideravano, come riferisce Ben-Chorin, il matrimonio tra uno della loro
casta e una ragazza del popolo della terra alla stessa stregua dei rapporti di
bestialità aborriti dalla Scrittura[14].
L'annuncio del vangelo ai poveri non deve perciò
destare scandalo in nessuno (Mt 11,5-6; Lc 7,22-23). Le beatitudini (Mt 5,1-12;
Lc 6,20-23) e il discorso programmatico, ed il suo modo di agire in ogni
circostanza dimostrano che Gesù è cosciente dell'importanza di questo fatto per
la sua missione (Lc 4,16-21). Anche in questo caso la sua prassi è informata
alla misericordia che libera gli oppressi. Egli non vuole offrire semplicemente
sollievo a chi soffre ed è economicamente, culturalmente o moralmente oppresso,
ma propone un nuovo modo di guardare alla vita, alla società, perché propone un
modo nuovo di guardare a Dio e a se stessi. E'come se dicesse: "Voi che
soffrite e siete disprezzati e poveri, affamati e dimenticati, state in piedi e
camminate a testa alta, perché il regno di Dio appartiene a voi!" .
La misericordia di Gesù, sembra il filo rosso che
percorre trasversalmente tutto il Vangelo. Storicamente, nessuno più dubita che
sia una delle caratteristiche della sua predicazione e del suo agire. La prassi
di misericordia si esprime in motivazioni teologiche che hanno il loro centro
nell'atteggiamento misericordioso di Dio. Gesù si sente in piena comunione con
il Padre proprio per la sua prassi di misericordia e di liberazione. Egli
trasalisce di gioia indicibile, nel constatare che il vangelo viene compreso da
quei piccoli e poveri ai quali egli ha inteso rivolgersi (Mt 11,25-27).
Interviene con tutta la sua autorità per precisare
che è venuto per i malati che hanno bisogno del medico (Mc 2,16-17; Mt 9,9-13;
Lc 5,30-31). Illustra l'amore misericordioso e liberante di Dio con le più
toccanti parabole che siano state mai pronunciate (Mt 18,12-14; Lc c. 15).
Interviene a favore dei bambini (Mc 10,13; Mt 19,13-15; Lc 18,15-17; Mt
21,15-17) considerati incapaci di rapportarsi a Dio e alla "torah"
fino al giorno della loro iniziazione alla lettura della legge, quando si
diventa "figli del comandamento" (bar-mitzvàh).
Difende la peccatrice e ne elogia la sua conversione e l'amore nei suoi
confronti (Lc 7,36-47; Mc 14,3-9; Mt 26,6-13). Salva dalla lapidazione
l'adultera, prendendo le sue difese (Gv 8, 1-9ss). Valorizza la donna (Mc 1,
29-31 e paralleli; Lc 13,10; Gv 4,1-21; Gv 20,11-15) ed ammette, cosa inaudita
per l'epoca, le donne alla sua sequela e al suo discepolato (Lc 8,1-3; Lc
10,38-42) (20). Cerca un ultimo, estremo contatto con Giuda, nell'ora del
tradimento (Mt 26,21- 25.48-50; Lc 22,47-48). Perdona i suoi crocifissori (Lc
23,34). Ha comprensione e parole di salvezza per il "ladrone" che
pende accanto a lui dalla croce (Lc 23,39-43).
Oltre a provare misericordia per il popolo, come già
si è visto, e per i tanti sofferenti ivi presenti, egli aveva anche voluto
allestire per loro una sorta di banchetto messianico, in un luogo deserto, dove
la gente era accorsa ad ascoltarlo (Mc 6, 35-44; Mt 9,15,21; Lc 9,12-17; Gv
6,4-14). Aveva voluto "ardentemente" mangiare la Pasqua con i suoi,
nell'ora suprema della sua vita, nell'imminenza dellla dispersione dei
discepoli e della sua consegna ai crocifissori (Lc 22,14-18).
Sono tutti momenti che ci manifestano il mondo
interiore che muoveva Gesù. Ci additano non solo e non tanto i tratti umani del
suo carattere, ma le sue intime convinzioni e le sue ragioni teologiche
autentiche. In forza di queste, si può dire che dal tempo della confessione di
Cesarea di Filippo, Gesù va operando un collegamento che diventa sempre più
chiaro, sempre più ineludibile tra la sofferenza e la sorte del suo popolo e la
sofferenza e la sorte della sua persona. In lui la prassi misericordiosa della
liberazione è così legata alla sua persona e alla teologia che la sorregge, da
essere prassi diaconale e, alla fine, oblativa.
5. Prassi
diaconale ed oblativa
Il modello di un esercizio di potere come arrivismo,
sistemazione personale e dominio sugli altri, dominante nella Palestina
dell'epoca, contagiava anche i discepoli di Gesù. Luca ce li presenta intenti a
discutere animosamente su chi di loro debba essere il più grande, proprio
mentre Gesù parla della sua fine imminente. A questo punto egli smaschera la
logica del dominio che si ammanta, in molti, con la virtù della beneficenza, e
propone un modo nuovo di esercitare una qualsiasi autorità. Dice: "I re
delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno
chiamare benefattori. Per voi però non sia così. Ma chi è il più grande tra
voi, diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti
chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a
tavola? Eppure io sto in mezzo a voi, come colui che serve" (Lc 22,23-27).
L'evangelista Giovanni ci presenta Gesù mentre dà un esempio sconcertante di
questa nuova prassi del servizio, nella scena della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15).
L'atteggiamento critico di Gesù davanti al potere
esercitato dai grandi della terra muove dalla consapevolezza che se esso viene
dall'alto, come si dice, non può non essere esercitato che a beneficio degli
uomini, altrimenti viene dal maligno. Per questo motivo, nessuno può fermare la
sua missione, perché questa viene dal Padre. Gesù inizia a predicare subito
dopo l'arresto di Giovanni Battista (Mc 1,14), dimostrando che l'Erode di turno
della storia, anche se può fermare e perfino uccidere un profeta, non può
arrestare la Parola di Dio, il correre della buona novella. Quando Erode Antipa
vorrà sbarazzarsi di lui, facendogli pervenire minacce di morte, Gesù risponde
dicendo che egli deve compiere la sua opera fino a quando non avrà terminato e
che deve andare per la sua strada, non esitando a chiamare il re "quella
volpe" (Lc 13,32).
E'da leggere nella stessa ottica il tanto citato
(spesso a sproposito) "logion" del "date a Cesare ciò che è di
Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,20-26).
Alla domanda se sia lecito o no pagare il tributo, postagli dagli erodiani
(collaborazionisti con l'impero) e dai farisei (che pur essendo contro
l'impero, vorrebbero sfruttare abilmente l'occasione propizia, ai danni di
Gesù), Gesù risponde facendosi mostrare la moneta del tributo. Su di essa c'è
l'effigie dell'imperatore con l'iscrizione che a lui si riferisce. Ad un ebreo
era vietato dalla "legge" farsi qualunque effigie "di ciò che
sta su in cielo o giù sulla terra, nell'acqua o sotto terra" (Dt 5,8).
Adottare monete con l'effigie dell'imperatore, in una terra che era di Dio, era
una contraddizione stridente, una bestemmia per gli ebrei osservanti quali i
farisei. La controdomanda di Gesù è vòlta ad evidenziare questa contraddizione:
"Di chi è l'immagine e l'iscrizione?". La risposta non può essere che
"di Cesare". "Allora restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a
Dio ciò che è di Dio". Ma cosa apparteneva a Cesare? Cosa appartiene a
Dio? Cesare era un intruso in quella terra, in quella religione. Doveva essere
ridimensionato al suo ruolo, giacché aveva preteso di essere Dio, come
alludevano sia l'immagine che l'iscrizione della moneta. Ben lo sapevano i
cristiani lettori del Vangelo di Marco, che subivano ogni genere di
persecuzione perché negavano a Cesare un culto che si deve dare solo a Dio.
Tale diniego deve essere ricondotto - suggerisce il Vangelo - alla volontà di
Gesù.
In conclusione, anche in questo caso,e sopratutto
qui, l'agire di Gesù ci riporta al suo progetto messianico più profondo:
restituire a Dio ciò che gli appartiene: il suo popolo disperso, la sua terra
dominata, il suo culto inquinato. In questo contesto va anche intesa la
purificazione del tempio (Mc 11, 15-17; Mt 21, 12- 13; Lc 19, 45-46) e la
conseguente attività messianica, con la predicazione e le guarigioni ivi
operate (Mt 21,14). I rischi che Gesù corre sono tanti. Ne è coscienze e prende
le sue contromisure, come appare evidente da altri riferimenti evangelici
relativi alla sua prassi messianica.
Il fraintentimento più grossolano in cui poteva
incorrere l'agire di Gesù agli occhi dei suoi discepoli e delle folle che lo
seguivano, era quello di pensare che egli volesse e persino dovesse prendere in
mano le redini di un messianismo politico-rivoluzionario, rispondendo alle
attese del popolo con una sorta do golpe politico-popolare. Diventare insomma
un vero re d'israele, visto che l'altro re non era che un fantoccio di re,
lontano dal cuore e dall'anima d'Israele. Gesù è cosciente di correre questo
rischio, date le attese semplici ed immediate dei suoi ascoltatori. Perciò deve
ripetutamente intervenire su questo punto, fino a respingere chiaramente l'idea
di impadronirsi di un potere terreno, sfruttando l'ondata di favore popolare
dopo il banchetto messianico (Gv 6,15). Anche in questo momento Gesù smaschera
la vecchia tentazione che si era affacciata fin dall'epoca del ritiro nel
deserto, agli inizi della sua attività pubblica (Mt 4,8-10; Lc 4,5-8), così
come la respingerà pochi istanti prima di morire (Mt 27,39-37; Mc 15,29-32; Lc
23,35-38). Proprio allora l'iscrizione che sarcasticamente lo indica come
"re dei Giudei" e gli scherni degli astanti ripropongono la
tentazione di sempre: "mostra quello che tu sei", "manifestati
come re e tutti saranno con te!".
E'un dilemma esistenziale: apparire come colui che
regna o come colui che incarna le profezie del profeta perseguitato e del servo
sofferente di Jahvé? Gesù non ha dubbi. Quando vengono a proporgli di diventare
re, non può essere più esplicito: "voi mi cercate non perché avete visto
dei segni" (non avete capito chi realmente io sia e che cosa io voglia),
"ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati...Procuratevi
non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il figlio
dell'uomo vi darà" (Gv 6,26-27).
Il discorso del pane è fondamentale per comprendere
la missione di Gesù. Egli non sarà un distributore di pane, nè sfrutterà
l'ondata di simpatia che il miracolo della cosiddetta "moltiplicazione dei
pani" gli ha suscitato attorno. Il banchetto messianico, ivi sotteso, come
giustificazione teologica (cfr. Is 65,13-14), è il punto di partenza per
presentare se stesso come il pane. Gesù vuole diventare il pane del suo popolo.
Offrirà non pane a buon mercato, ma la sua esistenza, spezzata come il pane,
per la salvezza di tutti, e il suo sangue costituirà la nuova alleanza, una
nuova e definitiva fonte di aggregazione. La sua è perciò una prassi che si può
chiamare diaconale ed oblativa, oltre che convocatrice, misericordiosa e
liberante.
Gesù ha davanti agli occhi la situazione del suo
popolo, descritta con molta vivacità da un salmo con queste parole: "I
malvagi divorano il mio popolo come il pane" (Sal 14,4). Capovolge la
situazione e si presenta come il pane che sarà mangiato dal suo popolo e che
conferisce la salvezza e la vita: "Il pane che io darò è la mia carne per
la vita del mondo" (Gv 6,51), perché, aggiunge, "la mia carne è vero
cibo e il mio sangue vera bevanda" (Gv 6,55).
Il racconto dell'istituzione dell'eucaristia
realizzerà queste sue parole,le drammatizzerà liturgicamente nella luce tragica
e gloriosa della crocifissione ormai imminente. E'il momento di andare fino in
fondo su questa strada. E'l'ora di aggregare nel patto del suo sangue una
Chiesa che sta nascendo umanamente disgregata. Nella notte del tradimento, come
già si è detto nel capitolo precedente, Gesù raduna i suoi e dà per la loro
unità tutto ciò che può donare. Cerca, crea unità nel momento della fuga e
della dispersione. Nell'ora delle tenebre il pane spezzato e il sangue versato
illumineranno di gloria discreta e regale una Chiesa che nasce nell'angoscia,
nell'incertezza, ma alla quale Gesù, dopo il dono del pane, darà sulla croce
anche il suo Spirito. Come infatti interpreta una certa esegesi, teologicamente
bene informata, Gesù muore sulla croce non "spirando", ma facendo
dono del suo Spirito: "E chinato il capo, donò il suo Spirito" (Gv
19,30).
Il dono del suo Spirito, si aggiunge, è da
contestualizzare con l'indicazione che dal suo costato ferito scaturiscono acqua
e sangue. Da qui, l'interpretazione teologica ritiene che la comunità dei
seguaci nasce dunque dalla croce, con i sacramenti fondamentali del battesimo e
dell'eucaristia, ma nasce soprattutto con l'ultimo dono di Gesù, il piùgrande,
il suo Spirito. Per il suo popolo egli dà veramente tutto. La sua regalità è
nell'atto di questo supremo sacrificio e ciò non può essere che la suprema
evidenziazione di tutta la sua prassi e dei motivi che l'hanno sorretta. Per
questo motivo il suo regno "non è di questo mondo", nel senso che non
è nella logica e nella prassi dei regni di questo mondo, non può essere
paragonato ad essi, e tantomeno a quello rappresentato da Pilato, che si impone
con la forza e la violenza delle armi (Gv 18,33-38). Gesù dimostra come si deve
regnare nel regno di Dio e cosa vuol dire diventare pane per il proprio popolo.
Con la sua croce pone il segno profeticamente più alto della critica al potere,
a un potere che non è servizio, ma asservimento degli altri ed indica la strada
del servizio e del dono che arriva ad offrire anche la vita per i propri amici
(Gv 15,13-15).
Cosa può giustificare un sacrificio così grande,
un'offerta così totale, una critica così radicale? Sono le convinzioni profonde
di Gesù, le motivazioni teologiche che lo hanno spinto. Ma è anche,
contemporaneamente, l'avvenuto collegamento tra il regno di Dio e la sua stessa
persona. Gesù sa ormai, dal tempo della decisione di salire a Gerusalemme, che
la sua vita e lo stesso regno di Dio sono inscindibilmente uniti nell'unico atto
dell'oblazione e dell'offerta di sé. Con questo dono egli realizzerà la
riaggregazione salvifica del popolo di Dio. Egli interiorizza e fa suoi i
modelli biblici che offrivano una chiave ermeneutica per comprendere il rifiuto
e la sofferenza che stavano per abbattersi su di lui. Anche in questo caso,
come vedremo nel capitolo seguente, la sua prassi è teologicamente fondata e il
suo modo di porsi dinanzi alla ineluttabilità della condanna, prima, e durante
la stessa esecuzione, poi, dimostra la presenza in Gesù di un preciso progetto,
che è parte costitutiva della sua "biografia teologica".
[1] R. FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, Cittadella Ed., Assisi 1983, 85ss.
[2] J. P. MEIER, Un ebreo marginale, Queriniana, Brescia 2001
[3] Mia traduzione dal tedesco dalla raccolta dei testi originali di R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus und die Urchristen. Die Qumran-Rollen entschüsselt, Bertelsmann, München 1993, 4Q521 (tavola 1) I frammento, 2 colonna, pag. 29 (ed. oginale inglese: Id., The Dead Sea Scrolls Uncovered, Element Books, Dorset 1992, England, tr. Italiana: Id., Manoscritti segreti di Qumran, Piemme, Casale monferrato 1994).
[4]Ivi.
[5]Ivi.
[6]La spiritualità del ritorno al deserto, è ben fondata nella Bibbia. Basti pensare a Isaia 40,3-5, che da movimenti come quello legato al Battista o a gruppi simili probabilmente fu interpretato come appello a una vera e propria forma di radicale conversione: «Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato"».
[7] A questo riguardo il biblista Dupont scrive: «Gli autori che abbiamo ora citato, e molti altri con essi, si rendono conto che le beatitudini hanno un valore religioso, e in questo hanno certamente ragione. Ma pensano di poter scoprire questo senso religioso soltanto nelle disposizioni spirituali di coloro ai quali sono rivolte le beatitudini. Noi cercheremo di dimostrare che il privilegio dei poveri e degli sventurati trova, al contrario, il suo vero fondamento non tanto nelle disposizioni spirituali attribuite a queste categorie di persone, ma nella natura del Regno che sta per venire, nelle disposizioni di Dio il quale intende esercitare la sua regalità a favore dei pii diseredati. Le beatitudini sono prima di tutto una rivelazione sulla misericordia e sulla giustizia che devono caratterizzare il Regno di Dio» (J. Dupont, Le beatitudini I¸ Paris 1969, pag. 516.
[8] Cf. il
frammento che afferma: «... il tempo in cui tu hai loro comandato ...
non a ... e voi mentirete sul suo patto ... essi dicono: “fateci fare la Sua
guerra ... perché abbiamo profanato” ... i vostri [nemi]ci devono essere
annientati e non devono sapere che con il fuoco ...» (R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus..., cit., che fa riferimento a 4Q471, Framemnto 1, pag. 39).
[9]Ivi.
[10] Le contestualizzazioni storico-geografiche hanno notevole rilievo nella maggior parte delle opere già citate. Ciò che qui si riporta cerca di tener conto dei fattori sui quali esse convergono, con una particolare attenzione a quelli che sembrano nevralgici per la prassi di Gesù. Cfr., a titolo d'esempio: R. FABRIS, Gesù di Nazareth, op. cit., L'ambiente di Gesù, ivi pp. 64-85; e Prese di posizioni di Gesù, ivi, pp. 135-149. Cfr. anche A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, op. cit., soprattutto la III parte: La buona novella. Per la parte relativa alla convocazione operata dalla prassi di Gesù, cfr. J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento I, op. cit., 194-205: Il raduno della comunità dei salvati. Cfr. H. ECHEGARAY, La prassi di Gesù, Cittadella Ed., Assisi 1983, cui siamo debitori dell'espressione "prassi convocatrice" (ivi 10 ss.) e di alcune indicazioni tanto di carattere sociale che di carattere biblico.
[11] Cfr. S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul nazareno, Morcelliana, Brescia 1985, 3ss. L'autore documenta che già per Hillel era centrale l'idea dell'amore del prossimo.
[12] R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, op. cit., 274.
[13] S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù, op. cit., 88. L'autore citando una sentenza simile, riportata nel Talmud (Joma 85b), commenta dicendo "il sabato è dato come un piacere e una gioia, e non come una camicia di forza imposta dalla legge".
[14] Ivi, 89.