Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Le due relazioni tenute a Firenze il 2/08/2003 alla Casa per la pace
nella Settimana di spiritualità “Riparare le tende per ripartire sui sentieri di Isaia.
Don Tonino Bello, profeta, testimone e poeta della pace”.

I^) La Trinità fonte continua dell'essere e dell'agire insieme

II^ La nonviolenza come specifico del cristiano e dell’uomo di pace nell’opera di don Tonino Bello

I^ Relazione:  La Trinità fonte continua dell'essere e dell'agire insieme

1) Insieme, fin dall’inizio

All'inizio è l'insieme. Insieme infatti è Dio stesso, insieme è l'opera che egli compie, insieme è il desiderio di Dio nel volerci tutti con sé. Questa fondamentale modalità di essere del Dio cristiano è anche la base e la continua ispirazione dell'essere e dell'agire della Chiesa.

“Le linee programmatiche di impegno pastorale per l'anno 1986-87” portano il titolo “Insieme per camminare” e contengono una teologia che ritroviamo sullo sfondo di molti interventi di don Tonino Bello[1]. Muovono dalla rievocazione del Cardinale di Torino Michele Pellegrino morto proprio il 1986. Hanno un diretto riferimento alla sua celebre lettera pastorale intitolata appunto “Camminare insieme”, un documento breve e intenso, innovativo per molti versi, ma soprattutto nella proposta alla comunità cristiana di tre valori di fondo: la povertà, la libertà, la fraternità.

Tre valori che sarebbe riduttivo pensare come imperativi morali. Sono infatti molto di più, perché sono moduli espressivi di essere di una comunità cristiana, la Chiesa, che è invece tutta radicata nella Trinunità di Dio e nella sequela di Cristo.

Con questa profonda convinzione don Tonino scriveva:

«Nella sottolineatura della “Ecclesia de Trinitate” (Chiesa che nasce dalla Trinità) non si nasconde il calcolo del proverbio “L’unione fa la forza”. C’è, invece, l’esigenza di far capire che, se l’albero è la Trinità, mistero di comunione, la Chiesa, che su quest’albero matura, non può vivere la disgregazione delle persone, il molecolarismo dei progetti, la frantumazione degli sforzi. Se no, non è Chiesa. Sarà organizzazione del sacro, consorteria di beneficenza, fabbriceria del rito, multinazionale della morale. Ma non Chiesa»[2].

E, come a rincarare la dose, in collegamento con l’agire e l’insegnamento di Gesù, continuava:

«Dai frutti li riconoscerete, ha detto Gesù. Se dai frutti non ci è dato risalire al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, vuol dire che non ci troviamo di fronte alla Chiesa»[3].

2) L’icona come occasione d’incontro

L’indispensabile doppio legame della Chiesa a Cristo e, tramite lui, alla Trinità è frequente negli scritti di don Tonino. Le “Linee pastorali programmatiche" per il 1988-89 vi ritornano, nella variante del “Camminare nella storia come icona della Trinità”. L’introduzione chiarisce che l’icona è molto più di un ausilio didattico: avendo essa una “funzione sacramentale”, cioè quella di rendere presente la realtà raffigurata. Menzionando il secondo concilio di Nicea, don Tonino ricorda:

«L’icona è per noi l’occasione di un incontro personale, nella grazia dello Spirito, con Colui che essa rappresenta. Più il fedele guarda le icone, più si ricorda di Colui che vi è rappresentato e si sforza di imitarlo»[4].

Ciò che assorbe maggiormente la sua attenzione è l’idea dell’icona come

«occasione di un incontro personale». Ne deriva che la Chiesa, per essere icona della Trinità, deve essere innanzi tutto per chi la guarda «occasione di un incontro personale col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo viventi nella comunione. Anzi, più uno guarda la nostra Chiesa, più deve essere ricondotto al mistero trinitario, col desiderio di viverne le conseguenze»[5].

L’icona non è effigie da incorniciare, come un bel soprammobile, ma una sfida e una provocazione: un invito ad amare, un appello all’amore. Ad un amore non generico, ma al continuo, quotidiano rapportarsi con gli altri, in un rapporto che crea gioia, perché anticipa futuro.

Un’anticipazione profetica che non può non rivolgersi al mondo e al suo bisogno di relazione, come ben affermava San Sergio, maestro del grande iconografo russo Rublev: «Contemplando la SS. Trinità, vincere la lacerante divisione di questo mondo»[6].

Intanto si tratta di vincere la divisione all’interno della Chiesa, dei suoi organismi, delle sue pastorali settoriali, come indica il resto del testo.

Nella Chiesa come nei rapporti sociali in genere, diventa pertanto assolutamente importante la relazione nell’imparare ad essere l’uno per l’altro, ad imitazione della Trinità. La sua unità è data dal fatto che ogni Persona vive per l’altra. Infatti un per uno per uno dà per risultato uno e non tre, come sarebbe nel caso della somma di più elementi. Don Tonino riprende quest’idea da “don Vincenzo, parroco degli zingari”, che così spiegava ai suoi l’ardito mistero della Trinità divina[7].

Altrove si trova scritto della «galassia Trinitaria, principio supremo della nostra comunione umana»[8]. Con la costante duplice declinazione che di solito si chiama «ad intra» ed «ad extra»:

«Se è vero che la Trinità è il mistero di più persone che vivono così insieme da formare un solo Dio, è anche vero che il progetto divino sull’Umanità è che, pur essendo noi più persone sulla terra, abbiamo a formare un solo Uomo»[9].

Sulle implicazioni esistenziali del mistero della Trinunità divina don Tonino è ritornato spesso. Ha scritto chiaramente che non si tratta di un «teorema celeste buono per le esercitazioni accademiche dei teologi», ma piuttosto della

«sorgente da cui devono scaturire l’etica del contadino e il codice deontologico del medico, i doveri dei singoli e gli obblighi delle istituzioni, le leggi del mercato e le linee ispiratrici dell’economia, le ragioni che fondano l’impegno per la pace e gli orientamenti di fondo del diritto internazionale»[10].

Una visione davvero molto vasta, che oltre a rimandare continuamente alla ricerca dell’unità, spinge al rispetto della diversità e alla salvaguardia dell’originalità di ogni persona. Senza di ciò non ci sarebbe né comunione, né relazione, ma solo livellamento.

3) Quanto abbiamo ancora da imparare dalla Trinità!

Le conseguenze pratiche sono, anche per don Tonino, tutte da tirare, se egli, con la passione che lo contraddistingue, annota:

«E perché, dopo tanti secoli di cristianesimo, l’ingiustizia imperversa, e il potere dell’uomo sull’uomo umilia ancora la turba dei poveri? Ma perché sui banchi di teologia abbiamo consumato tanto tempo per studiare l’uguaglianza delle persone divine, se poi non alziamo la voce per mettere in discussione questo perverso sistema economico, che fa morire di fame ogni anno cinquanta milioni di fratelli?[…] Che senso hanno i nostri segni di croce nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, se non ci battiamo perché a tutti gli oppressi del terzo mondo (ma anche a quelli del primo e del secondo) vengano riconosciuti i più elementari diritti umani?»[11].

Se l’uomo è icona della Trinità, scrive altrove don Tonino,

«per quel che riguarda l’amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l’accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito. […] Come le Tre persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente»[12].

Del resto la visione di un Dio, comunità d’amore interamente coinvolta nell’opera della salvezza dell’uomo, fa chiamare spesso a don Tonino la Pasqua come «casa della Trinità». Alla bambina che aveva chiesto il motivo di questa espressione, egli spiega:

«Cara bambina […] la Pasqua è per noi l’accadimento decisivo. È il cratere in cui precipita non solo la suprema rivelazione di Dio, ma anche la sua totale dedizione all’umanità. Con la morte e risurrezione di Gesù, il nostro destino si è capovolto. Da allora siamo entrati nella famiglia trinitaria. La nostra anagrafe è cambiata. La storia di Dio ha fatto irruzione nella storia dell’uomo, perché la nostra storia umana venisse risucchiata nella storia di Dio»[13].

Insomma, per riprendere ancora le sue parole,

«Dal giorno di Pasqua l’indirizzo provvisorio della Santissima Trinità porta i connotati di ciascuno di noi. Di me, vostro Vescovo Antonio. Di te, Andrea, fratello fortunato. Di Angela, la tua splendida donna. Di Paolo, tuo amico per la pelle… E chi vuole adorarla non la deve cercare nei quartieri residenziali del cielo, ma negli occhi dei poveri. Di Antonio, il pescatore. Di Gennaro, l’ubriaco. Di Mohamed, il marocchino. Della mamma di Marta, paralizzata nel cronicario. Di Giuseppe, l’accattone che dorme sulla panchina della villa…»[14].

4) Le agenzie periferiche della comunione

L’espressione ricorre negli scritti per indicare le diverse forme di vita ecclesiale che costituiscono il vissuto della Chiesa. Nessuna di esse sfugge non solo alla logica ma anche al dinamismo triunitario, nel cui solo circuito può ricevere e trasmettere comunione. Vale anche per la famiglia, che

«ha il compito di camminare nella storia come icona della SS. Trinità, collocandosi, cioè, nei confronti del mondo, come “parabola” dell’archetipo trinitario, ed esprimendosi come sua “agenzia periferica di comunione”. Deve, quindi, vivere e far vivere le istanze etiche fondamentali del mistero della nostra fede, che così diventa anche il mistero principale della nostra morale»[15].

La ricerca e la costruzione della pace, nella famiglia come in qualsiasi altro contesto, è motivata dal fatto che le persone devono sempre essere riconosciute come tali, nella loro indispensabile differenziazione e varietà, sempre da rispettare e nella loro fondamentale uguaglianza in dignità e valore, sempre da accettare e favorire. Fuori di questa spiritualità, che è fonte di un agire teologicamente fondato, si assiste, nelle famiglie alle lacerazioni e alle tante forme di violenza che le contraddistinguono e, nella società, alle varie forme di oppressione, che l’affliggono; nelle religioni si assiste ancora a reciproche violenze tra credenti, eredi delle controversie al tempo delle “eresie trinitarie”, senza rendersi conto che la vera, grande eresia è mettersi gli uni contro gli altri.

Don Tonino affronta, in questo contesto un argomento che è di fondamentale importanza anche per noi, laddove individua l’evoluzione della nostra concezione della pace nel passaggio dal “monoteismo assoluto” (che, non sfuggirà a nessuno, è stato ed è fonte di tanti e sanguinosi conflitti) al “monoteismo trinitario di Dio”. Il passaggio ci ha portato alla pienezza dei tempi, facendoci vedere come non può darsi pace senza la giustizia e la salvaguardia del creato. La riflessione (del 1989) viene a ridosso dell’assemblea ecumenica di Basilea ed è ripresa più volte, anche per motivare la concretezza di un agire che talvolta suscita reazioni allarmate, soprattutto da parte di chi preferisce l’assolutismo della pace, cioè di una pace declamata che non tocca niente e nessuno[16].

 

II^ Relazione:
La nonviolenza come specifico del cristiano e dell’uomo di pace nell’opera di don Tonino Bello

1) Solo a tu per tu con le domande sulla nonviolenza

«Poi rimango solo, e sento per la prima volta una gran voglia di piangere. Tenerezza, rimorso o percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere? Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? È possibile cambiare il mondo con i gesti semplici dei disarmati? È davvero possibile che, quando le istituzioni non si muovono, il popolo si possa organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco di chi gestisce il potere? Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna? Questa impresa contribuirà davvero a produrre inversioni di marcia? Perché i mezzi di comunicazione di massa, che hanno invaso la Somalia a servizio di scenografia di morte, hanno pressoché taciuto su questa incredibile scenografia di pace? Ma in questa guerra allucinante chi ha veramente torto e chi ha ragione? E qual è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Sono troppo stanco di rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza. Le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono»[17].

La lunga e toccante citazione è tratta dal diario sul viaggio a Sarajevo e porta il titolo «Dall’inferno e ritorno». Con la sua incalzante sequenza di domande apre il sipario sulla problematica della nonviolenza e indirettamente anche sui suoi presupposti. Ho preferito affrontare il difficile argomento sotto questo titolo: «La nonviolenza come specifico del cristiano e dell’uomo di pace nell’opera di don Tonino Bello», discostandomi da quello indicato nel programma ufficiale, perché mi è sembrato più rispettoso sia del pensiero di don Tonino, sia delle scelte nonviolente che sono state fatte e sono ancora fatte anche al di fuori di un contesto specificamente cristiano. Per questa ragione parlo della nonviolenza come specifico non solo del cristiano (risalendo alla nonviolenza di Cristo), ma anche dell’uomo di pace in genere. Ora sul rapporto tra la nonviolenza e l’insegnamento e la prassi di Gesù, abbiamo avuto modo di parlare nella settimana della pace dello scorso anno[18]. Ulteriori approfondimenti su Gesù e la sua concezione della nonviolenza a fronte di movimenti a lui contemporanei, come gli Zeloti e gli Esseni sono nel mio contributo alla settimana biblica di Lucera[19]. Vi farò un rapido riferimento, per soffermarmi sulle indicazioni relative alla nonviolenza come specificità degli operatori di pace, reperibili nei testi di don Tonino.

2) Gesù e la violenza dei gruppi religiosi della sua epoca

La prima conclusione che si ricava in questo confronto è che nel pensiero di Gesù sono beati i figli della pace e non i figli della guerra. È vero, si tratta pur sempre di una pace esigente, che fa dire a Gesù:

«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione” (Lc 12, 49-51).

Dopo aver ascoltato parole simili, s’intuisce subito che la nonviolenza non è viltà, né ripiego. Non gratifica coloro che ne sono i difensori e i segnaposto nei luoghi della nostra storia. E tuttavia si comprende anche immediatamente che non è Gesù a volere la divisione, perché questa è semmai una conseguenza di radicalità tipica di Gesù, e che tuttavia è ben distinta dal messianismo radicale politico-religioso, e dunque teocratico, di alcuni protagonisti socio-religiosi a lui contemporanei. Mi riferisco soprattutto agli Zeloti e al loro integralismo violento e agli Esseni e alla loro ricerca di purezza estrema, fino ad opporre radicalmente i “figli della luce”, loro, a tutti gli altri, “figli delle tenebre”. I primi prossimi alla salvezza, gli altri al fuoco purificatore. Gesù coltiva non progetti di un’insurrezione violenta o di un regno che si abbatte sulla terra, ma la convinzione che il Regno sta maturando a favore degli uomini tutti e in primo luogo dei poveri e dei diseredati. Nei testi di Qumran, provenienti dai circoli Esseni, attraverso il Messia Dio radunerà i pii e i giusti:

«Attingete forza voi che lo servite, voi che cercate il Signore. Forse che non dovreste trovarlo proprio voi, voi tutti che con cuore così perseverante lo attendete? Perché il Signore si metterà alla ricerca dei pii (hasidim) e chiamerà per nome i giusti (zaddikim). Sui miti planerà il suo spirito e i credenti ricreerà attraverso la sua potenza»[20].

Nel Vangelo, Gesù indica le caratteristiche del Messia davanti ai discepoli del Battista, dicendo:

«Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,4-6).

La regalità di Dio è a tutto vantaggio degli infelici e di coloro che non contano niente, degli oppressi e delle vittime della violenza, tanto civile che religiosa. Le beatitudini rivelano la gratuità di Dio e lo stile tutto suo di regnare[21], decisamente lontano dalle improponibili pretese di purezza legale (tipiche degli Esseni come dei Farisei) e dalla radicalità politico-apocalittica, collegata alla cosiddetta “guerra santa”. Ecco che cosa si trova, a riguardo, negli scritti di Qumran:

«... il tempo in cui tu hai loro comandato ... non a ... e voi mentirete sul suo patto ... essi dicono: “fateci fare la Sua guerra ... perché abbiamo profanato” ... i vostri [nemi]ci devono essere annientati e non devono sapere che con il fuoco ...»[22].

Siamo all’opposto di ciò che dice Gesù, che ripudia nettamente l’uso della violenza. Il confronto potrebbe essere spinto fino a dire che nei testi di Qumran c’è la formulazione della beatitudine dei violenti. Si trova infatti scritto:

«... fatevi coraggio per la guerra e ciò dovrà esservi computato a giustizia…»[23].

L’affermazione di Gesù è invece: «beati i facitori di pace, perché sono essi i figli di Dio» (Mt 5,9). In realtà sono questi i figli della luce e non coloro che si preparano alla guerra, sebbene in nome di Dio.

Ci si può chiedere se la scelta della nonviolenza di Gesù sia solo un fatto episodico o sia solo una interpretazione redazionale degli evangelisti. A ben considerare le cose, si nota, tuttavia, che è presente negli evangelisti quanto nella teologia di Gesù qualcosa che corrisponde a una precisa teologia del messianismo biblico, collegato direttamente alla pace.

Basterà ricordare che esiste una vera e propria linea teologica già nell’Antico Testamento, che parla del messia come re di pace e del re di pace come messia.

3) Il messia e la pace

Sono indimenticabili alcune profezie, come questa:

«Un bimbo è nato per noi, c'è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno che egli viene a consolidare e a rafforzare con il diritto e la giustizia» (Is 9,5-6).

Oppure come l’altra che vede i popoli finalmente dediti a riconvertire gli strumenti di guerra in strumenti di lavoro:

«forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is 2, 4; cf. anche Mi 4,3)

O ancora quella del profeta Zaccaria, che, con la venuta del messia, aveva preannunciato una sorta di disarmo, generalizzato e unilaterale:

«Farà sparire i carri (di guerra) da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l'arco da guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle genti» (Zc 9,10).

Sono tutte ragioni bibliche convincenti perché nel cuore della notte la nascita del Messia sia salutata con un inequivocabile annuncio: «gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Potremmo spiegarlo così: la pace costituisce il motivo fondamentale per rendere gloria a Dio. La pace sulla terra è la gloria di Dio.

Gesù resta fedele a questo programma, collegando la gloria di Dio nel cielo alla venuta del suo Regno e alla pace da costruire sulla terra (Mt 5, 1-11). Ne affida la continuità ai discepoli: «Entrando nella casa, rivolgete il saluto [cioè augurate lo shalom]» (Mt 10, 11). Uno shalom che diventa prassi amorevole e liberante: «guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10,8).

Più che inventore della nonviolenza, Gesù appare in ogni caso artefice di pace, perché portatore di un modo nuovo di guardare agli uomini, alle relazioni, alle cose: «avete inteso che fu detto agli antichi ... ma io vi dico» (Mt cc 5,20-48).

Ripensando al suo agire e insegnare, vengono in mente le parole di Geremia, il profeta che sapeva guardare dalla sofferenza dell’esilio all’aurora della pace, conformemente alla volontà di Dio:

«Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).

Infine, Gesù compie la pace perché egli stesso è la pace, come troviamo nel profeta Michea: «e sarà lui la pace» (Mi 5,4)[24].

Diventa pace e facitore di pace, sino al punto che Paolo scrive:

«Egli infatti è la nostra pace», «Colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia» (Ef 2,14).

Gli effetti della pacificazione di Gesù sono profondi e molteplici: tra questi, quelli spesso menzionati da don Tonino, come la rappacificazione dei diversi (qui ebrei e pagani); una nuova forma di vita, piena e gioiosa, offerta agli uomini; una nuova riconciliazione con la natura. Gesù è pertanto la rivelazione di Dio e del suo progetto di salvezza come realizzazione della pace giunta a noi nella pienezza dei tempi:

«Carissimi amici, anche per quanto riguarda la pace è giunta la pienezza dei tempi. E come nella pienezza dei tempi Gesù, nostra pace, ci ha rivelato la Paternità di Dio, nostra Giustizia, e ci ha rivelato anche lo Spirito che è Signore e dà la vita a ogni creatura, così oggi abbiamo il privilegio di capire che l’annuncio della pace si completa, oltre che con la lotta per la giustizia, anche con l’impegno per la salvaguardia del creato»[25].

4) Il sogno diurno della pace

La pace appare anche nel pensiero di don Tonino non solo come un regalo di Dio, ma anche e soprattutto, a partire dalla Pasqua come una missione e un compito da svolgere. Cominciando con le comunità cristiane. Dobbiamo infatti ricevere dalla domenica la capacità di

 «abbandonarci ai sogni diurni delle grandi utopie: la pace, la giustizia, la fraternità, la libertà […] È dalla domenica, “ottavo giorno”, che si deve scatenare in noi l’empito entusiasta per ciò che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile: il disarmo, l’unilateralità del disarmo, la nonviolenza, il perdono, la pace, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità»[26].

Sogni diurni, ma pur sempre sogni?

Non solo, ma provocazioni autentiche, che sollevano, come all’inizio di questa riflessione, domande precise, poste questa volta alle nostre assemblee liturgiche che si riuniscono nell’ottavo giorno, il giorno in cui ci si attende che le utopie comincino a prendere corpo:

«- Le nostre comunità hanno abdicato al loro ruolo profetico? Le nostre assemblee domenicali sono forse i momenti in cui hanno diritto di cittadinanza solo i luoghi comuni, le frasi scontate, gli atteggiamenti ovvi, le cose previste?

-         Le nostre assemblee sono luoghi di educazione alla pace?

-         Le comunità cristiane sono tessitrici di pace, o alimentano i conflitti? Esercitano anch’esse la violenza?

-         In quali luoghi della nostra città manca la pace? Dove si visibilizzano i frutti della violenza? Dove spuntano i segni di morte? E su queste aree? Qual è il nostro annuncio?

-         Siamo, come credenti, capaci di perdono?»[27].

Non si tratta di esortazioni vaghe, ma ancora una volta di quel compito al quale il Risorto ci ha impegnati:

«Chiamati e mandati a irradiare la luce di Cristo, mostriamoci al mondo testimoni di un mondo “altro”, in cui la fiducia vicendevole è di casa, lo spirito d’accoglienza diviene gioiosa connotazione di solidarietà e le lusinghe del potere non hanno alcuna presa sulle nostre cupidigie»[28].

È il compito di una nonviolenza attiva, che don Tonino ha invocato anche da un martire della nonviolenza, vescovo anche lui, ucciso mentre celebrava, nell’eucaristia, le speranze dei poveri, Mons. Oscar Romero:

«Prega, vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra si facciano banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale, ben sapendo che la sicurezza carnale e la prudenza dello spirito non sono grandezze commensurabili tra loro»[29]

È una preghiera accorata, che nasce anche dalla delusione di vedere comportamenti non coerenti nella stessa Chiesa, a fronte delle tensioni e delle guerre. Riferendosi alla prima guerra del Golfo, don Tonino poteva confrontare le tensioni ideali del Vangelo con le cadute di tono di certi atteggiamenti ecclesiastici:

«Oggi mi è penoso rievocare la malinconia di quei giorni. Perché qualche colpa ce l’abbiamo pure noi. Siamo rimasti lacerati tra i richiami dell’”onnidebolezza” di Cristo e la seduzione dell’”onnipotenza” dell’uomo. Forse le ragioni della nonviolenza evangelica non ci sono parse così affidabili come le argomentazioni della forza delle armi. Abbiamo corretto il tiro di quella frase assurda: amore sì, ma fino a un certo punto, che diamine! Dio, quanta tristezza! L’esperienza di quei giorni, comunque, contribuisca a farvi giudicare ogni guerra, almeno per il futuro, come la contraddizione più aperta con quella scritta collocata sulla cornice del vostro Crocifisso: Charitas sine modo»[30].

Sono convinzioni che nascono dal rafforzamento dell’idea di una nonviolenza che, proprio perché collegata all’onnidebolezza di Cristo, costituiscono la carta invincibile della speranza cristiana, fino ad arrivare alla formulazione della sua assolutezza:

«È giunta l’ora in cui occorre decidersi ad arretrare (o spingere?) la difesa della pace sul terreno della nonviolenza assoluta. Non è più ammissibile indugiare su piazzole intermedie che consentano dosaggi di violenza, sia pur misurati o prevalentemente rivolti a neutralizzare quella degli altri. Richiamarsi al dovere di “camminare con i piedi per terra”, è fare spreco di compatimento sul preteso “fondamentalismo” degli annunciatori di pace, significa far credito alle astuzie degli uomini più di quanto non si faccia assegnamento sulle promesse di Dio. La nonviolenza è la strada che Gesù Cristo, il Servo sofferente di Jahvè, ci ha indicato senza equivoci. Se su di essa perfino la profezia laica ci sta precedendo, sarebbe penoso che noi credenti […] scadessimo al ruolo di teorizzatori delle prudenze carnali»[31].

Contro tali astuzie di basso livello, risuona ancora profetica la voce che ci invita tutti:

«Ripeteremo i discorsi sulla pace, sulla nonviolenza attiva, sulla difesa popolare nonviolenta. Ci esporremo ancora al sorriso dei benpensanti. Ci disporremo a sentirci ripetere i discorsi sul pacifismo a senso unico e sul pacifismo che si agita solo quando ci sono gli americani di mezzo. Lo faremo con un po’ di disgusto, perché sappiamo questi discorsi di quanti anni luce siano ormai superati. Ma lo faremo. Caparbiamente. E ripeteremo mille volte che la guerra, avventura senza ritorno, è ormai incapace di risolvere i conflitti dei popoli. Una cosa è certa che non demorderemo».[32]

Da dove nasceva in don Tonino tale “caparbietà”? Da dove trarremo anche noi alimento perché andiamo avanti sulla strada della nonviolenza anche contro ogni altra evidenza umana? Dalla certezza che il mondo “altro” sta già sorgendo. Sorge per chi sa contemplarlo. Siamo vicini alla trasfigurazione (che sarà il 6 di agosto) e voglio terminare con quelle parole pronunciate da don Tonino nella seconda domenica di quaresima (che cadeva allora il 7 marzo 1993), proprio quando la liturgia fa leggere il vangelo della trasfigurazione:

«”Alzatevi non temete” questa è la vita; questo ci dice oggi il Signore nella festa della Trasfigurazione. Se ascoltiamo l’invito del Signore saremo trasfigurati noi e tutti coloro che ci incontreranno saranno felici di aver fatto la nostra conoscenza, che è poi la conoscenza del Signore, perché noi siamo dei tramiti con Lui che è la fonte, il centro, è l’alba, è l’attesa, è il principio, è la fine, è il punto di riferimento di tutto, è lo zenit, è l’asse di convergenza di tutta l’esistenza, è un pozzo di luce tanto che bisogna chiudere gli occhi per non calcificarli dentro. Bene: pozzo di luce. La luce della Trasfigurazione che mi auguro possa aiutare la vostra anima a consolidare la voglia di andare avanti nel nome di Dio»[33].

 Tracce per il lavoro di gruppo

Ogni gruppo individui, tra le domande proposte, quelle più vicine alla sensibilità e all’interesse dei partecipanti, oppure proponga delle domande alternative, che aiutino lo scambio di riflessioni e di esperienze:

1)                Cerca di individuare i collegamenti non solo teorici, ma anche pratici, tra la riflessione sulla natura triunitaria di Dio e la proposta radicale della nonviolenza da parte di Gesù.

2)                Quanto è presente nella nostra formazione cristiana il grande mistero dell’Unitrinità divina? Cosa si fa per tirarne tutte le conseguenze sul piano pratico: ecclesiale, sociale, politico?

3)                Unità e differenza? Sulla base di quali convinzioni di fondo è possibile evitare i due estremi: la massificazione che livella tutti e la frantumazione che allontana sempre più gli uni dagli altri?  Esempi concreti e segni di speranza (esperienze in atto ecc.).

4)                Le nostre agenzie periferiche della Trinità: quali sono? Che cosa fanno?

5)                L’agire di Gesù e la sua originalità: da dove nasce, che cosa comporta, a che cosa ci sfida?

6)                Scegliamo tra le già riportate domande di don Tonino quelle per noi più direttamente coinvolgenti:

«- Le nostre comunità hanno abdicato al loro ruolo profetico? Le nostre assemblee domenicali sono forse i momenti in cui hanno diritto di cittadinanza solo i luoghi comuni, le frasi scontate, gli atteggiamenti ovvi, le cose previste?

-         Le nostre assemblee sono luoghi di educazione alla pace?

-         Le comunità cristiane sono tessitrici di pace, o alimentano i conflitti? Esercitano anch’esse la violenza?

-         In quali luoghi della nostra città manca la pace? Dove si visibilizzano i frutti della violenza? Dove spuntano i segni di morte? E su queste aree, qual è il nostro annuncio?

-         Siamo, come credenti, capaci di perdono?»



[1] ANTONIO BELLO, Scritti/ Luce e Vita, Molfetta 1993, 1, pp. 287ss (anche quando non indicato, i numeri, in questo nostro testo, rimandano alle pagine e non ai paragrafi). Cf. anche Scrittii/4, 174s :«In principio, la Trinità».

[2] Ivi, 290.

[3] Ivi.

[4] Ivi, 307

[5] Ivi.

[6] Ivi, 310.

[7] Cf. Scritti/ 2/336-337.

[8] Scritti/ 2/60.

[9] Ivi.

[10] Ivi, 326. Cf. Anche Scritti/4, 174ss, dove lo stesso pensiero è nel contesto dell’idea che la Trinità, oltre ad essere «convivialità delle differenze» è anche una «tavola promessa».

[11] Ivi, 333.

[12] Ivi, 337-338.

[13] Ivi, 339-340.

[14] Ivi, 340-341.

[15] Scritti/4, 155.

[16] Cf., a riguardo Scritti/4, 162 ss.

[17] Scritti/1, 110.

[18] Cf. in www.puntopace.net: Testo della relazione a Firenze su Gesù di Nazareth e la nonviolenza come sequela radicale e Testo della 2^ relazione come sopra dal titolo "Beati i miti"....

[19] Cf. G. MAZZILLO, Gesù realizza il messianismo biblico. Relazione alla settimana biblica di Lucera (14-03-03).

[20] Mia traduzione dal tedesco, dalla raccolta dei testi originali di R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus und die Urchristen. Die Qumran-Rollen entschüsselt, Bertelsmann, München 1993, 4Q521 (tavola 1) I frammento, 2 colonna, pag. 29 (ed. oginale inglese: Id., The Dead Sea Scrolls Uncovered, Element Books, Dorset 1992, England, tr. Italiana: Id., Manoscritti segreti di Qumran, Piemme, Casale monferrato 1994). Altra edizione: F. GARCÍA MARTÍNEZ (a cura di), Testi di Qumran (edizione italiana a cura di Corrado Martone), Paideia, Brescia 1996.

[21] A questo riguardo, il biblista Dupont scrive: «Gli autori che abbiamo ora citato, e molti altri con essi, si rendono conto che le beatitudini hanno un valore religioso, e in questo hanno certamente ragione. Ma pensano di poter scoprire questo senso religioso soltanto nelle disposizioni spirituali di coloro ai quali sono rivolte le beatitudini. Noi cercheremo di dimostrare che il privilegio dei poveri e degli sventurati trova, al contrario, il suo vero fondamento non tanto nelle disposizioni spirituali attribuite a queste categorie di persone, ma nella natura del Regno che sta per venire, nelle disposizioni di Dio il quale intende esercitare la sua regalità a favore dei pii diseredati. Le beatitudini sono prima di tutto una rivelazione sulla misericordia e sulla giustizia che devono caratterizzare il Regno di Dio» (J. Dupont, Le beatitudini I¸ Paris 1969, pag. 516).

[22] R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus..., cit., che fa riferimento a 4Q471, Frammento 1, pag. 39.

[23] Ivi.

[24] Così come si trova in alcune accurate traduzioni di questo passo, il Messia è la pace e non piuttosto egli porterà la pace. Cf. Das Neue Testament, la traduzione adottata dalle conferenze episcopali di lingua tedesca, che traduce: «Und er wird der Friede sein».

[25] Scritti/4, 162.

[26] Scritti/1, 302.

[27] Ivi,302-303.

[28] Ivi,345-346.

[29] Scritti/ 2, 164.

[30] Scritti/ 3, 294-295.

[31] Scritti/ 4, 236-237.

[32] Ivi, 352-353.

[33] Scritti/2, 245-246.