Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Le beatitudini: un programma di vita secondo il progetto di Dio

Conferenza per i capi scout – Sambiase 1984 (?)

(Ripreso da Quaderni di spiritualità scout 1).

Introduzione

Le beatitudini sono una pagina centrale del Vangelo, sono, o dovrebbero essere, per noi cristiani, la Magna Charta della nostra esistenza cristiana.

Ogni volta che parlo delle Beatitudini, ricordo che al mio catechismo da bambino ci abituavano a fare l'esame dì coscienza sui comandamenti, ma non sulle beatitudini, né sul discorso di Gesù sulla montagna. Anche oggi penso succeda raramente, forse mai, abituare i ragazzi che si preparano alla prima Comunione a prendere coscienza che il nostro agire deve essere improntato sul discorso della montagna, dove Gesù, quale nuovo Mosè, integra, amplia e perfeziona la legge antica, in primo luogo i comandamenti.

Se vogliamo cercare un aggancio con la vostra storia, si può partire dal P.U.C. dell'Agesci, dove al n. 137 si parla anche delle Beatitudini. Troviamo scritto che proprio queste “lo scoutismo realizza di fatto o vuole realizzare” . Ci sono poi alcuni esempi pratici: “essenzialità di una vita… mitezza… purezza…, ecc”. Mancano riferimenti alla beatitudine della persecuzione per causa di giustizia, ma di questo credo, ognuno di noi ha già fatto una qualche esperienza, persino nella Chiesa, almeno una volta. Non si è proprio perseguitati, ma si rischia di essere incompresi quando si portano esigenze di autenticità. Ebbene, in perfetto accordo con il P.U.C., diciamo che le beatitudini costituiscono un punto non marginale, ma centrale della vita cristiana.

Il Testo viene incontro a quanto già il Concilio aveva detto nel documento Sull’Apostolato dei Laici, al nr .4, dove si parla dei laici come di coloro che realizzano o devono realizzare le Beatitudini. In un brano innovativo,  che descrive la vita dei cristiani come un pellegrinaggio, si dice: «nel pellegrinaggio della vita presente, nascosti con Cristo in Dio e liberi della schiavitù delle ricchezze, mentre mirano ai beni eterni, con animo generoso si dedicano totalmente ad estendere il Regno di Dio e ad animare e perfezionare con lo spirito cristiano l'ordine temporale..». Ed ancora: «la carità di Dio diffusa nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato, rende capaci i laici di esprimere realmente nella loro vita lo Spirito delle Beatitudini». Di esse sono dati alcuni esempi: «Seguendo Gesù povero non si abbattono della mancanza di beni temporali, né si inorgogliscono nell'abbondanza di essi. Imitando Gesù umile, non diventano vanagloriosi, ma cercano di piacere più a Dio che agli uomini, sempre pronti a lasciare tutto per Cristo ed a sopportare di essere perseguitati per amore della giustizia, memori delle parole del Signore: “se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso prenda la sua croce e mi segua”». Ancora: «Coltivando l'amicizia cristiana tra loro si offrono vicendevolmente aiuto in qualsiasi necessità».

Siamo in piena armonia con il Magistero della Chiesa e con il Vangelo, che pone le beatitudini a fondamento di tutta la vita secondo il Regno di Dio, quando diciamo che le beatitudini non costituiscono un elemento periferico bensì un cardine, un perno su cui deve ruotare la vita cristiana. C'è però il pericolo di considerare le beatitudini solo sotto un profilo morale o addirittura moralistico. Come a dire: dovremmo diventare più poveri di spirito, più umili, mansueti, pacifici, ecc. Come se le beatitudini scaturissero da un nostro impegno di comportamento o come se fossero il frutto di uno sforzo etico. Per non correre questo pericolo, ho preparato questa riflessione, che vi offro fraternamente, ripensando alle beatitudini come a un progetto della vita umana e cristiana e pertanto, non come a un impegno morale o come a un nuovo codice di norme morali, semmai come a qualcosa a cui ancorare tutta la nostra esistenza cristiana. Tendo, insomma, verso la tesi che senza le beatitudini la nostra vita cristiana non sarebbe nemmeno pensabile.

Ho cercato di articolare le mie riflessioni in alcuni punti: il primo riguarda la stretta unità che c'è tra l'essere uomini e l'essere cristiani, a partire dalla considerazione che le beatitudini non sono un elemento giustapposto dall'esterno alla vita che ci progettiamo. Il secondo cerca di vedere le beatitudini come modo di progettare e di progettarsi secondo il piano di Dio e secondo le esigenze del suo Regno. Il terzo considera come le beatitudini s'innestino nella nostra esistenza cristiana quotidiana, per poter cogliere il rapporto tra spiritualità delle Beatitudini, sequela di Cristo e quotidianità.

1)L'esistenza cristiana esistenza pienamente umana

Parto da una considerazione che può sembrare solo teorica e filosofica. In effetti ha a che fare con la nostra vita di ogni giorno. La considerazione è questa: l’essere dell’uomo è nel suo poter essere. L'essere umano è infatti diverso dell'essere di qualsiasi altra cosa, non solo per il fatto arcinoto che è uomo in quanto essere razionale. Egli è soprattutto capace di progettarsi, di anticiparsi, di pensarsi in prospettiva futura e, pensandosi e progettandosi, si tuffa in avanti con il suo pensiero. In ciò realizza ciò che ha di più proprio: la sua umanità.

Una pietra infatti è una pietra, è in un determinato posto. Sta lì perché vi è stata buttata, o perché vi è stata sempre. Il suo senso di essere pietra si esaurisce nell'essere quella pietra, nient’altro che pietra. Un uomo che coltivi il suo terreno e trovi delle pietre nel suo campo, può rimuoverle, può metterle insieme a confine del suo orto, come si fa in Puglia e come si fa qualche volta anche da noi. Se poi quell’uomo è un muratore, può prendere anche questa pietra per farne il pezzo di un muro, di una casa. In ogni caso è l'uomo a prestare alla pietra una finalità diversa da quella che la pietra ha in sé: di essere pietra. Non è in forza di una sua capacità di darsi un fine, che la pietra diventa parte di un progetto, come una casa o un muretto, ma in forza del progetto che l'uomo ha nella sua mente e che va realizzando. Il fine viene conferito alle cose dall'uomo, che non solo progetta ma dà anche alle cose stesse una precisa finalità.

Ora, se l'uomo ha in genere la possibilità di progettare originariamente, ciò gli deriva dalla sua possibilità di pensare e quindi di anticipare nella sua razionalità ciò che intende realizzare. L'uomo ha un’intenzionalità non solo perché intende, comprendendo, ad esempio, come voi adesso, ciò che gli viene detto, rendendosi conto di ciò che è il mondo, ma perché tende verso qualcosa che ancora non c’è. L'intenzione dell'uomo è dunque sulla linea di questa sua capacità di progettarsi e costituisce un tutt’uno con le sue possibilità.

Se vogliamo fare un altro esempio, esaminiamo una pianta. Anch’essa è lì nella foresta perché è nata dal ceppo o dal seme di un’altra pianta. Se cresce, invece, al limite di una strada o in un giardino non è per caso, per legge di natura; è cresciuta lì perché l'uomo l'ha voluta lì, per abbellire un giardino, una strada, un viale. Ora se è l'uomo e solo lui a poter fare questo, vuol dire che egli è diverso sostanzialmente dalle piante e dalle pietre. Vuol dire che ha nel mondo una caratteristica tutta sua, che lo abilita ad usare le cose del creato in vista e in forza di una progettualità, di una sua originaria capacità di progettare qualcosa. Insomma di ciò che da adesso chiamerò semplicemente progettualità.

Tuttavia non è da dimenticare che se l'uomo da una parte utilizza le cose della natura, facendone elementi del suo progetto, dall’altra, si ritrova egli stesso progettato in molte altre realtà. Per esempio, si trova a nascere in un luogo e non in un altro, senza una sua scelta, nasce in un tempo e non in un altro, nasce limitato, per la sua costituzione, l'ereditarietà, l'ambiente in cui si trova. Tutti questi elementi condizioneranno la sua vita, e tuttavia non sopprimeranno la sua libertà e in definitiva la sua progettualità. Diciamo che questo particolare modo di essere dell'uomo, che da una parte è in un determinato luogo e in un determinato tempo (qui e adesso) e dall’altra però è capace di anticiparsi il futuro, trasformando il mondo, è l’essere tipico dell'uomo. È l’essere dell’uomo in una situazione particolare, non l’essere astratto, ma il nostro essere concreto, di sangue e di carne, di condizionamenti, angosce. Essendo l'uomo che è qui e adesso, è stato chiamato l'esserci. Questo esserci, qui ripreso dalla filosofia esistenzialista contemporanea, ci dà l'idea non dell'essere generico, ma dell’essere umano calato in determinate situazioni o condizionamenti storici concreti.

Continuando, dirò che l’uomo appare, a questo punto, come un fascio di contraddizioni. La contraddizione fondamentale nasce dal fatto che egli è, da una parte, progettualità e capacità di trascendere il presente e se stesso (giacché può andare verso il futuro e verso il nuovo) e di utilizzare le cose per il suo progetto di vita, e dall’altra, è lui stesso limitato anche in questa sua scelta e nel suo progettarsi.

L'uomo è dunque un fascio di possibilità, ma è limitato. Mi viene spontaneo il paragone con il gioco a carte. Ciascuno di noi è come se alla sua nascita avesse ricevuto un mazzo di carte nel momento in cui è stato chiamato all’esistenza. Non lo ha scelto lui, quel pacchetto, lo ha ricevuto e basta. È destinato, è condannato (qualcuno dice) a giocare le sue carte durante la sua vita. Non può giocarle che per forza, perché anche lo scegliere di non giocarle significa di aver scelto di giocare le carte in un modo sicuramente perdente, ma significa comunque, l'aver giocato. Non può eludere questa partita a carte con l'esistenza. Non può nemmeno tirarsi indietro, non può nemmeno togliersi la vita; può togliersela di fatto, ma il togliersi la vita, significa aver giocato le carte in modo non autentico, rifiutando il gioco e tuttavia giocando in modo sbagliato. Ora tra le carte che l'uomo ha ricevuto, ce n’è una che è la più importante, comune a tutti. In effetti tutti i giocatori l’hanno ricevuta, tutti gli uomini l’hanno ricevuta, è stata consegnata a tutti.

È una carta che sebbene noi non vogliamo vedere e cerchiamo di nascondere, è quella che resta sempre la carta più propria, quella che ci brucia sempre nelle mani, quantunque noi giochiamo le altre. Forse sarebbe più esatto dire che questa carta anziché essere giocata, ci gioca essa stessa. In effetti è un gioco, si sa, vincente da parte sua e perdente da parte nostra. Avete già indovinato il nome di questa carta: è la morte. Questa carta che tutti abbiamo ricevuto e che ci gioca l’esistenza, è, con temi presi dall’esistenzialismo, il nostro essere uomini come un essere-per-la-morte.

Tra le tante possibilità che abbiamo e che noi realizziamo, ne rimane sempre una, l’ultima, l'unica, l’ineliminabile: il fatto che ciascuno di noi morrà. Mentre noi viviamo, scegliamo e mentre scegliamo ci giochiamo le nostre possibilità. Quando avevo sette anni, avevo molte più possibilità davanti a me di quante non ne abbia adesso. Quando ne avrò sessanta, ne avrò di meno. A quindici anni potevo scegliere di fare l’ingegnere, il prete, il contadino o qualcos’altro, Potevo vivere in un modo o in un altro, poi a venticinque anni avevo già scelto, sarei stato prete. Mentre sceglievo di fare il prete ed esercitavo la mia libertà, io mi ero già cancellato, bruciato un altro pacchetto di carte, di possibilità, che sicuramente non avrei più realizzato, (avvocato, avere moglie, famiglia). Così è la vita: mentre si vive, si sceglie e mentre si sceglie, si giocano le prime carte. Oggi ne ho di meno, eppure l'elemento comune, il filo rosso che va dall'inizio alla fine, la possibilità vera, autentica, sulla quale non ho assolutamente nessun controllo, è la possibilità che io morrò. Questa è la possibilità umana più radicale, più garantita.

 

Le beatitudini come progettarsi secondo Dio

Vogliamo o no, dobbiamo semplicemente avere il coraggio di ammettere che l’esistenza umana è fatta così. Non intendevo certamente spaventarvi con pensieri cupi, ma volevo portarvi ad una considerazione su ciò di cui siamo fatti. A partire dalle considerazioni della pasta di cui siamo impastati possiamo costruire realmente il discorso delle Beatitudini, il discorso dell'esistenza cristiana.

La nostra esistenza, se vuole essere cristiana, va guardata seriamente e senza sotterfugi. Deve fare il conto con questa possibilità: con la scelta e con il gioco di queste nostre possibilità e contemporaneamente con il nostro essere-per-la-morte: con il fatto che noi siamo orientati costituzionalmente ed infallibilmente verso la fine. Qui tocchiamo il nostro dramma umano: progettiamo a lunga e breve scadenza, eppure ci scopriamo già progettati da una forza più grande di noi, da qualcosa che appare ai nostri occhi come beffa del destino.

Fin qui siamo nell’ambito della fenomenologia umana e, come avrete notato, non ho ancora tirato in ballo ancora Dio. Ma a questo punto occorre parlarne, non perché ci faccia comodo o perché ci troviamo in una lacuna che umanamente non sappiamo colmare. Sarebbe come voler tappare il buco della nostra povertà, che è ignoranza e impotenza, di fronte alla fine che ci attende. Se lo facessimo, avrebbe ragione Bonhoeffer che chiamava un tale ricorso inappropriato di Dio un "dio-tappabuchi". Se il discorso venisse capito in questo modo sarebbe una prospettiva sbagliata perché non è su questo terreno che voglio portarvi. Non voglio assolutamente dirvi: «Ecco come siamo miserabili, c’è dunque bisogno di un Dio che ci salvi da tale miseria». Il discorso non è questo. Non è mio intento sfruttare la miseria umana per decantare la gloria di Dio, anche perché, come vedremo, è Dio stesso che assume fino in fondo la nostra povertà, la nostra radicale possibilità umana di essere per la morte e vive coscientemente la nostra condizione umana fino a questo punto supremo. Lo vedremo in riferimento all’incarnazione, insomma a Gesù.

Piuttosto, cerchiamo adesso di definire qualche punto fermo su questa panoramica sull'uomo e sulla sua esistenza, considerata come progettualità ed anche come limite, come finitudine e come grandezza. Le reazioni possibili dinanzi a tale realtà sono tante e svariate. Innanzi tutto c’è un modo abbastanza pacifico, comune, non solo negli altri ma anche in noi che si può così descrivere: non vogliamo ammettere in nostro limite, lo rimoviamo dalla nostra coscienza, "tocchiamo ferro". C’è inoltre la possibilità di accettare questa nostra realtà, la nostra esistenza umana, con fatica, con sofferenza, con maturità. Con maturità umana, quando la si accetta come la possibilità ultima e decisiva, non tanto con un’accettazione rassegnata, ma con un’accettazione serena che prende coscienza di quello che noi siamo. È qualcosa che accettiamo grazie alla riflessione, qualcosa che diviene per noi motivo del nostro pensare e tema della nostra conoscenza.

Essere uomini significa per altri partire dalla "propria realtà" e restare ancorati ad essa. Il resto non interessa, almeno immediatamente. Non interessa nemmeno che altri esemplari della specie umanavadano a farsi la passeggiata spaziale, , come sta succedendo in questi giorni. Non interessa nemmeno che altri grandi uomini abbiamo realizzato grandiose opere nel passato, lasciando poi sui monumenti la loro firma ad imperitura memoria. Non interessa, perché, si è consapevoli che proprio questo non sarà sicuramente giovato a loro, che li hanno fatti costruire, e non giova in definitiva nemmeno agli altri che finiranno nel nulla. È  più umano invece che l’uomo coscientemente parte dalla sua realtà esistenziale, l'accetti, e in un certo modo la ami. Si dice che in effetti siamo veramente uomini se accettiamo la nostra umanità e se viviamo la nostra progettualità e tra le nostre possibilità viviamo coscientemente questa possibilità nostra più propria, quella della nostra fine.

A questo riguardo, la proposta cristiana non si aggiunge dall'esterno a colmare tali lacune, a buttare ponti dove non c’è possibilità di buttare alcun ponte, ma semmai fa capire ancora meglio il rapporto che c’è tra questi due aspetti del mistero dell'uomo, quello di essere finito e quello di essere capace di progettarsi. Partendo dalla realtà umana il progetto dell'esistenza cristiana appare come mistero di caducità e finitudine. Tuttavia, tale finitudine viene capita come finitudine creaturale, per essere l'uomo creatura. Nello stesso tempo è compreso come mistero di grandezza dell'umanità. L’uomo viene chiamato alla figliolanza divina, ad essere collaboratore di Dio e a rinascere e persino risorgere in Lui.

I due elementi restano con tutto il loro peso, non sono aboliti. La vita nuova, con la conseguente risurrezione, non toglie l’asprezza della morte, la grazia non sopprime l’asprezza del vivere, non toglie l'angoscia e la povertà dell'uomo. Questa sintesi tra vita nuova e senza fine da una parte ed esistenza come caducità dall'altra, la gioia e la pena, la speranza e l'angoscia del quotidiano, sono per l’appunto il cuore dello beatitudini: «Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli». Gesù opera questa sintesi non buttando un ponte per colmare una lacuna, ma mettendo semplicemente insieme due elementi che poi costituiscono la struttura dell'esistenza umana redenta. Dice: «Beati» cioè felici, pienamente realizzati, perfettamente uomini coloro che sono poveri, che umanamente non sono realizzati, secondo il giudizio comune.

Dicendo: «Beati coloro che piangono perché saranno consolati», non promette una consolazione nell’altra vita, come se dicesse: «Piangete pure, tanto poi godrete nell'altra vita», ma compie un’operazione esistenziale-umana e nello stesso tempo divina. Egli dice: «Beati coloro che piangono perché sono consolati, perché ancora una volta di essi è il Regno dei cieli», perché Dio si volge verso di loro e asciuga le loro lacrime. In quest'asciugare le lacrime non c’è una pura consolazione, ma l’accettazione della condizione umana fino in fondo. È tanto vero che lo stesso Gesù diventa uno degli uomini mortali e caduchi, per giunta diventa uno dei poveri che piange dinanzi alla tomba dell’amico (Lazzaro). È  uno di quelli che piangeranno  un giorno davanti alla sua Crocifissione. Quanti piangono lo faranno allora perché subiranno, come lui, un’ingiustizia. Saranno gli stessi che hanno fame e sete di giustizia e in definitiva sono i poveri. Tornando indietro, occorre aggiungere che la fame di giustizia dei poveri è anche fame concreta. Gesù li proclama beati perché, nella dinamica del regno di Dio, il regno appartiene a loro, essendo proprio loro i destinatari della giustizia di Dio.

L'ultima delle Beatitudini, «Beati i perseguitati per causa della giustizia», mette in risalto un'altra caratteristica dei destinatari dell'annuncio di Gesù: oltre ad essere poveri, affamati, afflitti, essi sono perseguitati nel momento in cui cercano di superare questa condizione di povertà.

Le quattro beatitudini citate sono, secondo molti studiosi, quelle che Gesù ha effettivamente proclamato.

La prima beatitudine (beati i poveri di spirito) e l'ultima (beati i perseguitati a causa della giustizia) hanno la stessa motivazione: ad essi appartiene il regno dei cieli. Non è il regno futuro, il paradiso, ma è il regno di Dio già iniziato sulla terra e che si completerà in quello futuro. Anche l'espressione regno dei Cieli è una forma linguistica per indicare il regno di Dio.

Le beatitudini nella nostra esistenza cristiana

Le beatitudini sono incentrate su una povertà reale, effettiva, non solo economica ma anche esistenziale. Contengono una promessa categorica in termini inequivocabili pronunciati da Gesù, ma sono anche una rivelazione di una parte precisa del progetto di Dio: appartengono al Regno di Dio i poveri che sono i destinatari delle beatitudini. Sono  ciò che Dio pensa dell'uomo e ciò che l'uomo è. La progettualità dell'uomo corrisponde a questa progettualità divina: c'è una corrispondenza. L'argomentare non è quindi per deduzione ma è per convergenza. Non deduciamo le beatitudini o il Vangelo dalla miseria umana, costatiamo una convergenza tra quello che Gesù dice nelle beatitudini e ciò che noi stessi arriviamo a comprendere dalla condizione umana: un mistero di povertà e di grandezza, di futuro e nello stesso tempo di fragilità.

La nostra progettualità appare più chiara di fronte a quella di Dio. Dio stesso ci manifesta nella rivelazione del Vangelo quello che noi siamo. La rivelazione non manifesta semplicemente quello che Dio è, manifesta realmente più quello che noi siamo nel nostro proprio. Ciò che viene detto da Dio sull'uomo è infatti la realtà umana più profonda, appunto un mistero di povertà e di grandezza. L'intenzione di Dio sull'uomo non è quindi un elemento che cade dall'esterno e si aggiunge all'esistenza umana. In verità è la stessa progettualità umana che è fondata sulla finitudine creaturale dell'uomo, e tuttavia ciò porta i tratti del mistero di Dio stesso.

Riflettiamo infatti sul fatto che nell’atto del creare l’essere umano Dio dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza». Si tratta  proprio di quest’uomo che abbiamo visto fragile e destinato alla morte, proprio lui, proprio noi, noi tutti, portiamo i tratti del Dio immortale, del Dio i cui progetti vanno tutti a compimento. L'accettazione amorosa della nostra creaturalità ci fa cristiani. Cristo stesso non è venuto meno alla ferrea coerenza di questa condizione umana. Egli stesso ha accettato di essere per la morte e l'ha detto chiaro anche a noi, a tutti: «Chi mi vuol seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».

Come capite, c’è qui qualcosa di più che un semplice invito moralistico, come a dire: facciamo delle rinunce, dei fioretti e cerchiamo di seguire Gesù Cristo. In effetti c’è la sostanza della nostra umanità, accettiamo in fondo quello che siamo, accettiamo la nostra umanità per quella che essa è. Seguiamo Cristo che ha preso su di sé proprio tale umanità. In quest’accettazione consiste la nostra strada, su questa strada è da cercare la nostra realizzazione e con essa la nostra felicità.