Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

L'ermeneutica della prassi in Edward Schillebeeckx

1) Introduzione all'opera e al pensiero di Schillebeeckx

Possiamo partire da quello che sembra essere uno degli assunti, se non l'assunto di fondo della teologia contemporanea: abbracciare Dio e il mondo con un unico sguardo. L'espressione è di Bonhoeffer, e ruota intorno a Cristo,. Testualmente recita:

"Chi guarda Gesù Cristo vede realmente Dio e il mondo con un solo sguardo, e d'ora innanzi non può più vedere Dio senza il mondo, né il mondo senza Dio"[1].

Il teologo evangelico tedesco, morto in un campo di sterminio, si riferisce ovviamente all'uomo, pur parlando del mondo, un mondo che senza di esso non avrebbe alcun senso. Va detto anche, fin dall'inizio, che proprio questa inscindibile interconnessione sembra una delle acquisizioni non solo moderne, ma della storia del pensiero in generale. Sicché l'uomo non solo è misura di tutte le cose (pensiero noto già ai greci), ma datore di senso ad ogni cosa. Egli risulta alla fine il soggetto determinante di ogni pensare, ma di un pensare che esperisce la realtà, e questa sempre in riferimento all'uomo stesso, che è termine di partenza e termine di arrivo di ogni processo di esperienza. In questo comune pensare non fa eccezione quello teologico, non solo perché resta pur sempre un pensare, sebbene informato dalla fede, ma anche e soprattutto perché la fede stessa richiede il valore del soggetto come correferente di fronte a Dio, che è il Referente principale del rapporto che li vede entrambi coimplicati nel dialogo salvifico.

Certamente il rapporto tra questi due soggetti con-protagonisti della storia della salvezza può essere interpretato in diverse forme. La stessa concezione della persona umana - a seconda che se ne privilegi una dimensione o un'altra influisce sul relativo pensiero teologico. Sicché pensare, ad esempio, all'uomo come anima gemente, se non in un corpo, in una valle di lacrime, quale la terra, dà luogo a una particolare teologia che si può - a dir poco - ritenere spiritualistica e disincarnata. Ma pensare all'uomo così significa accantonare il valore non solo della dimensione corporea, ma anche di quella sociale e storica della sua vicenda sulla terra.

D'altro canto, le varie dimensioni umane recuperate dalla cultura e conseguentemente dalla teologia contemporanea - da quella esistenziale a quella cosiddetta trascendentale, ma anche da quella relativa alle realtà terrestri e alla dimensione sociale - richiedono un'analisi più accurata come punto di partenza solido per ogni impianto teologico che faccia riferimento a ciascuna di esse.

A Edward Schillebeeckx è riconosciuto il merito di aver profuso le sue energie su una delle componenti fondamentali dell'uomo, che sembra doversi collegare anche ad ognuna delle altre, alle quali ho accennato: quella dell'esperienza. Proprio l'esperienza, infatti, è determinante, nel caso del cristiano, per la decisione personale che lo stesso atto di fede comporta e per il suo impegno per migliorare il mondo e contribuire ad un futuro vivibile, in preparazione e attuazione del regno di Dio.

Sono questi gli elementi fondamentali ritornanti nel pensiero di Schillebeeckx, con tutti i doverosi riconoscimenti alle loro derivazioni culturali e teologiche, ma anche con la sottolineatura di una sua specifica volontà a riprenderli ed ad approfondirli, sì da ricavarne una teologia avente carattere sistematico. Ma vale qui la pena aggiungere che gli stessi dati anagrafici dell'Autore hanno sicuramente influito sulla concezione dell'esperienza, quanto sull'urgenza di confrontarsi con quelle forme, da essa di volta in volta espresse, nel lungo periodo di una vita che va dal 1914, suo anno di nascita, al presente, che seppure non registra suoi interventi rilevanti, pure lo fa ancora affacciare a incontri teologici importanti, come quello della Società Teologica Internazionale, tenuto a Nimega alla fine di agosto del 1998.

Del resto all'urgenza di un confronto diretto con la cultura e la sensibilità dell'uomo moderno deve aver portato Schillebeeckx già la realtà vissuta durante la sua stessa giovinezza, trascorsa in quella sua città natale di Anversa, che era centro portuale di importanza capitale per la circolazione non solo delle merci, ma anche delle idee nell'Europa. Solo all'età di 20 anni, dopo i suoi studi presso i gesuiti di Turnhout entrò nell'ordine domenicano, studiando successivamente a Gand e a Lovanio e successivamente a Le Salchoir (uditore di Chenu) e infine alla Sorbona di Parigi. Sia i centri accademici che i maestri e le persone frequentate hanno certamente favorito e ulteriormente motivato la sua apertura mentale e quella libertà di pensiero e di coraggio ecclesiale che tutti gli hanno riconosciuto, anche negli anni, precedenti al Vaticano II, nei quali la sua opera, al pari degli altri maestri di quell'epoca in fermento, era fortemente sospetta.

Se, per restare rigorosamente nel tema, l'esperienza, e con essa la prassi, riveste il ruolo importante che le è riconosciuto nella sua opera, non dobbiamo però dimenticare che ciò deriva più specificamente anche da quell'impatto con il pensiero filosofico e teologico del suo tempo. Ricordiamo quello simbolico ed ermeneutico (da Merleau-Ponty a Ricoeur, da Bultmmann alla "nuova ermeneutica" di Ebeling e Fuchs); e parimenti il pensiero e il metodo fenomenologico, correttivo dell'approccio esistenziale e trascendentale. Ciò include il cosiddetto prospettivismo gnoseologico di De Petter, uno dei suoi maestri, dal quale è partito e che individuava la base dell'esperienza di Dio e in genere della conoscenza, non in una apertura trascendentale nativamente insita nella creatura umana (secondo la concezione di K. Rahner ed altri), ma in una sorta di esperienza a-concettuale previa nell'uomo e costitutivamente proiettata, perché sempre in tensione, verso la verità. Né si deve dimenticare l'influsso esercitato sul suo pensiero dalle molteplici e diverse teorie della prassi del secolo ormai trascorso. Esse sembrano accomunate comunque dalla tendenza a rivalutare pienamente l'agire dell'uomo nel mondo, per una sua trasformazione in meglio, fino a parlare di un futuro più vivibile e solidale. A questo proposito si rimanda al souhaitable humain di Ricoeur, ma anche, in campo più specificamente cristiano, all'assunto dell'impegno per il regno di Dio anche nell'orizzonte umano, reperibile in autori come il cattolico J. B. Metz e l'evangelico J. Moltmann.

Sul piano più direttamente ecclesiale, va detto che la partecipazione di Schillebeeckx, in qualità di esperto, al Vaticano II (1962-1965) non solo lo fa entrare in un circuito teologico più vasto, ma è segnale anche di una più generale accoglienza della sottolineatura antropologica fatta dalla teologia moderna. Quegli anni determinano anche una svolta per il nostro autore, che - a dire dei commentatori - si congeda da una un'impostazione ancora troppo condizionata dal tomismo, pur nelle sue riletture attualizzanti di quegli anni, per dedicare le sue energie a quella che sembra essere l'obiettivo delle sue ricerche teologiche: comprendere la fede nel suo stato sorgivo come scaturente dall'esperienza di Gesù e tendente a dare attualità della sua forza salvifica nel mondo.

Contrassegnano questo transito teologico i suoi lavori precedenti il concilio (in particolare "l'economia sacramentale della salvezza" (in olandese) e il ben noto Cristo, sacramento dell'incontro con Dio, insieme con i numerosi studi comparsi tra i Tijdschrift voor Theologie, mentre sono segno e frutto della svolta conciliare già alcuni dei cosiddetti theologische Peilingen, cioè i sondaggi teologici. Come spartiacque tra il primo e il secondo periodo vengono indicate le conferenze americane del 1967, raccolte sotto il titolo Dio, il futuro dell'uomo. Le opere che seguiranno, delle quali indicheremo di volta in volta le più importanti, sono distinte in due fasi: quella ermeneutica (1967-1972) e quella cristologica (1972-1989). In ogni caso a confermare una svolta, che però aveva già le sue premesse nell'attenzione ai risvolti umani della riflessione sulla fede, è certamente la nozione e lo sviluppo dell'esperienza, un'esperienza che nasce da una prassi e orienta la prassi.

2) L'esperienza e "le fonti" della fede cristiana[2].

Gioverà forse precisare che l'esperienza richiama ed esige l'interpretazione per un primo ed ovvio motivo che ogni esperienza nasce in un particolare contesto soggettivo-intersoggettivo che richiede una sua comprensione da chiunque si collochi dall'interno e dall'esterno rispetto ad essa. Dall'interno, perché l'esperienza è a sua volta anch'essa un'interpretazione. In quanto interazione con una realtà non solo attigua, ma relazionata al soggetto, l'esperienza è comprensione di quella stessa realtà che la circonda e con la quale il soggetto interagisce in un determinato modo e non in un altro. Rimanda a una comprensione precedente e provoca continuamente un particolare tipo di comprensione. Tale comprensione è un tutt'uno con l'ermeneutica, la quale è della comprensione l'aspetto più riflesso e tuttavia non può essere separata da questa, anzi ne è - per così dire - la sua estrinsecazione.

Le ricadute teologiche di quanto asserito sono immediate e dirette, al punto che Schillebeeckx afferma che la stessa domanda, allora in voga tra i suoi contemporanei, "iniziare dal Nuovo Testamento o dalle esperienze odierne?" era un falso dilemma[3].

Il motivo è presto detto. Riposa sul fatto che passato e futuro costituiscono un'inscindibile unità, ai fini della comprensione della propria vicenda umana alla luce dell'esperienza di Dio nel contesto giudaico-cristiano[4]. Se bisogna evitare il "romanticismo delle origini", che talvolta le fa idealizzare disimpegnando nel presente, viene ribadito il pensiero iniziale dell'unico abbraccio tra rivelazione ed esperienza. Contro i cosiddetti "disturbi di comunicazione" tra passato e presente, nel rapporto tra rivelazione ed esperienza, sia la religione ha bisogno del mondo per essere se stessa, sia il mondo ha bisogno della religione per lo stesso motivo. Proprio il mondo infatti si mantiene "vitalmente aperto ai presupposti della propria razionalità che trascendono la ragione"[5].

Tutto ciò ha come conseguenza che il Vangelo, al pari della religione, è un modo di interpretare il mondo, sicché in Gesù si aprono le nostre più profonde possibilità di vita e di interpretazione di essa. In definitiva, la storia giudaico cristiana, in quanto storia di fede, è per molteplici motivi collegata all'ermeneutica, anzi si potrebbe dire che è un continuo atto di comprensione. Essendo già la storia dell'Antico Testamento vera e propria storia, il popolo di Dio ne deve operare una prima e continua interpretazione: deve decifrarla, comprenderla alla luce della fede, pensare Dio in quella prospettiva e pensare quella prospettiva alla luce e dalla prospettiva di Dio.

In riferimento ai testi biblici, Schillebeeckx afferma che essi sono un'interpretazione in atto, sicché "l'ermeneutica riguarda l'interpretazione di una interpretazione", nel senso che se tutta la Bibbia è un processo di una comprensione di un'esperienza, il nostro approccio è la comprensione di quella comprensione. Se l'Antico Testamento interpreta la storia d'Israele nella prospettiva dell'alleanza di Dio con il suo popolo, il Nuovo Testamento compie lo sforzo di comprendere l'Antico nell'ottica dell'avvento di Cristo. Questo però provoca una comprensione particolare della storia di Israele e dell'intera umanità, a partire dalla sua venuta nel mondo e dalle vicende che l'accompagnano come fatto determinante (escatologico) per l'intera umanità.

Ne deriva, come conclude R. Gibellini, una riconsiderazione dell'ermeneutica nella sua complessità, che accoglie tanto l'ermeneutica della sola Parola di Dio, alla maniera di Fuchs ed Ebeling (nuova ermeneutica) che l'ermeneutica della storia, secondo l'impostazione di Pannenberg, senza dimenticare una particolare ermeneutica dell'esistenza cristiana, quella prospettata sul versante della teologia dialettica, pur nelle loro diverse accentuazione, da K. Bart e da R. Bultmann[6]. In questa sua sintesi personale che raccoglie il meglio delle differenti prospettive in materia, il Nostro Autore può maggiormente insistere sul rapporto inscindibile che intercorre tra l'esperienza e la fede e di riverso tra la rivelazione e la teologia.

3) La correlazione tra l'esperienza e la fede

Tale correlazione corrisponde al problema tradizionale del rapporto tra teologia naturale e rivelazione di Dio. Si esprime come problema della correlazione tra domanda umana e risposta di Dio, ma in termini che superano l'"errore di categoria" denunciato dalla filosofia analitica, che annotava la sfasatura di qualità tra la domanda umana e la risposta proveniente dalla fede. La domanda legittima è quella di un senso della realtà, in quanto senso che pur essendo parziale, diventa però nella fede risposta radicale alla domanda di un senso ugualmente radicale del vivere e dell'esistere di ogni cosa. Né la risposta può semplicemente cadere dall'alto. Si inserisce nelle serie di domande alle quali dà una globalità di senso.

I sensi nei quali esso si innesta sono quelli di una critica all'inumano e di una continua ricerca di solidarietà, per fronteggiare insieme la minaccia sull'umano. Insomma la risposta cristiana - anche se personalmente preferiremmo parlare di proposta - non rifiuta né rigetta i progetti antropologici che cercano una risposta al senso dell'umano. Essi invece rimandano, seppure indirettamente, a un'esperienza universale di ricerca di senso, fino a quella pienezza o integrità spesso indicata con il souhaitable humain .

Qui diventano comprensibili le "esperienze di contrasto" con la conseguente dialettica di critica, di resistenza e di solidarietà da parte del cristiano e che costituiscono, come vedremo, il nerbo e la linfa del suo impegno nella storia. Ma appare anche l'universalità della fede cristiana che non ha bisogno di legarsi a nessun sistema di pensiero, perché regge alle richieste di senso che qualsiasi di esso avanza. La rivelazione va intesa allora in diretto rapporto con l'esperienza, non nel senso che essa nasce dall'uomo, ma nel senso che l'uomo deve intercettarla nella concretezza della vita e della storia.

Ciò comporta certamente dei chiarimenti. Contro una concezione della rivelazione dal basso (dall'esperienza), come vorrebbe una certa interpretazione del modernismo, Schillebeeckx dice che essa viene dalla libera iniziativa divina. L'esperienza è il tramite di questo intervento, tanto che la grazia è colta attraverso e nelle esperienze. È una chiarificazione anche contro quella visione fondamentalista, contrapposta alla prima, che vede la comunicazione di Dio in forma estrinsecista, come se cadesse dall'alto, prescindendo dalla realtà linguistica e socio culturale in cui l'uomo si trova. Non esiste una simile rivelazione, perché essa avviene sempre nella forma mediata, attraverso una serie di processi che includono fatti, esperienze di essi e interpretazioni a questi correlate. Su questo primo livello di comunicazione, che avviene nell'esperienza della storia e attraverso la storia se ne innesta un secondo: quello della formulazione dogmatica. Si realizza quando le interpretazioni sono elaborate, tanto da poter parlare di interpretamenti, derivati da particolari interazioni con culture e situazioni storiche.

Nella cultura attuale non essendoci una vera e propria esperienza di primo livello, quella chiamata hight experience, l'esperienza religiosa avviene attraverso l'"esperienza con esperienze". È importante che ciò accada non perdendo il continuo riferimento anche all'esperienza umana oltre che a quella religiosa. In realtà proprio questa è, insieme con la rivelazione, come si diceva, una seconda "fonte" della fede cristiana. Il suo valore fondamentale e universale compare in Schillebeeckx fin dall'inizio della sua produzione teologica più impegnata.

Sulla rivelazione egli poteva così dichiarare espressamente:

"La rivelazione di Dio in Gesù Cristo ci fa sapere che Dio ha destinato tutti gli uomini alla salvezza. Ci dice ancora che questa salvezza non è soltanto una semplice possibilità, ma che il Cristo l'ha realmente portata a tutti, anche se noi ignoriamo coloro che di fatto la raggiungeranno"[7].

Rispetto alla sua mediazione aggiungeva:

"attirato interiormente dalla grazia - in cui Dio gli offre la fede - l'uomo è orientato [...], non soltanto verso il Dio creatore, ma verso il Dio vivente, il Dio della salvezza. La creazione, la storia profana e l'incontro degli uomini sono dunque trascinati nell'irraggiamento della salvezza"[8].

Alla domanda esplicita sulla possibilità di una rivelazione al di fuori della rivelazione pubblica, Schillebeeckx rispondeva che al di fuori d'Israele e del cristianesimo, seppure in modo vago e ambiguo, c'è un auditus exterior, nel senso che la creazione costituisce come una fondamentale traduzione della comunicazione intima di Dio all'uomo. Del resto la vita nel suo insieme, pur considerata profana, costituisce una prima espressione di ciò che vuol dirci espressamente la rivelazione diretta ed esplicita di Dio: Dio vuole essere la nostra salvezza. Se ciò resta ancora vago e talvolta ambiguo fino ad essere equivocato, ciò diventa chiaro

"nell'apparizione concreta di questa stessa volontà divina di salvezza in Gesù Cristo. È solamente in Cristo che questa volontà di salvezza presentita (nella grazia) al di fuori d'Israele e del cristianesimo, scopre il suo vero volto"[ ][9].

4) Cristo chiave di volta per una prassi salvifica

Dalla particolare concezione della rivelazione in rapporto all'esperienza deriva in Schillebeeckx una cristologia che si può riassumere in due momenti costitutivi: l'esperienza stessa che i discepoli fanno di Cristo come incontro della salvezza data da Dio agli uomini e l'espressione di essa nelle varie forme che sono state trasmesse dal Nuovo Testamento. Anche rispetto alla prima esperienza, quella diretta dei discepoli con Gesù, occorre affermare che è già un'interpretazione, essendo questa una percezione interpretante.

In Gesù, la storia di un vivente[10], Schillebeeckx compie lo sforzo, motivandolo, di una ricerca su Gesù diversa, se non alternativa, a quella delle cristologie in genere. Attraverso il metodo storico-critico analizza la situazione storica della prima comunità credente allo scopo di idividuarne la teologia soprattutto in riferimento al rapporto che essa ha con la persona, l'esperienza e la prassi di Gesù. La sua indagine non solo conferma il valore dell'esperienza di questo rapporto, ma lo conduce a precisarlo come esperienza della salvezza che Dio opera negli uomini attraverso Gesù. Contro le pretese, dimostratesi irraggiungibili, di una ricerca sulla vita di Gesù, perché una sua biografia non è normalmente ritenuta possibile, l'Autore dichiara che non nemmeno possibile, nè legittimo separare, come aveva fatto la teologia di Bultmann, il Gesù della storia dal Cristo della fede. Al contrario, partendo dai risultati della Rückfrage, la new Quest ritiene che risalendo dal Cristo della fede al Gesù della storia, si possa ricostruire, a partire dall'interpretazione di fede - e non prescindendo da essa - l'esperienza fondamentale del cristianesimo che è quella della salvezza in Gesù e attraverso di lui.

In questa maniera coglie un nesso fondamentale che è anche garanzia di attendibilità storica, almeno per ciò che riguarda l'interpretazione che Gesù dà di se stesso e quella che riportano su di lui gli evangelisti, proprio a partire da essa. Come personalmente ho approfondito altrove[11], Schillebeeckx, dà alla comunità credente primitiva il ruolo e l'importanza di una via di accesso al Gesù della storia.

Riprendendo il valore dell'esperienza della sua persona e della sua azione, scrive:

"L'esperienza delle prime comunità cristiane, indissolubilmente legata al contatto diretto con Gesù, e più tardi, attraverso la "memoria Jesu", al contatto col Signore, è dunque la matrice del nuovo testamento come testo scritto. Ed è proprio questo che ci rende storicamente accessibili le prime comunità cristiane con la loro esperienza; esse costituiscono, storicamente, l'accesso più legittimo a Gesù di Nazaret"[12].

Per precisare subito che

"Ciò che il Gesù della storia ci lasciò non è in prima istanza una specie di riassunto o brandelli di predicazione sul Regno di Dio avvenire, né un kerygma o una serie di "ipsissima verba et facta", ossia un resoconto esatto delle sue azioni storiche o un certo numero di direttive e parole sagge che con qualche certezza possano isolarsi dai vangeli. Ciò che egli ci lasciò - solo per quello che era, faceva e diceva, semplicemente comportandosi da questo determinato uomo - fu un movimento, una comunità viva di credenti consapevoli di essere il nuovo popolo di Dio, la "raccolta" escatologica di Dio, non un "resto santo", ma le primizie della raccolta di tutto Israele e infine dell'intera umanità: un movimento di liberazione escatologica fatto per raccogliere tutti gli uomini, per portarli all'unità. Shalom universale"[13].

Quest'esperienza di fondo si può dire che abbia plasmato e continui a plasmare il cristianesimo. Si tratta di un'unica sempre identica esperienza, sebbene espressa in vari modi dagli scritti del Nuovo Testamento. L'Autore arriva pertanto a ricostruire la storia della formazione della fede cristiana attraverso il raggiungimento di questo primo e permanente livello dove resta espressa l'esperienza-interpretazione di Gesù. In Gesù la coscienza credente dei primi cristiani riconosce la salvezza apportata da Dio in quanto redenzione e liberazione, in quanto riscatto. Si tratta ancora di una cristologia "non ontologica", ma "funzionale", relativamente al ruolo salvifico di Gesù. E tuttavia in quest'esperienza risiede anche un vero e proprio atto di fede. In essa si opera la presa di coscienza di una particolare prassi di Gesù che è quella del regno. Nella narrazione di quanto egli ha compiuto come "difensore degli uomini, narratore di Parabole e benefattore, nonché mistico ed esegeta di Dio"[14], Schillebeeckx vede già una vera e propria cristologia, che quella ontologica del dogma in quanto tale non può e non deve prendere solo a pretesto come occasione di sistematizzazioni dottrinali. Sebbene ciò abbia ubbidito ad un comprensibile ed inevitabile processo, proprio la narrazione dell'esperienza di Gesù, a partire dalla sua prassi non deve essere trascurata.

Con ciò siamo già al Cristo, storia di una nuova prassi[15], perché quella primitiva esperienza di Gesù come salvezza di Dio continua anche successivamente, non solo perché quanti si accostano all'esperienza cristiana devono riferirsi a un'interpretazione originaria, ma perché essi stessi, compiono l'esperienza dell'incontro con Cristo, sebbene nella forma di quanto di quell'incontro sia stato trasmesso dalla prima comunità.

Se inizialmente, come si è visto, non c'era una dottrina, bensì un'esperienza, la trasmissione successiva si condensa in una dottrina, questa è a sua volta finalizzata a produrre un'esperienza salvifica in coloro che la ricevono e l'accolgono. Il fatto cristiano è insomma un inserimento in questa tradizione come esperienza salvifica. "In definiva si tratta comunque di una storia cristiana di un'esperienza che continua"[16]. Ma come già il Nuovo Testamento ha presentato i capisaldi di una simile esperienza? Per semplicità ricorreremo al titolo originale dato dal nostro autore al secondo ponderoso studio di cristologia dai noi noto come Cristo, storia di una nuova prassi, ma che originariamente era Giustizia e amore. Grazia e liberazione[17]. A noi sembra che i termini di tale titolo opportunamente considerati costituiscano una sorta di chiasmo che costituisce non tanto la struttura, ma i contenuti di fondo di questa seconda parte della cristologia di Schillebeeckx. Sicché partendo da Giustizia (come A) e amore (come B). La Grazia richiama l'amore come B' e la liberazione si collega alla giustizia come A'. Sembra inoltre che se dall'agire di Dio, colto come realtà d'amore scaturisca la grazia, dalla giustizia scaturisca una prassi di liberazione. Sia l'una che l'altra, presenti in Gesù come prassi d'amore e di liberazione, sono prassi di un regno, il regno di Dio, che si presenta con le caratteristiche della Grazia e della Giustizia.

Nella lunga ed elaborata trattazione dell'Autore la ricostruzione dei vari parametri biblici, da quelli sinottici a quelli giovannei, paolini e apocalittici, si dimostra la costante di quella struttura da noi precedente indicata a mo' di chiasmo. In questo contesto l'esperienza della grazia (in quanto charis, con l'idea della gioia che rallegra, da char, ciò che scintilla e luccica) è esperienza umana che intercetta l'intervento di Dio nella sua dimensione salvifica, come annuncio che rallegra. In Paolo è la "nuova via di salvezza, comunicata dalla rivelazione, non escogitata da uomini"[18], sicché il Vangelo non è opera di uomo (Gal 1,11) e tuttavia trova espressione nella terminologia e nella esperienza greca. Qui la charis esprime l'idea della gioia e compiacimento (dall'ebraico cheen, più che chesed uguale a misericordia). Similmente la zedaqà, giustizia, che è un concetto biblico fondamentale, trova una corrispondenza nell'esperienza di una vita vissuta in integrità e che dà frutti di gioia e di relazioni sociali appaganti. Passa attraverso il termine greco dikaiosÚnh esprimendo insieme grazie e giustizia, e arriva alla giustificazione, fino al concetto della "iustificatio impii", che però non si disgiunge, ma si collega intimamente all'esperienza della morte di Cristo come salvezza di tutto il genere umano.

L'analisi di Schillebeeckx avviene tenendo sullo sfondo principi precisi che sono: quello teologico-antropologico (sul Dio della bibbia come Dio di uomini, che vuole salvare tutti gli uomini, con la storia dei quali è solidale[19]); quello cristologico (più volte emerso su Gesù interprete definitivo di Dio e dell'esistenza umana); quello ecclesiologico (su una Chiesa che prosegue la prassi di Gesù); quello escatologico (sulla storia in continua tensione tra il "già" e il "non ancora"). Parallelamente ai questi principi sono ravvisabili delle costanti fondamentali anche per l'impegno del cristiano nella storia: l'antropologica (per un uomo sano e integro in un ambiente ecologico); quella della co-umanità (per una relazione continua con gli altri e per un'umanità ugualmente sana ed integra; la sociale (in considerazione di strutture istituzionali che valorizzino l'umano e la libertà); la culturale (per una storicità concreta che non rinunci, ma favorisca una continua ricerca di senso); la costante interagente tra teoria e prassi; ed infine quella utopico-religiosa (per una totalità si senso e come sintesi delle precedenti).

L'avvertenza dell'autore su tali elementi strutturali della sua teologia è ugualmente netta:

"Ritenere che tutto questo sia estraneo a ciò che noi intendiamo per "salvezza cristiana" significa sognare forse una salvezza per gli angeli, ma non per gli uomini"[20].

Se l'humanum appare sempre più minacciato e la storia di sofferenza e di morte dell'umanità costituisce un appello che non possiamo né ignorare, né sottacere, la salvezza cristiana non può saltare o peggio condannare il processo di liberazione e di emancipazione umana. Lo richiede la coerenza con l'esperienza del Nazareno, oltre che la grazia annunciatrice di un Dio che ci chiama ad essere giusti della sua giustizia. Se l'autore sottolinea che il processo salvifico non si può mai ridurre alla pura emancipazione storica, sostiene ad ogni pagina che rimane sempre ad essa collegata, perché

"La redenzione cristiana è un di più rispetto all'autoliberazione emancipatrice, con la quale rimane tuttavia legata da un rapporto critico di solidarietà"[21].

5) L'esperienza della prassi e il rimando ad essa come impegno nel mondo

Mentre le ermeneutiche esistenziali proposte dai teologi tedeschi tendono a far emergere dai testi possibilità autentiche di esistenza per il credente, Schillebeeckx propone un'ermeneutica che porti ad un'esperienza concreta come prassi e come impegno per l'uomo di oggi. Si riprende il compito di umanizzare il mondo, ma badando anche all'eschaton. Già Habermas aveva dimostrato che ciò che muove la conoscenza è un interesse pratico, tanto da poter parlare di scienze alpha, dello spirito, per una prassi comunicativa; di scienze beta, della natura, per una prassi tecnica; di scienze gamma, scienze sociali, per una prassi emancipatrice. A nostra volta, con Schillebeeckx, dovremo poter dire che se la scienza orienta la prassi e muove da essa, anche l'ermeneutica teologica richiama e orienta la prassi. Riferisce di un prassi e ne orienta una corrispondente. È ermeneutica della prassi credente, che distinguendosi dal Kritischer katholizismus, ritiene che la teologia abbia il compito anche di fronte alla teoria critica di tenere aperta la possibilità del mistero, quel mistero "che libera anche la ragione".

In questo contesto sono da comprendere le già accennate situazioni di contrasto, che sono situazioni che sfidano la coscienza cristiana per una loro lettura, da condurre alla luce dei segni dei tempi, e per un conseguente agire mosso dal Vangelo. Si tratta comunque di realtà storiche nelle quali dobbiamo agire[22], sicché mentre le viviamo (spesso come protesta verso il concreto attuale insufficiente o contrario all'umano), dobbiamo intravedere anche le dinamiche salvifiche e le sotterranee prospettive di valore. In tal modo la protesta per amore della vita, della giustizia e della creazione è da recepire come espressione di una profezia, anche se si tratta di una "profezia esterna" al nostro mondo ecclesiale.

Secondo questa concezione coerente con quella dei "segni dei tempi" del Vaticano II, E. Schillebeeckx può concludere:

"I segni dei tempi non parlano, non hanno voce. Gli esseri umani li fanno parlare interpretandoli. Nuovi imperativi etici come reazione a una situazione e le decisioni storiche conseguenti sono stati lanciati con determinazione da filosofi, teologi, o dall'autorità pastorale della Chiesa. Nascono da esperienze concrete, specialmente dalle esperienze negative di contrasto; evidentemente si impongono con la forza dell'esperienza. Solo dopo, noi vi riflettiamo teoricamente, li investighiamo criticamente e li suffraghiamo di motivi sufficienti"[23].

Di conseguenza il teologo olandese può affermare che la Chiesa non può adempiere il suo compito profetico di fronte al mondo e ai suoi problemi partendo dalla pura e semplice rivelazione, ma deve prestare attenzione anche alla "profezia-estranea" (Fremd-prophetie) che la sfida con la situazione secolare. Il "valore salvifico", insito nella "profezia estranea", egli afferma, ci rende capaci e ci obbliga persino alla contestualizzazione dell'atto di fede. Ciò deriva dall'attualità e dalla concretezza di un progetto salvifico che non cade d'alto[24], ma diventa ogni giorno storia e carne di uomini che vivono e che soffrono, associandosi, in collocazioni storiche, geografiche e culturali[25].

Cosa può la Chiesa in tutto questo? Proprio quanto è stato detto a livello più generale, con la sottolineatura che essa è spinta dallo Spirito Santo verso l'adempimento di questa missione in favore dell'uomo e del suo futuro. l'Autore risponde soprattutto nel terzo volume della sua cristologia, dal titolo Umanità come storia di Dio[26]. Ma alcune delle sue idee ecclesiologiche di fondo sono presenti anche nel suo volume Per una Chiesa dal volto umano[27]. Qui, al termine dell'accurata ricostruzione storico-critica della teologia del ministero attraverso i secoli, e dopo un capitolo significativamente intitolato "in ascolto dei lamenti del popolo" (cap. 4°), egli dedica il successivo, l'ultimo, ad un contributo critico per una reimpostazione del problema che tenga conto dell'importanza ecumenica dell'argomento e superi una sorta di neoclericalizzazione che egli vedeva già in atto in quegli anni. Il suo pensiero sulla Chiesa e il suo impegno per un futuro di riconciliazione dell'uomo traspare anche nello scritto in onore dello stesso R. Gibellini e che reca il titolo "La "ecclesia Jesu Christi" come "racconto di futuro""[28].

In conclusione, si può riassumere il suo pensiero sul futuro dell'uomo e sul conseguente impegno credente per contribuire a realizzarlo rievocando la parte quarta dell'opera Il Cristo. La storia di una nuova prassi. Porta un titolo che, rievocando Ireneo, accosta insieme "la gloria di Dio e l'umanità vera, buona e felice". Sono convinto che la congiunzione possa tranquillamente diventare un'affermazione verbale, sì da dire che la gloria di Dio è l'umanità vera, buona e felice.

A questo riguardo si comprende anche l'accostamento tra mistica e politica, in quanto sintesi di un impegno continuo nel mondo (la politica) in ragione e in forza dell'esperienza della prassi liberante di Cristo (colta attraverso la mistica).

Infatti:

"La teologia politica non è in nessun modo finita, ma resta annidata piena di domande inevase, di nuovi punti di partenza, di movimenti di ricerca e tendenze - non c'è quindi possibilità di liquidarla, o di rimuoverla sistematicamente o di congedarla in una solenne laudatio. Questa teologia non è nemmeno alquanto, come qualche osservatore impaziente si verrebbe augurare e forse addirittura crede, nel momento in cui saluta, come aurora di un nuovo pensiero positivo, quelle forze politico-culturali ad essa contrarie, che si sono consolidate consapevolmente"

Così scriveva E. Schillebeeckx , insieme con il comitato di redazione, nel Vorwort del Festscrift in ricorrenza del 60 compleanno di J. B. Metz, intitolato Mistica e politica[29], con la chiarificazione che

"mistica e politica non vengono qui separate artificialmente e astrattamente, per essere riannodate poi in maniera da renderle innocue. Esse piuttosto stanno l'una verso l'altra in maniera non riappacificata e la loro dialettica si mostra in senso pratico: finché Dio non sarà "tutto in tutti" la mistica non può essere altro che il grido del dolore lontano da Dio ed anche la maniera di prestargli ascolto, trasparenza, visibilità e una forma di sfida continua, appunto una forma "politica""[30].

È questa la prospettiva ed è anche la consegna di E. Schillebeeckx. Allo sforzo sempre nuovo, sempre da rinnovare, di ripercorrere l'esperienza di Gesù Cristo come prassi per tale obiettivo, egli potrebbe rispondere con un incoraggiamento e con un invito, che del resto è coerente con la sua vita di teologo e di credente. Al nostro modo di fare teologia e anche a questo piccolo contributo per presentare, a grosse linee il suo pensiero, potrebbe reagire con le parole che chiudono simpaticamente, ma non senza una certa ammonizione le pagine del suo primo libro sistematico su Gesù, la storia di un vivente:

"Se questo libro, la "Storia di un Vivente", potesse essere una fondata introduzione a una ripresa della "fede narrativa", dall'effetto pratico-critico, basata sulla presenza orante nel mondo del regno Dio e della sua prassi appropriata, mi considero felice. Se non è così, per conto mio il libro può andare pure domani nell'elenco di antiquariato moderno".

NOTE

[1] D. BONHOEFFER, Etica, Milano 1969, 61.

[2] Ad evitare equivoci teologici, H. Küng ha preferito parlare di "poli della teologia", indicando nel primo il parlare rivelante di Dio nella storia d'Israele e di Gesù, e il secondo nell'orizzonte che è costituito dalle esperienze umane. Cf. il suo contributo in L. SWIDLER (ed.), Consensus in Theology? A dialugue whit Hans Küng ed Edward Schillebeeckx (1980) 1-17, cit., in R. GIBELLINI ,La teologia del xx secolo, Queriniana, Brescia 1992, 357.

[3] Così testualmente riporta il titolo stesso di un intero capitolo del suo libro ID., Il Cristo. La storia di una nuova prassi, Queriniana, Brescia 1980, (originale del 1977), p. 70ss.: "Iniziare dal Nuovo Testamento o dalle esperienze odierne?" Un falso dilemma".

[4] L'autore scrive: "Non si possono considerare alternativi il rapporto con il futuro che determina l'agire e il rapporto ermeneutico, teorico, con il passato. Il rapporto con il futuro è possibile soltanto attraverso il nostro rapporto con il passato, e viceversa la nostra relazione con il passato, quale che sia la forma che essa assume - tradizionale o critica -, contiene già una decisione sul futuro; per questo la relazione con il passato non è mai puramente teoretico-ermeneutica. Una saldatura della fede cristiana con la storia passata di Gesù e del cristianesimo non è in alcun modo inconciliabile con un orientamento teologico verso il futuro, basta che, come si è già detto, non si contrapponga unilateralmente il futuro al presente ed al passato" (E. SCHILLEBEECKX, Il Cristo. La storia... cit., 70).

[5] Ivi, 76.

[6] R. GIBELLINI, LA TEOLOGIA, cit., 349.

[7] E. SCHILLEBEECKX, Rivelazione e teologia, Paoline, Roma 1966, 14. È la raccolta di articoli già scritti, a partire dal 1943. Quest'idea è in un testo risalente comunque al 1963.

[8] ivi, 15.

[9] Ivi, 15.

[10] E.SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1980[3]. L'originale è del 1974.

[11] Cf. G. MAZZILLO, Gesù e la sua prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (Ba) 1990.

[12] E. SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia.. cit., 41.

[13] Ivi.

[14] E.SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia, cit., 713.

[15] E. SCHILLEBEECKX, Il Cristo. La storia ..., cit, l'originale è del 1977.

[16] E. SCHILLEBEECKX, Esperienza umana e fede in Gesù Cristo. Un breve bilancio (1979), 21, citato da R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1978, 356.

[17] Così annota R. Gibellini, nell'opera già citata che presenta un inventario dei titoli delle diverse traduzioni, da quella americana con Cristo: l'esperienza di Gesù come Signore a quella inglese, che recita L'esperienza cristiana nel mondo moderno; da quella tedesca con Cristo e i cristiani a quella spagnola Cristo e i cristiani: grazia e liberazione. Cf. R. GIBELLINI ,La teologia..., cit., 361.

[18] E. SCHILLEBEECKX, Il Cristo..., cit., 120.

[19] Non si può qui non fare un doveroso riferimento a un'opera meritatamente famosa e che certamente ha influito anche sul pensiero di Shillebeeckx: Un Dio di uomini di P. Schoonenberg, del 1969.

[20] E. SCHILLEBEECKX, Il Cristo. La storia ..., cit, 863.

[21] Ivi, 907.

[22] E. SCHILLEBEECKX, "In search of the salvific value of a political praxis of peace", in PAX CHRISTI INTERNATIONAL, Peace spirituality for peace makers, Ed. Omega, Anversa 1983, 31. Non è un'idea del tutto nuova. Anzi è in continuità con quanti, come Giustino ed altri padri della chiesa, spiegavano l'influsso di Dio nei non cristiani attraverso la teoria del lovgoi spermatikovi, le ragioni seminali o le sementi del Verbo. Cfr. L. ARTIGAS, Teologia della religione, op. cit., 81; 257 e passim. Per un aggiornamento su questo argomento cfr. G. BOF, "La dottrina sui "semi del Verbo": origine e sviluppi", in Credereoggi 9 (1989, 6) 51. L'intero quaderno (54) è dedicato a La pienezza di Cristo e i semi del Verbo.

[23] E. SCHILLEBEECKX, "In search .., cit., 31.

[24] Si confronti, a riguardo, G. CASALIS, Die richtigen Ideen fallen nicht vom Himmel. Grundlagen einer induktiven Theologie, Stuttgart/Berlin/Köln/Mainz 1980.

[25] I "segni dei tempi" sono biblicamente i kairòi, cioè momenti densi della presenza della grazia e occasioni nelle quali occorre intercettare il passaggio di Dio. Cf. A. RIZZI, L'Europa e l'altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991.

[26] Così in R. GIBELLINI, la teologia..., cit., 364ss, che si riferisce all'originale Mensen als verhaal van God, del 1989.

[27] E. SCHILLEBEECKX, Per una Chiesa dal volto umano, Queriniana, Brescia 1986 (originale del 1985).

[28] E. SCHILLEBEECKX,, "La "ecclesia Jesu Christi" come "racconto di futuro"", in D. MIETH - E. SHILLEBEECKX - H. SNIJDEWIND, Cammino e visione. Universalità e regionalità della teologia del XX secolo. Scritti in onore di Rosino Gibellini, Queriniana, Brescia 1996, 193-214.

[29] SCHILLEBEEKX E. (a cura di), Mystik und Politik. Theologie im Ringen um Geschichte und Gesellschaft, Mainz 1988, 11.

[30] Ivi, 12.