Giovanni Mazzillo ( http://www.puntopace.net/Mazzillo/Mazzillo.htm )

APPUNTI per l’incontro di Azione Cattolica di Castellaneta – Rotonda   31/08/2012

Riscoprire il popolo di Dio del Vaticano II
per comprendere la propria vocazione di laici nella Chiesa e nel mondo

(traccia in www.puntopace.net )

1) Punti saldi dai quali ripartire

A) Problemi emergenti

- Il tema della Chiesa è più di una semplice tema. È piuttosto un problema della rilevanza della Chiesa per noi stessi, per la nostra esperienza di essere umani investiti dalla Grazia, per la nostra esistenza.

- Occorre fronteggiare il pericolo, che in questo avvenuto passaggio di secolo (di millennio), corre lo stesso cristianesimo, oltre che la Chiesa di oggi: di scadere in una religiosità senza Dio, dopo essere passati nel secolo precedente attraverso una fede in Cristo senza Chiesa.

Qualcuno tematizza il bisogno di esprimere la realtà della Chiesa in maniera più adeguata alla sensibilità moderna: invece della "Chiesa Madre" utilizzare piuttosto l’immagine della «Chiesa sorella», o della «Chiesa amica» (M. Kehl);

La nostra scelta teologica prima ancora che linguistica è di parlare della Chiesa prevalentemente come popolo di Dio, perché, convocati dalla Grazia, (cioè dall’azione libera e gratuita, salvatrice e redentiva dell’Unitrinità di Dio); proprio noi insieme con altri costituiamo la Chiesa, noi e non altri.

B) Significato della Chiesa per la nostra gente:

- dispensatrice di sacramenti (è obbligata a questo perché parte della società e a questo deputata); - compagna di strada (ricerca di un accompagnamento e di un senso ulteriore - ricerca di una qualche trascendenza); - come trascinatrice di masse (in tutte le sue forme, da quelle miracolistiche a quelle carismatiche);

C) Significato della Chiesa a partire dall’agire di Cristo:

Dispensatrice di vita e di speranza (Mc 6,30 - 44)

Luogo e tempo di decisione (Lc 12,49 - 53)

Realtà di testimonianza al mondo (Lc 12, 1-7)

D) Significato della Chiesa per noi:

a) Seguire Cristo affidandosi a lui e accompagnandoci reciprocamente:

Rt 1,14b-19: «Rut non si staccò da lei. Allora Noemi le disse:<<Ecco, tua cognata è tornata al suo popolo e ai suoi dei; torna indietro anche tu, come tua cognata». Ma Rut rispose: «Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch'io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te». Quando Noemi la vide così decisa ad accompagnarla, cessò di insistere. Così fecero il viaggio insieme fino a Betlemme>>;

b) entrare attraverso Cristo nella fraternità universale preferendo la compagnia dei poveri e degli infelici:

La Chiesa è sacramento fondamentale della salvezza perché il suo agire è complessivamente sacramentale: celebra la lode a Dio, ne anticipa le speranze di tutta l’umanità e pratica la carità. Ma ciò avviene attraverso e in forza della sua unione con Cristo e con gli uomini che soffrono e con il «popolo crocifisso»: corpo storico oltre che corpo mistico (Ellacuria);

Occorre pertanto precisare il giusto senso del concetto di sacramento, per fugare il pericolo della magia: l’Eucaristia è "fonte e culmine» della Chiesa e del suo agire (dono di Dio agli uomini per la salvezza del mondo, secondo il senso della Kenosis). È l’offerta volontaria di Cristo che fonda la Chiesa, nell’azione dello Spirito e nella compiacenza del Padre. Essa è però diretto e immediato riferimento alla storia degli uomini. Il suo stesso corpo e il suo sangue sono riferimento al corpo e al sangue degli uomini, e ciò è normativo anche per la Chiesa.

In sintesi:

Corpo mistico

ASPETTI

Corpo storico

dimensione sacramentale:

corpo e sangue di Cristo

carne e sangue

(pane) e (vino)

dimensione sociale: il corpo e la storia degli uomini

realtà liturgica:

unione a Cristo

unione

realtà esistenziale: unione ai crocifissi della terra

gratificazione all’interno del proprio gruppo

comunione

impegno nella realtà circostante

liberazione solo dal peccato individuale

liberazione

liberazione anche dalle forme di dal peccato strutturale

sacrificio della volontà e della propria intelligenza

donazione

 

impegnare la propria vita per la giustizia e la pace

 

2) Concezioni tradizionali e acquisizioni moderne sulla Chiesa

A) Il problema della legittimazione della Chiesa

a) Un Problema tipicamente europeo: «La Chiesa ha il doppio compito di lasciarsi interamente determinare da Cristo e dalla Rivelazione e coerentemente di legittimare questa sua identità all’interno della storia universale in quanto essa integrandosi nella storia universale adempie la sua funzione e la sua missione» (L. Boff)[1]. La domanda del teologo latino-americano al tempo della sua promozione dottorale in Germania riecheggiava quella di Bonhoeffer «Che cosa significa la Chiesa per un mondo senza religione (religionslose Welt?)». Ma per noi la domanda è ancora corretta? Il nostro mondo è diventato un mondo senza religione?

b) La domanda più impellente sembra invece essere: «Che identità di Chiesa è quella con la quale abbiamo oggi ha che fare?». In effetti partendo dalla sua concezione teologica di Chiesa, questa riceve la sua legittimazione teologica presso gli uomini non solo di oggi ma di ogni tempo.

c) Ciò solleva il quesito di fondo: «può la Chiesa fornirsi una sua autoconcezione arbitraria, oppure deve riferirsi a una identità che le è prescritta dal di fuori di essa?».

d) È in gioco un principio teologico di fondo. La legittimazione della Chiesa non viene né da se stessa, né dai teologi. Non è nemmeno fornita dalla modernità e dalla sua nuova sensibilità. Proviene infatti dalla Parola di Dio. Ciò significa che la Parola legittima la Chiesa, fornendole una fisionomia e un’identità di fondo. Ne segue l’urgenza di attraversare alcuni passaggi ecclesiologici obbligati. Per noi (tenendo presente la nostra situazione) questi si concretizzano nei seguenti:

dall'apologetica del miracolismo al narrare Dio con una vita credibile;

dalla carità come virtù individuale alla riscoperta dell'amore come dinamismo teologale;

dalla Chiesa societas alla Chiesa come comunità;

dalla Chiesa come comunione alla Chiesa come popolo di Dio.

B) Dalla «gerarcologia» alla Chiesa comunità dei credenti

a) Le concezioni ecclesiologiche precedenti il Vaticano II nel loro momento di svolta

Esse ruotavano più intorno alla gerarchia che intorno alla Chiesa, tanto da far parlare Congar di «gerarcologia» più che di ecclesiologia.

Il cambiamento radicale di prospettiva è avvenuto quando, riscoprendo il valore primario della Parola di Dio, la teologia ha potuto riprendere i capisaldi dell'ecclesiologia delle origini. Alla Parola di Dio è stato così riconosciuto un valore non solo «dottrinale» ma di fondazione e di costituzione della Chiesa: un valore di principio cui essa deve fare costante riferimento. Si tratta di riscoprire continuamente il vangelo (e in questo senso vale l’espressione nuova evangelizzazione»). Ma ciò può significare per la Chiesa solo una cosa: autoevangelizzazione, nel senso che essa deve lasciarsi continuamente annunciare da Cristo la Parola di Dio e praticare la strada della conversione. Solo lasciandosi convertire, può e deve annunciare agli uomini: «Convertitevi e credete ala Vangelo». L’evangelizzazione diventa così l’annuncio della buona notizia: la grazia e la salvezza irrompono nel mondo, particolarmente per coloro che Dio ha sempre prediletto: i poveri e i disperati, quanti non hanno nulla, nemmeno una speranza di salvezza.

b ) Dall’ecclesiologia piramidale all’ecclesiologia di comunione

Per ecclesiologia piramidale s’intende quella concezione che immagina la Chiesa come una piramide, il cui vertice è costituito dal papa, rappresentante di Cristo in terra, e, procedendo verso il basso, dalla gerarchia, fino ad arrivare alla base, che sarebbe il popolo, turba fidelium o plebs Dei. Non è l’ecclesiologia che consente l’utilizzo del popolo di Dio come categoria teologica determinante, anche perché questo è solo una parte della Chiesa e corrisponde a ciò che per la società prima romana e poi feudale era la blebs o i plebei, sottoposti ai patrizi, corrispondenti ai soggetti gerarchici. L’ecclesiologia alternativa è costituita dallo schema circolare, che pone al centro della realtà del popolo di Dio e l’azione della Trinità, e in particolar modo dello Spirito Santo, che suscita e sostiene vocazioni diverse e differenti doni e carismi.

 

Concezione piramidale e concezione ministeriale della Chiesa

 

Papa

Cardinali

V e s c o v i

P r e s b i t e r i

---------D i a c o n i---------

T U R B A  F I D E L I U M

 

Vocazioni e compiti ecclesiali diversi per l’utilità della stessa Chiesa

 

                            Vita Trinitaria -

{    Azione dello         }

 

                             Spirito Santo.

 

 

Vocazioni e compiti ecclesiali diversi per l’utilità della stessa Chiesa

 

 

 I motivi che sorreggono la legittimità del popolo di Dio come categoria teologica fondamentale sono molteplici e di notevole importanza. Basta dire che se la costituzione Lumen gentium al n. 6 non colloca il popolo di Dio tra le altre immagini della Chiesa (tempio, ovile, casa, ecc.) vuol dire che gli attribuisce un significato che è molto di più di una metafora: è una realtà storica e, in questo senso una categoria teologica. Il Vaticano II dedica pertanto l’intero capitolo II al popolo di Dio.

Le ragioni a favore dell’ecclesiologia del popolo di Dio vanno in definitiva dalla sua utilizzazione nell’ecclesiologia dei primi secoli[2] alla sua riscoperta e valorizzazione nel Vaticano II[3]. Il popolo di Dio è stato visto come vero e proprio soggetto storico in alcuni autorevoli documenti magisteriali[4]. Anche le precisazioni ecclesiologiche, alquanto restrittive, del 1992 su Alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, pur ribadendo la piena adeguatezza del concetto di comunione per esprimere, nell’ottica del Vaticano II il «nucleo profondo del mistero della Chiesa», hanno confermato la necessità di «di un’adeguata integrazione del concetto di comunione con quelli di popolo di Dio e di corpo di Cristo», da affiancare a un più attento rilievo «al rapporto tra la Chiesa come comunione e la Chiesa come sacramento»[5].

In sintesi possiamo ritenere che il popolo di Dio è soggetto storico e, in quanto tale, è categoria teologica pienamente adeguata ad esprimere la natura misterica della Chiesa, con tutte le sue implicanze storico-sociali. È pertanto non immagine retorica, ma soggetto concreto, definibile a partire dalla consistenza reale e comunitaria del progetto salvifico di Dio.

Questa concezione costituisce un correttivo di quell’uso e talora abuso di una terminologia che ricorre alla comunione e che mentre ripete il termine «comunione, comunione», non adempie talora nemmeno il puro e semplice livello della corretta «comunicazione», dimensione pur costitutiva della comunione medesima[6]. Comunione e dialogo, in una visione introversa della Chiesa rischiano, a lungo andare, l’ideologizzazione[7], scadendo in una visione o prevalentemente sociologica come «l’ideologia della comunità», oppure in una sorta di giustificazione teorica di nuove forme di compattamento e talora di centralismo che il Vaticano II sembrava aver ormai superato.

 

3) Chiesa, popolo che cammina nella storia costruendo la storia

Ne 8,5-10: <<Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutto il popolo; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. Giosuè, Bani, Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetài, Odia, Maaseia, Kelita, Azaria, Iozabàd, Canàn, Pelaia, leviti, spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi al suo posto. Essi leggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. Poi Neemia disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza»>>.

A) Le opzioni inerenti all’ecclesiologia secondo la Parola di Dio

Il popolo di Dio come corpo storico oltre che mistico, compie alcune opzioni di fondo per camminare nella storia, come ci indica il cap. 7 della Lumen gentium , alla ricerca della patria definitiva e per costruire una storia sulla terra conforme al progetto di Dio. Per questo scopo, fa continuo ricorso alla Parola di Dio, che ne traccia il percorso, oltre a disegnarne l’identità

a) un’opzione teologica (scegliere sempre Dio e la su Parola);

b) un’opzione cristologica (scegliere sempre Cristo e coloro che Cristo ha prediletto);

c) un’opzione ecclesiologica (avere sempre un’identità di Chiesa che sia consequenziale con le opzioni precedenti).

L’opzione teologica rende possibile il primo passaggio: dal supernaturalismo ad un’evangelizzazione attraverso una vita credibile; l’opzione cristologica rende possibile la seconda: dalla carità come virtù individuale alla riscoperta dell'amore come dinamismo teologale; l’opzione ecclesiologica rende infine praticabili gli ultimi e decisivi passaggi: dalla Chiesa societas alla Chiesa come comunità; e dalla Chiesa come comunione alla Chiesa come popolo di Dio.

B) La ricerca della propria salvezza e la ricerca della salvezza degli uomini

a) «Solo chi ama gli uomini può capire il Vaticano II». Ciò riprende la concezione fondamentale dell’amore come via di autentica conoscenza (cf. Agostino e soprattutto il vangelo di Giovanni, che parla del praticare la verità, più che conoscerla: «Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» - Gv 3,21). Il principio riguarda sia l’amore verso Dio che verso il prossimo. Chi li ama entrambi li conosce anche; costui sarà in grado di capire il Vaticano II.

b) La Chiesa non esiste per sé, ma per volere ed azione della Trinità ed è per la salvezza del mondo. Una concezione clericale porta a una Chiesa introversa; una concezione basata sul popolo di Dio porta invece - come deve essere - a un’ecclesiologia estroversa[8].

c) Perché la Chiesa sia estroversa deve essere solidale, sì da rendere la solidarietà suo principio etico fondamentale.

Gaudium et spes, Nr. 1: ««Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo».

Da dove nasce questa stretta unione della Chiesa con tutta la famiglia umana? Nasce dalla stretta unione con Dio. Perché talora manca alla Chiesa la solidarietà verso gli uomini? Perché le manca la vera familiarità con Dio.

La vera famiglia di Dio è quella che compie la verità: Mt 12,47-50: <<Qualcuno gli disse: «Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti». Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»>>.

C) Per la riflessione personale

a) Fino a che punto possiamo affermare di essere quella Chiesa che è famiglia di Dio in quanto compie la volontà del Padre?

b) Che cosa significa per noi oggi compiere la volontà del Padre?

c ) Quale posizione prendi rispetto alle opzioni fondamentali della Chiesa? Che cosa c’è ho ancora da aggiungere?

 

4) Importanza dei laici nel popolo di Dio

Possibilità di approccio alla realtà delle origini

Come si è già visto, l’idea teologica del popolo di Dio risale all’Antico Testamento. È un concetto ben presente nel popolo ebreo, tanto da poter dire che esso ha plasmato la stessa coscienza storica di Israele. Ciò che per adesso ci domandiamo è quanto quest’idea abbia influito sulla cristianità che si afferma dopo la Pentecoste e fino a che punto sia stata presente in quell’“ecclesiologia implicita” presente nella teologia da quando è esistita la chiesa del Nuovo Testamento. Per una simile ricerca si solleva però un problema preliminare e che riguarda l’effettiva accessibilità alla realtà storica del popolo di Dio delle origini cristiane. Possiamo risalire alla vita della chiesa immediatamente successiva agli apostoli, e di conseguenza, alla sua autocoscienza, in modo da sapere che cosa la comunità cristiana pensasse di se stessa in rapporto al popolo di Dio? Certamente possiamo farci un’idea a riguardo, ricorrendo agli scritti padri della chiesa, distinguendo un doppio livello nelle informazioni che riceviamo: un livello esistenziale-contestuale; e un livello filologico-lessicale. Con il primo risaliamo all’agire della chiesa, che, nel contesto delle sue situazioni vitali si esprimeva con quella ecclesiologia “implicita” in ogni sua decisione e in ogni sua altra manifestazione. Con il secondo ci riferiamo all’impiego dei termini riguardanti il concetto di «popolo di Dio».

Si può partire dalla constatazione che una certa situazione “pastorale” sembra, a grosse linee, essere già definita agli inizi del III secolo, perché, a quanto sappiamo dalla «tradizione apostolica», la chiesa adopera un adeguato strumentario lessicale, per indicare diversità di funzioni nella vita della comunità (“imporre le mani”, “istituire”, “offrire il sacrificio”, “svolgere il servizio liturgico” ecc.). Un particolare ancora più interessante per noi è che queste diverse funzioni sono ascritte a categorie distinte e precise di persone. Non altrettanta chiarezza si riscontra in quella concettualizzazione dell’agire della chiesa riguardante il “popolo di Dio”. Proprio il “popolo di Dio” se, teologicamente parlando, viene ancora ad indicare la totalità tanto dei carismi che dei cristiani in genere e quindi è antecedente alla funzione specifica di ciascuno di essi, spesso è adoperato in un contesto strettamente liturgico e designa il “popolo” come l’insieme di coloro che non sono né presbiteri, né ministri. È tuttavia importante notare che osservando l’agire della chiesa e i documenti che risalgono all’età apostolica e post-apostolica, si può concludere che non esiste ancora la distinzione tra “clero” e “laici” e che il “popolo di Dio” sta accanto alle altre denominazioni (“assemblea”, “sinagoga” ecc.) per indicare, l’unità antecedente ogni altra diversificazione. Del resto la parola kleròs significava “eredità”[9] e questa è tipica di tutta la comunità che si ritiene erede delle promesse di Dio che Gesù Cristo ha realizzate, anche se resta ancora da attendere il loro pieno compimento.

Unità della chiesa e coesistenza di differenti ministeri

Collegato a questo tema teologico è il temine relativo ai ministri non ordinati, i “laici”. In realtà la parola “laico” compare nella Lettera ai Corinzi di Clemente Romano, ma non indica una categoria di persone, né una contrapposizione all’interno di una comunità o di una celebrazione. Anzi Clemente parla di una leiturgia propria di colui che non è né sacerdote né levita e, di conseguenza, della necessità di non prevaricare, creando disordine, come stava succedendo a Corinto. Ricorrendo all’esempio della strutturazione del popolo di Dio dell’Antica Alleanza, Clemente scrive

«È per questo che al sommo sacerdote sono stati conferiti particolari uffici liturgici, agli altri sacerdoti è stato assegnato un incarico specifico, ai leviti incombono particolari servizi, e, infine, il laico è tenuto dalle disposizioni che lo riguardano»[10].

Sicché invita ciascuno a

«restare al proprio posto, curando di rispettare e non trasgredire i limiti del proprio ufficio»[11],

cioè a restare negli ambiti stabiliti della propria leiturgìa.

Ma Clemente, al pari degli altri padri apostolici, non intende scavare un fossato tra i diversi membri della chiesa. Il suo appello resta nel contesto di una distinzione di leiturgìa, sempre compiuta in quello spirito unitario che fa indicare, il lui come negli altri, tutti i cristiani come fratelli, eletti, moltitudine, gregge di Cristo, porzione eletta del Padre.

Negli scritti dei padri apostolici ciò che accomuna tutti è generalmente l’unità ecclesiale, indicata con termini quali: dèmos ed ekklesìa, anche se occorre precisare che dal punto di vista linguistico il termine laòs non è univoco. Indica la popolazione in genere, oppure Israele in contrapposizione ai pagani, la comunità cristiana, in contrapposizione ad Israele. Nella Lettera di Barnaba il popolo eletto (popolo dell’eredità) è solo quello del Nuovo Testamento, che succede all’antico non in continuità ma in opposizione a questo. Alcune sue parole sono categoriche e vanno ben al di là della tradizione della chiesa:

“[…] vi chiedo, cioè, di badare a voi stessi e di non voler somigliare a certa gente che, accumulando colpa su colpa, va dicendo che l’alleanza è sia dei giudei che nostra. No! È solo nostra, perché essi la perdettero definitivamente mentre Mosè stava ancora ricevendola»[12]

E, del resto, anche le lettere di Clemente risentono della polemica antigiudaica e sottolineano l’opposizione più che la continuità, sebbene Clemente ricorra molto spesso ad esempi tratti dall’Antico Testamento per ammonire i cristiani. Per lui come per l’autore de Il Pastore (da alcuni attribuito a Erma), il popolo radunato da Dio che campeggia in primo piano è la chiesa, una chiesa che risale agli inizi del tempo, se in visione appare ad Erma come un’anziana,

«perché fu creata prima di tutto: per questo è vecchia. Per lei fu preparato il mondo»[13].

In sintesi, si può dire che per i padri apostolici e per la coscienza cristiana dei primi secoli, la chiesa, benedetta dal Creatore, istituita con sapienza e provvidenza e guidata da Cristo, Signore del popolo[14], sembra assorbire in sé tutte le prerogative teologiche che erano del popolo di Dio dell’Antico Testamento. Al punto che non di rado si ritiene il popolo ebreo come il tipo del peccato, mentre la chiesa è vista il popolo della salvezza. La chiesa è di conseguenza considerata nella sua unità, anche in funzione polemica rispetto a Israele, un’unità che è ancora ben salda, anche quando si comincia a sottolineare, come in Ignazio di Antiochia, che essa è attorno al Vescovo, preludendo a quell’accentuazione dell’aspetto socio-liturgico che successivamente vedrà da una parte il Vescovo e gli altri ministri e dall’altra il popolo[15].

L’unità della chiesa è uno degli elementi ecclesiologi fondamentali anche negli altri padri. In Giustino (II secolo) è presente come unità dei cristiani. Egli scrive:

«Il popolo (dèmos) e l’ekklesìa rappresentano una pluralità di uomini, ma poiché costituiscono un’unità li indichiamo e li designiamo con un nome unico»[16].

E più avanti:

«A coloro che credono in lui, che gli sono uniti in un solo cuore, una sola sinagoga, una sola chiesa, il Verbo di Dio parla come a sua figlia, la chiesa, che è costituita nel suo nome e partecipa al suo nome (perché tutti ci chiamiamo cristiani)»[17].

Ciò che accomuna i cristiani, al di là delle diversità di ogni altra funzione, è il comune battesimo e la celebrazione dell’eucaristia, perché tutti costituiscono la «vera stirpe sacerdotale». Giustino non si pone il problema di una differenziazione clero-laici. A più riprese indica i cristiani come «discepoli», termine che egli predilige. Taziano, suo seguace, ritorna sull’unità dei cristiani quando parla dell’apprendimento della dottrina. Dà una toccante indicazione sul superamento di ogni discriminazione e sulla condivisione di quei beni spirituali che s’accompagna alla condivisione di quelli materiali[18]:

«Da noi non solo i ricchi coltivano la filosofia; anche i poveri gioiscono gratuitamente dell’insegnamento; poiché ciò che viene da Dio non può ricevere compensi mondani. Noi accogliamo, dunque, tutti coloro che vogliono ascoltare, che si tratti di vecchie donne o di giovani; persone di ogni età, insomma, sono benevolmente accolte da noi; ma ogni impurità deve restare lontana»[19].

Ireneo insiste, al pari degli altri, sulla unità della chiesa. Parla dei presbiteri ed anche dei discepoli di Gesù come sacerdoti. Questi erano descritti come

«coloro che non avevano su questa terra, né eredità né terreno, né casa, ma vagavano senza posa al servizio dell’altare e di Dio»[20].

All’autore ciò che maggiormente preme è la condotta di vita come discepolato del Signore anche dei presbiteri, per cui, in una visione cristocentrica della chiesa, la sua unità è vista attraverso la corrispondenza di tutti alla vocazione alla santità.

Continuità e discontinuità con il popolo di Dio dell’Antico Testamento

Ippolito Romano ritiene che Israele non possa considerarsi popolo di Dio. Nel suo Commento al Cantico dei cantici Cipriano, interpretando allegoricamente il miracolo delle nozze di Cana, vede nel vino la chiesa che prende il posto del popolo ebreo, simbolizzato dall’acqua. Non è che un altro esempio di quella polemica antigiudaica, che si acutizza sempre più con il passare del tempo. Come si è accennato, ciò non impediva di richiamarsi alla strutturazione del sacerdozio levitico, al punto da fare continui raffronti con la strutturazione in atto all’interno della chiesa, che subisce un certo influsso almeno per ciò che riguarda la distinzione tra la “classe sacerdotale” e quella “laicale. Eppure la predominanza dell’idea di chiesa e la sua collocazione in una sfera metastorica, soprattutto ad opera di Agostino, allontanano la possibilità di ricucire organicamente l’assemblea dell’Antica Alleanza con la convocazione della Nuova. Dai padri di quell’epoca non può essere del tutto negato il carattere storico del popolo di Dio dell’Antico Testamento, ma non gli viene riconosciuto un valore in sé, viene solo ritenuto una preparazione alla chiesa del Nuovo Testamento .

La retrodatazione della chiesa fino alla creazione del mondo, o addirittura antecedentemente ad essa, è collegata ad una delle espressioni più suggestive e anche spiritualmente più profonde di questa particolare ecclesiologia dei primi secoli dell’era cristiana. È “la chiesa da Abele” (ecclesia ab Abel). L’idea di una chiesa preesistente alla venuta di Cristo è giustificata con l’aiuto delle categorie filosofiche greco-platoniche. È una concezione che cerca di superare le stesse vicissitudini storiche della chiesa nel mondo con il ricorso alla teologia di una civitas Dei metastorica, contrapposta alla civitas mundi e che trova in Agostino il suo teologo più geniale. Pervade però buona parte della riflessione dei padri dell’alto medioevo e fa coniugare formule differenti sugli stessi inizi dell’ecclesia.

Pur spingendo le origini della chiesa oltre il tempo, dovendo collegarle alle origini dell’umanità, i teologi affermano l’esistenza della chiesa da Adamo, oppure da Abele. Agostino parla di una chiesa ab Abel, mentre per altri padri la chiesa ha inizio da Adamo[21]. È una questione non accademica. Secondo una preziosa ricerca di Y. Congar, l’espressione ecclesia ab Abel ha come sfondo un’esegesi a carattere allegorico condotta da Ambrogio su Caino e Abele, nella quale Caino è il tipo della sinagoga, Abele quelrimalo della chiesa[22]. A nostra volta, considerando il fatto che già in epoca biblica[23] si mette in rapporto il sangue di Cristo con quello di Abele e che Abele viene indicato come il giusto (Mt 23,35) e come profeta da Gesù(Lc 11,51), riteniamo non azzardato vedere in Abele non tanto l’inizio cronologico della chiesa, ma uno degli elementi teologici che la qualificano: cioè l’intrinseca conformazione a Cristo dell’innocente perseguitato e del giusto assassinato. Proprio le vittime dell’ingiustizia come loro costituiscono la materia vivente della chiesa, perché sono direttamente e primariamente associati al martire-testimone per eccellenza, cioè a Cristo. La chiesa è da Abele nel senso che sussiste con il primo Abele e nel senso che sta dalla parte di Abele, perché ogni Abele rimanda al nuovo Adamo che è il Cristo. È un’idea che va ulteriormente sviluppata, ma che è certamente in linea con quell’interessante filone di spiritualità cristiana che ha fatto, ad esempio, considerare “santi innocenti” anche i bambini uccisi da Erode. La chiesa è costituta di questi santi, che hanno in essa un posto privilegiato. Dai martiri dell’Apocalisse che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello[24] ai cristiani delle persecuzioni di ogni tempo, gli unici degni di sedere alla parte destra della “Signora”, che parla ad Erma e rappresenta la chiesa:

«Mi volevo sedere alla parte destra della panca, ma la signora non me lo permise, e mi fece cenno con la mano di sedere alla sinistra. Rimasi interdetto e, mentre mi rammaricavo che non mi avesse permesso di sedermi a destra, mi sentii dire: “sei triste, Erma? La parte destra è riservata ad altri: a coloro che si sono già resi grati a Dio, soffrendo per il suo nome. Molto manca ancora a te per poterti sedere con loro; ma se tu - come fai ora - continuerai a perseverare nella tua semplicità, ti siederai con loro, e così pure tutti quelli che faranno ciò che quelli fecero, e soffriranno ciò che quelli soffrirono”. “Cosa soffrirono?” - chiesi io. “Ascolta - mi rispose -. Flagelli, prigionia, torture, croce, belve... Tutto per il Nome. Per questo a loro è riservata la parte destra del santuario, ed è riservata pure a chi in avvenire per tale Nome soffrirà»[25]

Dal laòs alla plebs

La testimonianza del Nome, espressione che risente della difficoltà ebraica a pronunciare esplicitamente la parola “Dio”, è testimonianza di Cristo ed assimila a Cristo. La chiesa, in quanto popolo di Dio, è popolo che ha simili testimoni in posizione di preminenza. Il laòs toù theoù non consta solo di una componente ecclesiale, ma nell’uso dell’espressione dei padri apostolici conserva, in genere, il suo significato teologico di «popolo di Dio» in riferimento alla globalità della chiesa. La componente gerarchica, che pure è importante, non ha propriamente una fisionomia ispirata al puro e semplice esercizio del potere. Partecipa alla testimonianza del Nome ed è direttamente dipendente da essa. Conformemente alla struttura fondamentale che già evidenziava Paolo, la stessa figura degli apostoli assume la caratteristica della testimonianza di chi è chiamato e inviato (l’apostolo è infatti un mandato) a prestarla dinanzi agli altri:

«Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue» (1Cor 12,28); «E` lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri» (Ef 4,11).

Alla teologia di questa struttura fondamentale, che assegna la collocazione gerarchica sulla base della maggiore o minore vicinanza a Cristo, si accompagna dopo i padri apostolici, la tendenza a riconsiderare forme e ruoli nella chiesa in analogia a ciò che avveniva nel popolo di Dio dell’Antico Testamento e quindi ad accentuare la distanza tra componente sacerdotale e componente laicale. Già nella prima lettera di Clemente e, come si diceva, nelle lettere di Ignazio si intravede quest’inclinazione a sottolineare sempre più il valore della componente gerarchica-sacerdotale, accorpando a parte la massa dei fedeli. Da allora in poi si parlerà sempre meno del “popolo” in riferimento all’intera chiesa e si adopererà il termine e i suoi sinonimi per riferirsi alla componente non gerarchica del popolo di Dio.

Ma sono soprattutto gli autori latini i responsabili di questa divaricazione. Occupandosi in primo luogo dell’unità della chiesa, questi mettono in luce soprattutto l’aspetto sacramentale-giuridico (ecclesia corpus Christi), trascurando quello pneumatologico (ecclesia Spiritus Christi), di impostazione più schiettamente orientale[26]. Ciò prepara il terreno a Tertulliano per apportare la famosa distinzione tra ordo e plebs, ordine e popolo.

Nel Liber de Exortatione Castitatis (libro sull’esortazione alla castità), Tertulliano affrontando l’allora dibattuto problema della liceità del secondo matrimonio in caso di vedovanza, asseriva che non è lecito ai laici ciò che era ritenuto illecito ai presbiteri. Con il caratteristico rigorismo che lo contraddistingue, l’autore argomenta dal sacerdozio di cui sono insigniti anche i fedeli:

«Forse che i laici non sono sacerdoti? È scritto: Egli ha fatto di noi un regno di sacerdoti per Dio suo Padre (Apc 1,6). La differenza tra l’ordine [ordo] e il popolo [plebs] l’ha costituita l’autorità della chiesa e la carica è santificata dall’ordine ricevuto»[27].

La conseguenza è per Tertulliano l’illiceità del secondo matrimonio sia per i presbiteri che per i laici, nonostante il diverso grado loro attribuito dall’autorità (auctoritas) della chiesa. Resta, per la verità, problematico sapere esattamente ciò che egli intendesse per auctoritas della chiesa. Da molti il brano è interpretato come un’esplicita affermazione dell’origine ecclesiastica della distinzione tra ordine e popolo. Altri avanzano l’ipotesi che il consenso sulla distinzione risalga all’intera chiesa. Lo confermerebbe il resto della citazione:

«Là dove non siede l’ordine ecclesiastico, tu laico, offri e battezzi, tu sei a te stesso sacerdote: là dove sono tre c’è la chiesa anche se si tratta di laici»[28].

In ogni caso, ne risulta una situazione alquanto paradossale, perché mentre si afferma l’uguaglianza sui doveri, si traccia una demarcazione precisa all’interno della stessa ecclesia, dove l’ordine è giustapposto al popolo ribattezzato come plebs., Se in generale si deve dire che quest’ultimo termine sembrerebbe pur sempre un sinonimo di populus, non si può però nascondere l’impressione di una certa dequalificazione proprio a danno del “popolo”, un tempo l’intero “popolo di Dio”. Ciò avviene per un indubbio influsso esercitato sulla strutturazione sociale della chiesa dalla divisione delle classi romane dell’epoca, in cui la plebs aveva l’ultimo posto. È una scelta lessicale che preferisce allo stesso termine latino populus quello di plebs e che d’ora in poi diventerà sempre più diffuso nella teologia latina e nei documenti ecclesiali. È un vero danno teologico, oltre che pastorale, perché certamente ben altra impressione avrebbe suscitato l’uso di populus, più adeguatamente corrispondente a laòs, non solo perché plebs corrisponderebbe solo ai termini biblici di ochlos o ochloi (la folla, le folle), ma perché per il diritto romano il populus aveva un valore originario di fonte dello stesso diritto, come testimoniano le iscrizioni Senatus populusque romanorum (il senato ed il popolo romano).

Siamo qui di fronte a una delle prime formulazioni di una concezione rigidamente piramidale della chiesa, con la tripartizione classica dell’ordine, dei vescovi in primo luogo, dei presbiteri in secondo e dei diaconi in terzo, mentre di «tutti gli altri nella chiesa, non insigniti di alcuna dignità», cioè dei «laici, ossia dei plebei, ossia della plebe» non si può dire altro che ciò che questi non sono, sicché la chiesa ha queste sue membra: «vescovi, presbiteri, diaconi e folla dei fedeli [turba fidelium[29].

È una concezione, che se può sembrare a prima vista incontestabile su un piano rigidamente dogmatico, non risponde alla logica del servizio e della reciproca ministerialità, che pure era presente negli scritti degli autori precedenti e che ha anch’essa un indubbio valore teologico. La concezione di Tertulliano inoltre crea associazioni di idee piuttosto negative riguardo alla realtà laicale, indicata come «plebe» o come «turba dei fedeli» e condiziona negativamente il cammino dell’ecclesiologia, allorché la prassi ecclesiale, da un lato, e la riflessione teologica, dall’altro, accentueranno sempre più l’importanza vitale dei ministri ordinati, considerando come semplice base o popolo di sudditi gli altri battezzati. È una concezione presente anche in Cipriano e in Agostino, per giustificare l’ordinamento legale- sacramentale della chiesa, soprattutto quando quest’ultimo entra in polemica contro i Donatisti[30].

Struttura della società e strutturazione istituzionale della chiesa

È innegabile che l’organizzazione della società romana abbia esercitato un considerevole influsso sulla strutturazione istituzionale della chiesa. Ciò è avvenuto soprattutto dopo l’editto di Costantino, quando la chiesa, ormai uscita dalla clandestinità, avviò un processo di organizzazione della sua vita con strutture amministrative e centralizzate, che consentissero la comunicazione tra le diverse realtà ecclesiali e la gestione delle comunità diventate ormai innumerevoli.

Dai laici semplici soggetti passivi ai laici soggetti attivi

È fondamentale cogliere e documentare questo passaggio nel Vaticano II.

La Lumen Gentium  parla dei laici nel capitolo IV

Il nr. 30 risponde alla domanda “Che cosa sono i laici nella Chiesa?”

30. Il santo Concilio, dopo aver illustrati gli uffici della gerarchia, con piacere rivolge il pensiero allo stato di quei fedeli che si chiamano laici. Sebbene quanto fu detto del popolo di Dio sia ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero, ai laici tuttavia, sia uomini che donne, per la loro condizione e missione, appartengono in particolare alcune cose, i fondamenti delle quali, a motivo delle speciali circostanze del nostro tempo, devono essere più accuratamente ponderati. I sacri pastori, infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune.

 La loro è una dignità vera e non fittizia, reale e non concessa paternalisticamente

31. Col nome di laici si intende qui l'insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.

Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici

 

Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore.

 Hanno una dignità loro propria pienamente riconosciuta nel popolo di Dio

32…Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).

Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo. La distinzione infatti posta dal Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo di Dio comporta in sé unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati tra di loro da una comunità di rapporto: che i pastori della Chiesa sull'esempio di Cristo sono a servizio gli uni degli altri e a servizio degli altri fedeli, e questi a loro volta prestano volenterosi la loro collaborazione ai pastori e ai maestri. Così, nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo: poiché la stessa diversità di grazie, di ministeri e di operazioni raccoglie in un tutto i figli di Dio, dato che « tutte queste cose opera... un unico e medesimo Spirito» (1 Cor 12,11).

I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non è venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per autorità di Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l'ufficio di pastori, in modo che sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità. A questo proposito dice molto bene sant'Agostino: « Se mi spaventa l'essere per voi, mi rassicura l'essere con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di ufficio, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza ».

 In forza della quale si spiega la loro missione

33. I laici, radunati nel popolo di Dio e costituiti nell'unico corpo di Cristo sotto un solo capo, sono chiamati chiunque essi siano, a contribuire come membra vive, con tutte le forze ricevute dalla bontà del Creatore e dalla grazia del Redentore, all'incremento della Chiesa e alla sua santificazione permanente.

L'apostolato dei laici è quindi partecipazione alla missione salvifica stessa della Chiesa; a questo apostolato sono tutti destinati dal Signore stesso per mezzo del battesimo e della confermazione. Dai sacramenti poi, e specialmente dalla sacra eucaristia, viene comunicata e alimentata quella carità verso Dio e gli uomini che è l'anima di tutto l'apostolato. Ma i laici sono soprattutto chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo. Così ogni laico, in virtù dei doni che gli sono stati fatti, è testimonio e insieme vivo strumento della stessa missione della Chiesa « secondo la misura del dono del Cristo » (Ef 4,7).

Oltre a questo apostolato, che spetta a tutti i fedeli senza eccezione, i laici possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare più immediatamente con l'apostolato della gerarchia a somiglianza di quegli uomini e donne che aiutavano l'apostolo Paolo nell'evangelizzazione, faticando molto per il Signore (cfr. Fil 4,3; Rm 16,3 ss). Hanno inoltre la capacità per essere assunti dalla gerarchia ad esercitare, per un fine spirituale, alcuni uffici ecclesiastici.

Grava quindi su tutti i laici il glorioso peso di lavorare, perché il disegno divino di salvezza raggiunga ogni giorno più tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra. Sia perciò loro aperta qualunque via affinché, secondo le loro forze e le necessità dei tempi, anch'essi attivamente partecipino all'opera salvifica della Chiesa.

 La partecipazione alla dignità della Chiesa come popolo messianico (Lumen gentium 9) è piena e la differenza dal ministero ordinato non è nell’onore o nella dignità, ma in un altro e diverso modo di essere (essenza). Infatti nel Concilio troviamo scritto quanto segue:

Partecipazione dei laici al sacerdozio comune

34. Il sommo ed eterno sacerdote Gesù Cristo, volendo continuare la sua testimonianza e il suo ministero anche attraverso i laici, li vivifica col suo Spirito e incessantemente li spinge ad ogni opera buona e perfetta.

A coloro infatti che intimamente congiunge alla sua vita e alla sua missione, concede anche di aver parte al suo ufficio sacerdotale per esercitare un culto spirituale, in vista della glorificazione di Dio e della salvezza degli uomini. Perciò i laici, essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo Spirito Santo, sono in modo mirabile chiamati e istruiti per produrre frutti dello Spirito sempre più abbondanti. Tutte infatti le loro attività, preghiere e iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e anche le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano offerte spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2,5); nella celebrazione dell'eucaristia sono in tutta pietà presentate al Padre insieme all'oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso.

Partecipazione dei laici alla funzione profetica del Cristo

35. Cristo, il grande profeta, il quale con la testimonianza della sua vita e con la potenza della sua parola ha proclamato il regno del Padre, adempie il suo ufficio profetico fino alla piena manifestazione della gloria, non solo per mezzo della gerarchia, che insegna in nome e con la potestà di lui, ma anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni provvedendoli del senso della fede e della grazia della parola (cfr. At 2,17-18; Ap 19,10), perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale. Essi si mostrano figli della promessa quando, forti nella fede e nella speranza, mettono a profitto il tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rm 8,25). E questa speranza non devono nasconderla nel segreto del loro cuore, ma con una continua conversione e lotta «contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro gli spiriti maligni» (Ef 6,12), devono esprimerla anche attraverso le strutture della vita secolare.

Come i sacramenti della nuova legge, alimento della vita e dell'apostolato dei fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una nuova terra (cfr. Ap 21,1), così i laici diventano araldi efficaci della fede in ciò che si spera (cfr. Eb 11,1), se senza incertezze congiungono a una vita di fede la professione di questa stessa fede. Questa evangelizzazione o annunzio di Cristo fatto con la testimonianza della vita e con la parola acquista una certa nota specifica e una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni del secolo.

In questo ordine di funzioni appare di grande valore quello stato di vita che è santificato da uno speciale sacramento: la vita matrimoniale e familiare. L'esercizio e scuola per eccellenza di apostolato dei laici si ha là dove la religione cristiana permea tutta l'organizzazione della vita e ogni giorno più la trasforma. Là i coniugi hanno la propria vocazione: essere l'uno all'altro e ai figli testimoni della fede e dell'amore di Cristo. La famiglia cristiana proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e la speranza della vita beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina quelli che cercano la verità.

I laici quindi, anche quando sono occupati in cure temporali, possono e devono esercitare una preziosa azione per l'evangelizzazione del mondo. Alcuni di loro, in mancanza di sacri ministri o essendo questi impediti in regime di persecuzione, suppliscono alcuni uffici sacri secondo le proprie possibilità; altri, più numerosi, spendono tutte le loro forze nel lavoro apostolico: bisogna tuttavia che tutti cooperino all' estensione e al progresso del regno di Cristo nel mondo. Perciò i laici si applichino con diligenza all'approfondimento della verità rivelata e domandino insistentemente a Dio il dono della sapienza.

Partecipazione dei laici al servizio regale

36. Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre (cfr. Fil 2,8-9), è entrato nella gloria del suo regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,27-28). Questa potestà egli l'ha comunicata ai discepoli, perché anch'essi siano costituiti nella libertà regale e con l'abnegazione di sé e la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato anzi, servendo il Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro fratelli al Re, servire i1 quale è regnare. Il Signore infatti desidera estendere il suo regno anche per mezzo dei fedeli laici: i1 suo regno che è regno « di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace » e in questo regno anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21). Grande veramente è la promessa, grande il comandamento dato ai discepoli: « Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio » (1 Cor 3,23).

I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro, affinché i beni creati, secondo i fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua luce che salva.

Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo.

Per l'economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere tra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della società umana. cerchino di metterli in armonia fra loro, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al comando di Dio. Nel nostro tempo è sommamente necessario che questa distinzione e questa armonia risplendano nel modo più chiaro possibile nella maniera di agire dei fedeli, affinché la missione della Chiesa possa più pienamente rispondere alle particolari condizioni del mondo moderno. Come infatti si deve riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi, così a ragione è rigettata 1 infausta dottrina che pretende di costruire la società senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed elimina la libertà religiosa dei cittadini.

I laici e la gerarchia

37. I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti; ad essi quindi manifestino le loro necessità e i loro desideri con quella libertà e fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio, rappresentano Cristo. I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza prontamente abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità nella Chiesa, seguendo in ciò l'esempio di Cristo, il quale con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della libertà dei figli di Dio. Né tralascino di raccomandare a Dio con le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi vegliare sopra le nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb 13,17).

I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.

Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.

Conclusione

38. Ogni laico deve essere davanti al mondo un testimone della risurrezione e della vita del Signore Gesù e un segno del Dio vivo. Tutti insieme, e ognuno per la sua parte, devono nutrire il mondo con i frutti spirituali (cfr. Gal 5,22) e in esso diffondere lo spirito che anima i poveri, miti e pacifici, che il Signore nel Vangelo proclamò beati (cfr. Mt 5,3-9). In una parola: « ciò che l'anima è nel corpo, questo siano i cristiani nel mondo ».

 

 

 


 

[1] L.Boff, Die Kirche als Sakrament im Horizont della We1terfahrung. Versuch einer Legitimation und einer struktur-funktionalistischen Grundlegung der Kirche im Anschluß an das II. Vatikanische Konzil, Paderborn 1972.

[2] Cf. O. Semmelroth, «La Chiesa nuovo «popolo di Dio»», in G. Baraùna, La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, 439-452.

[3] Cf. G. Mazzillo, «L'eclissi della categoria "popolo di Dio", in Rassegna di Teologia 36 (1995) 553-587; Idem, <<Un'ecclesiologia «relativamente maneggevole»>> in Rassegna di teologia (RdT), 38 [1997] 537-552). Cf. anche S. Dianich, che dedica un intero capitolo al tema ««popolo di Dio»: la forma fondamentale dell'aggregarsi dei cristiani», ma constata anche la scarsa fortuna da esso avuta nell'ecclesiologia recente [S. Dianich, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1993, 231-255].

[4] Cf., ad esempio: «Cosi, si converrà facilmente che, senza il ricorso al paragone del «corpo di Cristo» applicato alla comunità dei discepoli di Gesù, è assolutamente impossibile cogliere la realtà della Chiesa. Le lettere di san Paolo, nel loro insieme, sviluppano, infatti, quel paragone in varie direzioni, come nota la stessa Lumen gentium al n. 7. Tuttavia, benché ponga in giusto rilievo l’immagine della Chiesa «corpo di Cristo», il concilio dà maggior risalto a quella di «popolo di Dio», non fosse altro che per il fatto che esso dà il titolo al capitolo II della stessa costituzione. Anzi, l’espressione «popolo di Dio», ha finito per designare l’ecclesiologia conciliare. Difatti, possiamo asserire che si è preferito «popolo di Dio» alle altre espressioni, cui il concilio ricorre per esprimere il medesimo mistero, quali «corpo di Cristo» o «tempio dello Spirito santo»» (Commissione Teologica Internazionale, Temi scelti di ecclesiologia, 1985, 2.1: EV 9, 1683. Le sottolineature sono mie).

[5] Congregazione per la dottrina della fede, Alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione. Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica, Paoline, Milano 1992, n. 1, p. 3.

[6] Pertinente e documentata ci sembra l'affermazione di Dianich, quando afferma che quello della comunicazione è un tema teologico. L'autore capovolge così la posizione di W. Bartholomäus, «La comunicazione nella Chiesa. Aspetti di un tema teologico», in Concilium 14 (1978/1) 165-187. Cf. S. Dianich, «Teorie della comunicazione ed ecclesiologia», in Associazione Teologica Italiana, L'ecclesiologia contemporanea, Messaggero, Padova 1994, 134-178.

[7]È l'opinione sentita a Lovanio, al congresso internazionale di teologia del 1976. Cf. ciò che scrive P. Franzen, «La comunione ecclesiale principio di vita», in G. ALBERIGO, L'ecclesiologia del Vaticano II. Dinamismi e prospettive, Dehoniane, Bologna 1981, 172.

[8] Cf., a riguardo, S. Dianich, Chiesa estroversa. Una ricerca sulla svolta dell’ecclesiologia contemporanea, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1987; S. Dianich - E. R. Tura, Vent’anni di Concilio Vaticano II. Contributi sulla sua recezione in Italia, Borla, Roma 1985; G. Alberigo - J. P. Jossua, Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985; G. Alberigo et al. L’ecclesiologia del Vaticano II. Dinamismi e prospettive, EDB, Bologna 1981

[9]Nel greco del Nuovo Testamento il significato di kleròs e derivati oscilla da sorte (es. «gettare la sorte») (At 1,25s) a eredità come trasmissione di un bene (At 1,17; 7,5; 8,21) all’eredità escatologica (Mt 5,5; At 26,18); fino a includere l’eredità tipica di Israele applicata ai cristiani (Gal 3,29; At 20,32; Rm 8,17; Ef 1,11).

[10]1 Lettera di s. Clemente ai Corinti, in G. Corti (a cura di), I padri apostolici, Città Nuova, Roma, 47-90, qui c. 40, pag. 74.

[11]Ivi, c. 41.

[12]Lettera di Barnaba, in G. Corti (a cura di), I padri..., cit., 191-219, qui c. 4, pag. 195.

[13]Il Pastore, in G. Corti (a cura di), I padri..., cit., 241-353, qui c. 8, pag. 255.

[14]Ivi, c. 3, pag. 252.

[15]Ignazio ai Fidadelfesi, G. Corti (a cura di), I padri..., cit., cap. 7-8, pp. 129-130.

[16]Dial., 42; 48, cit. Da A. Faivre, I laici alle origini della chiesa, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano). 1988, 48.

[17]Ivi.

[18]Cf. At 2, 44-47: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» e «La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno».

[19] Athenagora, Legatio, 11, parla di incolti, lavoratori e non acculturati presenti nella comunità, in consonanza con questo brano di Taziano, Oratio, 32, citato da A. Faivre, I laici..., cit., 44.

[20] Adversus Haereses, IV, 8,3, cit. da A. Faivre, I laici..., cit., 52.

[21]Il Vaticano II tocca tangenzialmente il problema e non entra nel merito. Contiene entrambe le espressioni (LG 2).

[22] Y. Congar, «Ecclesia ab Abel», in Festschrift für Karl Adam, Düsseldorf 1952,79‑108.

[23]Cf. Ebrei 11,4 e 12,24.

[24]Apc 7,14: «Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello».

[25]Il Pastore, in G. Corti (a cura di), I padri..., cit., cc. 9-10, pp. 257-258.

[26] Cf.r. J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, München 1954, 49. 56. 58s. 72s.

[27] Liber de Exortatione Castitatis, cap. 7: PL 2, 922.

[28] A. Faivre, I laici..., cit., 66.

[29] PL 2, 922, nota del Migne.

[30] Cipriano, Ep. 40; cf.r. J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins..., op. cit., 159-161.