Per un approfondimento biblico-teologico sul tema generale del congresso "beati i miti, perché erediteranno la terra cf. la relazione sullo stesso argomento tenuta a Firenze durante la settimana della pace del 2002 [cliccare]

Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

 

G. Mazzillo, «Cristo ha abbattuto i muri di separazione» (Ef 2,14).

Relazione al congresso nazionale di Pax Christi.  Napoli 23/04/05.

1. La centralità della pace come cuore del Vangelo (raccogliendo l’eredità del magistero di pace di Giovanni Paolo II)

Dall’esperienza storica diventa ogni giorno più evidente per ogni uomo (almeno per ogni uomo “di buona volontà”) che il futuro del mondo richiede un impegno costante, coerente e coraggioso per la pace. È altrettanto  vero che mai come all’inizio di questo nuovo millennio, tale impegno è diventato chiaro per la coscienza stessa della Chiesa. Voglio dire che di ciò stanno diventando coscienti molti cristiani e soprattutto ne è diventata cosciente quella componente del popolo di Dio che è la componente “magisteriale”. Lo attestano i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II   e quanto sulla pace ha prodotto il magistero di Giovanni Paolo II.

Cominciando dal Papa recentemente scomparso, anche al fine di raccogliere un’eredità che non possiamo assolutamente disperdere, il riferimento più immediato è il suo Messaggio per la 38a Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2005: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene», in cui si afferma chiaramente che «La violenza distrugge ciò che sostiene di difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani».  Qui troviamo scritto: «All’inizio del nuovo anno, torno a rivolgere la mia parola ai responsabili delle Nazioni e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, che avvertono quanto necessario sia costruire la pace nel mondo. Ho scelto come tema per la Giornata Mondiale della Pace 2005 l’esortazione di san Paolo nella Lettera ai Romani: Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male (12,21). Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male».  Infatti continua: «Per conseguire il bene della pace bisogna, con lucida consapevolezza, affermare che la violenza è un male inaccettabile e che mai risolve i problemi. «La violenza è una menzogna, poiché è contraria alla verità della nostra fede, alla verità della nostra umanità. La violenza distrugge ciò che sostiene di difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani».

Non erano affermazioni improvvisate, ma la conseguenza di un magistero che si estende per oltre due decenni. Un magistero che trovava una sorta di sintesi nella precedente giornata mondiale della pace del 2004. Parlando di «Un impegno sempre attuale: educare alla pace»,  Giovanni Paolo II aveva indicato un inscindibile rapporto tra annuncio del vangelo e annuncio della pace:

«I vari aspetti del prisma della pace sono stati ormai abbondantemente illustrati. Ora non rimane che operare, affinché l'ideale della pacifica convivenza, con le sue precise esigenze, entri nella coscienza degli individui e dei popoli. Noi cristiani, l'impegno di educare noi stessi e gli altri alla pace lo sentiamo come appartenente al genio stesso della nostra religione. Per il cristiano, infatti, proclamare la pace è annunziare Cristo che è « la nostra pace » (Ef 2,14), è annunziare il suo Vangelo, che è «Vangelo della pace» (Ef 6,15), è chiamare tutti alla beatitudine di essere « artefici di pace» (cfr Mt 5,9)».

«Proclamare la pace» come «annunziare Cristo che è “la nostra pace”» sono espressioni inequivocabili, così come era inequivocabile già in Paolo nella lettera agli Efesini lo stretto rapporto tra vangelo e pace nell’espressione «lieta notizia della pace» (euangelion tēs eirēnēs). La lieta notizia, l’euangelion è pace, perché Cristo che è «la nostra pace» (Ef 2,14). In quanto tale «ha abbattuto i muri di separazione», facendo saltare non solo delimitazioni convenzionali e confini, ma realizzando vincoli indissolubili di unità e carità tra i diversi. Vincoli che sono effettuati nel suo stesso, unico corpo: da quello morente sulla croce, a quello eucaristico e, in questo, a quello stesso corpo della Chiesa.

L’affermazione paolina, chiave di volta del magistero di pace, concludeva e rilanciava  un patrimonio, che a partire da Paolo VI, inventore delle giornate mondiali della pace, si è arricchito, di «vari capitoli di una vera e propria “scienza della pace”». Dopo L’istituzione della “Giornata Mondiale della Pace” l’1 Gennaio 1968 da parte di Paolo VI, i temi successivi sono stati:  

«La promozione dei diritti dell'uomo, cammino verso la pace» (1969);  

«Educarsi alla pace attraverso la riconciliazione» (1970);

 «Ogni uomo è mio fratello» (1971);

«Se vuoi la pace, lavora per la giustizia» (1972);

«La pace è possibile» (1973);

 «La pace dipende anche da te» (1974).

Si tratta di un magistero che coinvolge tutti e singoli, con appelli successivi, quali:

«La riconciliazione, via alla pace» (1975);

«Le vere armi della pace» (1976);

«Se vuoi la pace, difendi la vita» (1977).

L’ultimo messaggio di  Paolo VI sembra riassumere il suo magistero in merito:

«No alla violenza, Sì alla pace»  (1978).

Giovanni Paolo II  si era mosso in questo contesto, ereditando, secondo le sue parole, una «scienza della pace» e racchiudendo, a sua volta, i venticinque anni del suo magistero di pace in una sorta di inclusione letteraria. Gennaio del 1979, con il messaggio: «Per giungere alla pace, educare alla pace»; Gennaio 2004, con il messaggio: «Un impegno sempre attuale: educare alla pace».  

Tra questa prima e la 25^ giornata di Giovanni Paolo II  si sviluppa una riflessione sulla pace, che affianca anche un percorso teologico, maturato in alcuni teologi anche al seguito di un’esperienza storica ben precisa[1].

Ma ritornando al magistero di pace del penultimo Papa, i temi da lui successivamente toccati dal 1980 al 1985 sono:

1980: La verità come forza della pace;

1981: Per servire la pace, rispetta la libertà;

1982: La pace, dono di Dio affidato agli uomini;

1983: Il dialogo per la pace, una sfida per il nostro tempo;

1984: La pace nasce da un cuore nuovo;

1985: La pace e i giovani camminano insieme.

Quasi a voler rispondere a un’obiezione spiritualistica, che rinfaccia come inutile l’impegno per la pace, perché essa sarebbe solo dono di Dio, il Papa aveva formulato il tema della giornata mondiale del 1982 con le parole: «La pace, dono di Dio affidato agli uomini». Lo aveva raccordato con la verità come sua forza (espressione che a noi ricorda “la forza della verità”  di Gandhi), con la libertà come sua condizione e corollario e con il dialogo come suo indispensabile strumento. Tutto ciò con due ulteriori agganci: il rinnovamento del cuore e la giovinezza della pace. In un duplice senso: perché la pace è sempre attuale e perché rappresenta una provvidenziale e indomabile ansia dei giovani.

Dal 1986 al 1996 i tempi appaiono in questa sequenza:

1986: La pace è valore senza frontiere. Nord-Sud, Est-Ovest: una sola pace;

1987: Sviluppo e solidarietà, chiavi della pace;

1988: La libertà religiosa, condizione per la pacifica convivenza;

1989: Per costruire la pace, rispettare le minoranze;

1990: Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato;

1991: Se vuoi la pace, rispetta la coscienza di ogni uomo;

1992: I credenti uniti nella costruzione della pace;

1993: Se cerchi la pace, va' incontro ai poveri;

1994: Dalla famiglia nasce la pace della famiglia umana;

1995: Donna: educatrice alla pace;

1996: Diamo ai bambini un futuro di pace.

Che la pace richieda il superamento dei confini e delle nostre frontiere appare ben chiaro fin dall’inizio. Quando ancora la barriera tra Est-Ovest sembrava un’insormontabile barriera politica, accanto alla barriera economico-sociale Nord-Sud tuttora in auge, Giovanni Paolo II insisteva su alcuni collegamenti sempre attuali. Essi riguardano il rispetto della libertà religiosa e delle minoranze, la riconciliazione con Dio Creatore e con il suo creato, il rispetto della coscienza individuale e il compito dei credenti nella costruzione della pace.  In questo contesto generale si coglie l’altro inscindibile nesso tra la costruzione della pace e alcuni aspetti fondamentali dell’agire umano nella storia: «Sviluppo e solidarietà, chiavi della pace». A queste “chiavi” si richiama più direttamente il tema del 1993, mutuato dalla teologia della liberazione e oggi di uso comune, almeno nel linguaggio della Chiesa universale: «l’opzione preferenziale per i poveri». Tra questi poveri ci sono ovviamente non solo gli svantaggiati economicamente, ma gli indifesi, gli oppressi e gli emarginati. A questo compito di abbattimento di ogni barriera viene chiamata la famiglia  per edificare la pace della famiglia umana e la figura della donna, educatrice alla pace.  Sicché a un futuro di pace hanno diritto i bambini, perché ne ha diritto l’umanità futura. E così arriviamo agli anni dal 1997 in poi, con la seguente articolazione:

1997: Offri il perdono, ricevi la pace

1998: Dalla giustizia di ciascuno nasce la pace per tutti

1999: Nel rispetto dei diritti umani il segreto della vera pace

2000: « Pace in terra agli uomini, che Dio ama! »

2001: Dialogo tra le culture per una civiltà dell'amore e della pace

2002: Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono

2003: « Pacem in terris »: un impegno permanente

Come si noterà, accanto ai grandi temi biblico-teologici della pace, sembra affiorare sempre più chiaramente l’altro grande inscindibile nesso tra giustizia e pace, che però è accompagnato da quello del perdono. Pace, giustizia e perdono, con i loro addentellati sul piano del diritto e dell’impegno costante per una pace sulla terra (pacem in terris) per gli  uomini che Dio ama sono non solo connessi tra loro, ma sono espressioni storiche della dimensione cristocentrica della pace.

2. Cristo artefice di pace diventa la nostra pace

I temi ricordati sono tutti, in varia maniera, dipendenti da un fatto storico e dalla sua comprensione teologica. Il fatto storico è Cristo. Storicamente parlando, è l’assassinio di un innocente, che muore perdonando i suoi assassini, a conclusione di una vita di predicazione e di prassi nonviolenta, di riconciliazione dei lontani con Dio e  di abbattimento di ogni steccato tra gli uomini. La sua predicazione e la sua vita sono l’emblema del superamento di ogni confine e dell’idea stessa del confine.

Il suo rivolgersi agli uomini più umili, per additare loro la carica d’Infinito, di cui sono capaci e portatori, costituisce l’essenza di un messaggio che riempie di stupore i destinatari del suo messaggio e suscita preoccupazione e paura nei detentori del potere, sia esso politico, sia esso religioso. L’avere additato agli uomini l’entità della loro grandezza e la strada per arrivarvi e per esprimerla suscita gioia nei poveri e negli infelici, ma scatena la paura nei potenti.  Così era successo al "grande inquisitore" della celebre parabola  di Dostoevskij ne I Fratelli Karamazov, quando Cristo, tornato sulla terra, era stato rinchiuso in prigione dal cardinale di Siviglia, con l’accusa di indicare agli uomini una libertà e una dignità non solo mai udite, ma irrealizzabili, essendo questi, a suo dire, meschini e di bassa levatura, bisognosi soltanto di essere guidati e tenuti a bada.

Il paradossale e sostanziale non-credo nell’uomo da parte dell’inquisitore si affiancava al formale credo in un Dio sommo e tutore del potere (in buon castigliano si direbbe todopoderoso). Ma questo non era e non è – per quanti ancora lo incarnano oggi – un credo cristiano, perché la fede cristiana è fede anche nell’uomo, essendo fede nel Figlio di Dio divenuto Figlio dell’uomo. Negare il valore dell’uomo è negare il valore di Cristo. Se nella prima Alleanza troviamo scritto che «chi opprime il povero offende il suo Creatore, chi ha pietà del misero lo onora» (Pr 14,31), si può affermare che per la definitiva Alleanza chi non crede nell’uomo non crede nemmeno in Cristo e chi lo opprime o semplicemente lo ignora opprime e ignora Cristo[2].  Un corollario con cui prima o dopo devono fare i conti inquisitori e potenti, e quanti ancora ritengono gli esseri umani non solo limitati, ma solo fasci di bisogni da soddisfare (naturalmente dietro pagamento) e pezzi di cera da plasmare (naturalmente con comunicazioni false quanto illusorie). Tutto ciò ovviamente secondo scopi inconfessabili, perché se gli uomini non valgono quanto Cristo, i dittatori e gli uomini di governo ne potranno ancora fare carne da macello per le proprie guerre chiamate “giuste” e persino «preventive»,  mentre le multinazionali e le industrie ne faranno consumatori istupiditi dal "benessere" e dai grandi o piccoli narcotici di ogni giorno.

A fronte di tutto questo, Cristo è artefice di pace, perché innanzi tutto è artefice della dignità degli uomini, è l’autore e il segnacolo più alto della loro grandezza. Anche e fondamentalmente in questo primo senso antropologico, Cristo è autore della nostra pace, anzi è la pace stessa. Quest'identificazione era già nel profeta Michea, che tracciava la netta coincidenza tra il messia e la pace, quando preannunciandone la venuta, affermava: «e sarà lui la pace» (Mi 5,4)[3] .

In Cristo l’abbattimento di ogni altro confine muove dal superamento di questo primo confine, quello che stringe il cerchio umano intorno al proprio limite e alla propria immanenza. Solo se questo cerchio è realmente spezzato – e nella fede confessiamo che esso è spezzato – ha senso l’affermazione che la pace è riconoscimento dei diritti umani, è opzione preferenziale per i più svantaggiati, è rispetto della libertà dei popoli e dei singoli, è perdono e infine è vincere il male con il bene.

Gesù può proclamare e ordinare «beati i facitori di pace (eirenopoiòi) perché saranno chiamati (cioè perché sono essi) i figli di Dio», perché i figli di Dio credono nella grandezza umana al di là dell’umano. Chi vive questa consapevolezza e si fa artefice di un mondo nuovo, lo può solo perché è destinatario e soggetto di un modo nuovo di capire l’uomo e la sua vicenda, il mondo e il suo futuro. Egli “fa la pace” perché abbatte il limite e pertanto supera gli altri limiti, non solo attraversa le frontiere, ma ne mostra l’insensatezza, a partire dalla stessa convinzione: non ci possono essere confini tra esseri umani che sono tutti ugualmente sconfinati, non esistono limiti tra uomini e donne per loro natura illimitati.

«Fare la pace»  fu per Cristo una missione e un’identificazione. Deve diventarlo parimenti per il cristiano.

Gesù, identificandosi nella sua missione di pace, diventava infine pace egli stesso, conformemente alle Scritture. E ciò accadeva soprattutto negli ultimi giorni della sua vita terrena. Ciò si compiva liturgicamente il giovedì santo nel cenacolo, con il dono dell’eucaristia, con il segno di un’unità che né divisioni, né sofferenza e nemmeno la morte potranno eliminare e si consumava esistenzialmente il giorno dopo sulla croce, come atto di riconciliazione tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo e pertanto tra l’Infinito e l’umano finito che ad esso finalmente e definitivamente si ricongiungeva. In tutto ciò Cristo era artefice di pace ed era la stessa pace.

L’ha ribadito Paolo, che ha potuto scrivere di lui: «Egli infatti é la nostra pace», in un contesto storico che confessa che Cristo è «Colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia» (Ef 2,14). Facitore di pace », Gesù compiva adesso la pace nel suo corpo e attraverso la croce (Ef 2,15‑17). 

La lettera agli Efesini menziona l’effetto più vistoso della pace di Cristo ai tempi di Paolo: il superamento del confine nazionalistico-religioso tra ebrei e pagani. Non si tratta solo della rimozione di un limite, bensì della costituzione di un particolare vincolo tra quanti un tempo erano divisi e nemici: un vincolo che, a partire dalla teologia paolina, è quella dello stesso corpo: corpo mistico e corpo storico. Espressione, quest’ultima, cara a uno dei martiri contemporanei della chiesa, Padre Ignacio Ellacuría, un testimone di pace, che ha pagato con l’assassinio, in San Salvador, la sua ecclesiologia di liberazione a favore degli impoveriti in un mondo violento.

 Quel mondo è parte e risultato del nostro mondo e, al pari di altri paesi vittime prima della colonizzazione e poi delle varie forme di strozzinaggio contro di loro,  mette a prova la credibilità della nostra cosiddetta «civiltà dell’amore» e della nostra «cultura della vita». Il padre gesuita, con i suoi compagni martiri e con gli altri che hanno cercato di realizzare la «dottrina sociale della chiesa», ha incarnato una forma di pacificazione (pacem facere) che storicizza la salvezza. In lui e nei testimoni di pace si realizza, sul fondamento e nel solco di Gesù, non solo la storia della salvezza oggi, ma la salvezza della storia di questo nostro mondo tormentato. In loro e in quanti ne seguono le orme, la Chiesa è corpo mistico, cioè realtà unitaria, radunata in Cristo e che nell’eucaristia si alimenta d’Infinito; ma è anche corpo storico, cioè realtà che opera, in forza dell’Infinito che la inibita e sospinge, un continuo superamento di ogni confine nella storia umana, degli uomini e dei popoli.

3. La pace dono e compito del popolo di Dio

Dalla pace realizzata da Cristo nostra pace discende la prassi di quanti costituiscono il suo popolo, il corpo storico oltre che mistico. Se la Chiesa fosse solo corpo mistico,  rischierebbe di essere confinata nell’evanescenza. Essendo invece popolo di Dio, è realtà sociale e storica, anche se oggi l’ecclesiologia contemporanea sembra averlo alquanto dimenticato, perché preferisce insistere quasi esclusivamente sull’ecclesiologia di comunione, che altro non è che una ripresa con termini nuovi dell’ecclesiologia del corpo mistico[4].  Riequilibrando tale concezione con la valorizzazione dell’ecclesiologia del popolo di Dio, appare invece immediatamente evidente che l’intervento storico di Dio nella formazione e nella guida del suo popolo già nell’antica Alleanza e  la prassi storica del suo Figlio Gesù nella Nuova sono normativi anche per la sua Chiesa. Come popolo di Dio, la Chiesa deve proseguire infatti in una prassi, che non è solo storico-salvifica ma salvifico-storica. Essa non si può infatti limitare solo alla sua, pur essenziale, liturgizzazione, ma deve curarne l’applicazione “reale” in ogni situazione.

Tale prassi, collegata alla ricerca continua della giustizia e all’abbattimento di ogni discriminazione, è «euangelion tēs eirēnēs», vangelo della pace e con ciò realizzazione della salvezza, come apprendiamo ancora da Ellacuria:

«Anche accettando che la Chiesa visibile e storica continua a conservare, per volontà di Cristo e per l’assistenza dello Spirito, tale suo carattere eccezionale di luogo della salvezza, resta da chiedersi che cosa in questa Chiesa storica è realmente capace di essere tale, e che cosa in questa Chiesa storica lo sta contraddicendo. È il problema di trovare nella vera Chiesa il vero della Chiesa. E questa domanda sul vero (che può anche darsi che non possa venire separato, storicamente, dal falso che in essa è presente, come il grano si può separare dalla zizzania solo alla fine dei tempi, pena rovinare l’intero raccolto) non può avere risposta se non ci si interroga, dentro di essa e in essa e senza uscirne fuori, sulla trascendenza storica cristiana, nel senso di voler ricercare quelle realtà tangibili che sono per se stesse e secondo la volontà di Cristo il luogo dove maggiormente si rivela il Dio cristiano, al quale non piacciono né la sapienza cercata dai greci, né i segni cercati dai giudei. Una nuova sapienza e dei nuovi segni si rendono necessari, affinché si realizzi definitivamente la promessa che Dio è con noi, che noi siamo il suo popolo e che il Dio vero è veramente il nostro Dio»[5].

È richiesta allora all’intero popolo di Dio una storicizzazione del pacem facere di Cristo che ha abbattuto non solo i limiti, ma sempre a dire di Paolo, ogni altra separazione. Ai noi seguaci di Gesù l’apostolo dice: Essendo voi «tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù», poiché siete «stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo»; pertanto «non c'è qui (ouk eni) né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28).

La pace opera dunque su questi livelli e su tutti i livelli della realtà esistente. È ri-donata da Gesù ai suoi discepoli la sera della Pasqua dopo la sua risurrezione.

Gesù riconferma la “sua” pace,  che riconcilia con Dio tutti gli uomini, tutto l’uomo e la stessa creazione. È la sua pace, pace che egli ci dà come dono e come compito: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace.  Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). È una pace che passa attraverso il ministero della riconciliazione con Dio e tra gli uomini e che Gesù ugualmente affida ai suoi apostoli: «Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”» (Gv 20, 21-23). 

È una pace che avvia l’era definitiva della pace messianica e diventa fermentazione di una liberazione per tutta la realtà cosmica. Anche in questo senso la pace di Gesù è diversa da quella del mondo ed è una pace da annunciare all’intera creazione: «E disse loro: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura (pase the ktìsei)» (Mc 16,15). Infatti

«la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 19-21). 

In Gesù l’intera creazione si riconcilia, cominciando così a realizzare il sogno profetico di quella nuova creazione, che vedrà la riconciliazione anche tra gli animali dei campi, gli uccelli dell'aria e i rettili della terra (Os 2,20).

A quest’opera complessiva del pacem facere è pertanto chiamato tutto il popolo di Dio. È chiamata l’intera umanità. Ma, giunti a questo punto e constatato che ancora tale compito non sempre è registrato nella sua impellenza come compito personale, perlomeno non da tutti, anche se tutti ne dichiarano l’importanza, la domanda è: «Che cosa fare o che cosa continuare a fare e come essere oggi operatori di pace?». La risposta ovvia è che chi ne è cosciente deve fare quanto è in suo potere, perché il compito di Gesù sia adempiuto e che non bisogna lasciarsi scoraggiare da quanti non la pensano alla stessa maniera. Ma più che insistere oltre su questo e passando da una teologia riflessiva alla teologia narrativa, vorrei chiudere portando un esempio storico ben preciso, quello di Etty Hillesum, una ragazza laica, ebrea, assassinata in un campo di concentramento, e tuttavia  decisa a non cadere nella logica dell’odio e del risentimento, perché il mondo in cui le toccò di vivere e morire non sprofondasse oltre nella barbarie.  Intanto, già quando era iniziata la deportazione in Olanda, dove fino ad allora aveva condotto la sua vita di ragazza “normale” e spensierata, Etty si affidava a Dio condividendo la sorte del suo popolo.

Scriveva nel suo diario:

<<Un giorno pesante, molto pesante. Un «destino di massa» che si deve imparare a sopportare insieme con gli altri, eliminando tutti gli infantilismi personali. Chiunque si voglia salvare deve pur sapere che se non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo posto. Come se importasse molto se si tratti proprio di me, o piuttosto di un altro, o di un altro ancora. È diventato ormai un «destino di massa» e si dev’essere ben chiari su questo punto. Un giorno molto pesante>>[6].

Al destino di massa del suo popolo Etty non volle sottrarsi e la sua riserva di energia era nella sua lucida consapevolezza che Dio sarebbe rimasta al suo fianco e accanto  ai deportati. Per poter scendere a questo livello e sentirsi come chiamati a una missione di pace, che cominciava a pacificare il suo cuore, era però necessario accogliere Dio nella profondità di se stessa:

«Ma ogni volta so ritrovare me stessa in una preghiera - e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più ristretto. E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade»[7].

A questo livello avviene qualcosa di straordinario. In Etty come in ciascuno che voglia che non si estingua l’amore sulla terra, non solo «prima che l’amore finisca» ma perché l’amore ancora resti, occorre aiutare l’amore. Etty diceva che occorre aiutare Dio, affinché il suo amore rimanga, quell’amore che liberamente si dona, ma che liberamente l’umanità può estinguere:

«E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. Su tutta la superficie terrestre si sta estendendo piano piano un unico, grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà rimanerne fuori. È una fase che dobbiamo attraversare. Qui gli ebrei si raccontano delle belle storie: dicono che in Germania li murano vivi o li sterminano coi gas velenosi. Non è granché saggio raccontarsi storie simili, e poi, se anche questo capitasse in una forma o nell’altra, è per responsabilità nostra? Da ieri sera piove con una furia quasi infernale. Ho già vuotato un cassetto della mia scrivania»[8].

Aiutare l’amore a continuare ad esistere, significa non abbandonare il proprio cuore alla spirale della violenza. Significa contribuire a realizzare quella pace che abbatte i confini. Sorretto dalla forza dello Spirito del Signore risorto, il costruttore di pace riesce a superare il limite umano, perché si aggancia a quell’Infinito che non è astrazione intellettuale, ma una persona vivente, che ha vinto la morte e sfondato ogni limite, cioè Cristo Gesù.  

 

 

 

 

 


 

[1] Cf., per ciò che mi riguarda,  G. MAZZILLO, La teologia come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1988 e in riferimento al pensiero e all’agire di Gesù: ID., Gesù e la sua prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1990.  Più in generale, cf. ID., "Teologia fondamentale", in L. LORENZETTI (a cura di), Dizionario di teologia della pace, Dehoniane, Bologna 1997, pp. 67-77, con le voci simili a quelle qui affiorate.

[2] Basti qui citare solo Matteo 25,35ss: «ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui straniero e mi accoglieste…».

[3] È questa la migliore traduzione indicante il Messia come pace e non piuttosto quella tradizionale: egli porterà la pace. Cf., a titolo d’esempio, Das Neue Testament, dove la traduzione adottata dalle conferenze episcopali di lingua tedesca recita: «Und er wird der Friede sein».

[4] Cf. a riguardo  G. Mazzillo, «Chiesa come popolo di Dio o chiesa come comunione?»,  Relazione al XV corso di aggiornamento – Roma 28/30 dicembre 2004-12-28. L’intervento è reperibile in www.puntopace.net/Mazzillo/popolodidio-roma-04.htm.

[5] I. Ellacuria, «La storicità della salvezza cristiana», in ELLACURIA - J. SOBRINO (edd.), Mysterium Liberationis. I concetti fondamentali della teologia della liberazione, Borla - Cittadella, Roma - Assisi 1992, 306. La sottolineatura è mia.

[6] Etty Hillesum, Diario. 1941-1943,  a cura di J. G. Gaarlandt, Adelphi, Milano 1985, 162.

[7] Ivi.

[8] Ivi, 163. L’ultimo segno di vita e di speranza, vero messaggio d’amore e di fiducia in esso e nelle sue vie è stato scritto da Etty Hillesum sul treno della deportazione. È una cartolina, affidata al vento, da lei imbucata in una fessura del vagone dove stava ammonticchiata con gli altri. Questo cartolina fu trovata e fatta recapitare al destinatario. C’è scritto: <<Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: «Il Signore è il mio alto ricetto». Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty>> (E. Hillesum, Lettere 1942-1943, a cura di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1990, pag. 149). Etty Hillesum morì a Auschwitz il 30 novembre 1943.