Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Quale ragione per quale rivelazione?

Intervento al convegno “La rivelazione tra ragionevolezza e credibilità” – Catanzaro 21-22/11/2005

Il tema così com’è formulato sembra molto chiaro e si presenta come un tema aperto. Aperto a un’infinità di itinerari di ricerca, sia a partire dalla ragione, sia a partire dalla rivelazione. Il binomio ragione-rivelazione, soprattutto nella forma scelta (quale ragione per quale rivelazione?) certamente è più felice di quello abituale “ragione e fede”. Proprio questa coppia concettuale, a come si afferma da più parti, è problematica nella sua stessa formulazione. Le difficoltà emergono per noi in primo luogo perché anche la fede ha non solo la sua ragione (in quanto ragionevolezza, plausibilità, credibilità, epistemologia propria), ma ha anche le sue ragioni (cioè i suoi motivi per credere). In secondo luogo perché si tratta pur sempre di ragione umana e, proprio perché tale, non può essere avulsa da quella sua pluridimensionalità che la caratterizza, in quanto prototipicamente umana (come si esprimerebbe P. Berger[1]). Infatti le molteplici dimensioni della persona umana (materialità, sensibilità, intuizione, appercezione ecc.) sono ugualmente coinvolte nel processo non solo e non tanto della conoscenza, ma di una conoscenza legata all’esperienza del sapere nella fede e del sapere di fede.

Quale ragione dunque e per quale rivelazione? A partire dalle precisazioni appena accennate, si può intanto dire: una ragione che non si precluda arbitrariamente alla possibilità di un’esperienza ancora una volta prototipicamente umana. Vale a dire l’esperienza di ciò che pur annunciandosi dall’esterno (la rivelazione) venga incontro alle ragioni ultime della ricerca umana di un senso complessivo e di una totalità che essa presagisce. Senso complessivo e totalità presagiti e inseguiti attraverso ciò che nel nostro mondo culturale latino è stato chiamato “religio”, con tutta la problematicità sia del termine (da dove deriva, che cosa significa?), sia dei suoi limiti, ritenuti ancora di natura eurocentrica.

Una ragione dunque che è ragionevolezza del vivere e del morire, del pianto come del sorriso, della delusione come della nostra sempre insorgente capacità di sognare. In questo senso la ragione non è da confondere con la rappresentazione o con la concettualizzazione che noi ce ne facciamo. Intanto non è l’astrazione della ragione, ma la ragione umana (non ne conosco un’altra) e pertanto non un suo “precipitato” (in senso chimico) di natura tipicamente ed esclusivamente concettualistica. È una ragione, invece, direi intanto sensibile e non asetticamente distaccata dal reale. Se di reale e di realtà si tratta, proprio la realtà ha il suo peso, la sua emergenza e – si potrebbe dire – la sua sporgenza, che semplicemente non ci è lecito ignorare. Le riflessioni di Gilson, riprese da Di Ceglie, sul realismo e sul senso comune hanno qui tutto il loro rilievo, non solo come interesse culturale, ma come pressione del reale[2].

Qui si innesta primariamente la ricerca fenomenologica sulla religione, in quanto esperienza religiosa, cioè forma tipicamente ed umanamente esistenziale del singolo e della comunità nella quale e con la quale egli vive. Sul versante della fenomenologia, alla quale nel mio testo cerco di restare ancorato[3], si tratta della sporgenza non tanto – o almeno non subito – di Dio, ma dell’insistente, permanente, universale, insuperabile bisogno di lui. Un bisogno che invano si è cercato di ricondurre a un fenomeno indotto o riduzionistico. Qui una delle mie risposte esige una doverosa menzione, almeno come punto di partenza, delle considerazioni trovate anni fa in A Rumor of Angel (“Il brusio degli angeli”) di P. Berger[4]. All’obiezione riduzionista del bisogno di Dio, come dato culturalmente, socialmente, o nevroticamente indotto dall’inquietudine umana, si può e si deve rispondere con una controdomanda. Come mai quest’inquietudine e per giunta quest’inquietudine di Assoluto e non un’altra? Come mai l’inquietudine a sopravvivere, per esempio, e non semplicemente a dissolversi e a morire, quando proprio e solo il cupio dissolvi e non il cupio vivere è universalmente attestato come fenomeno patologico e indotto? Perché l’uomo e solo l’uomo avverte questo disagio rispetto alla naturale fine che non preoccupa gli altri esseri viventi?[5] Succede davvero che gli dei morti diventano malattie e che le nuove malattie dell’anima nascono da un totale spaesamento dell’uomo contemporaneo?[6].

Per me non sussistono dubbi, almeno su questo punto: il desiderio di Assoluto, attesta che qualcosa di assoluto è già nella persona umana, nel senso che l’uomo proviene dall’Assoluto. Così come il desiderio di acqua attesta che l’uomo è composto di acqua e la capacità ad utilizzare i numeri (con la matematica e la fisica, fino ad arrivare sulla luna e oltre) attesta che la realtà è composta di numeri, cioè ad entità numeriche (si pensi all’atomo e alle forme subatomiche).

Proprio questa universale propensione verso l’Assoluto l’ho spesso indicata nel mio libro, molto più modestamente, come invincibile tendenza all’Ulteriorità. La sua avvertenza è per me all’origine dell’esperienza religiosa, a partire dalla quale, secondo i condizionamenti storici, geografici, culturali (questa volta sì) si sono formate e si vanno formando le cosiddette religioni o quanto ad esse di riferisce.

Qui è la ragione e qui sono da cercare le ragioni dell’esperienza religiosa. Si potrebbe parlare persino di una “ragione religiosa”, se non si rischiasse di aggravare la già tanto inquinata sintassi linguistica in materia.

Di certo e in sintesi, anche in riferimento al nostro tema, si deve dire che qui si tratta di una ragione capace di cogliere la complessità umana, come già detto, secondo le sue molteplici dimensioni. Più concretamente di una ragione non solo sensibile agli appelli dell’interiorità e dell’esperienza umana, ma anche amica, per così dire della presagita grandezza dell’uomo e della profondità delle cose. Una ragione che non gioca al ribasso, riconoscendo come reale solo ciò che costringe l’uomo alla sua immediatezza e alla sua materialità, ma che almeno non escluda una dimensione che giustifica la stessa materialità in un più vasto orizzonte.

Una ragione insomma non nemica , ma alleata del mistero, inteso alla K. Rahner, come ricchezza e non come enigma, come elevazione e non come sprofondamento, come realizzazione umana e non come suo annichilamento.

Una ragione ancora alleata della stessa religione, verso la quale essa ed essa soltanto, può intervenire nel discernimento della religione dalle sue patologie, che sono tante, ma delle quali conosciamo alcune forme, a partire dall’esperienza storica e dalla cronaca quotidiana: fanatismo, fondamentalismo, assolutismo. A fronte di pretese forme rivelatorie o figure che si autopresentano e si autopresentino come loro ultima istanza, che esige la cieca obbedienza anche per distruggere gli altri e per distruggere se stessi, la persona umana non ha altre risorse. Ha solo la ragione, anzi la sua ragione. Non per affermare che allora non esiste religione, ma per dire coscienziosamente e responsabilmente: questa non è più religione, ma una sua devianza, una sua tragica perversione ed io in nome della ragione e della stessa religione sono tenuto a disobbedire e a disattenderla.

Una ragione in conclusione che per rispetto dell’Assoluto, smaschera le forme avvilenti nelle quali i mestieranti del sacro possono ridurla e spesso la riducono. Perciò una ragione amica non solo dell’uomo, ma amica anche “dell’altro”, del “diverso”. Potremmo dire amica dell’umanità.

Con queste linee sintetiche possiamo anche passare alla seconda parte del tema: “per quale rivelazione?”

Per quale rivelazione? In primo luogo per una rivelazione che non si presenti nelle forme già indicate. Non si può né si deve dare alcuno credito a forme di rivelazione che si presentino come nemiche dell’essere umano, nemiche della vita, nemiche dell’altro, nemiche dell’umanità. In secondo non luogo si può né si deve dare alcuno credito a una forma di rivelazione che si presenti come nemica dichiarata della stessa ragione umana.

Al contrario, nella misura in cui la rivelazione addita lo svelamento del mistero umano nel mistero svelato dalla rivelazione, essa soddisfa le esigenze di un amore che non solo fa vedere, ma fa intravedere la grandezza umana[7]. Ma tutto questo non è più riflessione sull’esperienza religiosa è già alla soglia della rivelazione medesima. Se ne parlerà più compiutamente domani. Quanto a me, mi auguro di poterlo sviluppare meglio nel mio prossimo volume che specularmene a questo oggi presentato “L’uomo sulle tracce di Dio” porterà il titolo “Dio sulle tracce dell’uomo”.


 

[1] P. B. Berger, A Rumor of Angels. Modern Society and the Rediscovery of the Supernatural, N.Y. 1969. Trad. it. Il brusio degli angeli, il Mulino, Bologna 1970.

[2] R. DI CEGLIE, Etienne Gilson. Filosofia e rivelazione, ESI, Napoli 2004. Cfr. anche ID. «Senso Comune e Verità» in

www.enricomariaradaelli.it/aureadomus/thesaurus/thesaurus_diceglieintro.htm.

[3] G.MAZZILLO, L’uomo sulle tracce di Dio. Corso di Introduzione allo studio delle religioni. Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005. Cf. www.puntopace.net/Mazzillo/presentazioneLibroTracce.htm.

[4] La stessa enciclica di Giovanni Paolo II, oltre ai tanti consensi, ha raccolto in merito alcune critiche. Così, ad esempio leggiamo: «Forse è da richiamare che FR [Fides et ratio] si accinge a esporre la sua teoria generale del rapporto teologia-filosofia all'interno del rapporto fede e ragione, come fosse un aspetto particolare di questo problema più generale» (G. Colombo «Dalla Aeterni Patris [1879] alla Fides et ratio [1998]», in Teologia 24 [1999] 251-272, qui 263). L’autore sostiene superata la linea di pensiero della Fides et ratio come era all’epoca della Aeterni Patris (1879). Senza negare gli indubbi meriti pastorali del testo, l’autore annota «In ogni caso è a questo livello che possono emergere, fastidiose, le “incongruenze” della nuova enciclica, che, da un lato, “dovendo” mantenere la continuità dottrinale con il passato, non rinuncia talvolta a mantenerne la continuità anche linguistica; ma, d'altro lato, non potendo ignorare la novità e conseguentemente la differenza culturale, deve cercarne l'adeguazione, quella possibile, rischiando la riuscita più o meno felice. Il risultato non può evitare un certo compromesso, ovviamente di là della coerenza dottrinale, o piuttosto un certo eclettismo, o forse una fatale transizione, che se però è ritenuta come la condizione necessaria per non tradire la verità, il magistero ecclesiastico non esita ad assumere, naturalmente in attesa di tempi culturali meno labili e incerti; e sapendo di esporsi alle inevitabili critiche conseguenti» (ivi, 272).

[5] Cf. le interessanti riflessioni sulla tipicità dell’uomo di E. Fromm, Psychoalise und Religion, Goldmann Verlag, Zürich 19816, orig. 1950.

[6] Cf. DOMENICO CHIANESE (presidente dell’Associazione psicoanalitica italiana) «Nuove malattie dell’anima», in Il SOLE 24 ore – DOMENICA (09-06-02), pag. 39. Reperibile anche in

www.puntopace.net/VARIE/NuoveMalattieAnima.htm.

[7] G. DE SIMONE, L’amore fa vedere. Rivelazione e conoscenza nella filosofia della religione di Max Scheler, San Paolo, Milano 2005.