Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

La Parola di Dio all’origine della Chiesa come popolo di Dio.

Relazione al convegno di Vivarium. Catanzaro 27/02/2007

Introduzione

Il ritocco dato alla formulazione del tema non è per ragioni lessicali, ma perché, alla luce di quanto si vedrà, si vuole intendere la Chiesa senza soluzione di continuità a partire dall’assemblea di Dio dell’AT. Per questa ragione si parlerà spesso di popolo di Dio, nell’accezione del Vaticano II. Inoltre “all’origine” al singolare può essere più espressivo del plurale “alle origini”, perché fa subito intendere la dipendenza del popolo di Dio dalla Parola di Dio. L’espressione “alle origini della Chiesa” poteva inoltre essere fraintesa nel senso del valore che si dava alla Parola di Dio nella Chiesa delle origini.

Nonostante queste precisazioni, occorre aggiungere che l’argomento è vasto e complesso. Vasto, perché i concetti in gioco sono tra i più ricorrenti sia nelle fonti sia nel linguaggio ecclesiale e pastorale sia nella teologia. Complesso, perché il rapporto tra essi è in una stretta e inestricabile reciprocità. La Chiesa dipende inesorabilmente dalla Parola di Dio e rimanda sempre e comunque ad essa: per le sue origini storiche ed esistenziali, per la sua identità, per la sua crescita, per il suo cammino nella storia e nel mondo, per il suo fine[1]. Senz’ombra di dubbio è la Parola di Dio a generare la Chiesa e non viceversa e tuttavia, al pari della stessa Parola, che si modella in un’espressione letteraria e in qualche maniera ad essa si condiziona, analogamente quella Parola prende forma e riceve accoglienza, “udienza”, interpretazione, discernimento e trasmissione in una Comunità, che viene a sua volta da essa configurata e modellata. In ogni caso, l’espressione che talora ricorre in qualche testo, che è anche la Chiesa a generare la Parola di Dio,  potrebbe essere retoricamente efficace, ma si può usare solo in senso analogico. Per noi sarebbe da evitare per non ingenerare confusione. Se è vero che la Chiesa risveglia la Parola nelle coscienze, la predica e la testimonia, e prima ancora la ufficializza, la interpreta, la custodisce ecc., ciò non può essere preso nel senso che è la Chiesa a “produrre” la Parola.  È vero il contrario: è la Chiesa serva della Parola e non viceversa, per tutte le ragioni che vedremo. Tutto ciò presuppone inoltre la doverosa distinzione tra la Parola di Dio nel senso più generale, in quanto “Dei Verbum”, come ci insegna la costituzione conciliare del Vaticano II che porta questo titolo, e la parola scritta, la Bibbia. Come intendere l’espressione nel nostro testo? Generalmente nel primo senso, tranne i casi nei quali si parla della Parola scritta. 

 Occorre subito aggiungere che l’argomento è anche arduo, perché i termini della questione non sono meri concetti. Sono realtà per noi vitali. Pur assumendo una visibilità e sperimentabilità umana, tanto la Parola che la Chiesa hanno un’intima, costitutiva e determinante natura trascendente. Esplorare tale natura non può non avvenire ancora una volta se non attraverso la stessa Parola di Dio, tanto scritta che trasmessa oralmente, e attraverso l’interpretazione autorevole che di essa storicamente ha dato la Chiesa, nella sua duplice componente, ben evidenziata dal Vaticano II. Cioè attraverso il sensus fidei, attribuito alla recezione universale del popolo di Dio, nell’inenarranza della recezione della fede, e attraverso il ministero magisteriale della componente gerarchica della Chiesa, secondo la gradualità della certezza dottrinale a questo ministero di volta in volta attribuito[2].  

Infine, se all’origine della Chiesa c’è comunque la Parola di Dio, tale origine può essere accostata con diversi registri, i cui principali sono a noi apparsi questi: la Parola genera, raduna, plasma, nutre, giudica e rinnova la Chiesa. Con ciò è gia emerso il nucleo portante del presente contributo. Esso mira a sviluppare, fondandolo teologicamente, il rapporto di dipendenza della Chiesa dalla Parola, sul duplice versante cui si è fatto riferimento: ciò che la Parola di Dio dice della Chiesa e ciò che la Chiesa dice della Parola di Dio. Tutto questo secondo una scansione che passa attraverso alcuni punti, evidenziati con delle suggestioni metaforiche di derivazione biblica:

1)      La Parola come radice e come áncora del popolo di Dio (creazione e progetto della Chiesa)

2)      La Parola come voce che convoca e raduna (chiamata ed alleanza del popolo di Dio)

3)      La Parola come tavola imbandita (nutrimento e accompagnamento della Chiesa)

4)      La Parola come mandorlo che veglia e preannuncia (cammino del popolo di Dio nella storia e suo discernimento)

1)    La Parola come radice e come áncora del popolo di Dio
(creazione e progetto della Chiesa)

Prendiamo l’avvio da un testo dell’Apocalisse, dove è Gesù stesso ad applicare a sé l’immagine della radice: «Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per attestarvi queste cose in seno alle chiese. Io sono la radice e la discendenza di Davide, la lucente stella del mattino» (Ap 22,16).

La radice è il Verbum Dei. È il Logos attraverso il quale e in vista del quale le cose sono state create[3]. Senza dubbio è la Parola creatrice e la Parola escatologica definitiva di ogni cosa visibile ed invisibile, di ogni realtà di natura sia singola sia sociale. Anche solo per questo motivo è stata la Parola di Dio a pensare, a volere e a creare la Chiesa.

In un contesto visibilmente parenetico, la prima lettera di Pietro invita i membri della comunità cristiana all’ascolto della verità e all’amore reciproco, sincero, intenso, con tutto il cuore, «essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna»[4]. La Parola coincide qui chiaramente con il Logos preesistente di Dio, il Logos creatore e ordinatore di ogni cosa che esiste.

Che sia stata la Parola a creare la Chiesa in quanto popolo di Dio e pertanto anche prima dell’incarnazione del Logos e che resti la sua permanente radice, è un’idea teologica non peregrina nella teologia dei padri della Chiesa e della Chiesa stessa.

Alcuni padri, pur spingendo le origini della Chiesa oltre il tempo, per l’influenza della filosofia greca, l’hanno tuttavia collegata alle origini dell’umanità, parlando della «Chiesa da Adamo», oppure della «Chiesa da Abele»[5]. Di una chiesa ab Abel, ha parlato Agostino, altri hanno optato invece per la prima soluzione.. Il Vaticano II ha toccato solo tangenzialmente il problema, cintando le due espressioni senza entrare nel merito (Cf. Lg 2). La questione potrebbe sembrare accademica e invece tale non è, perché travalica l’interesse cronologico per sfociare in quello più direttamente cristologico, fino a toccare la questione della situatività della Chiesa, che oltre ad essere da Abele, sta e deve stare dalla parte di Abele.

Restando nel campo della teologia biblica, la formulazione della creazione non solo della Chiesa, ma della creazione in quanto tale, avviene piuttosto tardivamente e solo grazie all’incontro con la cultura ellenistica, in forza di categorie idonee a reggere il peso di un pensiero astratto più raffinato. Tuttavia l’idea della Parola efficace, capace di dare nome e quindi consistenza ai progetti del Creatore, è più antica.

Come si può dimostrare con qualche riferimento precedente e al di fuori della stessa koiné greca, anche nei popoli più vicini ad Israele è presente l’idea di una parola che modella e cambia efficacemente la storia. In Egitto, ad esempio, è testimoniata la figura di un dio creatore, il dio Pta che crea «attraverso il cuore e la lingua», con un accostamento di termini altamente evocativo e tutto da scoprire; mentre della divinità di Thot si trova scritto: «quello che esce dalla sua bocca succede e quello che dice avviene»[6].

La teologia biblica vetero-testamentaria rifugge ogni idea magica nella potenza della parola in quanto tale. È Dio che realizza volontariamente e consapevolmente attraverso la sua bocca tutti i suoi disegni e non è la parola che lo costringe a fare alcunché. Con questa forte connotazione, che oggi chiameremmo personalistica, la parola di Dio in quanto debar JHWH compare 241 volte ed indica un ventaglio di concetti, che vanno dal comando di Dio, al suo precetto, alla parola rivolta ai profeti e, dal tempo dell’esilio, alla parola efficace, fino ad essere creatrice.

In conclusione, è da tener presente questo vasto contesto culturale antecedente e sottostante all’ipostatizzazione del Logos, vicino al quale compare anche il termine rema, per indicare spesso la parola codificata e, in epoca ellenista, la sofìa in quanto personificazione della sapienza creatrice e ordinatrice di Dio.

Quanto alla derivazione creaturale dell’assemblea di Dio cioè del qehal JHWH dalla sua Parola, questa volta scritta, basti qui ricordare ancora la derivazione causale delle più varie comunità dei credenti da uno o più testi scritti. Una derivazione già presente anche in molte altre religioni, spesso denominate a tipologia antropologica. Tali comunità s’identificano con i misteri in esse celebrati, ma questi misteri hanno le loro radici in ciò che Erodoto indicava come ieroi lógoi, sacri discorsi, o meglio, come «sacri testi» rivelati ai devoti[7]. In questo humus filosofico-spirituale trova origine anche l’idea del logos come origine causale dei misteri e dei riti. Si tratta di una concatenazione che, essendo antecedente al pensiero greco, ha chiaramente esercitato un influsso su di esso.

La teologia biblica sul Logos come radice della comunità si afferma con una sua caratterizzazione, che, accentuando la volontà di Dio, ne mostra anche una sorta di predisposizione benevola verso le cose e verso gli uomini. Questi sono chiamati alla singola esistenza e all’esistenza comunitaria, oppure richiamati attraverso interventi correttivi, che vanno dalle minacce alle promesse e alla loro inarrestabile realizzazione. I commentatori fanno notare nell’Antico Testamento l’insistenza di un’espressione che sottolinea nella specificità della storia d’Israele la realizzazione della Parola di Dio: «si realizzò la Parola di JHWH»[8].

Venendo agli scritti neotestamentari, in un contesto chiaramente comunitario, dove si parla d’amore reciproco e come conseguenza della pratica della giustizia, nella prima lettera di Giovanni troviamo ancora l’idea della comunità dell’amore come comunità i cui membri sono nati da Dio:

«Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio. Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama il suo fratello» (1Gv 3,9-10)[9].

L’idea della generazione dei credenti da Dio ritorna anche in altri testi del corpus joanneum, con la ciclicità approfondente che gli è propria, per mettere sempre in risalto che se non c’è vera comunione con gli altri è perché non c’è nemmeno con Dio. La prima lettera di Pietro parla, a sua volta, di rigenerazione  «mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1Pt 1,3-4); mentre la lettera di Giacomo ritorna all’iniziativa di Dio di una generazione dei credenti «con una parola di verità» (, per realizzare una «primizia delle sue creature» (Gc 1,18).

 La «parola di verità» viene qui riferita all'insieme della rivelazione di Dio agli uomini, ed altrove è chiamata nella stessa lettera anche «legge di libertà» o «legge regale» (cf. Gc 1,21-25; Gc 2,8). Così annota, ad esempio, la Bibbia di Gerusalemme, che estende il concetto del logos all’insieme della rivelazione, anche se non è da dimenticare il substrato già menzionato che collega il logos e i credenti come causa ed effetto, come radice e come rami.

Questa stessa immagine ritorna in un passaggio della costituzione del Vaticano II sulla Chiesa, la Lumen gentium, laddove la chiesa è indicata come albero dai tanti rami, la cui radice è il germe seminato da Dio, cioè la sua Parola:

«Avvenne quindi che, come un albero che si ramifica in modi mirabili e molteplici nel campo del Signore a partire da un germe seminato da Dio, si sviluppassero varie forme di vita solitaria o comune e varie famiglie, il cui capitale spirituale contribuisce al bene sia dei membri di quelle famiglie, sia di tutto il corpo di Cristo (Lg 43).

Leggendo questo testo viene in mente un passaggio del Discorso di Stefano a Gerusalemme, che parlando di Mosè, proclama:

«Egli è colui che, mentre erano radunati nel deserto, fu mediatore tra l'angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri; egli ricevette parole di vita da trasmettere a noi» (At 7,38).

Le parole ricevute tramite Mosè erano «parole di vita» per coloro che erano radunati  nel  deserto, o meglio, come recita il testo «nell'assemblea del deserto» (. È la comunità del qehal JHWH in un passo fondamentale del Deuteronomio, nell’atto assembleare costitutivo della sua identità attraverso l’ascolto delle «parole di Dio»:

«Ricordati del giorno in cui sei comparso davanti al Signore tuo Dio sull'Oreb, quando il Signore mi disse: Radunami il popolo e io farò loro udire le mie parole, perché imparino a temermi finché vivranno sulla terra, e le insegnino ai loro figli» (Dt 4,10).

Interessante è la traduzione dei LXX, che colloca l’evento «nel giorno dell’assemblea» (, «quando il Signore mi disse: raccogli in comunità davanti a me il popolo (e ascoltino le mie parole (»

 Le parole di vita dell’assemblea del deserto – argomenta Stefano – sono state disattese. Tuttavia - secondo il suo pensiero, che poi è quello di Luca, - sono tornate in auge nell’ekklesìa che si raduna intorno a Cristo, lo stesso che Stefano contempla in piedi alla destra del Padre. Proprio intorno a lui è quella chiesa contro cui si scatena a Gerusalemme la prima persecuzione, anche per mano di Saulo (At 8,1-3). A quest’ultimo il Signore chiederà conto della persecuzione con le parole:

«”Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Egli domandò: “Chi sei, Signore?” E il Signore: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”» (At 9,4-5)

Qui la radice di identifica con i suoi rami, il capo della Chiesa si dice presente nel suo corpo. E tuttavia si tratta di quell’ekklesia corrispondente e in continuità con il qehal JHWH (cf. At 5,11; Mt 16,18). Corrisponde alla «adunanza sacra»[10] ed è popolo dei santi in continuità con essa, tanto che i cristiani vengono chiamati «santi»[11], con un titolo che indica inizialmente la comunità palestinese[12] e successivamente le chiese in generale[13]. A questo proposito, è da fare un’annotazione metodologica: il termine «i santi»  compare di solito nel testo originale, è inutile cercarlo nelle traduzioni, che spesso lo rendono con «i credenti», «i fedeli» e simili.

La Chiesa è di conseguenza l’assemblea dei santi perché santa è la sua radice e santo il consiglio di Dio che l’ha progettata tale. Conserva la santità nella misura in cui resta saldamente collegata al tre volte santo e al Verbo incarnato, perché

«egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose» (Col 1,18).

Ciò non significa un’impeccabilità della Chiesa, perché la dimensione umana in essa presente la espone continuamente all’allontanamento dalla sua origine, da Cristo e dal suo vangelo. Lo riconosce con umiltà e realismo il Vaticano II, quando scrive:

«Ma mentre Cristo, “santo, innocente, immacolato” (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento»[14].

Si tratta di un cammino che nello stesso concilio passa attraverso la «riforma della Chiesa», un’espressione senz’altro travagliata e sofferta nel confronto intercofessionale, ma che trova finalmente diritto di cittadinanza anche nei testi ufficiali della Chiesa cattolica[15]. Essa riconduce il valore del movimento ecumenico all’indispensabile riferimento alla comune sorgente, dal momento che afferma:

«Siccome ogni rinnovamento della chiesa consiste essenzialmente nell'accresciuta fedeltà alla sua vocazione, esso è indubbiamente la ragione del movimento verso l'unità»[16].

La conseguenza è l’immediato richiamo alla conversione continua della Chiesa, sicché:

«La chiesa pellegrinante sulla terra è chiamata da Cristo a questa perenne riforma di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha continuo bisogno»[17].

In conclusione, il costante e sempre da intensificare legame a Cristo è per la Chiesa la garanzia della sua fedeltà e richiamo alla sua continua riforma. Cristo, Parola di Dio fattasi carne e storia umana, è per essa l’origine e l’áncora alla quale restare saldamente aggrappata. Con quest’immagine si può riassumere quanto finora detto, facendo riferimento al brano della Lettera agli Ebrei, che parlando dell’irrevocabilità del progetto di Dio menziona la solida speranza alla quale essa deve continuamente aggrapparsi, come ad un’áncora, immagine che nell’iconografia successiva evocherà senza dubbio questo concetto teologico:

«In essa infatti noi abbiamo come un’àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell'interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore, essendo divenuto sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchìsedek» (Eb 6, 19-20).

2)    La Parola come voce che convoca e raduna
(chiamata ed alleanza del popolo di Dio)

Il decreto del Vaticano II sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio ci ha già offerto l’aggancio a questa seconda linea d’approfondimento, con queste parole:

«Ecclesia in via peregrinationis vocatur a Christo ad hanc perennem reformationem».

La Chiesa è non solo creata dal Verbo di Dio che è Cristo, ma è anche continuamente chiamata (vocatur) da lui. Lo è sulla strada del suo peregrinare tra i due eoni che segnano la venuta del Signore nel mondo e il suo ritorno alla fine dei tempi.

La chiamata si collega all’immagine della voce attraverso la quale la Parola convoca e raduna il popolo di Dio. È la voce di Dio menzionata in numerosi passi dell’AT, in particolare quella udita ai piedi del Sinai da quel popolo che Dio sceglieva e al quale offriva le sue parole, messe per iscritto, tanto che la sua comunità poteva esclamare:

«Ecco il Signore nostro Dio ci ha mostrato la sua gloria e la sua grandezza e noi abbiamo udito la sua voce dal fuoco; oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l’uomo e l’uomo restare vivo» (Dt 5,24).

Si tratta di una voce con la quale Dio parla dal fuoco per plasmare il suo popolo, la stessa che aveva mandato Mosè a liberarlo dalla schiavitù, parlandogli da un roveto ardente[18], è la voce che tuona potente contro i nemici della sua comunità minacciata di essere sterminata in guerra[19], è la voce udita da Elia, in un momento critico per la sua vita personale e per l’identità religiosa del suo popolo. In questo caso si tratta, testualmente, di una «voce di silenzio sottile»[20], una voce che è silenzio penetrante che congiunge l’ineffabile Trascendenza di Dio e con la sua percezione da parte del profeta. Ma altrove è anche la voce del tuono che attesta una grandezza ineguagliabile, come Dio stesso dichiara a Giobbe[21].

Ma per non perderci dietro il tema biblico anch’esso vastissimo della voce, basterà qui ricordare, con Siracide, che al suo popolo Dio

«fece udire la sua voce; lo introdusse nella nube oscura e gli diede a faccia a faccia i comandamenti, legge di vita e di intelligenza, perché spiegasse a Giacobbe la sua alleanza, i suoi decreti a Israele» (Sir 45,5).

La Parola qui è voce che parla ed agisce, offre l’alleanza e chiede che essa sia trasmessa alle future generazioni; è la stessa voce che parlava a Mosè:

«Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono» (Es 19,19).

Si tratta di quella Voce che s’identifica nel vangelo di Giovanni con la Parola, che i farisei non accolgono  e che pertanto non dimora in loro[22], quello stesso Logos che invece, Giovanni dice «venne ad abitare in mezzo a noi» , cioè in coloro che costituiscono la prima comunità che si raccoglie intorno a Gesù. È la stessa Parola di Dio che prende dimora  in coloro, che come i giovani della prima lettera di Giovanni gli danno spazio e si rendono forti, vincendo il maligno[23].

L’assemblea di Dio nasce anche nel NT ascoltando quella voce che s’identifica con la Parola, una parola che già nell’AT non era solo fonte di spavento e di terrore, ma anche, come abbiamo visto, parola di convocazione e di predilezione. Ed è questa predilezione che affiora anche con la parola di Gesù, con la Parola che è Gesù, mostrandosi in primo luogo come voce che chiama i derelitti, gli affaticati e gli oppressi:

«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,28-30);

mentre il vangelo di Giovanni riporta: «Nell'ultimo giorno, il giorno più solenne della festa, Gesù stando in piedi esclamò: «“Se qualcuno ha sete, venga a me e beva”» (Gv 7,37).

La voce che convoca gli affaticati e gli oppressi è in continuità con la voce che aveva convocato gli oppressi per liberarli dalla schiavitù egiziana.

La raccolta da parte della Parola di Dio del suo popolo per la liberazione è infatti un altro degli effetti teologici più importanti per il discorso che qui si sta facendo.

Dell’adunanza del popolo di Dio ad opera della sua Parola o della sua volontà salvifica si parla spesso anche nel NT. Dio raduna la sua comunità in vari modi. Per suo ordine Mosè la raduna per dissetarla presso il pozzo di Beer (cf. Nm 21,16), e quando più tardi i suoi membri saranno dispersi tra le genti, Dio stesso ne avrà misericordia e li radunerà da ogni terra, secondo la commovente testimonianza di Tobi (cf. Tb 13,5); un’idea che troviamo espressa anche nei Salmi (cf. Sal 107,3; Sal 147,2) e in numerosi passi dei profeti. In Isaia si parla degli espulsi e dei superstiti che saranno radunati direttamente da Dio per bocca dello stesso profeta (cf. Is 11,12; Is 43,5; Is 45,20; Is 49,18; Is 56,8); fino all’immagine toccante di Dio come pastore attento ai bisogni del suo popolo (un tema che sarà ripreso da Gesù), tanto da portare sul petto gli agnelli e condurre con delicatezza le pecore madri (cf. Is 40,11). Quanto a Geremia, egli menziona spesso la dispersione come espediente pedagogico perché lo stesso popolo, ravvedutosi, cerchi il suo Dio con tutto il cuore e possa essere condotto con giustizia e mitezza (cf. Ger 29,14; Ger 23,3-6), ascoltando finalmente quella sua parola che è l’unica a poterlo radunare e condurre ad una situazione di vera rifioritura materiale e spirituale[24]. Allora Dio proclamerà con la fierezza e la commozione di chi lo ha ricostituito: «Essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio» (Ger 32,38). È un tema ripreso anche da Ezechiele, che annota nel popolo di Dio rinnovato la presenza di un cuore nuovo e uno spirito nuovo (cf. Ez 11,17-20)[25], mentre il libro di Neemia ci presenta una sorta di immagine plastica della continua rigenerazione e dipendenza del popolo di Dio dalla sua Parola, mostrandolo radunato, commosso e assenziente intorno ad Esdra e i leviti che leggono il “libro della legge”. È un popolo che, dopo il nutrimento della parola, viene mandato a nutrirsi di cibo e di vino, facendone parte anche agli indigenti (Ne 8,5-12).

Le adunanze della comunità cristiana testimoniate soprattutto nel libro degli Atti hanno tutto ciò sullo sfondo. Ad Antiochia, «dopo la lettura della legge e dei profeti» , annota Luca (At 13,15), Paolo annuncia solennemente il vangelo al popolo là radunato. Esso si ritrova numeroso il sabato successivo, «per ascoltare la parola di Dio» (At 13,44). La gelosia di una parte dei giudei, offre a Paolo e agli altri la motivazione definitiva per rivolgersi ai pagani, tanto che «la parola di Dio si diffondeva per tutta la regione» (At 13,42).

Il ritrovarsi dell’ekklesìa è descritto come il ritrovarsi dei fratelli, fin da quando Pietro si alza nell’assemblea per proporre di rimpiazzare Giuda[26], mentre Paolo scrive ai Corinzi di sentirsi radunato con loro nel nome del Signore Gesù e con il suo spirito, al punto di poter allontanare l’incestuoso (1Cor 5,4-5). Il suo intervento è contestuale alle adunanze di quella comunità, che sono numerose e regolari[27] ed in funzione della celebrazione della cena del Signore, rispetto alla quale Paolo non manca di fare le sue osservazioni fortemente critiche (1Cor 11,17-22). Anche nei saluti delle sue lettere compare il tema della comunità, come quelle dell’Asia (e quella che si raduna nella casa di Aquila e Prisca ((1Cor 16,19)[28]

In ogni caso, la Parola di Dio è determinante anche nella chiesa primitiva, fino ad esserne la sua origine sia per la parola degli Apostoli, che dichiaratamente trasmettono quanto hanno ricevuto riconducendolo a Gesù, come parola del Signore[29], sia per i loro continui richiami agli scritti dell’AT, ai quali attribuiscono ugualmente il valore di parola di Dio[30].

 È su questa base scritturistica che l’epistolario paolino applica ai cristiani tutte le prerogative teologiche che erano già state degli ebrei, cominciando da quello già accennato dell’ekklesìa come l’insieme dei “chiamati” del Signore Gesù . Ad essi vengono immediatamente augurate e dunque attribuite dall’apostolo «grazia … e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo», mettendo sullo stesso piano Gesù e il Padre , sicché essi sono «chiamati da Dio e santi per vocazione» (

Le prerogative teologiche della Chiesa, in continuità e come nuova tappa storica del popolo di Dio, non devono giustificare una sorta di auto-apologia della stessa. Come dimostrano i rimproveri alla comunità di Corinto e agli stessi Galati[31], la Chiesa pur essendo comunità dei santi, ha sempre bisogno, come abbiamo già visto, di continua purificazione. Se ora ce ne chiediamo il motivo, scopriremo che in continuità con il qehal JHWH, richiamato continuamente all’alleanza e alla legge, l’ekklesìa è richiamata incessantemente alla sequela di Gesù, per la semplice ragione che – come vedremo subito – essa rimane l’assemblea dei suoi discepoli. Per questo deve nutrirsi della sua Parola e del suo Pane, o meglio di Cristo risorto, che è Parola e Pane.

3)    La Parola come tavola imbandita
(La Chiesa deve lasciarsi nutrire e accompagnare da Cristo)

Tra le numerose denominazioni della Chiesa nel NT troviamo anche quella della  comunità dei discepoli e dei fratelli. I due termini sono solo in apparenza concettualmente lontani. In realtà, considerando la sequela di Gesù come fonte unica tanto dell’amore che della fratellanza, ci rendiamo subito conto che a costituire la sua comunità sono coloro che si amano (o dovrebbero amarsi) e pertanto sono fratelli. Ma perché ciò avvenga occorre sempre restare alla sua scuola, cioè essere suoi discepoli. È proprio tale continuo discepolato a rendere non solo qualificata, ma anche credibile la Chiesa. Dimenticare questo punto significa non solo allontanarsi da Cristo, Signore e Maestro della Chiesa, ma mettere in crisi la natura e identità della stessa.

Il primo nutrimento è, di conseguenza, quello della Parola di Dio, e  resterà veramente tale ad una condizione: che i cristiani, sia nella componente cosiddetta gerarchica che in quella cosiddetta laicale, si considerino discepoli e restino sempre tali.

Dei seguaci di Gesù come discepoli  ci parlano anche innumerevoli passi dei Vangeli[32]. Né è scontato che essi restino sempre con lui. Come dimostra il seguito del discorso sul pane come carne data loro da mangiare e sul vino come sangue da bere, a quest’annuncio non pochi cominciarono ad entrare in crisi, oltre che a mormorare (Gv 6,61), tanto che alcuni si trassero indietro e non seguirono più Gesù (Gv 6,66).

A questo punto ci permettiamo un inciso. La situazione di noi discepoli di oggi sembra del tutto rovesciata. A nessuno verrebbe in mente di allontanarsi dal Signore per la difficoltà di nutrirsi del suo corpo e del suo sangue, come succedeva ai discepoli d’allora; tale partecipazione conviviale è scontata ed è diventata rituale. Di fatto però pur partecipando alla ritualità del banchetto, rischiamo sempre di tralasciare il nutrimento della Parola, quella stessa che Gesù dispensava in abbondanza, prima ancora di distribuire il pane[33].

C’è un passaggio del Vangelo Giovanni che è particolarmente espressivo sulla inestricabile relazione che sempre ci deve essere tra la fedeltà alla Parola di Dio e il restare al seguito di Gesù, insomma: restare fedeli alla sua parola per essere suoi discepoli:

Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).

La Chiesa di oggi e di sempre resterà nel discepolato del Signore solo e nella misura in cui resterà fedele alla sua Parola. Questa Parola la aprirà alla verità e la verità la farà libera.

La partecipazione alla mensa eucaristica, pur fondamentale, da sola non basta. Deve essere sempre preceduta e di nuovo accompagnata dalla partecipazione alla mensa della Parola. Anche su questo punto dobbiamo al Vaticano II l’ufficializzazione testuale, di ciò che oltre al Vangelo avevano sostenuto alcuni padri della Chiesa:

«La chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non tralasciando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita prendendolo dalla mensa sia della parola di Dio sia del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra tradizione, la chiesa ha sempre considerato le divine Scritture e le considera come la regola suprema della propria fede»[34].

La teologia della duplice mensa per il nutrimento del popolo di Dio si collega a quella della presenza di Cristo nella sua parola, sottolineata dalla costituzione Sacrosanctum Concilium [35], la quale non tralascia di annotare che la liturgia deve essere sempre in profonda sinergia con la conversione derivante dall’ascolto[36].

Tutto ciò offre l’occasione per accennare il tema della manducazione della Parola, riconducendo quest’ultima all’investitura dei profeti. Dopo Isaia, la cui bocca era stata toccata dall’angelo (Is 6,5-7), Geremia riceve le parole sulla sua bocca[37]. Successivamente confesserà:

«Quando le tue parole vennero (traduzione abituale: furono trovate) le mangiai; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio dell’universo» (Ger 15,16).

Un celebre brano di Ezechiele, visualizza l’idea della manducazione della Parola di Dio:

«Mi disse: “Figlio dell'uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d'Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell'uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele. Poi egli mi disse: “Figlio dell'uomo, và, recati dagli Israeliti e parla ad essi con la mia parola”» (Ez 3,1-4)[38].

In ogni caso, Dio manda i profeti in soccorso del suo popolo. Essi recano alla comunità parole venute dall’alto, da assimilare, e che pur potendo risultare amare, sono parole destinate ad alimentare lo stesso popolo per ricostruire quanto era stato distrutto.

Nel NT oltre all’Apocalisse, che riprende quasi testualmente la visione di Ezechiele[39], si potrebbe dire che l’idea della Parola di Dio, venuta dall’alto verso il suo popolo, sempre da accogliere e da assimilare, fa da sfondo tanto al discorso del pane vivo disceso dal cielo del vangelo di Giovanni che all’ultima cena.

A quanti lo cercano per continuare a ricevere il pane terreno, Gesù indica chiaramente il pane che bisogna chiedere e cercare:

«Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo» (Gv 6,27).

Indicando nella manna del deserto la prefigurazione di questo pane, Gesù dichiara: «il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6,33) e ancora più precisamente:

«Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6,35).

La cena con i suoi discepoli realizza queste parole. Il vangelo di Giovanni, che, com’è noto, non riporta la cosiddetta istituzione dell’eucaristia, ne riferisce però a chiare lettere l’idea che l’accompagna e alla quale facevamo riferimento: deve essere assimilata dai suoi discepoli, nucleo della sua ekklesìa, la sua parola, quella che egli ha annunciato e che ora lascia alla sua Chiesa:

«Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi… Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Gv 15,3-4.7).

E rivolgendosi direttamente al Padre, di lì a poco Gesù aggiunge:

«le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato» (Gv 17,8).

Arrivati a questo punto della nostra riflessione, possiamo teologicamente individuare due momenti determinanti nell’intreccio tra la Parola e il pane eucaristico. Si possono indicare come due tappe di un unico movimento: la prima è quello della Parola, del Logos, che diventa carne, la seconda è quella del Cristo, ormai Verbo incarnato, carne umana divinizzata che si fa pane e nutrimento per gli uomini. Il diventare carne umana del Verbo, comporta il passaggio dal silenzio trascendente alla Parola udibile umanamente; il diventare Pane da parte di Cristo è in qualche modo il passaggio inverso: è il passare dalla Parola al silenzio, perché quel silenzio faccia fermentare, assimilare e testimoniare la Parola.

La Chiesa, per restare veramente tale, deve mangiare non solo il pane eucaristico, ma la parola di Dio. Deve nutrirsi del Dio fattosi carne e fattosi pane per la vita del mondo, per potersi fare a sua volta pane di vita per il gli uomini. In quest’interconnessione inscindibile tra Parola e Pane eucaristico occorre mangiare la Parola e ascoltare il silenzio di un Pane che parla.

4)    La Parola come mandorlo che veglia e preannuncia
(cammino del popolo di Dio nella storia e suo discernimento)

Con ciò siamo arrivati all’ultimo punto della nostra riflessione, per presentare la Parola di Dio come promessa e giudizio, come discernimento e salvezza del mondo.

Alla base di quest’affermazione c’è l’idea che Dio non abbandona il suo popolo, così come non l’ha mai abbandonato nel passato. Essendo il suo Dio, egli è anche la sua forza, la sua roccia, il suo salvatore[40], è un Dio che salva[41].

È un Dio che vigila come ramo di mandorlo sull’adempimento della sua parola:

«Poi la parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: “Geremia, che cosa vedi?” Io risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. E il Signore mi disse: “Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per mandarla ad effetto”» (Ger 1,11-12).

La fierezza di Israele di essere il popolo che appartiene a Dio si congiunge, soprattutto all’epoca dell’esilio, a quella di essere riferimento anche per gli altri popoli della terra. Attraverso la sua storia Dio interviene anche nella storia dei popoli che hanno a che fare con esso, per giudicare e modificare gli eventi. Egli è un Dio, che giudica i popoli[42], ma che ha a cuore anche il loro destino[43], interviene storicamente attraverso il re pagano Ciro, chiamato da lui “mio eletto” (Is 45,1-7), e in Abramo aveva predisposto una benedizione che si estenderà a tutte le genti[44].

Tutto ciò non rimane una promessa vaga e il NT lo dimostra, fino al punto che nell’Apocalisse si anticipa la realizzazione di queste parole nella visione della grande moltitudine dei salvati proveniente da tutte le genti[45].

In ogni caso la parola profetica, che abbiamo già menzionato è una parola che attraversa la storia degli uomini, per giudicarla, richiamarla, salvarla[46].

Sembra appropriata quella sintesi che in sede di teologia biblica recita:

«La parola profetica della profezia che plasma la storia, la parola dell’alleanza che l’afferra e istruisce gli uomini, come pure la parola creatrice di Dio, che definisce la natura e il suo ordinamento, tutte insieme compendiano la rivelazione di Dio nell’AT[47]».

Tutto ciò nell’AT e per ciò che riguarda il NT? Si può sintetizzare anche questo complesso tema, dicendo che la Parola come promessa, giudizio e garanzia del futuro caratterizza anche il NT, non solo perché con la venuta di Gesù si compiono delle promesse antiche, ma perché osservando gli eventi in una prospettiva teologica, si coglie in essi il senso complessivo della storia delle genti, contenuto nella stesse promesse rivolte ad Abramo e ad Israele[48]. Si coglie, a dire di Paolo, l’anelito verso il compimento che sale da ogni creatura. È l’anelito di ogni essere umano, che in Cristo è divenuto figlio di Dio e che, con la stessa natura, è in travaglio per perseguire la completa liberazione[49]. Questa presenza della dynamis della risurrezione di Cristo nella storia umana costituisce la base della teologia dei segni dei tempi, veri e propri momenti privilegiati di salvezza (kairòi)[50]. Segni che comunque bisogna saper leggere negli avvenimenti storici e alla luce della Parola di Dio.

La Gaudium et spes ne parla fin dal n. 4 in questi termini:

«Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico»[51]

La Parola di Dio appare dunque determinante, tanto che a ragione qualcuno afferma che è venuto il tempo di una «priorità dell’annuncio della Parola di Dio, della liturgia e della diaconia sulla dottrina»[52]. In questa direzione può e deve procedere la ricerca ecclesiologica, in ordine a ciò che viene indicato come di «strutturazione ecumenica delle Chiese»[53].

Certamente la Parola di Dio è anche discernimento e, come tale, non solo merita approfondimento teorico, ma esige anche una prassi ecclesiale conseguente[54]. Si tratta di una prassi che resta tanto più coerente quanto più resta ancorata alla Parola di Dio, e in questa maniera contribuisce ad edificare sia la Chiesa sia la città degli uomini.

Lo ha detto a chiare lettere anche Benedetto XVI, affermando:

«… senza la Parola di Dio non c'è né città né comunità; dall'altra parte, la Parola di Dio non resta solo discorso, ma conduce ad edificare, è una Parola che costruisce»[55].

È infatti la Parola di Dio, di cui occorre sempre nutrirsi[56], a generare continuamente nella comunità dei credenti l’impegno per costruire anche la città, una città che non cresca sotto il segno della civiltà violenta di Caino, ma nel senso della civiltà nonviolenta di Abele[57]. Ma come fare a riconoscere i due contrastanti orientamenti e come decidere da che parte stare nel continuo mutare delle situazioni storiche e dei suoi protagonisti?    

Su questo argomento si è spesso interrogata, in maniera più esplicita, la Chiesa in Italia a partire dal convegno di Palermo del 1996. La nota pastorale, Con il dono della carità dentro la storia parla espressamente del discernimento comunitario, in un passaggio che appare per noi fondamentale, perché coniuga l’ascolto della Parola di Dio e l’interpretazione dei segni dei tempi[58].

È a partire da questo duplice ascolto che riteniamo sia possibile recuperare il senso più genuino della finalità della Chiesa come servizio, vera diakonia, nei confronti del mondo per il quale, al pari di Gesù, deve impegnarsi in una attività sempre più efficacemente comunicativa che germoglia però in una prassi indispensabilmente testimoniale[59]. Se Urs Von Balthasar poteva scrivere, decenni addietro, che «credibile è solo l’amore», si può dire oggi che credibile è nella Chiesa solo l’amore che essa attinge continuamente dalla Parola del Signore Gesù, di cui riscopre e segue lo stile e il passo, rivisitando innanzi tutto ciò che è chiamato esercizio di potere, il cosiddetto munus. Per la Chiesa è infatti prescrittiva la sua impostazione, nel senso dell’auctoritas e non della pura e semplice potestas[60]. In effetti l’autorevolezza nasce e si radica nella Parola e solo per questa via può diventare sequela. La sequela Christi trasmette alla Chiesa quella piena potestas di Gesù (pasa exousìa), il quale per l’umanità ha dato tutto se stesso e richiede ai suoi discepoli di fare altrettanto, mandandoli ad annunciare una buona notizia, l’euangelion (Mt 28,18), che dispiega nei gesti ciò che spiega nelle parole: l’aver cura degli uomini e liberare gli oppressi (Mc 16,15-18).

Se «una svolta ecclesiologica» è stata ravvisata nell’ecclesiologia contemporanea[61], è tempo anche di una svolta ecclesiale, che riscoprendo il valore dell’impegno storico della Chiesa come popolo di Dio, si applichi con fedeltà ad annunciare il vangelo anche a se stessa, come sottolineava Giovanni Paolo II, a proposito dei presbiteri e dell’intera Chiesa, con espressioni che non hanno perso la loro validità:

«Proprio perché evangelizza e perché possa evangelizzare, il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato»[62].

Come si potrà fare ciò e a quale condizione? A quella condizione primaria, che sia questo intervento sia l’intero convegno tendono a sottolineare: a condizione di restare nel solco della Parola di Dio. Precedentemente, nello stesso paragrafo infatti troviamo:

«Solo “rimanendo” nella Parola, il sacerdote diventerà perfetto discepolo del Signore, conoscerà la verità e sarà veramente libero, superando ogni condizionamento contrario od estraneo al Vangelo».

Per aggiungere che

«Il sacerdote dev'essere il primo “credente” alla Parola, nella piena consapevolezza che le parole del suo ministero non sono ”sue”, ma di Colui che lo ha mandato. Di questa Parola egli non è padrone: è servo. Di questa Parola egli non è unico possessore: è debitore nei riguardi del Popolo di Dio».

Se ciò che si dice del “sacerdote” vale per tutti, qui si parla di un popolo di Dio, che anche nel suo lessico e nel suo significato è assolutamente da recuperare[63].

È tanto più importante per superare una sorta di ovattato e diffuso individualismo pastorale, che si insinua talora e nonostante le migliori intenzioni e che può momentaneamente gratificare singoli e gruppi, ma non è nel solco né della Parola di Dio né della Chiesa conciliare. Proprio questa, riscoprendo la sua stretta dipendenza dalla Parola, afferma che la presenza dei cristiani nella storia non si può vivere come Chiesa di fronte al mondo, ma come Chiesa nel mondo o, meglio ancora, come Chiesa per il mondo, cioè per la sua salvezza e per la salvezza del suo futuro[64].


 

[1] In questo senso è da intendere ciò che è stato prodotto in testi come ad esempio: ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA,  «A misura di Vangelo». Fede, dottrina, Chiesa, a cura di M. Vergottini, San Paolo 2003, Milano 2005; IDEM, Annuncio del Vangelo forma ecclesiae, San Paolo, Milano 2005.

[2] Lg 12: «La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo (mediante supernaturali sensu fidei totius populi), quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3),  con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella vita».

[3] Col 1,16: «…per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui ».

[4] 1Pt 1,22-23: «Dopo aver santificato le vostre anime con l'obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna». È interessante annotare anche i termini originali di questo brano così denso: «».

[5] Cf. Y. Congar, «Ecclesia ab Abel», in IDEM, Festschrift für Karl Adam, Düsseldorf 1952,79‑108.

[6] L’associazione della parola (nella variante della “bocca” o della “voce”) a una sua intima forza che la rende efficace è documentata oltre che in Egitto, anche in Siria e Babilonia. Cfr. B. KLAPPERT, «Parola/, in AA.VV., Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 19914 , 1165. Sono ivi reperibili anche le citazioni egiziane riportate.

[7] Cf. Cfr. B. KLAPPERT, cit., che alla pag. 1163 riporta questa ed altre interessanti testimonianze, dove è innegabile il collegamento tra rivelazione e ritualità e la derivazione di questa da quella.

[8] Cf. ivi, 1167, che parla di 113 passi dell’AT nei quali la parola realizza l’evento. Cf. anche G. ZIENER, Parola, in AA. VV., Dizionario di teologia biblica, Morcelliana, Brescia 1962.

[9] Cf. 1Gv 3,9; 1Gv 5,1.

[10] Cf. Es 12,16: «Nel primo giorno avrete una convocazione sacra; nel settimo giorno una convocazione sacra: durante questi giorni non si farà alcun lavoro; potrà esser preparato solo ciò che deve essere mangiato da ogni persona»; Lv 23,3: «Durante sei giorni si attenderà al lavoro; ma il settimo giorno è sabato, giorno di assoluto riposo e di santa convocazione»; Nm 29,1: «Il settimo mese, il primo giorno del mese terrete una sacra adunanza».

[11] Cf.,·a titolo d’esempio, At 9,13, dove compare l’espressione «ai tuoi santi in Gerusalemme». In realtà a partire da Dio, la radice santa, sono santi quanti lo servono (cf. Lv 17,1), così come santo è il popolo di Israele (Es 19,6), nella sua forma particolare di comunità  dei  tempi  messianici  (Dn 7,18) nella quale si identifica la ekklesìa come comunità di santi (1Pt 2,5; 1Pt 2,9 ), di chiamati (Rm 1,7; 1Cor 1,2; Ef 1,4), 2Tm 1,9; Mt 3,1 ), di consacrati attraverso il battesimo (Ef 5,26s ).

[12] Cf. At 9,13; At 9,32; At 9,41; Rm 15,26; Rm 15,31; 1Cor 16,1; 1Cor 16,15; 2Cor 8,4; 2Cor 9,1; 2Cor 9,12.

[13] Cf. Rm 8,27; Rm 12,13; Rm 16,2; Rm 16,15; 1Cor 6,1s; 1Cor 14,33; 2Cor 13,12; Ef 1,15; Ef 3,18; Ef 4,12; Ef 6,18; Fil 4,21s; Col 1,4; 1Tm 5,10; Fm 1,5; Fm 1,7; Eb 6,10; Eb 13,24; Gd 1,3.

[14] Lg 8.

[15] Cf. L’approfondimento sulle convergenze tra alcune espressioni della Dei Verbum e quelle di Martin Lutero in SALVADOR PIÉ-NINOT, «Unicità della parola e pluralità dei linguaggi», ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA,  «A misura di Vangelo»,cit., 98ss.

[16] Ur 6.

[17] Ivi, con l’interessante espressione latina: «Ecclesia in via peregrinationis vocatur a Christo ad hanc perennem reformationem qua ipsa, qua humanum terrenumque instituto perpetuo indiget».

[18] Cf. Es 3,1-10ss.

[19] 1Sam 7,10: «Mentre Samuele offriva l'olocausto, i Filistei si accostarono in ordine di battaglia a Israele; ma in quel giorno il Signore tuonò con voce potente contro i Filistei, li disperse ed essi furono sconfitti davanti a Israele». Cf. anche 2Sam 22,14-15 e per ciò che riguarda i profeti Is 30,31; Is 66,6.

[20] Traduzione letterale, come si evidenzia in G. Ravasi, «Pagine alla ricerca del silenzio», in Domenica- Sole 24 ore (1 agosto 199) 29, che recensisce S. Lombardini, La voce del silenzio, Interlinea (tel 0321-612571), Novara 1998. La voce di silenzio sottile è presente solo come residuo in alcune traduzioni. In realtà a partire dal greco e latino si inserisce il «vento leggero» Cf. inglese still small voice, francese murmure doux et léger, greco   , latino sibilus aurae tenuis.

[21] Gb 40,9 «Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua?». Cf. anche Sal 68,34; Sal 93,4. e per i profeti Ger 10,13; Ger 51,16; Gl 4,16.

[22] Giovanni 5,37- 38: «E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato»; cf. Gv 8,37 .

[23] 1Gv 2,14: «Ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre. Ho scritto a voi, padri, perché avete conosciuto colui che è fin dal principio. Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno».

 [24] Ger 31,10-12: «Ascoltate la parola del Signore, popoli, annunziatela alle isole lontane e dite: “Chi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come fa un pastore con il gregge”, perché il Signore ha redento Giacobbe, lo ha riscattato dalle mani del più forte di lui. Verranno e canteranno inni sull'altura di Sion, affluiranno verso i beni del Signore, verso il grano, il mosto e l'olio, verso i nati dei greggi e degli armenti. Essi saranno come un giardino irrigato, non languiranno più».

[25] Cf anche Ez 20,34; Ez 34,12; Ez 34,13; Ez 36,24; Ez 37,21 e Mi 4,6; Na 3,18; Sof 3,19s.

[26] Atti 1,15-16: «In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli (il numero delle persone radunate era circa centoventi) e disse: “Fratelli, era necessario che si adempisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, che fece da guida a quelli che arrestarono Gesù”».

[27] Cf. 1Cor 5,4; 1Cor 11,33s; 1Cor 14,26.

[28] Cf. anche Col 4,15; Fm 1,2.

[29] Cf., ad esempio, 1Tss 4,15 «Poiché vi diciamo questo fondandoci sulla parola del Signore: che noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati; 1Cor 7,25 «Quanto alle vergini non ho comandamento dal Signore; ma do il mio parere, come uno che ha ricevuto dal Signore la grazia di essere fedele»; 1Cor 11,23: «Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane…»; Gal 1,12 «perché io stesso non l'ho ricevuto né l'ho imparato da un uomo, ma l'ho ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo».

[30] Esemplare è a riguardo quanto Paolo scrive a Timoteo: «… fin dall'infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia…» (2Tm 3,15-16).

[31] Per questi ultimi cf. Gal 3,1: «O Galati insensati, chi vi ha ammaliati, voi, davanti ai cui occhi Gesù Cristo è stato rappresentato crocifisso?».

[32] A titolo d’esempio, cf. per Matteo: Mt 5,1; Mt 8,21; Mt 9,10; Mt 12,2; Mt 13,36; Mt 14,19; Mt 17,16; Mt 18,1; Mt 19,13; per Marco: Mc 5,31; Mc 7,17; Mc 9,28; Mc 9,31; per Luca: Lc 6,17; Lc 8,22; Lc 9,18; Lc 12,1; Lc 12,22; Lc 19,37; per Giovanni: Gv 2,11; Gv 2,12; Gv 4,27; Gv 6,61;; Gv 9,27; Gv 12,16; Gv 18,19; Gv 18,25.

[33] Cf. Mc 6,34 «Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose». Ciò avviene immediatamente prima della distribuzione dei pani e dei pesci.

[34] Dv 21.

[35] Cf. Sc 7: «(Cristo) è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura. E' presente, infine, quando la chiesa prega e salmeggia, lui che ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”» (Mt 18,20).

[36] Sc 9: «La sacra liturgia non esaurisce tutta l'azione della chiesa. Infatti, prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, è necessario che siano chiamati alla fede e alla conversione: “Come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati?”» (Rm 10,14-15).

[37] Ger 1,9: «Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca e il Signore mi disse: “Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca”».

[38] La traduzione evidenziata è ripresa da La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali II, Antico Testamento, Paoline, Cinisello Balsamo 1991.

[39] Cf. Ap 10,8-11.

[40] Cf. Sal 18, 3; Sal 27, 1.

[41] Sal 68,21-22: «Il nostro Dio è un Dio che salva; il Signore Dio libera dalla morte. Sì, Dio schiaccerà il capo dei suoi nemici, la testa altèra di chi percorre la via del delitto».

[42] Cf. Sal 7,8.

[43] Cf. Am 9,7; Is 19, 23-25: «In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: "Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità"».

[44] Abramo ne sarà il segno e il punto di riferimento: «Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gen 22,18; cf, 28,14).

[45] Ap 7,9: «Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani».

[46] Un esempio interessante di attualizzazione del messaggio biblico nel nostro tempo è offerto in W. HOWARD-BROOK  - A. GWYTHER, L’impero svelato. Riscoprire la forza dell’Apocalisse per il nostro tempo, Editrice Missionaria Italiana (EMI), Bologna 2001.

[47] B. KLAPPERT, cit., 1165.

[48] Cf., ad es., Rm 15,8:  «Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio, per compiere le promesse dei padri»;  Gal 3,16; Eb 6,13.

[49] Rm 8,17: «E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio».

[50] Cf. G. RUGGIERI, «La teologia dei “segni dei tempi”: acquisizione e compiti», in Teologia e storia: l’eredità del ‘900, a cura di G. Canobbio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002, 33-77.

[51] Cf. anche Gs n. 46 per l’identificazione di alcuni di essi.

[52] H.-J. SCHULZ, «La priorità dell’annuncio della Parola di Dio, della liturgia e della diaconia sulla dottrina», in Concilium 37 (2001/3) 52-66.

[53] Cf. l’intera rivista dedicata a quest’argomento di Concilium 37 (2001/3).

[54] Cf. G. MAZZILLO, «La riflessione sulla Chiesa nell’attuale contesto storico», in Vivarium 11 ns (2003) 65-77.

[55] BENEDETTO XVI, Omelia per la II Domenica di Avvento, 10 dicembre 2006, nella visita pastorale alla parrocchia romana “Santa Maria stella dell’evangelizzazione”, cit. da www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2006/documents/hf_ben-xvi_hom_20061210_star-evangelization_it.html.

[56] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Novo millennio ineunte, n. 40. «Nutrirci della Parola, per essere “servi della Parola” nell'impegno dell'evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all'inizio del nuovo millennio. È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una “società cristiana”, che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l'umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza».

[57] Cf. G. MAZZILLO, «La città di Caino e la comunità di Abele», in AA. VV., Mediterraneo… mare di approdi o di frontiere?, a cura di M. De Grazia, La Modernissima F.lli Gigliotti, Lamezia Terme 2006, 213-223 (testo reperibile anche in www.puntopace.net/Mazzillo/acquavona-29-08-03.htm).

[58] Le linee guida sono: «docilità allo Spirito e umile ricerca della volontà di Dio; ascolto fedele della Parola; interpretazione dei segni dei tempi alla luce del Vangelo; valorizzazione dei carismi nel dialogo fraterno; creatività spirituale, missionaria, culturale e sociale; obbedienza ai Pastori, cui spetta disciplinare la ricerca e dare l’approvazione definitiva. Così inteso, il discernimento comunitario diventa una scuola di vita cristiana, una via per sviluppare l’amore reciproco, la corresponsabilità, l’inserimento nel mondo a cominciare dal proprio territorio» (CEI, Nota pastorale, Con il dono della carità dentro la storia, n. 21).

[59] Cf. G. MAZZILLO, Una Chiesa povera, per essere chiesa dei poveri, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Annuncio del Vangelo forma ecclesiae, cit., 257-268 e IDEM, «Dialog und Sympathie. Die Grundmethode des Konzils und die Erneuerung christlicher Gemeindepraxis in Italien», in: Brixner Theologisches Forum 116 (2-3/2005) 111-121 (reperibile anche in www.puntopace.net/Mazzillo/konzil-Wue-07-10-05.htm e per una ripresa in italiano di alcune delle idee ivi espresse www.puntopace.net/Mazzillo/GioieSperanze-Orsomarso21-01-06.htm).

[60] Cf. J. BLANK, «Sul concetto di 'potere' nella chiesa», in Concilium 24 (1988/3) 19-32.

[61] Cf. S. DIANICH, Chiesa estroversa, Una ricerca sulla svolta dell’ecclesiologia contemporanea, Paoline, Cinisello B.(MI) 1987.

[62] GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis n. 26.

[63] Cf. G. MAZZILLO, «Chiesa come “popolo di Dio” o Chiesa come “comunione”?», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e recezione conciliare», a cura di M. Vergottini, Glossa, Milano 2005, 47-62.

[64] Sembra questo lo spirito più autentico di alcuni testi del Vaticano II , come questo della Dei Verbum: «Così quel Dio, che ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella chiesa e per mezzo di essa nel mondo, guida i credenti alla verità tutta intera e in essi fa dimorare abbondantemente la parola di Cristo (cf. Col 3,16)» (Dv 8).