Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe a una grande banda di ladri” (Benedetto XVI citando Sant’Agostino)

Legalità, questione morale, cultura della giustizia:

il ruolo del cattolicesimo italiano.

Incontro e dibattito pubblico

Roma

24 febbraio 2006 ore 17

Aula del Consiglio provinciale (Palazzo Valentini, via IV Novembre)

Iniziativa di Adista, Libera, MicroMega, Narcomafie, Segno Con il patrocinio Presidenza del Consiglio Provinciale di Roma

 

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Intervento di Giovanni MAZZILLO

Pensavo di riprendere in questo mio intervento, ciò che, dopo l'assassinio a Locri dell’on. Franco Fortugno, avevo espresso in occasione di una riflessione insieme con quel testimone di pace, che è il vescovo di Locri, Padre Giancarlo Maria Bregantini: Essere segno di pace in terra di frontiera.

Mi rendo conto che in questo convegno la “terra di frontiera” non è più (solo) la Calabria o quei territori ancora violentemente scossi o tenuti in scacco dalla violenza organizzata. Si tratta di più frontiere, o, se si preferisce di più fronti, sebbene collegati tra loro, che investono, oltre che la legalità, anche la questione morale e la cultura della giustizia.

Se, come si esprimeva Mons. Bregantini, quell’efferato delitto provocava “lacrime e coraggio”, la doverosa compartecipazione al dolore deve essere accompagnata da ciò che un altro grande testimone di pace nel Sud d’Italia,  don Tonino Bello, ha non solo enunciato, ma anche realizzato nel breve tempo in cui è stato tra noi (tra noi come Pax Christi, cui anch’io appartengo) e nel nostro Sud. Si tratta di un programma, più che di una reazione, che passa attraverso tre modalità di costruzione della cultura della legalità come cultura della giustizia e cioè annunciare, denunciare, rinunciare.

Sono tre modalità di esprimere una cultura della giustizia all’interno di un impostazione universalmente  cristiana (più che specificamente cattolica) e sono collegate sia all’impegno del cristiano nel  mondo (come insegna il Vaticano II), sia a scelte di vita richieste dalla Bibbia, in quanto Parola di Dio per noi cristiani. Scelte comunque condivisibili anche da parte di coloro che, pur non essendo cristiani, avvertono l’impellenza etica di spendere la propria vita per un mondo più giusto.

Ma cosa significa tutto ciò in maniera più specifica? Annunciare e denunciare sono due facce della stessa medaglia. Chi annuncia il Vangelo come lieta notizia, come annuncio di gioia per i poveri e per gli oppressi, denuncia contemporaneamente l’ingiustizia, la sopraffazione, il sopruso, la criminalità organizzata, l’esercizio del potere per il proprio tornaconto. Li addita come contrari alla dignità umana e alla stessa volontà di Dio. Il “regno di Dio” annunciato da Gesù diventa l’annuncio di un modo diverso di impostare e di vivere le relazioni tra gli uomini, tra i gruppi umani e perfino tra le nazioni. La stessa Chiesa è chiamata a diventare popolo di quanti e per quanti vogliono  vivere i rapporti in maniera fraterna e liberante. Essa è chiamata a una pratica della giustizia che significa vivere in modo giusto le relazioni.

La Gaudium et spes, uno dei documenti più importanti del Vaticano II, recita:

«I beni, quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre "il regno eterno ed universale: che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace"»(Gs 39).

Tutto ciò costituisce una sorta di consacrazione messianica per l’intero popolo di Dio, chiamato dallo stesso Concilio: "popolo messianico".

«Questo popolo messianico ha per capo Cristo "consegnato per i nostri peccati, risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,25), che regna glorioso in cielo dopo aver ottenuto il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Lo statuto di questo popolo è la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali, come in un tempio, inabita lo Spirito di Dio. La sua legge è il nuovo comandamento di amare come ci ha amati Cristo (cf. Gv 13,34). Il suo fine è il regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre più, per essere portato a compimento alla fine dei secoli, quando apparirà il Cristo vita nostra (cf. Col 3,4); allora "anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio" (Rm 8,21)» (LG 9).

Ecco allora le motivazioni profonde del compito affidato alla Chiesa, la cui legge suprema è quella di "amare come Cristo ci ha amato", per diventare strumenti di liberazione, perché

«il popolo messianico, anche se di fatto non comprende ancora la totalità degli uomini e ha spesso l'apparenza di un piccolo gregge, è però per l'intera umanità germe sicurissimo di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità, viene assunto da lui anche come strumento di redenzione per tutti, ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,12-16)» (Ivi).

Denuncia ed annuncio implicano nella concezione cristiana anche una sorta di “rinuncia”. Quale? Innanzi tutto la rinuncia a vivere la propria vita pensando solo a se stessi, al proprio interesse materiale o a quello del proprio gruppo o della propria nazione o della propria porzione di mondo. La rinuncia a un mondo di connivenze, di complicità di, sodalizi con i potenti di turno. La stessa preghiera, così importante per un cristiano, come per l’intero popolo di Dio, è molto di più che un atto di devozione. È un atto di adorazione verso l’unico Dio, «in un’adorazione -  scriveva Mons. Bregantini - che abitui ed alleni tutti noi, specie i giovani, ad adorare solo e soltanto la grandezza di Dio, senza mai piegare il capo di fronte al male e di fronte agli altri idoli, per non essere succubi dei prepotenti e così trasformare la notte del dolore in luce pasquale».

A ciò si aggiunga la rinuncia a ciò che potrebbe offrire una vita più comoda, più riparata, magari al di fuori della propria terra. Sì da restare in zona di frontiera, alzando la fiaccola della pace come ricostruzione di ciò che l’illegalità e l’ingiustizia rischiano di distruggere anche dentro, dopo averlo distrutto fuori di te.

Essere segno di pace in terra di frontiera significa inoltre professionalità e resistenza, capacità di lotta e competenza. Significa capacità di aggregazione con coloro e tra coloro che credono in una pace che, ovviamente, non è affatto acquiescenza, né assopimento delle coscienze, ma è chiamare le cose con il loro nome e pertanto è sempre da collegare con la verità (come ribadisce anche l'ultimo messaggio per la giornata mondiale della pace di Papa Benedetto XVI: Nella verità la pace). Nello stesso tempo è una pace attenta alle radici dove noi viviamo ed è capace di offrire speranza, perciò  testimonianza e ricostruzione. Ciò che anni fa si diceva con uno slogan a tre variazioni: «lottare per restare, restare per lottare, lottare per cambiare!». Beninteso, sempre che si tratti di lotta nonviolenta e culturalmente e spiritualmente motivata.

Ebbene restare e impegnarsi per questo tipo di pace, condividendo il progetto dei testimoni citati e continuando l’impegno  pagato con la vita di preti coraggiosi, come  don Peppino Diana e don Pino Puglisi.

In sintesi il ruolo dei cattolici è nell’individuazione e nella denuncia delle interconnessioni attuali della violenza: dall’economia che tende a diventare potere, dal potere che tende a diventare economia passando per la violenza. Una violenza che non è solo intercapedine tra esse ma controllo sociale. Occorre pertanto reagire e insegnare a reagire contro lo strapotere del denaro che lascia milioni di vittime dietro di sé nel mondo e centinaia di morti ammazzati nelle nostre città, campagne e contrade. Occorre proporre una ricostruzione legata alle proprie radici e al proprio territorio, a fronte di una violenza che quanto più è radicata, tanto più tende a diventare radicale e che mira all’espropriazione della propria anima, mentre ci sta espropriando della nostra terra.

Proprio questo significa alzare le frontiere del vangelo della nonviolenza e di una vita cristiana autentica, perché il  Vangelo stesso diventi annuncio della possibilità di una vita diversa.

Spigolando da esso solo alcune suggestioni bibliche, come tre diverse icone, si può concludere che l’agire cristiano tende a formare ad ascoltare e parlare, a guardare e vedere, a mangiare condividendo.

La prima icona è la guarigione del sordomuto. Significa acquisire sempre più la capacità di ascoltare e di parlare. Abbiamo cominciato a superare la semplice appartenenza formale alla chiesa per una vita cristianamente vissuta, ora occorre superare l’incantesimo delle sirene del momento in cui viviamo, che portano all'individualismo e al consumismo. Occorre ascoltare l'unico Signore, perché  "Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona" (Mt 6,24).  Significa contemporaneamente imparare a parlare, parlare profeticamente, anche a costo di dover scandire non tanto uno slogan, ma un programma di vita che non ha più paura, fino a ripetere con i giovani di Locri «E adesso ammazzateci tutti!».

La seconda icona è la guarigione del cieco di Betsàida, una guarigione in due tempi. Attraverso questa guarigione inizialmente si vedono gli uomini come alberi; in un secondo momento si  distingue chiaramente ogni cosa. Ciò significa passare dalle allucinazioni e dai fenomeni strani e miracolistici al ritorno a una “normalità” che crede in una vita qualitativamente diversa e sa vedere e valutare bene le situazioni e le circostanze.

Infine l’icona e la realtà dell’eucaristia. In essa si attinge ispirazione ed energia per passare dalla condivisione del pane eucaristico alla condivisione della propria storia. Ciò significa vivere la liberazione come annuncio e auto-riconvocazione. Significa scoprire nell’agire di Gesù il modello e la forza per un servizio a favore del popolo di Dio, nell’andare alla ricerca e far visita, nel consolare e confortare gli affranti;  nel contribuire alla guarigione delle ferite della condizione umana e nel rinvigorire se stessi e gli altri con la testimonianza che Dio ci è vicino.