Gianni Mazzillo

Tratti culturali dell’uomo di Calabria

[testo originale 1984, pubblicato in A. DENISE - L. PETRIS (a cura di), A servizio del vangelo con gli emigrati calabresi in Germania, Edizioni Laruffa, Reggio Calabria 1984, pp. 41-54]

Vorrei innanzi tutto premettere i limiti della mia trattazione, limiti dei quali sono cosciente e che andranno ad aggiungersi agli altri, che sicuramente voi stessi scoprirete nello svolgimento del mio discorso. Il mio contributo non avrà un carattere sociologico o statistico. Non sono un sociologo e nemmeno posso appoggiare le affermazioni che farò a ricerche scientifiche specifiche. Se anche avessi voluto farlo, avrei potuto citare qualche libro che in qualche modo affronta l’argomento, ma non per questo sarei stato più scientifico. Sarebbe rimasto infatti del tutto irrisolto il problema del criterio della scelta delle stesse ricerche, della selezione del materiale e della sua utilizzazione, perché esso venisse a sorreggere alcune tesi già precedentemente formulate, anche se in maniera del tutto implicita.

Ho riflettuto a lungo sul tema ed ogni volta mi è apparso sempre più complicato, almeno sotto il profilo strettamente "scientifico". "Tratti culturali dell’uomo di Calabria", è un tema che include troppi elementi che necessitano di una previa precisazione di concetti e ognuno di questi meriterebbe ben più di una relazione a parte. Cos’è da intendere per "cultura" e per "tratti culturali"? Qual è l’uomo di Calabria che si intende esaminare? È l’uomo in rapporto a che cosa? All’età, al sesso, alla professione, alla fede? A tutti questi aspetti, ad altri, o a quale in particolare? E ancora, di quale Calabria qui si parla, dal momento che si è soliti escludere l’esistenza di una sola ed omogenea Calabria ed affermare la coesistenza di più Calabrie?

La formulazione del tema presuppone specificazioni di carattere sociologico, antropologico, storico, e non ultimo, di antropologia culturale, solo per citare i più importanti. Non per essere pignolo, ma per mantenere - paradossalmente - un certo tono di rigore scientifico, devo premettere che il mio contributo resta al di qua della soglia del summenzionato rigore scientifico. Lascio ad altri gli aspetti specifici e la sistemazione in categorie mediate dalle citate discipline. Per quel che mi riguarda, ho dovuto fare anch’io una mia scelta, riparando in una zona dove mi trovo più a mio agio e che è costituita dalla mia esperienza personale e, attraverso di essa, dalla conoscenza che ho acquisito della mia "calabresità" e di quella delle persone conosciute. Si tratta di un’esperienza, anch’essa limitata, ma che per lo meno ha delle caratteristiche chiare. I tratti della cultura del calabrese sono per me quelli che ho appreso dalle mie origini, dalla mia esperienza di figlio di un emigrato prima, e da quella di parroco di un paese dissanguato dall’esodo coatto poi, e, infine dalla mia stessa intensa, anche se breve, esperienza di emigrazione in Germania.

L’esperienza personale ha a che fare dunque più con l’emigrazione che con la cultura dell’uomo di Calabria o delle Calabrie. Nondimeno la ritengo utile come contributo per la conoscenza di ciò che noi come calabresi siamo, perché l’emigrazione crea quelle premesse d’identificazione e di distanza, di empatia e di distacco, che sono alla base di un’ermeneutica corretta, ove si possa recuperare, da un altro versante, quella scientificità, che dicevo di non poter garantire da un punto di vista di indagine statistica. Il fatto poi che il convegno sia organizzato da e per i missionari che lavorano in terra di emigrazione, mi ha incoraggiato a mantenere il discorso dei tratti culturali dell’uomo di Calabria nel binario della riflessione sull’esperienza dell’emigrazione. Tradurrò per questo l’espressione “tratti culturali” con "lineamenti di identità del calabrese". A partire dall’emigrazione, cercherò di cogliere ciò che gli emigrati calabresi considerano essenziale per conservare la loro identità, per non perdere le proprie radici, e per non lasciar morire le loro caratteristiche etnico-culturali. Saranno questi per me i tratti culturali dell’uomo di Calabria di cui intendo parlare.

Fatte queste doverose premesse, articolerò il mio intervento nei seguenti punti:

1) Dall’emigrazione alla scoperta delle proprie radici

2) Due esempi paradigmatici

3) Conclusioni

 

1) Dall’emigrazione alla scoperta delle proprie radici

Nel settembre del 1979 feci uno dei miei tanti viaggi in Germania. Arrivai fino a Bielefeld, verso il Nord di quella nazione, per far visita ad alcuni miei parrocchiani. Da quando scesi dal treno, alla sera, fino al giorno dopo, in cui ripartii, ho vissuto un’esperienza che mi si è impressa fortemente nella memoria. Le ore vissute insieme con gli emigrati, i lunghi periodi di silenzio che trascorsi prima e dopo la mia visita, le riflessioni che feci mi offrono ora la materia e lo spunto per analizzare insieme con voi i lineamenti di quell’identità, che vogliamo provare a disegnare.

Provenivo dal paese di origine delle persone che visitavo, potevo osservare i loro volti, il loro agire, il loro comportamento in un ambiente completamente differente da quello del paese ed avevo perciò a disposizione un mezzo di contrasto incredibilmente efficace e disincantato per comprendere quello che lì, in Germania, "mancava", anche se era tenacemente cercato attraverso forme compensatorie o surrogati di diverso genere. Potevo comprendere i tratti di una identità minacciata eppure ancora inseguita.

All’uomo di Calabria emigrato mancano delle realtà che plasmano in genere la sua identità. In forma schematica le raccolgo in alcune, che a prima vista sembrerebbero realtà materiali, al massimo geografico-urbanistiche, ma che racchiudono dei valori essenziali, sui quali bisogna soffermarsi, seppure molto brevemente. Le cose mancanti sono semplici ad enumerarsi: la casa, la piazza, la chiesa, il campo, la cantina.

1. 1. La casa

Dire "casa" per un calabrese significa dire "famiglia". La casa non risponde solo al soddisfacimento di alcuni bisogni primari di carattere fisico: ripararsi, avere un luogo dove dormire, dove tenere le proprie cose. È molto più. Risponde al soddisfacimento di alcuni bisogni primari di carattere psicologico, affettivo e spirituale. Nemmeno è semplicemente il luogo dove egli può incontrare gli altri componenti della sua famiglia. La casa-luogo è solo l’aspetto più esterno di un’altra realtà che si potrebbe chiamare casa-strumento o modo di esprimere la propria identità. In una famiglia, che, a mio avviso, resta ancora di tipo prevalentemente patriarcale, la casa è per il calabrese il crocevia dove si incontrano, si vivono, e si ribadiscono ruoli sociali ben precisi. Fra questi è essenziale quello del padre, capo, gestore e responsabile di tutto ciò che costituisce il patrimonio non tanto economico, quanto affettivo, morale ed etico della famiglia e della società nella quale essa è inserita. Nella sua famiglia il padre calabrese ritrova se stesso quando l’intera famiglia è riunita a tavola, quando egli può sentirsi non solo genitore, ma anche fonte della famiglia stessa. Nella maggioranza dei casi è lui che prende la parola e guida la conversazione, che racconta e che ammonisce.

Egli vive la sua paternità in un doppio rapporto: rispetto alla famiglia e rispetto al patrimonio culturale tradizionale, fatto di costanti sociologiche in forza delle quali giudica e discrimina in genere il presente ed il futuro, i fatti avvenuti in paese e quelli accaduti in famiglia. Ci sono ovviamente delle eccezioni a questo modello. Dove la società è in trasformazione verso forme più dinamiche e più industrializzate (paesi rivieraschi, città che hanno maggiori possibilità di scambio con l’esterno) il modello è spesso messo in crisi. Ma non ci si lasci ingannare dalle apparenze.

Esso persiste anche in molte famiglie che vivono in città (nella maggior parte dei casi? Non lo so!) e che pure hanno un livello culturale-scolare abbastanza elevato[1]. Le case degli emigrati da me viste in Germania non erano nemmeno degne di tale nome. Trattandosi di emigrati con contratto stagionale, erano sistemati dalle ditte in baracche o roulottes o in case pressoché fatiscenti e del tutto disumanizzanti. Stanze, al primo piano con letti a castello, un tavolo e qualche sedia; lavandini e orinatoi allineati, al piano terra. Nonostante tutto ciò, quella volta al mio arrivo, i miei parrocchiani trasformarono una baracca in casa: si volle far festa e la si fece, si invitarono i compaesani delle altre roulottes, si fece la spaghettata. Qualcuno aveva tirato fuori il vino portato da casa, un altro tirò fuori i salami. Mi si chiese sul paese, su persone precise. Parlammo a lungo. E mangiando, quella volta con loro, anch’io emigrante tra emigranti, prete lontano dalla “mia” chiesa e dalla Calabria, prendendo il pane, mi sembrava di ripetere e rivivere i gesti dell’Eucaristia.

Eppure, anche gli altri caratteri del calabrese non tardarono ad affiorare. Seppi in colloqui privati, che ebbi occasione di fare nella stessa serata, dal momento che pernottai in una delle baracche, che tra gli emigranti dello stesso paese c’erano discordie e tensioni. Un tale aveva ricevuto una lettera dalla mamma, che scriveva per conto del marito, contenente accuse e messe in guardia su alcuni fatti riguardanti la sua famiglia al paese. Dietro la sincera, ma effimera effervescenza della festa, avevo potuto leggere nelle pause e in alcuni sguardi tristezza e preoccupazioni. Avevo colto il dualismo terribile: Voglio tornare definitivamente, ma ormai non ne sono più capace. Uno mi disse: «Qui ho trascorso diciannove anni della mia vita, anche se ogni anno sono ritornato per qualche mese. Quando sono qui, sento voglia di ritornare al paese, ma una volta che sono in paese, non vedo l’ora di ritornare qui!». «Perché ? – chiesi - Perché?» - mi chiedo e vi chiedo! L’ho capito poi al paese. In quei mesi in cui egli tornava, non riusciva più a ritrovare il suo ruolo, la sua identità. I figli erano cresciuti e a nulla valeva richiamarli alla coesione familiare di un tempo. Potevano ancora sedere insieme a tavola la domenica, ma non dipendevano più da lui né affettivamente, né culturalmente e nemmeno nella gestione e nell’organizzazione del loro tempo.

1. 2. La piazza

Ciò di cui gli emigranti da me visitati sentivano la mancanza era la piazza. Nei nostri paesi la piazza è il luogo di incontro e di svago, il luogo dove si “fa cultura”, si offre e si riceve l’informazione e si esercita la censura e il controllo sociale. La piazza la possibilità di essere protagonisti e di restare gregari. Gratifica perché conferisce un’identità collettiva, ma nello stesso tempo livella, perché non consente nessun superamento di una certa visione della vita e del mondo. In piazza non si passano al vaglio solo i prodotti del mercato, ma anche tutto ciò che succede in paese. La piazza non è solo il luogo di scambio e di incontro, è anche il tribunale, dove si condannano i comportamenti che disobbediscono alle costanti sociali tradizionali. Alla condanna collettiva della piazza si piega anche il singolo, non per viltà, ma per conservare l’identità e il patrimonio culturale-etico che essa garantisce. Mi ferisce ancora il ricordo di un avvenimento che è paradigmatico e che esprime tutta la rudezza di un meccanismo di identità che diventa gregarismo. Un uomo diceva dinanzi ad altri in piazza che sua moglie era una “puttana”, non perché volesse confermare di persona quanto era asserito dagli altri, ma perché questa era l’opinione corrente, l’opinione della piazza.

La piazza influisce inoltre sul mantenimento, il giudizio o la censura sulle varie manifestazioni religiose di un paese.  

1. 3. La chiesa

Ciò che mancava agli emigranti da me visitati era la chiesa. Non perché quegli uomini in paese ne fossero accaniti frequentatori. Si sa che in Calabria gli uomini vengono poco in chiesa e se lo fanno, restano generalmente tra l’ingresso e gli ultimi banchi. Mancava la chiesa, perché attraverso questa si esprime un altro tratto dell’identità del calabrese. Per lui la chiesa deve esserci e non solo - come forse erroneamente sì è indotti a pensare - perché offre determinate prestazioni e servizi, ma perché fa parte di quegli elementi che determinano la strutturazione dell’identità personale e collettiva. Nella chiesa di paese si vivono momenti intensissimi, anche se alquanto diradati nell’arco dell’anno, attraverso i quali il calabrese può ri-comprendere e rassodare la sua collocazione della società, nell’universo e in genere nei confronti di Dio, vissuto primariamente più come Assoluto ed Arcano, che come il Dio cristiano. Nulla importa che tale Dio venga ad essere talora confuso con Gesù Cristo. La sostanza rimane la stessa. È un rapporto con il "sacro" come con ciò che ci avvolge, ci sorregge e tiene in mano il nostro destino. È in ogni caso, un rapporto intensissimo, spesso mistico. Chi potrà mai descrivere le risonanze emotive, forse ancestrali eppure potentemente suggestive, che suscitavano le partenze dei pellegrinaggi, soprattutto quando questi erano fatti a piedi, allorché il suono della zampogna convocava all’alba per il paese vecchi e bambini, giovani e ragazze. Nei pellegrinaggi - oggi spesso decaduti in forme miste di gita-pellegrinaggio, dove agli strumenti tradizionali si sono sostituiti radio-registratori portatili - e nelle altre manifestazioni religiose di carattere collettivo, l’identità personale e di gruppo trovano le loro ultime legittimazioni e i pilastri portanti.

La chiesa di paese interviene ancora nel processo di strutturazione dell’io del calabrese nei vari momenti esistenziali che sono come il valico delle stagioni più importanti della vita. Penso sia ingeneroso ed erroneo ritenere che il calabrese "non praticante" chieda i sacramenti solo per tradizione o per convenzione sociale. Ciò può accadere in alcuni casi, ma non in tutti. Penso che il calabrese più che per costrizione esterna, chieda i sacramenti per una costrizione interiore, perché ne ha bisogno per salvaguardare la sua identità, il suo rapporto con l’Assoluto, la sua collocazione nel "tutto" e per esprimere una sua innata e insopprimibile ansia spirituale.

1.       4. Il campo

Il calabrese ha ancora un legame del tutto particolare con il suo "pezzo di terra", che nei paesi possiede nella maggior parte dei casi, pur non essendo specificatamente contadino. Il “fondo” non è solo il simbolo verghiano della sua proprietà, la concrezione del suo potere come possesso, è anche il legame con il suo passato, con i "padri", dai quali lo ha ereditato. L’appezzamento di terra è quello e non può essere un altro. Egli lo conosce a memoria, palmo per palmo. Il ciliegio fu piantato dal suo figlio primogenito, che poi ha studiato ed oggi è disoccupato, il noce c’era già all’epoca del nonno. La campagna è un legame con tutta la storia della sua famiglia, quasi un album vivente di ricordi. Ma non è solo questo. È anche un mezzo attraverso il quale passa e si esprime una più profonda unità con la natura. Per la società a tipologia rurale o semi-rurale, qual è la nostra, nell’appezzamento di terra si rispecchia l’universo stesso. La terra, fosse anche un semplice fazzoletto dove si coltiva quasi tutto, è un microcosmo, così come il paese è un micro-mondo. Lo è per gli elementi primordiali che contiene (dall’acqua, sapientemente distribuita mediante un ingegnoso, anche se arcaico, sistema di irrigazione, al fuoco, che viene acceso per ripulire il campo; dalla terra sempre rimossa e curata, all’aria, di cui si dice di non poter fare a meno). Lo è inoltre perché contiene il segreto della vita, che tutto trasforma e tutto rigenera, ricominciando ogni volta da capo. Paulo Freire, a proposito di un certo tipo di società brasiliana, parlava di«società chiusa», alla quale corrisponde una coscienza da lui chiamata "semi-intransitiva" tutta impregnata della ripetitività del ciclo biologico e naturale e perciò incapace di vivere su un piano storico, non essendo in grado di afferrare e determinare i meccanismi che trasformano non già la terra, ma lo stesso corso degli eventi della storia. Fatte le debite precisazioni e differenziazioni, si potrebbe parlare del rapporto del calabrese con la terra come di un rapporto ancora prevalentemente su base affettiva e biologica[2].

L’attaccamento al proprio appezzamento di terra, il legame di tipo tradizionale e ripetitivo della coltivazione stessa, l’assenza di una "coscienza transitiva" (per riprendere l’espressione di Freire) o la sua insufficienza sono, a mio avviso, le cause della riluttanza di molti calabresi a cedere il proprio campo o a coltivarlo in sistema cooperativistico. La sua cessione sarebbe come la perdita di un pezzo di identità. È anche per questo motivo che l’emigrato stagionale ritorna con attaccamento quasi morboso alla campagna e che, quando è in emigrazione, ne parla in quasi tutte le lettere, raccomandandone la coltivazione alla moglie, visto che i figli se ne disinteressano del tutto.

1. 5. La cantina

Se in non pochi casi gli emigrati sentono la mancanza della cantina del paese, non è perché sono dei beoni. La cantina [oggi rimpiazzata dal bar] è in paese il completamento della piazza. Come questa è luogo di incontro e di plasmazione dell’opinione pubblica. Rispetto ad essa ha il vantaggio della salvaguardia di una certa riservatezza e quello di poter trascorrere del tempo con gli amici; ha lo svantaggio dei pericoli derivanti dall’uso dell’alcool e quello di acutizzare in molti casi conflitti e aggressività latenti. Certamente, come istituzione peraltro consolidata da una tradizione plurisecolare, non è il luogo ideale per la comunicazione, ciononostante, la sua mancanza è all’estero avvertita. Vi si sopperisce con forme che vanno dal bere insieme in baracca qualche bottiglia di birra, dopo l’esaurimento delle scorte del vino, a quella ben peggiore del bere in solitudine liquidi sempre più alcolici, con effetti di alcolismo e di cirrosi epatica, anche se tali casi sono inferiori in rapporto all’alcolismo della popolazione locale.

Concludendo questa prima parte, posso raccogliere i lineamenti della identità del calabrese dal suo rapporto con le cose fondamentali per la sua vita e per la percezione che egli ha di sé rispetto al suo mondo. Volendo sintetizzarli sotto alcuni titoli, si può parlare di un senso d’identità collettiva che si esprime nell’attaccamento alla famiglia, alla propria terra, alle proprie radici spirituali e religiose, alle proprie tradizioni etnico-culturali. Tale attaccamento si manifesta con le caratteristiche della tenacia e della fedeltà e coagula il senso comunitario con una tendenza eminentemente individualistica, che ha però bisogno della comunità come gratificazione e giustificazione. Si tratta di un processo di interazione, che rimanda continuamente l’individualità alla socialità e quest’ultima alla prima. Tale processo ha degli indubbi valori, ma contiene anche dei risvolti negativi. Apparirà meglio dal punto seguente.

2) Due esempi paradigmatici

Porto due esempi simmetricamente contrapposti, dove si riflette una realtà complessa e spesso contrastante. Il primo riguarda il rientro degli emigranti stagionali, al quale ho spesso assistito; il secondo riguarda il fallimento della cooperativa "Ricostruire", fondata nel paese di Orsomarso. Su una popolazione di circa 2000 abitanti (almeno all’anagrafe), più di settanta uomini tra il 1970 e il 1975 facevano ogni anno la spola tra il paese e la Germania. Partivano in primavera e rientravano a dicembre. L’annuale rientro era un avvenimento particolare. Gli emigranti ritornavano insieme e dalla stazione ferroviaria raggiungevano il paese, spesso nel cuore della notte, con due autobus. Quasi nessuno dormiva in paese. Il rientro non era solo qualcosa che riguardava le loro famiglie, ma toccava tutti. L’avvenimento diventava motivo di festa e di identificazione comunitaria dell’intera popolazione. L’indomani mattina molti banchi a scuola restavano vuoti. Al preside e ai professori, che domandavano spiegazioni sull’assenza dei loro compagni, i presenti rispondevano: «È venuto il padre dalla Germania!» «È naturale che restasse a casa!». «Che ne puoi capire tu di queste cose, tu che arrivi all’ultimo momento con la tua macchina per venire a farci scuola (quando la fai!) e corri via appena ti è possibile? Tu che ci sei estraneo, perché non vivi con noi, che ne sai tu come sia triste tornare a casa dopo la scuola e dover mangiare da soli la pietanza fredda, che la mamma ci ha lasciato al mattino! Che ne sai tu, come siano interminabili le serate d’inverno accanto ai caminetti nelle nostre vecchie case di paese! È tornato il papà, è tornato il fratello. È tornata la festa, è finita la solitudine. Ecco perché era ben giusto che si restasse a casa!»

Mi sono dilungato su questo episodio, perché l’ho vissuto spesso anch’io nella mia infanzia. E successivamente - come dicevo - l’ho rivissuto da parroco. Ho avuto il tempo di fare le mie considerazioni.

L’episodio ha in sé degli aspetti umani ricchissimi, anche se è il rovescio di una medaglia, da valutare moralmente in modo negativo, qual è appunto l’emigrazione (spesso coatta di fatto) e che in ogni caso è espressione di una violenza, per le lacerazioni che comporta e perché frutto di ingiustizia nella distribuzione della ricchezza e nel rapporto centro-periferia. L’aspetto positivo più importante dell’esempio riportato è il contesto e il clima comunitario in cui veniva vissuto il "rientro" degli emigranti. C’era infatti un coinvolgimento generale della popolazione. La festa era di tutti. Quegli uomini appartenevano a tutti. Ora che erano ritornati, tutti se ne rallegravano. Il paese rinasceva e si rinasceva insieme. Da questo episodio si può ricavare un senso di comunità e di solidarietà, un sentire "in solido" l’uno il destino dell’altro, l’uno la festa dell’altro. La sopravvivenza di una famiglia allo sradicamento dell’emigrazione significa la sopravvivenza di tutti. Questo senso di identificazione collettiva affiora, come sì è visto anche in altre occasioni della vita del paese, che siano significative per l’intera comunità. È un punto che sottolineo, perché rappresenta una delle nostre risorse di ricchezza umana, sulla quale bisogna costruire, per realizzare una cultura comunitaria, che non si limiti ai singoli momenti e ai sentimenti legati a determinate circostanze, ma diventi una realtà costante, che favorisca la crescita e il movimento in avanti delle nostre popolazioni.

L’identità collettiva è infatti ancora di tipo fruitivo: si gioisce con chi gioisce, si piange con chi piange, si fruisce della gioia e si soffre del dolore comune, secondo dei processi di identificazione e di interiorizzazione. Ma proprio tali processi possono essere all’origine di un certo immobilismo, che ci impedisce di passare all’azione, perché nel momento in cui qualcuno compie un tentativo che esca fuori dagli schemi, quegli stessi processi assumono una funzione di rigetto e di rilivellamento, e, volendo garantire il mantenimento dello status quo, attaccano il malcapitato in varie forme, fino a farlo rientrare nei ranghi. I meccanismi di difesa di questa identità culturale si manifestano in una gamma di violenze che vanno dall’ironia e dal sarcasmo (la forma più lieve) all’intervento censorio e alle proibizioni (nelle forme di controllo sociale nella famiglia, e, perché non dirlo, anche in certe mentalità clericali), alle forme più gravi di minaccia e di intimidazione. I fatti mafiosi, che pur risalgono a strutture e a forme organizzate molto complesse, possono trovare nell’ambiente descritto un humus favorevole per una duplice ragione. Da una parte essi si sottraggono al controllo sociale, in quanto sono organizzazioni segrete, dall’altra pretendono di gestire un controllo sociale in modo violento ed esclusivo, per favorire gli interessi di alcuni e per mantenere la situazione immutata, sterilizzandone ogni eventuale reazione.

Senza volerci addentrare in uno studio del fenomeno mafioso, restiamo sul terreno del controllo sociale, che conosciamo dal nostro vivere quotidiano e che spesso tarpa le ali ad ogni pur minima iniziativa. È una realtà che si manifesta secondo un copione pressoché invariato in Calabria e in genere in tutto il meridione. L’esempio forse quotidiano è la piccola grande lotta, che soprattutto la ragazza deve sostenere, per ottenere il permesso di partecipare ad incontri, convegni o anche a riunioni di vario genere. Appaiono costanti alcune proibizioni che non hanno altra giustificazione se non quella del "parere della gente", la motivazione è: «Non che noi non abbiamo fiducia, ma la gente che dice?». Sono esempi a scala ridotta di ciò che avviene a scala più grande e che rischia di soffocare le migliori iniziative tese a reagire ai mali endemici della Calabria.

Vengo al secondo esempio, che dicevo essere in simmetria con il "rientro" degli emigranti a Orsomarso. In questo stesso paese avevamo affrontato per anni il problema dell’emigrazione e della disoccupazione soprattutto giovanile che ne era la causa principale. Decidemmo di passare dall’analisi e dalla "politica del lamento" a quella della realizzazione di alcune iniziative, che anche se piccole, avevano solo la pretesa di essere dei segni, quasi delle parabole, attraverso cui dimostrare che emigrare non era una fatalità. Partendo dalle nostre radici culturali - pensavamo - si poteva invece realizzare qualcosa che offrisse dei posti di lavoro e ci facesse al contempo riscoprire e valorizzare alcuni aspetti del nostro patrimonio culturale popolare. Si fondò una cooperativa, che era insieme culturale (per la promozione ambientale e culturale del paese) e anche di lavoro. Riscoprendo telai a mano e modi di tessitura in via di estinzione, mettemmo su l’occorrente per un laboratorio di tessitura. Dodici soci regolarmente iscritti, molti dei quali erano ragazze, qualcuna con il diploma superiore a casa, tante difficoltà iniziali, superate più per entusiasmo che per forza di volontà, un guadagno discreto per chi pretende oggi di fare dell’artigianato ed è alle prime armi. I telai andavano, il mercato, anche se ridotto, tirava. Improvvisamente qualcosa s’inceppò. Dopo alcuni mesi da quando la cooperativa era ufficialmente costituita, si dovette chiedere la sua estinzione giuridica, che venne come conclusione di una fase di rallentamento del lavoro, di assenteismo da parte dei soci, di abbandono da parte di molti. Che cosa era successo? Non si era rotto nessun pezzo dei telai; non c’era ammanco di soldi. C’era che alcune ragazze non potendone più delle prediche che ascoltavano quotidianamente a casa, e che precedentemente erano state confezionate in piazza e nelle cantine, decisero di smettere. Che cosa si predicava? Più o meno questo ritornello: «Ma che razza di lavoro è questo? Come potrete andare avanti con telai a mano, in un mondo dove tutto è meccanizzato? Tu, poi, con un diploma di maestra o di ragioniera, vuoi passare la tua vita a lavorare manualmente? Lo sai cosa dice la gente di questo vostro laboratorio? Dice che non potrete tirare avanti, fallirete!». Fu il fallimento. Ma non perché non si potesse andare avanti, perché lo aveva decretato la gente. Molti, penso, avrebbero esempi simili da raccontare.

3. Conclusioni

Le conclusioni che ne traggo sono le seguenti. La nostra coesione, i nostri processi di identificazione collettiva non sono senza problemi. Lo staticismo di molte nostre situazioni impedisce al nostro stare insieme di essere una vera comunità che cresca, di essere veramente insieme, per agire, re-agire e camminare insieme. Lo staticismo è in molti casi reso ancora più grave dal consumismo e dalla concorrenzialità nel possedere, che solo superficialmente conferiscono una parvenza di transizione, mentre acutizzano l’individualismo di singoli, di intere famiglie o di alcuni gruppi. Ci sono, come si è visto, valori positivi, quali quello dell’accoglienza, della fedeltà, della tenacia e dell’attaccamento alla propria identità. ma non basta rievocarli liricamente. Bisogna farli passare dallo stato di semi-transitività, dove si sa fruire, senza costruire, a quello di una transitività critica, con cui si deve prendere coscienza della propria situazione, per analizzarla in contesti più ampi, e, infine, per progettare non a colpi di entusiasmo passeggero, ma con metodicità che persegue e raggiunge gli obiettivi.

Per noi che restiamo si impone il compito di insegnare a restare non per sopravvivere, ma per costruire, motivando il lavoro nella Calabria e in genere nel Sud, come un impegno e come un atto di lealtà verso la propria terra, verso il popolo al quale si appartiene e in definitiva verso se stessi.

Le nostre radici rischiano di essere strappate, quel poco che di esse ancora ci resta corre pericolo di esserci derubato non solo dal dissanguamento dell’emigrazione, che è oggi in fase decisamente calante, sicché all’esodo coatto subentra il rientro coatto, ma anche dall’avanzare di una mentalità che appiattisce ed isola. Questa, dopo averci sottratto le risorse economiche e lavorative, rischia di sottrarci anche le nostre risorse spirituali, la nostra unica ricchezza, quella umana.

 



[1] Intendo per livello culturale scolare quello acquisito attraverso la scuola e gli studi fatti, non volendo semplicemente confondere cultura con scolarità.

[2] Cf. P. Freire, L’educazione come pratica della libertà. I fondamenti sperimentali della pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano 1973, 68 ss.