Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

 

Gesù Cristo: un credente senza religione? Relazione al Convegno di Cefalù 22-11-03
[Cf. anche Gesù realizza il messianismo biblico. Relazione alla settimana biblica di Lucera (14-03-03)]

Premesse

Il titolo vuole chiaramente provocarci, per farci uscire dai soliti luoghi comuni, tra i quali uno più o meno esplicitamente recita: «Gesù è il fondatore di una regione, il cristianesimo». Con ciò si pone il cristianesimo sulla stessa linea di ogni altra religione e si presuppone che Gesù non sia altro che una variante di Buddha, Zoroastro, Confucio ecc. Ma è proprio così e soprattutto sono validi i due presupposti di fondo e cioè che il cristianesimo sia una pura e semplice religione e che Gesù non sia altro che il suo fondatore? Evidentemente no, ma è proprio questo il tema che occorre affrontare, collegandolo con l'altro, non meno complesso, della differenza tra la fede e la religione. Una differenza che nel titolo della relazione successiva alla mia appare ancora più marcata, come una contrapposizione netta ed alternativa: «Dalla schiavitù della religione alla libertà della fede».  In ogni caso non sfugge a nessuno che siamo in presenza di argomenti di notevole importanza. Non tutti compaiono in maniera esplicita nel titolo e tuttavia sono in gioco problemi fondamentali sia per la comprensione di Gesù sia per l'agire del cristiano.  Qui posso far  riferimento solo a quelli che mi sono apparsi  più meritevoli di attenzione. Il primo riguarda il rapporto tra religione e fede, o per meglio dire, di fede e religione perché propriamente la fede è più importante della religione. La religione dipende dalla fede  e non viceversa.  Il secondo grande argomento in gioco è la storicità di Gesù. Due argomenti enormi, che richiederebbero almeno due relazioni distinte.

Per non dover tacere del tutto, sul rapporto fede-religione posso solo dire che esso rimanda alla natura del cristianesimo: è una religione oppure no? Alla domanda aveva risposto in maniera decisamente negativa la teologia dialettica, con K. Barth in prima fila, così come aveva risposto negativamente D. Bonhoeffer, che dal carcere si chiedeva come vivere in  un mondo ormai non religioso. Ciò veniva anche al seguito della delimitazione degli spazi tra l’una e l’altra che aveva tracciato M. Scheler[1]. In ogni caso questa posizione radicale si può riassumere nella formula che il cristianesimo non è una religione, anzi segna la fine della stessa religione.

Per la verità, superata tale radicalizzazione, la teologia nutre oggi verso la religione un giudizio più cauto, pur avvertendo che c’è il continuo pericolo che la religione diventi un dispositivo magico con cui l’uomo vorrebbe disporre del cosiddetto “soprannaturale” per calcolo o interesse, per giustificare le sue pretese di assolutismo, più che arrendersi all'Assoluto. È un pericolo cui si presta ogni religione, inclusa quella cristiana. A fronte di ciò, c'è però oggi anche il riconoscimento dell'importanza del moto interiore (“religioso”) che porta l’uomo ad uscire da se stesso e ad andare verso la trascendenza. È ciò che personalmente preferisco chiamare "esperienza religiosa"[2]. È vicina a questa posizione anche un autore evangelico, Pannenberg, che scrive: «La religione, che eleva gli esseri umani oltre la finitudine degli scopi verso cui essi tendono, può costituire il punto di partenza per la santificazione della vita in tutti i suoi aspetti»[3] .

È ovvio che ciò non può portare a quanto denunciato da Sergio Quinzio, sulla natura puramente illusoria sia delle promesse della tecnica sia di una certa religione[4]. Né si può condividere del tutto la sua affermazione, secondo la quale il futuro della fede è nell'abbandono di ogni commistione con le promesse di ordine storico e nell'accoglienza di ciò che invece il progresso rifiuta e combatte per principio: il dolore e la sconfitta[5]. È altrettanto vero che si affaccia oggi sempre più prepotentemente la fede come scelta e come rischio, come avventura e come affidamento della propria vita alla Trascendenza. È l’esperienza  di quanti pur in una religione del nostro tempo, sono andati ben al di là dei limiti di una religione fatta di ritualità disincarnata[6], attingendo alla fede  non come scavalcamento, ma piuttosto come attraversamento della debolezza, in conformità con la stessa scelta operata dal Dio cristiano come scelta di annichilamento, come kenosi[7].  

Ma ciò ci offre l’occasione di affrontare uno dei temi centrali del nostro intervento. Riguarda la scelta di Gesù di identificarsi con il “Servo di Jahvè”. Un tema che ha rimandato al dono di sé come una più generale scelta compiuta in Dio stesso, per la salvezza dell’uomo. Pur non potendomi soffermare su questo argomento, affrontato recentemente, da un versante laico, da Massimo Cacciari[8], mi sembra importante affermare che la scelta di Gesù non ha tuttavia un carattere metastorico o metafisico, come se fosse un atto fatalisticamente necessario, ma è un vero atto umano e pertanto libero e volontario. In questo contesto ritengo, con una parte della tradizione teologica, che la morte violenta di Gesù non era indispensabile alla salvezza. La sua incarnazione infatti sarebbe stata più che sufficiente a riconciliare l'uomo con Dio e a restituire la vita immortale all'uomo[9].

La morte di cui narrano i vangeli è progettata non da Cristo e nemmeno da suo Padre, ma dalle macchinazioni di uomini di potere, potere civile e religioso, che vogliono sbarazzarsi al più presto di colui che, mettendo in crisi il nesso tra sacrificio cruento e religione, sovvertiva radicalmente i presupposti di quel potere.

Con ciò  siamo già pervenuti al secondo grande argomento in gioco: la storicità di Gesù, non relativamente alla sua effettiva esistenza storica, oggi non più in discussione, ma per quanto attiene le sue scelte storiche e soprattutto per la sua desacralizzazione di strutture fondamentali (quali la politica e la religione), in vista di una loro reinterpretazione in un contesto di fede, di servizio reale agli uomini, e dunque in un contesto di amore, che è dedizione fino al dono totale di sé.  In tal modo si dovrebbe evincere se e fino a che punto Gesù sia un credente, in che cosa abbia creduto e quanto abbia demitizzato le strutture sacrali, inclusa quella della religione del suo tempo e di ogni tempo.   Articolo pertanto il resto del mio intervento sul rapporto tra Gesù e le strutture del suo tempo e sulla sua scelta di libertà, perché tutti gli uomini possano essere liberi.

1) Gesù e le strutture sacrali fondamentali

Che Gesù non possa essere compreso al di fuori di un contesto di fede è cosa che dovrebbe essere chiara a tutti. Tutta la sua vita non avrebbe senso prescindendo dal riferimento a Dio, che Gesù recepisce sulla soglia della sua coscienza come suo Padre, anzi come abbà. Non avrebbe senso prescindendo da un Dio non generico, ma da quello rivelatosi al popolo ebreo, di cui Gesù si sente parte integrante. Partendo dai più recenti e ponderosi studi, che stanno apparendo in Italia, tradotti dai testo originali di J. P. Meier, si può dare per buona la conclusione che Gesù era nel suo contesto originario “un ebreo marginale”.[10] Così si dà anche per abbastanza condivisa la distanza di Gesù dal messianismo terreno, nazionalista e radicale, o dal messianismo legalista ed ultraesigente. Il primo era incarnato da gruppi o movimenti simili agli Zeloti, il secondo dagli Esseni e dai Farisei. Con ciò non si intende affatto condividere un’interpretazione spiritualistica, che ritenga il messianismo solo un fatto di natura spirituale riguardante esclusivamente l’anima. Una tale rappresentazione non è adeguata alla concezione della salvezza come fatto globale e concreto che era invece tipico dell’agire di Gesù e che è più corretto considerare come fatto interiore ed esteriore, terreno e ultraterreno, personale e collettivo. Così sono da considerare, ad esempio, le beatitudini e le stesse guarigioni operate da Gesù, e non solo come promesse di un futuro che verrà solo con e nell’aldilà. La maggior parte dei biblisti, con J. Dupont in testa, sono infatti del parere che stesse beatitudini sono un pronunciamento salvifico di Dio nell’oggi e rappresentano uno sconvolgimento del giudizio dell’uomo[11].

Tutto ciò significa che Gesù crede certamente in un Regno di Dio, collegato alla sua coscienza di relazione tutta particolare con Dio-abbà, un Regno che viene già ora a vantaggio degli uomini e in primo luogo dei poveri e degli infelici, dei bisognosi e degli emarginati, di quanti aspirano alla giustizia e si adoperano per la pace.  Siamo in grado di poterlo sostenere anche dal punto di vista storico? Certamente, a patto di considerare l’attendibilità storica dei vangeli non già sulle vicende cronologiche della vita di Gesù, ma sul suo progetto “teologico”. Quale? Lo stesso ereditato dai primi discepoli, sia attraverso la frequentazione del Maestro, sia attraverso la trasmissione di ciò che in generale lo riproponeva con fedeltà sostanziale, pur nelle diverse accentuazioni, che erano frutto di sensibilità personali e ambientali diverse.

Personalmente ho affrontato in maniera esplicita questo problema in Gesù e la sua prassi di pace[12], parlando di un “progetto teologale”, più che “teologico” di Gesù, ma che ritengo la sua rivisitazione e ri-appropriazione di ciò che la Bibbia diceva del messianismo, tema ovviamente collegato all’annuncio del Regno di Dio. Proprio nel congiungere profondamente, integralmente, fedelmente questi due grandi temi, ritengo che, si possa e si debba parlare dell’agire di Gesù come di vero agire di pace. “Di pace”, in un molteplice senso: a partire dalla pace messianica, alle cui profezie ogni coscienza messianica faceva riferimento, e a partire dai destinatari del messaggio, uomini ai quali la pace era tutta da annunciare come riconciliazione e come riscatto, come modalità di vivere i rapporti e di impostare ogni relazione.

Gesù insomma credeva nella pace come progetto di Dio, quello rievocato dalle parole di Geremia, all’epoca dell’esilio:

«Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).

In lui prima o dopo deve essere apparsa concretizzata l'identificazione del profeta Michea, tra il messia e la pace: «e sarà lui la pace» (Mi 5,4)[13].

Per tutte queste ragioni Gesù avverte gli uomini che il Regno è alle porte, anzi è in mezzo a loro e ad esso sono convocati tutti, a cominciare dai più trascurati sia dai potenti della politica sia dai sacerdoti e dagli specialisti della legge di Dio, la torah. Tutti sono chiamati alla conversione, ad avere una nuova mente, ma secondo modalità particolari, condividendo i beni o riacquistando la fiducia e la speranza, spogliandosi di ogni atteggiamento di superiorità tanto civile che morale, religiosa e sacrale. Gesù invita tutti a far festa, dopo i giorni dell’austero richiamo del Battista, perché il Regno è entrato in una fase decisiva e irreversibile, e pur non ancora del tutto compiuto, è stato decisamente avviato.

In questa direzione cammina l’espressione evangelica «Beati i facitori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9), che certamente rappresenta una sintesi ben riuscita di quella predicazione incentrata sull’attività benevola di Dio a vantaggio e non contro l’uomo. Di un Dio che non terrorizza e non minaccia con la sua onnipotenza, ma che conquista con la sua tenerezza e la sua cura per tutte le creature. In Gesù la benevolenza di Dio fonda la chiamata alla benevolenza da parte degli uomini. Al punto che Gesù può affermare:  

   «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,43-48).

Una tale trasformazione dell’immagine di Dio, di colui che è “perfetto”, cioè, radicale nell’amore  e che chiama gli uomini ad essere radicali alla stessa maniera, richiede una desacralizzazione profonda. Gesù non si tira indietro e riconduce all’idea di fondo della benevolenza, anzi della salvezza portatrice di gioia verso gli uomini, le istituzioni più sacre dell’ebraismo. Egli propriamente non le distrugge, ma vuole ricondurle al suo spirito più genuino. Tra queste ci sono il tempio e la sua funzione di casa di Dio e di convocazione del suo popolo, il sabato e il suo significato, l’osservanza minuziosa della legge e il suo superamento, la struttura patriarcale e la fine dell’emarginazione delle donne e dei bambini, l’autorità e la fine del suo preteso assolutismo, la purezza legale e il suo superamento a favore dei piccoli e degli umili, ed ancora la guerra come istanza politico-religiosa e la sua condanna con l’insegnamento e la prassi della nonviolenza.

Sul tempio, e più in generale su Gerusalemme, occorre dire che tali fondamentali  strutture avevano, all’epoca di Gesù, una grande importanza religiosa, sociale ed economica. Ma nella città santa si acuivano anche le contraddizioni e le tensioni presenti in tutto Israele. Basti pensare al divario tra la ricchezza delle caste ormai succubi del potere politico e religioso e l'impoverimento del popolo abbandonato  a se stesso e alle suggestioni di gruppi nazionalisti. A questo popolo Gesù si rivolge, insegnando direttamente nel tempio, riportato alla sua funzione di luogo di preghiera e di ascolto della parola di Dio. Ciò è chiaro non solo nelle invettive di Gesù contro i farisei e gli scribi[14], ma anche nella purificazione del tempio e nel suo utilizzo per insegnare al popolo[15]. Così come è chiaro nelle sue parole sul tempio e sul sabato:

« O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa? Ora io vi dico che qui c'è qualcosa più grande del tempio. Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato individui senza colpa. Perché il Figlio dell'uomo è signore del sabato» (Mt 12,5-8).

«Misericordia io voglio e non sacrificio»: è questo il cuore e la motivazione forte di ciò che Gesù compie e che compie in maniera liberante.  Il suo non è un comandamento tra gli altri, ma la proposta di vivere la torah come fedeltà all’amore fedele e tenace di Dio, giacché non viviamo più da servi e nel timore, ma come figli (Mt 6,5-18).

2) «Ci ha liberati perché restassimo liberi» (Gal 5,1)

Con ciò siamo già    all’ultimo punto del mio intervento: il valore liberante della predicazione e della prassi di Gesù. La legge stessa non può avere per lui un altro valore e in questo senso Gesù supera la religione, oppure, se si preferisce, coglie il cuore autentico della religione, che non può essere disgiunto dalla fede. Qualsiasi atto religioso deve avere valore liberante per l'uomo e non può schiacciarlo o menomarlo. Al contrario, lo apre ad un circuito di vita piena e di benedizione da parte di Dio, che proprio nel giorno della sua festa, guarisce e salva, mostra la sua misericordia. Ecco perché Gesù non esita ad affermare: «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato» (Mc 2,27), o , come traduce Ben-Chorin, «Il sabato è dato a voi e non voi siete dati al sabato»[16].

Gesù mostra la forza liberante del suo messaggio nel convocare i poveri, cioè il popolo della terra, il disprezzato am ha-arez, l’interessamento per il quale da parte di Gesù  suscita scandalo in alcuni (Mt 11,5-6; Lc 7,22-23). Andando controcorrente con le sue beatitudini (Mt 5,1-12; Lc 6,20-23) egli propone agli infelici e ai poveri un modo nuovo di guardare a Dio e a se stessi. È come se dicesse: «Voi che soffrite e siete disprezzati e poveri, affamati e dimenticati, state in piedi e camminate a testa alta, perché il regno di Dio appartiene a voi!», sicché la sua gioia è grande, nel constatare che proprio i piccoli e poveri accolgono il suo annuncio (Mt 11,25-27).

Lo stesso si deve dire dei suoi interventi a favore dei bambini, all’epoca disprezzati (Mc 10,13; Mt 19,13-15; Lc 18,15-17; Mt 21,15-17); a favore della peccatrice, di cui Gesù elogia l'amore nei suoi confronti (Lc 7,36-47; Mc 14,3-9; Mt 26,6-13); a favore dell'adultera, salvata dalla lapidazione (Gv 8, 1-9ss); a favore delle donne in genere (Mc 1, 29-31; Lc 13,10; Gv 4,1-21; Gv 20,11-15), che, cosa inaudita per l'epoca, egli ammette al suo discepolato (Lc 8,1-3; Lc 10,38-42).

La prassi di Gesù demitizza inoltre il potere, che tenta con l’arrivismo, la sistemazione personale e dominio sugli altri, anche i discepoli di Gesù. Mentre progettano la scalata dei primi posti nel Regno,  Gesù esprime il suo pensiero a riguardo:

«I re delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così. Ma chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi, come colui che serve» (Lc 22,23-27)[17].

La stessa spesso malintesa affermazione «restituite  a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»  (Mc 12,13-17) è in realtà un ridimensionamento e una demitizzazione di Cesare, che pretendeva di essere Dio.

Di fronte ai potenti e ai loro accoliti, di cui avrebbe potuto dire «divorano il mio popolo come il pane» (Sal 14,4), Gesù capovolge la situazione e si presenta come il pane che sarà mangiato dal suo popolo, perché abbia la salvezza e la vita: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51), tanto da aggiungere: «la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,55). Tutto ciò per noi è già eucaristia, ma per Gesù è servizio radicale fino ad offrire la vita per i propri amici (Gv 15,13-15).

Non posso concludere il mio intervento senza menzionare la demitizzazione della guerra, sì perché Gesù attacca a fondo anche questa struttura sacrale e politica, quella che miete ancora vittime, troppe vittime e spesso inermi e innocenti, in nome di giustificazioni pretestuose e posticce. Si può affermare, a riguardo, che il vangelo contiene un pensiero rivoluzionario per ogni religione e per l’umanità stessa:  e cioè «Beati i facitori di pace e non gli artefici di guerra». Se Gesù ha anche affermato di essere venuto a portare non la pace sulla terra, ma la divisione” (Lc 12, 49-51), non bisogna dimenticare che tale locuzione indica che Gesù non è la causa, né l’artefice della discordia, ma solo ne è l’occasione, perché il male cerca una sua rivincita.

In realtà Gesù è lontano mille miglia dal “messianismo radicale” degli Zeloti e dei loro ispiratori religiosi, collegati a comunità da cui provengono i testi di Qumran. Contrariamente a costoro, egli avvicina i peccatori e gli impuri, non coltiva progetti di insurrezione violenta, né predica un regno che si abbatte sulla terra, ma ne illustra più volte la lenta e complessa maturazione. Egli si distanzia nettamente da coloro che arrivavano a coltivare l’idea della “guerra santa”:

«... il tempo in cui tu hai loro comandato ... non a ... e voi  mentirete sul suo patto ... essi dicono: “fateci fare la Sua guerra ... perché abbiamo profanato” ... i vostri [nemi]ci devono essere annientati e non devono sapere che con il fuoco ...»[18].

Ripudiando la violenza, e contrapponendosi a chi affermava: «... fatevi coraggio per la guerra e ciò dovrà esservi computato a giustizia…»[19], il Vangelo riconduce a Gesù l’affermazione contraria: sono figli di Dio e figli della luce quanti fanno la pace e non coloro che preparano o fanno la guerra. Nessuna guerra è santa. Affermarlo è  una bestemmia.

Gesù, infine, vuole  coinvolgere i suoi discepoli nella stessa missione di pace e di diffusione della pace, in un annuncio che si traduce in gesti: «Entrando nella casa, rivolgete il saluto [cioè augurate lo shalom]» (Mt 10, 11). È lo shalom che prende corpo nella prassi, conformemente all’imperativo: «guarite gli infermi , risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni»(Mt 10,8). È la pace concreta e storica che produce liberazione e salvezza, una liberazione che Dio porterà a compimento e che Gesù richiama nel momento del giudizio: «Alzatevi e sollevate la testa, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). Divenuto facitore di pace e pace egli stesso nel suo corpo e attraverso la croce (Ef 2,15‑17), Gesù affida La pace come suo dono e come nostro compito, la sera della Pasqua:  

«La sera di quello stesso giorno… venne… si fermò in mezzo a loro  … disse loro  di  nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”» (Gv 20,19-22).

Una pasqua, si potrebbe dire appena iniziata, come appena è iniziata la difficile opera della purificazione della religione, di ogni religione dalle sue ideologie e idolatrie. Tra queste l’idolatria della guerra, dell’uccidere in nome di Dio, dell’opprimere violando i diritti dell’uomo, dell’imporre fardelli enormi che nessuno può portare sulle spalle. Sono tutte espressioni più che della religione, di una cattiva e spesso deviante o depravata religione. Se fossero veramente religione, certamente non bisognerebbe esitare un istante ad abbandonarla, in nome di una fede che invece, sulla scia di Gesù, è fede in Dio come Padre e negli uomini come fratelli, fede nella dignità dell’uomo e nella sua capacità di realizzare un’umanità più conforme a Dio e al suo Regno.


 

[1] Sulla questione cf. L. Bordignon, «Il cristianesimo è una religione» in: CredereOggi 1 (1981/1) 75-84.

[2] Cf. www.puntopace.net/Mazzillo/definibilita-religione.htm.

[3] W. PANNENBERG, Antropologia in prospettiva teologica, Queriniana, Brescia 1983, 553.

[4] «Né le conquiste della tecnica alleviano l'angoscia e la disperazione dell'uomo, né l'angoscia e la disperazione spingono consciamente alle conquiste della tecnica. La macchina della tecnica va da sola, la disperazione dell'uomo va da sola. Nella religione l'uomo fa la realtà che sogna, ma oggi l'uomo fa della tecnica quel che non sogna, e sogna nell'umano quel che non fa nella tecnica» (S. Quinzio. La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, 54).

[5] «Se è sperimentabile una gioia più intensa di ogni dolore, nel regno c'è più gioia che dolore, ma c'è anche tutto il dolore. Tutta la miseria, tutto l'obbrobrio, la visione di chi muore torturato. Insieme ad una gioia ancora più grande» (Ivi, 168).

[6] Cf. G. Gaeta, Religione del nostro tempo, Edizione e/o Roma 1999, in riferimento ai testimoni della catastrofe del 1900: Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil, Walter Benjamin, Etty Hillesum.

[7] Cf. a riguardo un testo in cui trovi sintetizzata l'evoluzione del pensiero e la vicenda personale di un autore discusso, ma tuttavia interessante: G. Vattimo, Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, Milano 1998. Egli scrive: «Sta di fatto che, a un certo punto, mi sono trovato a pensare che la lettura debolista di Heidegger e l'idea che la storia dell'essere avesse come suo filo conduttore l'indebolimento delle strutture forti, della pretesa perentorietà del reale dato "là fuori" come un muro contro il quale si va a sbattere e che così si fa riconoscere come effettivamente reale [...] non fossero altro che la trascrizione della dottrina cristiana dell'incarnazione di Dio» (ivi, 27).

[8] Cf. M. Cacciari, Dell'inizio, Adelphi, Milano 20012, pp. 558-579. A questo riguardo tuttavia precisa: «Occorre questo sacrificio di sé, da parte di Dio per poter pensare salvezza. Non sarebbe altrimenti possibile pensare come ultimo tale sacrificio; se si trattasse soltanto del fatto che il Figlio muore perché fa la volontà del Padre (e non: fa la volontà del Padre perché muore; il Padre non esige alcun risarcimento, alcuna vendetta, è perfetta Caritas), l'esemplarità del suo atto non potrebbe rivestire alcun significato conclusivo (mentre proprio su questo aspetto insiste l'intera tradizione, all'unisono). Saranno infatti sacrificati tutti coloro che dicono la Verità. Il Figlio non è, dunque, semplicemente testimone della Verità e perciò vittima del sacrificio, ma è la vita divina che si dona, che realmente e sanguinosamente si sacrifica, e in questo senso non può concepirsi sacrificio ulteriore» (ivi, pag. 563).

[9] Cf. anche Vattimo: «Gesù non si incarna per fornire al Padre una vittima adeguata alla sua ira: ma viene al mondo proprio per svelare e perciò anche liquidare il nesso tra violenza e sacro. Viene messo a morte perché una tale rivelazione risulta troppo intollerabile all'orecchio di un'umanità radicata nella tradizione violenta delle religioni sacrificali» (Credere…, cit, 29).

[10] J. P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico 1, Queriniana, Brescia 2001.

[11] Cf. il suo studio sulle beatitudini, che sostiene il contrario di ciò che afferma Meier, il quale rimanda tutto alla fine della storia: «Allora e, solo allora, gli affamati sarebbero stati saziati, i piangenti finalmente consolati, le iniquità di questo mondo rovesciate e tutte le promesse elencate  nelle beatitudini di Gesù mantenute, per lui oltre che per coloro che a lui prestavano ascolto» (J. P. MEIER, Un ebreo marginale…, cit., 2,  1242).

[12]  G. Mazzillo, Gesù e la sua prassi di pace, Merdiana, Molfetta (Ba), 1990.

[13] Così come si trova in alcune accurate traduzioni di questo passo, il Messia è la pace e non piuttosto egli porterà la pace. Cf. Das Neue Testament, la traduzione adottata dalle conferenze episcopali di lingua tedesca, che traduce: «Und er wird der Friede sein».

[14]  Vedi, ad esempio questi passi: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi ed i farisei. Quanto vi dicono fatelo ed osservatolo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito" (Mt 23,2-3). E poco dopo, apostrofandoli direttamente, esclama: "Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi" (Mt 23,15).

[15] Cf. Mc 11,15-17; Mt 21,12- 13; Lc 19,45-46) e l’attività messianica della predicazione e delle guarigioni ivi operate (Mt 21,14).

[16] S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul nazareno, Morcelliana, Brescia 1985, 88. L'autore riporta dal Talmud una sentenza simile (Joma 85b) e  commenta «il sabato è dato come un piacere e una gioia, e non come una camicia di forza imposta dalla legge».

[17] Vedi, anche a riguardo la scena della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15) e la sua precedente decisione a predicare subito dopo l'arresto di Giovanni Battista (Mc 1,14) o la reazione alla notizia del progetto di Erode Antipa di volerlo uccidere (Lc 13,31-33).

[18]       Mia traduzione dal tedesco, dalla raccolta dei testi originali di R. Eisenman - M. Wise (Hgg.), Jesus und die Urchristen. Die Qumran-Rollen entschüsselt, Bertelsmann, München 1993, 4Q471, Framemnto 1, pag. 39.

[19] Ivi.