Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

 

Relazione al mini-convegno regionale Caritas (Calabria) Acquavona 18/10/2002

 

Testimonianza della carità tra emergenze e  quotidianità. Presupposti teologi

 

0) Introduzione. Una profezia che è anche un messaggio

Partiamo da un brano che se non ha direttamente a che fare con il nostro tema, è tuttavia la promessa escatologica della fine di tutte le  emergenze. Il brano contiene infatti indicazioni preziose anche per il nostro tema, perché attesta che il Dio in cui crediamo e dal quale muoviamo, o meglio siamo (s)mossi, non sorvola sui bisogni degli uomini, ma piuttosto ha presenti quelli di tutti:

«O voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l'orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete" (Is 55,1-3a).

La profezia di Isaia si riferisce qui  a una delle più antiche e purtroppo sempre attuali emergenze: l'emergenza della fame che si aggiunge all'emergenza della sete. Quanto detto da Isaia riguarda tutti gli uomini e conferma, da un lato, l'estensione diremmo oggi diacronica e sincronica della fame e, dall'altro, il fatto che Dio è sensibile ai bisogni degli uomini, perché si comporta con loro come un padre con i figli, come un amico con i suoi amici. Il testo, oltre ad essere profetico, è certamente didascalico. Vuole invitare a non spendere le proprie risorse nell'inseguire ciò che è superficiale e non serve nella vita. Noi lo prendiamo come punto di partenza per cogliere un aspetto che, sebbene implicito, è per noi della massima importanza. Vi troviamo l'invito a imitare l'agire di Dio sia per ciò che concerne la sensibilità, la prontezza e il disinteresse che il profeta mette in luce, sia per ciò che riguarda l'universalità di un comportamento che non fa preferenze di persone, perché sa che l'emergenza è tale per qualunque uomo. Sebbene la profezia non tocchi di per sé ciò che con termine moderno noi chiamiamo emergenza, per noi credenti nel Dio d'Israele e nel Dio di Gesù Cristo è ugualmente interessante muovere da tale annuncio che contiene  un  messaggio non  meramente esortativo. Si tratta infatti una vera e propria comunicazione, quella che annuncia la gratuità di Dio ma non solo, annuncia anche la sua efficienza. Di fronte all'emergenza, sebbene solo alla fine della storia, Dio risponde non dando una qualsiasi acqua o offrendo un qualsiasi alimento, egli offre cibi squisiti e succulenti. La sua gestione dell'emergenza non è solo prodigalità, ma è anche generosità che dà anche quanto non è stato chiesto. Tutto ciò allo scopo di comunicare che a lui sta a cuore la salvezza completa dei suoi figli. La sua promessa è veicolo per l'annuncio di un amore più grande.

Una conferma in tal senso viene dal Vangelo. Dal testo in cui Gesù espressamente dice:

«Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce, darà una serpe? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,9-11).

Anche questa citazione ci offre la possibilità di desumere alcuni elementi caratteristici del nostro tema, guardando all'agire e alla mente, direi, al cuore di Dio. E chi meglio di Gesù poteva manifestarci questi sentimenti del Padre, che diversamente sarebbero rimasti nascosti a tutti. Se Gesù non li avesse manifestati, avremmo solo tentato di indovinare, come succede in molte religioni, che se un Dio c'è, non deve essere malevolo, ma benevolo verso tutti gli uomini.

Ciò che voglio dire è che dai profeti e da Gesù noi apprendiamo non tanto cosa sia l'emergenza in senso teorico o astratto, ma piuttosto come saperla individuare nei bisogni degli uomini che ci stanno intorno e con quale spirito dobbiamo intervenire. Il mio contributo vuole andare in questa direzione. Costituisce l'inizio di una riflessione nella quale si vuole mettere a fuoco l'urgenza dell'intervento a favore di chi versa in uno stato di grande bisogno, ma senza dimenticare che tutto ciò presuppone una ferialità, dalla quale sempre occorre partire, vale a dire quella ferialità che è segnacolo e sacramento del ritmo, dell'intensità, e della fedeltà dell'amore di Dio. Per questo motivo mi sembra importante fare un riferimento alla carità come attualizzazione di ciò che noi sperimentiamo di Dio (punto 1), per parlare dell’emergenza e della quotidianità nell'ottica dell'incontro (punto 2), un incontro che è incontro con l’altro in cui sempre riscoprire Dio e incontro con la comunità, chiamata a diventare luogo e palestra dove si impara dell'incontro stesso.

 

1) La carità come attualizzazione di ciò che noi sperimentiamo di Dio

Chi vuole praticare la carità deve anche viverla. Ma chi vuole vivere la carità non se la può imporre con la forza della volontà, può soltanto riceverla perché la sperimenta nella sua vita come dinamismo che viene da lontano, che viene da Dio.

Se di Dio possiamo sapere sempre e solo parzialmente qualcosa, sappiamo abbastanza per conoscere che il Dio che si è rivelato a noi è un Dio che ci ama e che ci chiede il nostro  amore. L'amore non è un obbligo, non si può imporre per decreto, l'amore è sempre un'esperienza e come tale si afferma e cerca una sua continuità nel tempo. Dio non ci ha chiesto né ci chiede di sacrificarci per lui, dal momento che tutta la rivelazione ci dimostra la sua oblatività nei nostri confronti. Egli si è manifestato non come neutrale onnipotenza, ma come l'infinito e indistruttibile Amore sussistente. La nostra distanza da lui è stata colmata da una ancor più sconfinata benevolenza, al punto che l'ineffabile non si è mai fermato nel suo continuo darsi verso agli uomini. Quel suo darsi ha raggiunto l'apice nella  storia di amore e di dolore di Gesù di Nazareth. Da Gesù impariamo un atteggiamento religioso nuovo, inedito nella storia delle religioni. Non sono gli uomini che devono prendersi cura di Dio, delle sue statue, delle sue feste, del suo tempio, del suo "onore", ma è Dio stesso che si prende cura degli uomini, delle loro condizioni fisiche e morali, dei loro bisogni, delle loro infelicità, perché gli uomini stessi trovino aiuto, guarigione, perdono, sollievo, pace. Il Dio che Gesù presenta, e che Gesù rappresenta, anzi che è egli stesso, è il Dio che viene alla nostra ricerca. Colui che tutte le religioni hanno sempre cercato, si è messo sulle strade degli uomini, per cercare tra loro soprattutto i bisognosi e gli infelici e, a cominciare da loro, ha voluto predicare che un nuovo modo di vivere e di essere è iniziato: è il regno di Dio, quello in cui gli ammalati sono guariti, ai poveri è annunciata la buona notizia e agli sconfitti e ai peccatori è dato il perdono. Pertanto non è solo una bella espressione poter affermare che Dio non è restato nella sua splendida solitudine, ma ci è venuto e continuamente ci viene incontro. Cercando i testi biblici dove ricorrono esplicitamente i termini del venirci incontro di Dio, ne ho trovato alcuni, ad esempio nei cosiddetti libri sapienziali, dove la sapienza stessa non è altro che la personificazione dello spirito di Dio e la sua manifestazione, insomma il suo amorevole rapportarsi con noi e con la nostra vicenda umana, quella condizione umana piena di fascino e tuttavia non priva di pesanti enigmi e di inquietanti problemi.

Verso tale realtà umana Dio viene incontro, innanzi tutto nelle vesti della sua Sapienza:

«Così agirà chi teme il Signore; chi è fedele alla legge otterrà anche la sapienza. Essa gli andrà incontro come una madre, l'accoglierà come una vergine sposa» (Sir 15,1-8).

«La sapienza è radiosa e indefettibile, facilmente è contemplata da chi l'ama e trovata da chiunque la ricerca. Previene, per farsi conoscere, quanti la  desiderano. Chi si leva per essa di buon mattino non  faticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di essa è perfezione di saggezza, chi veglia per lei sarà presto senza affanni. Essa medesima va in cerca di quanti sono degni  di lei, appare loro ben disposta per le strade, va loro incontro con ogni benevolenza» (Sap 6,12-14).

Ma perché non pensiamo che si tratta solo di quella sapienza che solo i ricchi e i nobili si possono permettere, ricordiamo che a tali passi sembra far riferimento, seppure non sempre esplicitamente, Gesù quando parla concretamente di bisogni, come quelli che abbiamo prima menzionato e che costituiscono l’alimentazione primaria dei poveri. È quella indispensabile per non morire che fa riferimento al pane, al pesce, all’uovo. Oggi diremmo gli indispensabili glicidi (gli zuccheri), le proteine, i lipidi (i grassi). Parlando di queste cose, Gesù dice:

«Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce, darà una serpe? [Luca aggiunge: O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Lc 11,12]. Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,7-11).

Volendo inaugurare la realizzazione della profezia del banchetto messianico preconizzato da Isaia, Gesù imbandisce appunto un banchetto, nel luogo solitario che ricorda il primo incontro tra Dio e il suo popolo, nel deserto. Per esso chiede la collaborazione di qualche presente e dei suoi discepoli, per offrire quella cena a base di pane e di pesci, di cui raccontano tutti e quattro i Vangeli ed alcuni persino due volte, mentre si può notare che l’istituzione dell’eucaristia è raccontata solo nei sinottici

Non è corretto voler cercare a tutti i costi nella Bibbia pezze giustificative per problemi e termini nuovi e, tuttavia, in questo caso si può affermare che, se Gesù ha avvertito qualcosa come alcune emergenze di un popolo (emergenze peraltro esemplari e indicative per ogni situazione similare), è proprio in questo caso, quando con maggiore attenzione alle persone, di quella dimostrata dai suoi apostoli, Gesù dice:

«Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle proprie case, verranno meno per via; e alcuni di loro vengono di lontano» (Mc 8,2-3).

Se questo brano è così esplicito, non meno importanti sono tutti gli altri episodi della vita di Gesù nei quali egli interviene per guarire e persino per restituire la vita, per riscattare dalla vergogna e dal disprezzo, per additare la grandezza dell’amore e del perdono. Sono passi troppo noti quelli relativi al figlio della vedova di Nain, di Lazzaro, dell’emorroissa, della donna che ungeva i piedi di Gesù, di Zaccheo, dei lebbrosi ecc., perché se ne debba parlare oltre.

In ogni caso ci sembra di poter affermare che l’annuncio e la prassi inaugurante la venuta del regno di Dio costituiscono in genere la risposta puntuale, integrale e concreta con cui Dio affronta  in Gesù l’urgenza più che l’emergenza di problemi paradigmatici ed esemplari della vicenda umana.

In quest’ottica si può leggere anche quell’appello formale rivolto da Gesù agli sfiduciati e agli smarriti, come racconta il vangelo di Giovanni:

«Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: "Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno". Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,37-39).

2) Emergenza e quotidianità nell'ottica dell'incontro

Quanto finora detto non vuole offrire un appiglio all’alibi che affiora talora nella prassi cristiana e persino in alcune preghiere, quando ci si rivolge a Dio perché provveda lui alle necessità degli uomini, ad offrire pane a chi non ne ha e liberazione a tutti gli oppressi. Se Dio è giustamente invocato, perché ci dia il pane quotidiano e perché liberi gli uomini da ogni forma di asservimento, non si deve mai dimenticare, nel primo e nel secondo caso, che la sua Parola indica chiaramente l’ndispensabilità di una collaborazione umana. Nell’episodio già ricordato Gesù non solo si serve dei pani e dei pesci di qualcuno dei presenti, ma dopo la risurrezione dà consegue inequivocabili ai suoi discepoli,perché abbiano cura degli indigenti e dei bisognosi. Leggendo nel vangelo al di là di quella patina di “prodigioso”, che rappresenta la sottolineatura catechetica del valore salvifico dei segni, il compito affidato ai continuatori della sua opera è quello di occuparsi dei malati e dei bisognosi:

«Predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, (Mt 10, 7b-8).

Ciò che però qui mi preme sottolineare è che in ogni caso l’approccio non può essere solo quello efficientista o peggio altezzoso di chi viene dal di fuori e guarda dall’alto in basso il bisogno altrui. È sempre un approccio che deve avvenire nell’ottica dell’incontro. Non per nulla il vangelo racconta ripetutamente del contatto fisico e spirituale che Gesù stabilisce con coloro che cura e guarisce. La suocera di Pietro è sollevata dalla mano di Gesù (Mc 1,31), il lebbroso è toccato e con quel gesto è risanato (Mc 1, 41), l’uomo dalla mano inaridita è posto al centro dell’attenzione di tutti (Mc 3,1-5), il cieco stesso è preso per mano e condotto fuori dell’abitato (Mc 8,22-26). Non sono che alcuni esempi, ma testimoniano un approccio, tanto dell’emergenza che della quotidianità, come un approccio interrelazionale, teso a ridare all’uomo non solo ciò di cui ha maggiormente bisogno, ma anche e soprattutto la consapevolezza della sua dignità, ormai ferita se non persa, a motivo dell’infelicità con la quale egli ha avuto a che fare.

D’altra parte ci sono anche le testimonianze di condivisione di beni del libro degli Atti o delle collette, di cui parla l’epistolario di Paolo. No si tratta mai di puri interventi materiali o di operazioni come di un deus ex machina, ma di gesti che nascono e si compiono in una relazionalità più autentica, che aiutando l’altro nel suo reale bisogno, lo ristabiliscono o lo consolidano in una rete di rapporti positivi e maturativi, sia per l’individuo sia per la comunità.

Basti citare l’episodio dell’elezione dei diaconi, scelti con cura e consacrati a un doppio compito: la condivisione della Parola e la distribuzione dei beni alle vedeve bisognose (At 5,1-7ss). 

L’incontro è allora lo strumento spirituale e l’atmosfera più consona alla testimonianza della carità negli ambiti di cui qui ci occupiamo. Deve avvenire in un clima di speranza e, se possibile, di gioia e di festa, similmente a come troviamo nel libro di Tobia, lì dove si racconta della gioia del vecchio Tobi, che esce incontro alla sposa del figlio:

«Allora Tobi uscì verso la porta di Ninive incontro alla sposa di lui, lieto e benedicendo Dio. Quando la gente di Ninive lo vide passare e camminare con tutto il vigore di un tempo, senza che alcuno lo conducesse per mano, fu presa da meraviglia; Tobi proclamava davanti a loro che Dio aveva avuto pietà di lui e che gli aveva aperto gli occhi» (Tb 11,16).

Sono queste le premesse che ci portano a dire che la comunità deve diventare il luogo e la palestra dove s’impara l'incontro. In questa maniera testimonia la carità: la carità di Dio che viene incontro ai bisogni dei suoi figli, passando per la mani e soprattutto per la voce e per i gesti, carichi d’affetto, per quanti sono soccorsi.

Ciò che colora e insaporisce di carità il quotidiano è la consapevolezza di essere segnali di un amore più grande, che ci sorpassa sempre e che tuttavia ci fa andare incontro all’altro, come si va all’appuntamento con Dio e con il compito più grande che egli ha inteso affidarci. È da questo quotidiano, ridipinto con la straordinarietà sempre attuale dell’amore, che si può e si deve cogliere il valore anche di ciò che costituisce un appello particolare, quello appunto dell’emergenza.

Troviamo tutti questi elementi nell'incontro tra Maria ed Elisabetta. Maria è venuta dalla cugina, perché sa che ha bisogno del suo aiuto. L’ha mossa la percezione di una necessità impellente e concreta e tuttavia, anche in una situazione come questa, l’incontro tra lei venuta a portare aiuto e l’altra, che lo deve ricevere, non è vissuto con supponenza o superiorità. Piuttosto con la trasparenza di chi percepisce che ci sono dei compiti affidati ad entrambe, ma soprattutto che ciascuna è affidata all’altra, perché tutti siamo occasioni di un amore non declamato, ma declinato in tutte le sue voci, in tutte le sue effettive circostanze. È il ministero della visitazione, un ministero importante, praticato oggi solo estemporaneamente e dai più volenterosi, ma che sarebbe ora di indicare come uno dei compiti precipui della presenza e della missione della Chiesa nel  mondo. In questa maniera si realizza l’incontro tra le attese di Dio e il suo messaggio, tra i bisogni dell’uomo e l’offerta della salvezza, similmente a quell’incontro tra ciò che rappresentano Maria ed Elisabetta, tra ciò che lei porta in grembo e ciò che Elisabetta significa: l'antica attesa e la ricerca di Dio come salvatore del suo popolo e dell'umanità tutta:

«In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,39-45).

Da Maria di Nazareth possiamo avere altre indicazioni non meno preziose. La sua disponibilità all’incontro con l’altro appare in tutte le circostanze delle quali sono rimaste tracce nei vangeli. Così, ad esempio, la sua disponibilità ad incontrare i pastori e i magi, ad andare incontro al vecchio Simeone o alla profetessa Anna, il suo andare a cercare e vedere di persona Gesù, quando i suoi parenti avevano fatto circolare la voce che egli era fuori di sé. Accanto a questi episodi è meritatamente ricordato l’intervento risolutivo di Maria alle nozze di Cana. Qui possiamo cogliere alcune indicazioni non meno preziose per una ferialità intrisa della straordinarietà della carità che si declina secondo la scansione di momenti ben precisi. Il primo è l’accettazione dell’invito, soprattutto della gente semplice, come deve essere stato il caso delle famiglie degli sposi, se è potuto succedere che nel bel mezzo della festa è venuto a mancare il vino. Testimoniare la carità non sempre s’identifica solo e necessariamente con il dare. Talora passa attraverso la disponibilità a ricevere. Sì, ricevere proprio dai poveri e da coloro che si pensa di beneficare. Visitazione è anche questo, è invitare, ma è anche accettare l’invito. È un comportamento che vediamo spesso nella vita di Gesù. Il vangelo, che pure contiene solo a grosse linee i tratti essenziali della vita di Gesù, non ci ha nascosto la sua partecipazione a banchetti e feste. L’accoglienza degli inviti e la sua disponibilità a volere ricevere dagli altri da parte di colui che aveva tutto da offrire, è davvero un’indicazione preziosa. Attesta che l’amore non pretende di sopraffare l’altro con i suoi doni a senso unico. Sa accogliere e apprezzare, perché vuol far sentire l’altro a suo agio e soprattutto non vuole farlo sentire inferiore. Se l’amore in generale o trova uguali o rende tali, la carità non è da meno. Sa persino spogliarsi dei suoi orpelli, perché sa rischiare tutto, anche la propria onorabilità.

Il secondo momento che rende straordinaria la quotidianità lo possiamo ritrovare nell’attenzione premurosa con la quale Maria segue la festa degli sposi. Si accorge dell’incidente in cui vengono a trovarsi gli sposi prima ancora che esso succeda. Se dobbiamo dare un nome a questa seconda indicazione preziosa, potremmo dire che se la prima era quella della convivialità accettata, questa è quella della solidarietà premurosa e persino preveniente. Segue la discrezione con la quale Maria cerca di risolvere il caso. Davvero il suo gesto attesta la validità di quanto don Milani ha fissato come linea cardine dell’agire  solidale: «Far strada ai poveri senza farsi strada».

Infine la tenacia con la quale interviene presso Gesù ci mostra un terzo aspetto della gestione tanto della quotidianità che dell’emergenza: non fermarsi davanti alle prime difficoltà, insistere e proseguire a cercare le soluzioni più idonee. Non arrendersi invocando l’alibi delle prime difficoltà: non c’è stato niente da fare. Solo in un caso non c’è niente da fare: quando la nostra carità è superficiale, distratta, o peggio mediocre. La mediocrità infatti non può mai raggiungere il livello dell’autentica carità, giacché la mediocrità è semplicemente mancanza di carità.

Non sono tutte queste che semplici indicazioni, ma hanno dalla loro il fatto di essere state desunte dal vangelo, dall’agire di Gesù, dei suoi discepoli e di Maria sua madre. Sono per noi punti luminosi ai quali sempre guardare, per comunicare e  testimoniare l’amore, pensando contemporaneamente e in primo luogo ad accoglierlo in se stessi. Se è vero che bisogna comunicare il vangelo in un mondo che cambia, non dimentichiamo mai che la prima e la più decisiva accoglienza del vangelo avviene nella propria vita. Deve avvenire sempre in essa. Comunicare agli altri per comunicare, senza sentirsi trasformati, sì trasfigurati dallo stesso annuncio, può diventare solo un compito estrinseco, una sorta di missione autoritaria, che non sa alla fine né perché, né verso chi siamo stati mandati. Il vangelo è da comunicare infatti innanzi tutto con la propria vita. «Gridare il vangelo con la vita» – diceva Charles De Foucauld. A questo motto dobbiamo tornare per non allinearci come concorrenti tra quanti predicano solo per predicare, per affermare la propria causa di appartenenza e per impiantare il proprio orticello in quello più ampio di una Chiesa che non ha, non deve avere, orticelli e recinti. È comunicare con la vita dunque più che con le parole, perché la carità è vita, è esperienza, è sintonia, è convivialità, è attenzione continua. Comunicare la rilevanza del vangelo per la propria esistenza, per la propria Chiesa è ciò che maggiormente conta e di cui poco si parla. Occorre invece comunicare con la testimonianza che convince. Anche se resta da chiedersi: «In quale mondo?» Si dice «in un mondo che cambia». In un mondo che cambia, ma cambia davvero? Sì, cambia quanto ai suoi mezzi espressivi e comunicativi, ai suoi modelli culturali e ai suoi obiettivi, seppure riusciamo a individuarne ancora qualcuno davvero plausibile e convincente. Ma è un mondo che non cambia affatto, che non è cambiato per niente, invece, quanto all’impostazione generale del cosiddetto progresso e della cosiddetta neo-coniata globalizzazione. Non è cambiato ancora, ma potrà, dovrà cambiare, nel capire che i beni e le risorse non sono solo di una parte degli uomini, cioè di quelli che con astuzia, intraprendenza e violenza se ne impadroniscono a danno degli altri. Non è cambiato nel costruire strumenti di guerra e nel minacciare continue guerre, piuttosto che nel costruire i presupposti di una pace, più difficile e più laboriosamente da realizzare, eppure una pace senza della quale la qualità della vita, oltre che della nostra civiltà, diventa non solo non credibile, ma anche non ulteriormente possibile.

Se una ferialità della carità è ancora possibile allora sarà bene ricorrere a tutte le sue più intime risorse, quelle che facevano pregare un artefice di pace come don Tonino Bello con queste parole:

«Santa Maria, donna feriale, aiutaci a comprendere che il capitolo più fecondo della teologia non è quello che ti pone all’interno della Bibbia o della patristica, della spiritualità o della liturgia, dei dogmi o dell’arte. Ma è quello che ti colloca all’interno della casa di Nazareth, dove tra pentole e telai, tra lacrime e preghiere, tra gomitoli di lana e rotoli della Scrittura, hai sperimentato, in tutto lo spessore della tua antieroica femminilità, gioie senza malizia, amarezze senza disperazioni, partenze senza ritorni. Santa Maria, donna feriale, liberaci dalle nostalgie dell’epopea, e insegnaci a considerare la vita quotidiana come il cantiere dove si costruisce la storia della salvezza». (A. BELLO, Maria donna dei nostri giorni, Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 1989, 13).