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Incontro Caritas Regionale
Campora S. Giovanni 16/04/02

Giovanni Mazzillo
La Chiesa del Vaticano II

Premessa

Il tema è solo apparentemente semplice. Non tanto per la quantità e la complessità degli elementi che investe, ma anche e soprattutto, perché a distanza di oltre tre decenni dalla chiusura del concilio che ci riguarda, le interpretazioni sulla sua ecclesiologia sono state molteplici e talora contrapposte. A complicare la matassa sono sopraggiunti documenti e interventi che non sembra agevole ricondurre a una linearità e un'uniformità che metta al riparo quell'ecclesiologia da letture unilaterali e tendenziose. Proprio qui si tocca infatti uno dei nodi fondamentali, se non il principale, relativo al Vaticano II, quello della sua recezione. Se si può dire che essa sia avvenuta su alcune questioni e in relazione ad alcuni ambiti ben delimitati (si pensi alla riforma liturgica, a quella della curia e alla prassi sacramentale in genere), non è avvenuta in maniera uniforme ed univoca relativamente agli altri grandi temi. Ne citiamo solo alcuni: il rapporto interreligioso, l'impegno per la pace e per la giustizia, la riscoperta del valore evangelico della povertà e della semplicità, il riconoscimento della propria colpevolezza in alcuni avvenimenti storici (fino a chiedere perdono per gli errori commessi), la rinuncia ai privilegi e agli appoggi mondani, la rinuncia a titoli e a comportamenti non consoni allo stile e ai contenuti della sequela di Gesù. Con ciò non vogliamo minimizzare la portata epocale del concilio ecumenico cui facciamo riferimento, vogliamo solo indicare alcune piste non ancora interamente percorse, perché probabilmente accettate solo formalmente, ma non condivise fino in fondo. Ciò ha reso e rende difficoltosa la recezione pratica dello stesso Vaticano II, al quale tuttavia è indispensabile fare riferimento, anche ai fini di un maggiore impegno da profondere in quell'indispensabile compito di formazione alla mentalità e allo spirito del Concilio, senza dei quali non esisterebbe nemmeno la Caritas, che di quell'evento è uno dei grandi frutti. Non fosse altro perché veniva a rimpiazzare la POA (Pontificia Opera di Assistenza), quando fu istituita nel 1971 da Paolo VI.

Da parte nostra, siamo invece più che convinti che, nonostante i problemi di recezione del Vaticano II, la svolta del Concilio è tale da giustificare l'adozione dell'espressione che parla di una nuova (e per noi autentica) ecclesiologia. Solo a partire da questa, possiamo meglio comprendere la natura, le motivazioni e la caratterizzazione di organismi quali la Caritas, la Iustitia e Pax, e per altri versi la stessa Pax Chisti, antecedente, quest'ultima, al Vaticano II, ma che al seguito di esso ha avuto un nuovo slancio e rinnovate motivazioni. Sono tutti organismi che concretizzano sul piano storico gli approfondimenti dottrinali ed ecclesiologici relativi all'impegno della Chiesa nel mondo, così come altri, del tipo il Segretariato per l'ecumenismo, il dialogo interreligioso ecc. sono risultati strumenti attuativi del mutato atteggiamento della Chiesa rispetto alle altre confessioni cristiane e alle altre religioni e così come le varie commissioni o organismi liturgici e pastorali sono realtà subentrate grazie alla maturazione liturgica e in genere pastorale avvenuta allo stesso Concilio.

Gli uni e gli altri corrispondono all'impegno della Chiesa conciliare dimostrato nell'articolare una prima serie di risposte alla duplice domanda riguardante l'identificazione e l'identità della Chiesa. Sono domande del tipo: "Chiesa che cosa dice Dio di te?" e "Che cosa dici tu di te stessa?", con un'attenzione tutta particolare nel declinare tali grandi questioni non astrattamente, ma in rapporto, da un lato, alla Parola e all'azione salvifica di Dio verso la storia e, dall'altro, in rapporto ai grandi compiti che attendono la Chiesa verso la società e l'umanità in genere, e più concretamente verso i suoi problemi, il suo presente e il suo futuro.

In questo contesto complessivo, dovremo per forza di cose, selezionare alcuni grandi temi, non estrapolandoli, ma radicandoli nella visione d'insieme qui abbozzata e in riferimento più preciso a ciò che sta maggiormente a cuore alla Caritas italiana. Essa del resto non ci è apparsa sguarnita e lontana da tale ambientazione ecclesiale ed ecclesiologica. Al contrario, ha mostrato un grande interesse per la teologia sottostante alle sue scelte e ai suoi orientamenti di fondo, fino a dichiarare esplicitamente, come fa nella "Carta pastorale" del 1995[1], che il suo sviluppo e la sua verifica devono avvenire, oltre che con il confronto con le diverse forme di povertà oggi emergenti e con tutto quanto ad esse attiene, anche con il "un costante confronto da una parte con la teologia e dall'altra con le varie discipline delle scienze umane (pedagogia, psicologia, sociologia, economia, ecc.)"[2].

Dopo un'attenta lettura della Carta pastorale, ci è sembrato di poter raccogliere il nucleo più consistente dell'ecclesiologia del Vaticano II, relativamente ai temi sui quali la Caritas è andata maturando, organizzandoli intorno a questi tre termini, da considerare parole generatrici e non semplici indicazioni nominali: la temporalità, la radicalità e la quotidianità. 1) La temporalità come agire salvifico della Chiesa che oggi e adesso realizza la salvezza di Dio; 2) la radicalità come stile e irreversibilità della sequela di Gesù; 3) la quotidianità come spazio e strumento di un amore irreversibile. Essa è infatti una dimensione costante di accompagnamento, di cura e di liberazione degli emarginati, in risposta alla continua convocazione del suo popolo da parte della Parola di Dio.

1) La temporalità come agire salvifico della Chiesa che oggi e adesso realizza la salvezza di Dio

A questo tema si collega direttamente quello della riscoperta del "popolo di Dio" in riferimento all'ecclesiologia di comunione. Affermiamo con chiarezza che il popolo di Dio di cui parliamo è popolo del Dio trinitario o, come meglio si dovrebbe dire, del Dio unitrinitario. Incontrarlo in quanto tale, significa incontrare la carità, cioè l'amore e, viceversa, incontrare la carità, significa, come diceva Agostino, incontrare la Trinità[3]. Dobbiamo sempre tenerlo presente, perché per noi dire oggi "popolo di Dio" è asserire qualcosa di diverso, pur nella continuità, di ciò che intende l'ebraismo non cristiano. Se Dio è sempre lo stesso, la rivelazione neo-testamentaria ha chiarito che Dio è comunione di Persone. Pertanto, per "popolo di Dio" si intende una comunità interamente legata al Padre, definitivamente salvata da Cristo e perennemente convocata dallo Spirito Santo (tutto ciò che si esprime nel simbolo: credo la Chiesa). Tuttavia ciò non basta, perché bisogna chiedersi fino a che punto questo dato di fede esista allo "stato puro" e fin dove possa arrivare la sua assolutezza, senza una storicizzazione in categorie e mediazioni che lo mettano alla portata degli uomini, i quali invece vivono di storia e sono impastati di storia. Non ha Dio stesso storicizzato la rivelazione e la salvezza? E senza storia si potrebbe ancora parlare di "salvezza"? In definitiva, si potrebbe parlare di Cristo come del Logos incarnato, se si misconoscesse la realtà storica dell'uomo? Su questa linea, certamente non si può parlare del mistero della Chiesa, senza parlare della sua componente storico-sociale, perché non esiste una Chiesa che non sia popolo di Dio.

L'espressione "popolo di Dio" coniuga l'elemento trascendente-misterico e quello storico-sociale della Chiesa. Indica un popolo di natura particolare, da considerare come appartenente a Dio: di Dio perché Dio è sua origine, sua meta e suo compagno di cammino; popolo perché comunità di uomini, con tutto ciò che ne consegue, soprattutto in riferimento a quell'umanesimo di fondo fatto proprio dall'ultimo concilio[4].

Certamente ciò non basta ancora a giustificare in pieno la preferenza della categoria del "popolo di Dio", rispetto a tutte le altre pur valide denominazioni della Chiesa. Né una simile opzione è stata esente da critiche e persino da riserve nel linguaggio intraecclesiale. Da parte nostra, siamo del parere che è tempo di superare ogni sospetto di inquinamento ideologico che ancora pesi sulla comprensione della Chiesa come popolo di Dio[5]. Tale terminologia non è infatti sociologica, ma teologica. Non indica una democratizzazione tale da dedurre l'autorità dal basso, rimanda piuttosto a quell'originaria ed originale forma di partecipazione alla comunione unitrinitaria di uomini, donne, anziani e bambini radunati dallo stesso Spirito che opera l'unità all'interno della Trinità. Ciò fa superare qualsiasi concezione di delega o di governo democratico attraverso una votazione maggioritaria, perché trova il modello migliore in una familiarità effettiva, che non trascura le minoranze o i più deboli, ma invece spinge a concentrare le energie di tutti a loro vantaggio. Se "popolo di Dio" ricorreva nel linguaggio di alcune forme assunte dalla "teologia della liberazione", alcune delle quali erano state oggetto delle due istruzioni della Congregazione per la Dottrina della fede[6], si può convenire che la traduzione "popolo di Dio" con la pura e semplice locuzione Chiesa popolare, o Chiesa del popolo, non è né felice, né densa della teologia che vi sta a monte. Oggi è però risultato ugualmente eccessiva la preoccupazione che l'espressione "popolo di Dio" induca a ritenere la Chiesa come un'associazione proveniente dal basso, tanto da mettere in dubbio l'opportunità del suo utilizzo[7]. Il popolo di Dio, di cui noi parliamo è qui menzionato "in quanto popolo della nuova alleanza stipulata in Cristo". Come tale, non può essere messo in discussione, perché è un dato di fede. La Carta pastorale della Caritas lo adotta in questa accezione in una lunga e teologicamente importante sequenza, parlandone come "chiesa verso la quale guardiamo e che ci impegniamo a costruire". Essa è

"Una comunità di discepoli, chiamata e mandata. In particolare essa si connota come:

- Popolo/famiglia di Dio

- Popolo itinerante e pellegrino

- Popolo che si fa profezia, libero e liberante

- Popolo missionario nella storia e nel territorio" (Ivi, 19).

La sua stessa realtà di popolo di Dio indica una Chiesa che non vive per se stessa. Sicché i valori che porta non si possono comprendere in una prospettiva sociologica. Sono, è vero, valori che investono la sua vita nel tempo e nello spazio, e per questo parliamo di temporalità, tuttavia essi nascono e si alimentano nell'alveo unitrinitario dell'amore di Dio e ad esso tendono. Scrive la costituzione Gaudium et spes:

"I beni, quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre "il regno eterno ed universale: che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace""[8].

Con questi solidi presupposti la teologia del "popolo di Dio" è garantita da cadute ideologiche[9]. È vero quanto si riscontra da più parti: è ancora carente una sistematica ecclesiologia del popolo di Dio[10] e tuttavia, come il testo citato della Caritas dimostra, l'ecclesiologia ha tutto da guadagnare da una visione della Chiesa che metta meglio in luce la dimensione storica della sua missione[11]. Se l'idea di "popolo di Dio" infatti attecchisce nella realtà salvifica del mistero della Trinità, si superano anche le difficoltà evidenziabili in una definizione dei termini di natura sociologica, dove gli stessi concetti in gioco risulterebbero alla fine o troppo generici (come, ad esempio, popolazione, gente, folla) o troppo restrittivi (come, ad esempio, etnia, classe, paese)[12].

Restando sul dato rivelato, appare invece subito la consistenza biblica del "popolo di Dio". La locuzione risale infatti nell'Antico Testamento a quella di "popolo di Jahvè", che è preferita all'altra adottata dal Concilio[13]. Il concetto è tuttavia lo stesso. Esso ricorre anche nel Nuovo Testamento come laós toû theoû[14], sebbene più frequentemente sia presente in locuzioni concettuali che in 130 casi circa sono a questo equivalenti. Si riferiscono comunque alla comunità appartenente a Dio, pur nelle varianti di "popolo mio", "popolo dell'alleanza" ecc. Rimandano in ogni caso a quel contesto che, alla luce del Nuovo Testamento, è risultato essere quello unitrinitario di cui parlavamo[15], ma appunto per questo, con una connotazione storica, senza la quale sarebbe incomprensibile. Da ciò deriva l'applicazione al popolo di Dio della caratteristica di soggetto storico, un espressione senza dubbio importante, sebbene si registri la necessità di un suo approfondimento[16].

In tale approfondimento, il passaggio dalla Chiesa come mistero alla Chiesa come popolo di Dio[17] non può significare l'abbandono della dimensione misterica della Chiesa. Significa un suo sviluppo, recuperando tutto il valore del "mistero" nell'uomo e nel tempo (si pensi alla teologia conciliare dei "segni dei tempi"), nella dimensione socio-comunitaria e in quella storica della vicenda umana sulla terra. La dimensione misterica indica tale costante riferimento a Dio anche dell'uomo e del suo mistero, quel mistero che caratterizza anche l'uomo e lo rende grande. Al punto di farlo considerare immagine di Dio in qualunque soggetto umano, soprattutto in coloro che, per motivi storici e non teologici, soffrono di qualche menomazione dal punto umano o sociale, morale o economico, esistenziale o relazionale. A riguardo ricordiamo sempre ciò che la Parola di Dio prescrive per tutti, in primo luogo per la sua Chiesa:

"Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora" (Pr 14,31);

"Chi deride il povero offende il suo creatore, chi gioisce della sciagura altrui non resterà impunito" (Pr 17,5);

Il mistero di Dio passa attraverso tale mistero dell'uomo e rimanda all'urgenza di una prassi di reintegrazione della dignità umana come vera e propria prassi salvifica: la stessa che era in atto nella prima alleanza e che, senza soluzioni di continuità, è passata alla seconda. Ciò significa una continuità storico-salvifica che abbraccia il popolo di Jahvè e l'ecclesia de Trinitate[18]. Sono non due, ma il medesimo soggetto. Sono quel soggetto storico che non solo vive nella storia, ma porta in sé l'impronta e un fermento divino che spiega e salva la storia. Pertanto la realtà della Chiesa in quanto popolo di Dio e la sua realtà di mistero emergenti già dai primi capitoli e da tutta l'impostazione della Lumen gentium, non sono da contrapporre, ma da considerare elementi reciprocamente integranti ed esplicativi[19]. Ci sembra questa la via migliore da percorrere, per tener conto di ciò che autorevolmente è stato precisato nel dopo-concilio[20], anche al fine di integrare aspetti complementari che non sono da disgiungere[21].

Questa concezione costituisce un correttivo, di quell'uso e talora abuso, di una terminologia che ricorre sempre e solo alla comunione e che mentre ripete il termine "comunione, comunione", non adempie talora nemmeno il puro e semplice livello della corretta "comunicazione", dimensione pur costitutiva della comunione medesima[22]. Comunione e dialogo, in una visione introversa della Chiesa rischiano, a lungo andare, l'ideologizzazione[23], scadendo in una visione o prevalentemente sociologica come "l'ideologia della comunità", oppure in una sorta di giustificazione teorica di nuove forme di compattamento e di centralismo che il Vaticano II sembrava aver ormai superato.

Alla luce di quanto detto, si deve ritenere che la comunione humus e clima teologale indispensabile per comprendere la sacramentalità della Chiesa e il valore ecclesiologico pieno della singola comunità in quanto fondata su "una realtà ontologicamente e temporalmente previa a ogni singola Chiesa particolare"[24]. Ma è parimenti l'unico clima teologicamente giustificabile per intendere l'indefettibilità della fede. Infatti la presenza dello Spirito Santo, artefice della comunione, è "necessariamente sovrana ed immediata" e ciò costituisce il fondamento teologico del "senso di fede" dei fedeli, ma anche il fondamento dell'unità e diversità dei ministeri e dei carismi[25]. Tutto ciò costituisce insomma la realtà della Chiesa, in quanto realtà misterica e quindi in comunione e in quanto realtà storico-sociale e quindi soggetto in cui si attua la comunicazione. La prima e fondamentale forma di comunicazione è infatti la rivelazione, che al pari della trasmissione della fede, ad essa sempre riferita, è un'ulteriore e determinante forma comunicativa. Eppure sia l'una che l'altra rimandano alla dimensione storica della Chiesa, insomma danno ragione e consistenza teologica alla realtà del popolo di Dio in quanto vero soggetto storico e vera grandezza teologica.

Il popolo di Dio come corpo storico oltre che mistico, compie alcune opzioni di fondo per camminare nella storia, come ci indica il cap. 7 della Lumen gentium , alla ricerca della patria definitiva e per costruire una storia sulla terra conforme al progetto di Dio. Per questo scopo, fa continuo ricorso alla Parola di Dio, che ne traccia il percorso, oltre a disegnarne l'identità. Se ne possono agevolmente ricavare alcune opzioni così formulabili:

a) opzione teologica (scegliere sempre Dio e la su Parola);

b) opzione cristologica (scegliere sempre Cristo e coloro che Cristo ha prediletto);

c) opzione ecclesiologica (avere sempre un'identità di Chiesa che sia consequenziale con le opzioni precedenti).

L'opzione teologica rende possibile il primo passaggio: dal supernaturalismo ad un'evangelizzazione attraverso una vita credibile; l'opzione cristologica rende possibile un secondo passaggio: dalla carità come virtù individuale alla riscoperta dell'amore come dinamismo teologale; l'opzione ecclesiologica rende infine praticabili gli ultimi e decisivi passaggi: dalla Chiesa societas alla Chiesa come comunità; e dalla Chiesa come comunione interna alla Chiesa come popolo di Dio in comunione con tutti gli uomini.

La prima opzione, quella teologica, è collegata alla scelta tra la ricerca della propria salvezza e la ricerca della salvezza degli uomini. Si può affermare che solo chi ama gli uomini può capire il Vaticano II. Ciò riprende la concezione fondamentale dell'amore come via di autentica conoscenza. È la concezione di Agostino che la riprende dal vangelo di Giovanni. Qui si parla del praticare la verità, più che conoscerla: "Chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio" (Gv 3,21). Il principio riguarda sia l'amore verso Dio che verso il prossimo. Chi li ama entrambi li conosce anche; costui sarà in grado di capire il Vaticano II. A ciò si aggiunge il fatto che la Chiesa non esiste per sé, ma per volere ed azione del Dio unitrinitario ed è per la salvezza del mondo. Una concezione clericale porta a una Chiesa introversa; una concezione basata sul popolo di Dio porta invece - come deve essere - a un'ecclesiologia estroversa[26]. Perché la Chiesa sia estroversa deve vivere la carità come solidarietà di Dio con gli uomini e in particolare con i poveri. Solo così può intendersi quel principio conciliare che afferma:

"Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo" (Gaudium et spes, Nr. 1)

Da dove nasce questa stretta unione della Chiesa con tutta la famiglia umana? Nasce dalla stretta unione con Dio. Perché talora manca a una certa Chiesa la solidarietà verso gli uomini? Perché le manca la vera familiarità con Dio.

La vera famiglia di Dio è infatti quella che compie la verità: Mt 12,47-50: <<Qualcuno gli disse: "Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti". Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: "Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre">>.

2) La radicalità come stile e irreversibilità della sequela di Gesù

La seconda opzione, quella cristologica, ci pone dinanzi alla scelta della sequela. Di scelta si tratta, in quanto via percorribile e da percorrere da parte dell'intero popolo di Dio: dai religiosi e dagli altri consacrati con una speciale consacrazione non meno che da parte degli altri membri della Chiesa, quelli che di solito sono chiamati i "laici". Del resto, questo stesso termine non indica altro che l'appartenenza al popolo, visto che deriva proprio da laòs. E tuttavia la sequela può essere anche disattesa, più nei fatti che nelle dichiarazioni di principio. È stato il Vaticano II ad aver indicato la sequela Christi non più come via straordinaria riservata ad alcuni eletti, ma come la strada di tutti, partendo dal presupposto che essa è la via ordinaria del popolo di Dio. La sua natura itinerante, di cui la lumen gentium parla esplicitamente nel VII capitolo, non si comprende se non alla luce di questa verità dove si vede la Chiesa sulle stesse tracce del suo Signore e Maestro. È questo anche il senso di quanto il Vaticano II asserisce sulla Chiesa in quanto "popolo messianico":

"Questo popolo messianico ha per capo Cristo "consegnato per i nostri peccati, risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,25), che regna glorioso in cielo dopo aver ottenuto il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Lo statuto di questo popolo è la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali, come in un tempio, inabita lo Spirito di Dio. La sua legge è il nuovo comandamento di amare come ci ha amati Cristo (cf. Gv 13,34). Il suo fine è il regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre più, per essere portato a compimento alla fine dei secoli, quando apparirà il Cristo vita nostra (cf. Col 3,4); allora "anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio" (Rm 8,21)"[27].

È un brano molto denso, che oltre ad illustrare egregiamente la missione del popolo di Dio come missione liberatrice, in continuità con l'azione messianica di Cristo, insiste sulle motivazioni profonde di questo compito ad esso affidato, dicendo espressamente che la sua legge è quella di "amare come Cristo ci ha amato". Con questa premessa, il Concilio prosegue:

"Perciò il popolo messianico, anche se di fatto non comprende ancora la totalità degli uomini e ha spesso l'apparenza di un piccolo gregge, è però per l'intera umanità germe sicurissimo di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità, viene assunto da lui anche come strumento di redenzione per tutti, ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,12-16)"[28].

Se la Chiesa è popolo delle beatitudini, lo è nel senso e nell'afflato spirituale della sequela. Parlandone come via proposta all'intera comunità ecclesiale, il Vaticano II non dimentica di indicarla come via tanto dei laici che di coloro che hanno un ministero ordinato e dei religiosi. È la via intanto della comunità dei discepoli pellegrini e della chiesa dei viatori[29], in comunione con i santi, in quanto essi sono "coloro che hanno seguito fedelmente Cristo". La comunità cristiana è costituita da quanti

"Obbedendo alla voce del Padre adorato in spirito e verità, [...] seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria"[30].

È una sequela di chi non rifugge l'umiltà e, qualora la testimonianza e le circostanze storiche lo richiedano, non si tira indietro nemmeno davanti alla conseguenza di dover camminare, al pari di Gesù, povero e carico della croce. Avanza con la lucida consapevolezza di cooperare con lui alla liberazione degli oppressi. Ciò vale per i "religiosi", dei quali si afferma:

"I religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido e singolare come il mondo non possa essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini"[31];

mentre dei laici si dice che

"devono nutrire il mondo con i frutti dello Spirito (cf. Gal 5,22) e diffondervi lo spirito dei poveri, dei miti e dei pacifici, che il Signore nel suo Vangelo ha proclamato beati (cf. Mt 5,3-9)"[32].

È dunque un compito che diffonde mitezza e pace, ma si radica nel fatto che il popolo di Dio è comunque al seguito di Gesù e pertanto è popolo delle beatitudini. In questo popolo i laici non hanno un altro compito o un'incombenza di minor valore. Il decreto sull'apostolato dei laici, lo afferma in maniera decisiva, quando scrive a riguardo:

"La carità di Dio, "riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm 5,5), rende i laici capaci di esprimere realmente nella loro vita lo spirito delle beatitudini. Seguendo Gesù povero, non si abbattono per la mancanza dei beni temporali né si inorgogliscono per l'abbondanza di essi; imitando Gesù umile, non diventano vanagloriosi (cf. Gal 5,26), ma cercano di piacere a Dio più che agli uomini, sempre pronti a lasciare tutto per Cristo (cf. Lc 14,26) e a patire persecuzione per la giustizia (cf. Mt 5,10), memori della parola del Signore: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso e prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24)"[33].

A tale sequela che è l'effetto della consacrazione battesimale a Cristo e la conseguenza di una continua scelta, il Concilio affianca anche quella sequela che è una realtà esistenziale e sociale, individuale e storica nello stesso tempo. È la condizione di coloro che vivono, per le situazioni oggettive in cui versano, come visse storicamente Cristo e con i quali Cristo si è identificato. Chi sono? Sono

"Coloro che sono oppressi da povertà, infermità, malattia e altre tribolazioni, o soffrono persecuzioni a causa della giustizia, sappiano di essere uniti in modo speciale a Cristo che soffre per la salvezza del mondo. Il Signore nel Vangelo li ha proclamati beati" (LG 41: EV/1, 395).

Somiglianza con Cristo significa in questo in caso vivere come lui, subire persecuzione per la giustizia e piangere davanti alla propria sorte, senza avere apparentemente nessuno che veda quelle lacrime. Significa portare piaghe che non si rimarginano, come quelle con le quali Gesù si mostra ai suoi discepoli dopo la Pasqua. Ritroviamo questa ecclesiologia come base dell'indicazione, da parte della Caritas italiana, come vero e proprio luogo teologico dei poveri e degli infelici, dei disagiati e dei bisognosi di conforto e di aiuto[34]. Di fronte ad essi e soprattutto nei loro riguardi, vale l'accezione dell'amore come responsabilità e come impegno, come dimensione cristologica e opzione storica, oltre che politica. Tutte dimensioni che si rinvengono nello stessa Carta pastorale già citata. Con ciò siamo arrivati alla terza opzione, quella ecclesiologica: passare da un Chiesa agenzia del sacro che vive per se stessa a una Chiesa segnale e strumento d'amore che vive per gli altri.

3) La quotidianità come spazio e strumento di un amore irreversibile.

Facciamo riferimento alla quotidianità in quanto la riteniamo spazio e strumento di un amore irreversibile. Essa è infatti una dimensione costante di accompagnamento, di cura e di liberazione degli emarginati, in risposta alla continua convocazione del suo popolo da parte della Parola di Dio. Qui la quotidianità si caratterizza come esperienza di Chiesa e ciò a in diversi sensi, i cui capifila sembrano essere due: l'esperienza di Chiesa fatta dal cristiano in genere e dall'operatore della Caritas in particolare, e i rapporti di fraternità e di amore solidale in cui avviene l'incontro con gli altri, e in particolare con i "poveri", o come personalmente preferiamo dire, con gli "impoveriti". La prima si potrebbe chiamare esperienza di partenza, l'altra esperienza di arrivo. In ogni caso l'una e l'altra non sono che le due facce di quell'unico dinamismo dell'amore unitrinitario che abbiamo visto essere la perenne sorgente della Chiesa. Lo stesso unico dinamismo che, in altri termini, è presente nella prassi e nell'insegnamento di Gesù: un unico amore declinato secondo l'amore di Dio con tutta la propria esistenza e l'amore del prossimo come se stessi.

Popolo di Dio alla sequela del Signore e continua convocazione dall'Amore e per l'amore sono parti costitutive di tale esperienza, che, quando è autentica, non tarda a manifestarsi nella quotidianità come esperienza coinvolgente e irreversibile. È infatti un amore che non conosce ritorno, nel senso che se anche conosce incertezze, contraddizioni e persino tradimenti, scava tanto radicalmente una persona, che questa sa che la vita non avrebbe senso al di fuori di esso. È un amore che si evolve dal suo interno nella concretezza della fedeltà quotidianità. Muove dall'esperienza che la carità è innanzi tutto charis, cioè grazia e dono continuo ricevuto, prima che dato e condiviso. La stessa Chiesa non è che il frutto storico e temporale di questa Grazia, che non si stanca degli uomini e della loro violenza, della loro indifferenza all'ingiustizia e al dolore. Quando è vissuta con queste caratteristiche, l'esperienza della Chiesa è rilevante. Non solo ha un senso, ma dà un senso alla vita. Il Vaticano II ha insistito sulla dimensione esistenziale di una Chiesa che condivide angosce e speranze umane, in primo luogo dei poveri. In questa maniera, ha suggerito, oltre trent'anni fa, la via da battere per fronteggiare il pericolo degli uomini di oggi: scadere in una religiosità ormai senza Dio, dopo essere passati, nel secolo scorso, attraverso il pericolo di una fede in Dio ma senza Chiesa. Ha ragione chi, come M. Kehl ed altri esperti di ecclesiologia, propone di esprimere oggi la realtà della Chiesa in maniera più adeguata alla sensibilità moderna: invece della "Chiesa Madre" utilizzare piuttosto l'immagine della "Chiesa sorella", o della "Chiesa amica". Riteniamo tuttavia che più che migliorare il lessico, sia urgente insistere sulla Chiesa come luogo e strumento di esperienza dove si riceve e si pratica la liberà, si riceve e si condivide la carità, si acquisisce e si dona agli altri un senso autentico dell'esistenza.

Ciò comporta una testimonianza e una formazione tali che ripropongano il significato della Chiesa come strumento di esperienza di grazia e di liberazione, superando e contribuendo a far superare l'idea che essa sia solo una dispensatrice di sacramenti (obbligata a questo perché parte della società e a questo deputata), oppure una semplice compagna di strada (che offre solo un accompagnamento per superare meglio le traversie della vita), o peggio una trascinatrice di masse (in tutte le sue forme, da quelle miracolistiche a quelle carismatiche). A fronte di tutto ciò e partendo dall'idea che della Chiesa deve aver avuto Gesù e che comunque è quella testimoniata dalla Parola di Dio, la Chiesa appare nel Vaticano II come dispensatrice di vita e di speranza[35], come luogo di interpellanza alla decisione[36] e come realtà di testimonianza al mondo[37].

Con queste caratteristiche la Chiesa è considerata sacramento di unità tra Dio e l'uomo e nel contesto dell'umanità, in quanto realizza relazioni e rapporti di comprensione e di solidarietà all'interno del genere umano. È una sacramentalità che informa l'agire complessivo della Chiesa e si radica nella sua unione con Cristo e pertanto con coloro che ne sono sacramento e segnacoli, cioè i sofferenti o, come talora si incontra nelle pagine di testimoni dell'America Latina o dell'Africa, con il "popolo crocifisso", crocifisso oggi da oppressioni e violenze di singoli o di gruppi oppure da strutture oppressive e anti-umane. Per tutte queste ragioni il popolo di Dio è corpo storico oltre che corpo mistico (Ellacuria).

Con questa concetto di sacramento, che è incontro con Cristo e con il corpo storico e sofferente della Chiesa, si riconsidera anche l'Eucaristia e il riconoscere Gesù nello spezzare il pane. Infatti l'eucaristia è vista dal Vaticano II come "fonte e culmine" della Chiesa e del suo agire, ma nell'ottica del dono di Dio agli uomini per la salvezza del mondo, secondo il senso della kenosis. È dono d'amore e pertanto offerta volontaria di Cristo in diretto e immediato riferimento alla storia degli uomini. Il suo stesso corpo e il suo sangue sono riferimento al corpo e al sangue degli uomini, e ciò è normativo anche per la Chiesa.

Riportiamo una tabella utile per evidenziare la non incidenza o l'incidenza storico-sociale di alcuni aspetti fondamentali dell'eucaristia (colonna centrale), a seconda di una concezione mistico-intimistica (colonna di sinistra) oppure di una concezione mistico-storica di essa (colonna di destra):

 

Corpo mistico ASPETTI

Corpo storico

Dimensione sacramentale:
corpo e sangue di Cristo

carne e sangue
(pane) e (vino)

dimensione sociale:
il corpo e la storia degli uomini
Realtà liturgica:
unione a Cristo

Unione realtà esistenziale:
unione ai crocifissi della terra
Gratificazione all'interno del proprio gruppo Comunione impegno nella realtà circostante
Liberazione solo dal peccato individuale

Liberazione

liberazione anche dalle forme di peccato strutturale
Sacrificio della volontà e della propria intelligenza Donazione

impegnare la propria vita per la giustizia e la pace

 

Le indicazioni qui suggerite, per un'attuazione storica dell'eucaristia e della sacramentalità del popolo di Dio, non sono tutte e con la stessa chiarezza espresse nel Vaticano II. Ne sono però lo sviluppo più coerente e come tali sono presenti nell'esperienza e nella riflessione della Chiesa di questi nostri anni. La loro legittimazione è da cercare non in una riflessione originale o sociologicamente pre-condizionata, ma nella Parola di Dio, che oltre a convocare il suo popolo, è normativa per il suo agire. È infatti la Parola che legittima la Chiesa, fornendole una fisionomia e un'identità di fondo. Ne determina un cambiamento radicale di prospettiva, perché porta a riscoprire continuamente il vangelo. Ciò può significare per la Chiesa solo una cosa: l'autoevangelizzazione, nel senso che essa deve lasciarsi continuamente annunciare da Cristo la Parola di Dio e praticare la strada della conversione. Solo lasciandosi convertire, può e deve annunciare agli uomini: "Convertitevi e credete ala Vangelo". L'evangelizzazione diventa così l'annuncio della buona notizia: la grazia e la salvezza irrompono nel mondo, particolarmente per coloro che Dio ha sempre prediletto: i poveri e i disperati, quanti non hanno nulla, nemmeno una speranza di salvezza.

NOTE

[1]CARITAS ITALIANA, Lo riconobbero nello spezzare il pane. Carta pastorale, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1995.
[2] Ivi, n. 32.
[3] La frase di Agostino è: "Se vedi la carità vedi la Trinità" (De Trinitate, 8,8, 12).
[4]Sull'"umanesimo di base" e "i nuovi rapporti tra Chiesa e mondo" cf L. SARTORI, La Chiesa nel mondo contemporaneo. Introduzione alla "Gaudium et spes", Messaggero, Padova 1995, 35-50.
[5]Cf anche S. DIANICH., ""popolo di Dio" in questione", in ID., Ecclesiologia.., cit., 201-230.
[6]Cf le due istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla teologia della liberazione. La prima, intitolata Libertatis nuntius, del 6.8.1984 (EV 9/866-887) e la seconda, dal titolo Libertatis conscientia, del 22.3.1986 (EV 10/196-370). Per il contenzioso qui in oggetto, cf anche la lettera del Cardinale Ratzinger a L. Boff sul suo libro Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante, Borla, Roma 1983, la risposta dell'autore e il comunicato sul colloquio da lui avuto, in Il Regno 29 (1984) 17/514, 537-556. Cf anche la difesa di G. Gutiérrez alle contestazioni, mossegli dalla stessa Congregazione nel marzo del 1983, in Il Regno 29 (1984) 620-628. Cf anche, per i problemi ecclesiologici in gioco, G GUTIÉRREZ., "Appunti per una teologia della liberazione", in AA.VV., Religione, oppio o strumento di liberazione?, Mondadori, Verona 1972, 23-73; ID., La forza storica dei poveri, Queriniana, Brescia 1981. ID., Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1981.
[7]La Libertatis nuntius ammette invece la legittimità dell'espressione "Chiesa del popolo" quando questa indica "dal punto di vista pastorale ... i destinatari prioritari dell'evangelizzazione, coloro verso i quali, per la loro condizione, si rivolge innanzi tutto l'amore pastorale della Chiesa" (IX, 11: EV/9, 950), così come l'ammette in riferimento al "popolo di Dio", "cioè come popolo della nuova alleanza stipulata in Cristo["][ ]e rimanda a GS 39 [EV/1, 1439ss]. Contesta l'eventuale interpretazione marxista di Chiesa del popolo come "Chiesa di classe, la Chiesa del popolo oppresso che occorre "coscientizzare" in vista della lotta liberatrice organizzata. Per alcuni il popolo così inteso diventa perfino oggetto di fede" (Ivi IX, 12: EV/9, 951). Non si può, infine, negare che i sospetti sull'ecclesiologia dell'area latinoamericana siano stati anche alimentati da personalità ecclesiastiche, che contrarie per principio alla "teologia della liberazione", avevano costituito negli annni passati una vera e propria rete internazionale di "controinformazione" con lo scopo dichiarato di "liberare la Chiesa dall'utopia della liberazione". Cf, a riguardo, F. HENGSBACH - A. LOPEZ TRUJILLO, Utopie der Befreiung, Aschaffenburg 1976; B. KLOPPENBURG, Die neue Volkskirche, Aschaffenburg 1981.
[8]GS 39: EV/1, 439.
[9]Alla stessa conclusione perviene S. Dianich, in quale ritiene che "popolo di Dio" è "la forma fondamentale dell'aggregarsi dei cristiani" (S. DIANICH ., Ecclesiologia., cit., 231-255).
[10] Cf. la nostra recensione critica dei più importanti trattati di ecclesiologia e la documentazione relativa al valore dell'ecclesiologia del popolo di Dio: G. MAZZILLO, "L'eclissi della categoria di "popolo di Dio"", in Rassegna di teologia 36 (1995) 553-587.
[11] La Carta pastorale ne è una buona prova. In una prima parte riprende e motiva teologicamente la "Conversione a partire dai poveri", nella seconda affronta il problema de "I soggetti del cambiamento", nella terza, intitolata "Chiesa e Caritas", riprende i capisaldi dell'ecclesiologia del popolo di Dio, come popolo itinerante, profetico e missionario.
[12]Cf S. DIANICH, "Il concetto di popolo", in ID., Ecclesiologia., cit., 202ss. Un'analisi più accurata a riguardo potrebbe evidenziare l'effettivo peso che i presupposti ideologici abbiano nella scelta di questi termini che viene fatta di volta in volta.
[13]"Popolo di Jahvè" ricorre 354 volte mentre "popolo di Dio" solo 2 volte: cf N. LOHFINK, "Il "popolo di Dio". Che cosa dice l'antico Testamento su un'espressione centrale nei fuochi d'artificio verbali del concilio", in ID., Le nostre grandi parole. L'Antico Testamento su temi di questi anni, Paideia, Brescia 1986, 127-144. Ma sulla continuità tra prima e seconda alleanza cf anche G. LOHFINK, Gesù come voleva la sua comunità. La Chiesa quale dovrebbe essere, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1987; per la radicalità della sequela Christi come via maestra del "popolo di Dio", cf ID., Per chi vale il discorso della montagna? Contrinuti per un'etica cristiana, Queriniana, Brescia 1990.
[14]Eb 4,9; 11,25; 1Pt 2,10 hanno la locuzione linguistica ""popolo di Dio"", ma a questi testi sono da aggiungere quelli in cui la comunità è chiamata come "suo popolo", cioè di Dio. Così, ad esempio, Lc 1,77; [cf anche Lc 2,32: "tuo popolo"]; Rm 11,1; 2Cor 6,16, che rievoca Lv 26,16; Eb 8,10, con riferimento anche a Ger 31,33; Eb 10,30; Ap 21, 3. Dio stesso si rivolge alla sua comunità chiamandola "mio popolo", come in Rm 9,25, che riprende Os 2,25; e in Ap 18,4. Si parla anche del "popolo di Dio" come popolo di Gesù, come in Mt 1,21; essendo un popolo al quale egli appartiene, ma anche un popolo che gli appartiene, come in Tt 2,14.
[15]Questa opinione si trova anche in G. PHLIPS, La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II. Storia testo e commento della costituzione "Lumen Gentium", Milano 1969, 99: "l'espressione '"popolo di Dio"' non si può applicare alla Chiesa come una similitudine, perché designa la sua stessa essenza. Non si può dire: la Chiesa è simile a un "popolo di Dio" come si direbbe: il Regno è simile a un grano di senapa. Bisogna invece affermare: la Chiesa è il "popolo di Dio" [...]. Quindi non più figure, ma la piena e totale realtà".
[16]Cf T. CITRINI, "Questioni di metodo dell'ecclesiologia conciliare", in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, L'ecclesiologia..., cit., 30s.
[17]Cf A. ESTRADA, Del misterio de la Iglesia al pueblo de Dios. Sobre le ambigüedades de una eclesiología mistérica, Sígueme, Salamanca 1988.
[18]Così T. CITRINI, cit., 33-34.
[19]Cf il secondo volume della ricerca ecclesiologica di A. Antón, che dopo aver pubblicato un libro sulla fondazione biblica della Chiesa (A. ANTÓN, La Iglesia de Cristo. El Israel de la Vieja y de la Nueva Alianza, Editorial Católico, Madrid 1977), documenta le correnti ecclesiologiche succedutesi nella storia della teologia in un'opera in due volumi. Cf ID., El misterio de la Iglesia. Evolución de las ideas eclesiológicas I, En busca de una eclesiología de la reforma de la Iglesia, Editorial Católico, Madrid-Toledo 1986; II, De la apologética de la Iglesia-sociedad a la teología de la Iglesia-misterio en el Vaticano II y en el Postconcilio, 1987. Si noti l'esplicita idea del passaggio di prospettiva nel titolo "dalla Chiesa società alla Chiesa mistero", anche se non è trascurato il tema del "popolo di Dio" (pp. 676-759) che affianca quello della Chiesa-corpo mistico di Cristo e quello della Chiesa-sacramento (pp. 760-831).
[20] A riguardo, la Commissione teologica internazionale nel 1985 in Temi scelti di ecclesiologia, si espresse chiaramente sulla preferenza conciliare dell'espressione "popolo di Dio" con queste parole: "Cosi, si converrà facilmente che, senza il ricorso al paragone del "corpo di Cristo" applicato alla comunità dei discepoli di Gesù, è assolutamente impossibile cogliere la realtà della Chiesa. Le lettere di san Paolo, nel loro insieme, sviluppano, infatti, quel paragone in varie direzioni, come nota la stessa Lumen gentium al n. 7 [EV/1 296-303]. Tuttavia, benché ponga in giusto rilievo l'immagine della Chiesa "corpo di Cristo", il concilio dà maggior risalto a quella di "popolo di Dio", non fosse altro che per il fatto che esso dà il titolo al capitolo II della stessa costituzione. Anzi, l'espressione "popolo di Dio", ha finito per designare l'ecclesiologia conciliare. Difatti, possiamo asserire che si è preferito "popolo di Dio" alle altre espressioni, cui il concilio ricorre per esprimere il medesimo mistero, quali "corpo di Cristo" o "tempio dello Spirito santo"" (COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di ecclesiologia, 1985, 2.1: EV/9, 1683. In questa e nelle seguenti citazioni del documento le sottolineature sono mie).
[21] Con questa preoccupazione la Congregazione per la dottrina della fede è intervenuta nel 1992 su Alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione. Riproponendo la piena adeguatezza del concetto di comunione per esprimere, nell'ottica del Vaticano II il "nucleo profondo del mistero della Chiesa", la Congregazione metteva in evidenza che "alcune visioni ecclesiologiche palesano un'insufficiente comprensione della Chiesa in quanto mistero di comunione, specialmente per la mancanza di un'adeguata integrazione del concetto di comunione con quelli di "popolo di Dio" e di corpo di Cristo, e anche per un insufficiente rilievo accordato al rapporto tra la Chiesa come comunione e la Chiesa come sacramento" (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione. Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica, Paoline, Milano 1992, n. 1: Enchiridion Vaticanum Supplementi, 462).
[22] Pertinente e documentata ci sembra l'affermazione di Dianich, quando afferma che quello della comunicazione è un tema teologico. L'autore capovolge così la posizione di W. BARTHOLOMÄUS, "La comunicazione nella Chiesa. Aspetti di un tema teologico", in Concilium 14 (1978/1) 165-187. Cf. S. DIANICH, "Teorie della comunicazione ed ecclesiologia", in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, L'ecclesiologia contemporanea, Messaggero, Padova 1994, 134-178.
[23]È l'opinione sentita a Lovanio, al congresso internazionale di teologia del 1976. Cf. ciò che scrive P. Franzen, "La comunione ecclesiale principio di vita", in G. ALBERIGO, L'ecclesiologia del Vaticano II. Dinamismi e prospettive, Dehoniane, Bologna 1981, 172.
[24]CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Alcuni aspetti della Chiesa..., cit., n. 9, p. 8.
[25] Cf. P.FRANZEN, "La comunione...", cit., 179.
[26] Cf., a riguardo, S. DIANICH, Chiesa estroversa. Una ricerca sulla svolta dell'ecclesiologia contemporanea, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1987; S. DIANICH - E. R. TURA, Vent'anni di Concilio Vaticano II. Contributi sulla sua recezione in Italia, Borla, Roma 1985; G. ALBERIGO - J. P. JOSSUA, Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985; G. ALBERIGO et al. L'ecclesiologia del Vaticano II. Dinamismi e prospettive, EDB, Bologna 1981
[27] LG 9: EV/1, 309.
[28] Ivi.
[29] Cf. LG 49: EV/1, 419.
[30] LG 41: EV/1, 390.
[31] LG 31: EV/1, 363.
[32] LG 38: EV/1, 389.
[33] AA 4: EV/1, 927.
[34] "Come Cristo ha rivelato al mondo il volto di Dio, Padre accogliente e misericordioso verso tutti i suoi figli, così la nostra ispirazione e azione parte dai poveri, perché ad essi per primi è destinato il lieto annuncio della salvezza. Inoltre, pur nella complessità con cui la loro presenza ci chiama in causa, essi sono "luogo teologico" in cui scorgere i tratti del volto di Dio spesso sfigurato e senza apparenza né bellezza alcuna (cf. Is 53,2) e la sua chiamata a conversione. Questa "vocazione" è rivolta a tutta la chiesa, perché, animata dall'amore Caritas Christi urget nos (2Cor 5,14) diventi sempre più casa accogliente per tutti i figli di Dio, che è "Padre dell'orfano e della vedova", dell'umile e di chi grida a lui" (CARITAS ITALIANA, Carta pastorale, cit., n.1)
[35] Cf., a titolo d'esempio, l'episodio della condivisione dei pani e dei pesci, dopo la condivisione della Parola da parte di Gesù con le folle occorse (Mc 6,30- 449.
[36] Cf., ad d'esempio, Lc 12,49 - 53, che ribadisce la radicalità dell'agire di Gesù e le scelte che ciò comporta con queste parole: "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera".
[37] Cf., a riguardo, Lc 12, 1-4: <<Nel frattempo, radunatesi migliaia di persone che si calpestavano a vicenda, Gesù cominciò a dire anzitutto ai discepoli: "Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l'ipocrisia. Non c'è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all'orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti. A voi miei amici, dico: Non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla">>.

 

 

 

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