GIUSEPPE LIGUORI

 

L’AFRICA DEI GRANDI LAGHI

Rwanda, Burundi, Congo, Uganda 1994-2004

 

 

 

 


 

 

AFRICAPace  Amani  Paix Peace


 

 

“I problemi del Rwanda hanno come origine la brama di potere”
Augustin Misago (vescovo di Gikongoro - Rwanda)

“In tutta la regione è esploso lo stesso morbo,
l’etnocentrismo, ed è stato utilizzato per ragioni di potere”
Simon Ntamwana (arcivescovo di Gitega - Burundi)

“Poteri stranieri, con la collaborazione di alcuni fratelli congolesi,
organizzano guerre con le risorse del nostro paese”
Emmanuel Kataliko (compianto arcivescovo di Bukavu - Congo)

 

 

Struttura del libro 
(cliccare sulle singole parti per poterle leggere)
 

PREFAZIONE

BREVE STORIA DEL RWANDA FINO AL 1994  

IL RWANDA DOPO IL GENOCIDIO  

BURUNDI: GUERRA E SPERANZA  

CONGO: UN PAESE RICCO ABITATO DA GENTE POVERA  
TRA GOMA E KAMPALA

LE RESPONSABILITÀ INTERNAZIONALI

INTERVISTA A CARLO CARBONE

APPENDICE

 

 

PREFAZIONE

            PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE  

            Il mio libro, pubblicato nel 2003 dal caro amico don Giovanni Mazzillo nel sito www.puntopace.net, viene ora inserito, grazie alla gentilezza dei missionari comboniani di Padova, nel sito www.giovaniemissione.it. Si tratta di 10 anni di storia tormentata in una delle aree più “calde” del globo, la regione africana dei Grandi Laghi. In questa prefazione alla seconda edizione, quasi identica alla precedente, mi limito a sottolineare alcuni eventi significativi, avvenuti tra il maggio 2003 ed il marzo 2004.

            In Uganda, dopo che il partito unico, al potere dal 1986, ha manifestato chiaramente l’intenzione di cambiare la Costituzione, abolendo il limite di due mandati presidenziali, il cardinale Emmanuel Wamala, arcivescovo di Kampala, dichiara pubblicamente che un eventuale terzo mandato condurrà l’Uganda alla dittatura. Dopo questa dichiarazione, il cardinale viene più volte attaccato da esponenti della maggioranza presidenziale ed invitato ad occuparsi solo della salvezza delle anime. In Karamoja (nord-est dell’Uganda), il 14 agosto 2003 padre Mario Mantovani (84 anni) e fratel Godfrey Kiryowa (29 anni), missionari comboniani, sono barbaramente uccisi, durante o subito dopo una razzia di bestiame. Padre Mario, da 50 anni in Uganda, aveva forse riconosciuto i banditi che, a volto scoperto, avevano fermato la sua automobile, guidata da fratel Godfrey, per derubarlo.

            Il 25 agosto il generale Paul Kagame, al potere dal 1994, viene eletto presidente del Rwanda col 95% dei suffragi; perfino a Cyangugu, roccaforte di Faustin Twagiramungu, ex primo ministro e unico candidato credibile dell’opposizione, il dittatore rwandese ottiene oltre il 90% dei voti. È evidente che le elezioni sono state truccate. Gli osservatori dell’Unione Europea parlano molto diplomaticamente di “elezioni non del tutto libere e corrette”. Durante la campagna elettorale sono stati numerosissimi i casi d’intimidazione nei confronti dell’opposizione. Il 23 agosto, a poche ore dalle elezioni, il nipote di Twagiramungu è stato arrestato e torturato. In televisione è costretto a dire che suo zio è un pazzo.

            Il 5 novembre l’onorevole Luana Zanella, esponente di spicco dei Verdi, presenta alla Camera dei Deputati un’interrogazione parlamentare, per sapere dal ministro degli esteri “se non ritenga che le evidenti e documentate violazioni dei diritti umani nel paese africano impongano al nostro Governo una presa di posizione forte nei confronti del Regime politico ugandese, che vada nella direzione di sospendere gli aiuti e esercitare pressioni per il rispetto dei diritti umani, della libertà d’espressione e informazione, della libertà politica”.

            Il sottosegretario Onu per gli affari umanitari Jan Egeland, in Uganda nel mese di novembre, così si esprime ai microfoni della BBC: “non c’è in nessun’altra parte del mondo una situazione d’emergenza simile a quella dell’Uganda; l’attenzione internazionale è però minima”. Nel 2003 i ribelli dell’Esercito di Resistenza del signore (LRA) hanno ucciso almeno 3.000 civili inermi e costretto oltre un milione di persone a rifugiarsi in campi di concentramento allestiti dal governo, nei quali manca il cibo e l’acqua potabile, le condizioni igieniche sono pessime e i soldati governativi non solo non proteggono la popolazione quando i ribelli attaccano i campi, ma spesso eseguono esecuzioni extra-giudiziali e di frequente picchiano gli uomini e violentano le donne, come è stato ampiamente documentato da un rapporto di Amnesty International del marzo 1999. Il governo non ha mai preso seri provvedimenti per far cessare queste gravi violazioni dei diritti umani.

            Il 29 dicembre il nunzio apostolico in Burundi, mons. Michael Courtney, viene ucciso a colpi d’arma da fuoco da uno sconosciuto. È la prima volta che un ambasciatore del Papa viene ucciso in Africa. Nigrizia, la rivista dei missionari comboniani, nel numero di marzo 2004 chiede alla Commissione vaticana Giustizia e Pace di formare una commissione d’inchiesta, che possa indagare in modo indipendente sui mandanti e sugli esecutori materiali dell’omicidio.

            Il 15 febbraio 2004, il giornale governativo New Vision attacca pesantemente padre Carlos Rodriguez Soto, missionario spagnolo da molti anni in Uganda, falsamente accusato d’essere un bugiardo, un soldato di ventura ed un collaboratore dei ribelli.

            Sabato 21 febbraio avviene il massacro più grave degli ultimi 10 anni. I ribelli attaccano il campo di Barlonyo, nel distretto di Lira (nord Uganda); i morti sono oltre 200, alcuni dei quali bruciati vivi. I soldati governativi tentano di seppellire in fretta il maggior numero possibile di cadaveri, per diminuire il numero ufficiale di morti, in modo da non allarmare la comunità internazionale. Il presidente-dittatore Museveni, infatti, dichiara che i morti sono solo un’ottantina. Questo gioco sporco non riesce, perché un parlamentare ugandese conta personalmente oltre 190 cadaveri e comunica la notizia ai giornalisti stranieri presenti a Lira; anche un sacerdote cattolico conta i morti e conferma la testimonianza del parlamentare. Il Parlamento approva all’unanimità una mozione in cui si dichiara il Nord Uganda zona di disastro umanitario, ma il governo respinge la mozione, dichiarando che solo il Presidente della Repubblica può dichiarare lo stato d’emergenza in una regione del Paese.

            Pensando all’Africa di oggi, mi vengono in mente le parole del profeta Geremia: “se esco in aperta campagna, ecco i trafitti dalla spada; se entro in città, ecco i colpiti dalla fame” (Ger 14,18). Nonostante tutto, però, come direbbe il grande André Sibomana, sacerdote e giornalista rwandese recentemente scomparso, “gardons espoir pour l’Afrique”, conserviamo la speranza per l’Africa.

 

Kampala, marzo 2004                                                                                  Giuseppe Liguori (MFD)

 

 

BREVE STORIA DEL RWANDA FINO AL 1994

Il Rwanda è grande più o meno quanto la nostra Sicilia, ma è densamente popolato; attualmente, dopo i massacri e le migrazioni bibliche di milioni di persone, nessuno sa quanti siano esattamente gli abitanti del “paese dalle mille colline”, ma stime attendibili parlano di sette milioni.

Le etnie (forse sarebbe più corretto parlare di “comunità”) presenti sono tre: i bahutu, i batutsi e i batwa (in kinyarwanda il prefisso “ba” indica il plurale). I bahutu sono, insieme ai batwa, i primi abitanti del Rwanda ed erano in origine degli agricoltori. I batutsi, arrivati in Rwanda verso il XIV-XV secolo, erano all’epoca allevatori di bestiame. I batwa sono dei pigmei e rappresentano appena l’1% della popolazione.

Per lunghi secoli queste tre comunità hanno vissuto in pace, ad eccezione di brevi periodi di guerra; esse condividevano la stessa lingua e la stessa cultura e credevano in un unico Dio, Imana. Il Rwanda era una monarchia ed il re (Mwami) era sempre un mututsi (in kinyarwanda il prefisso “mu” indica il singolare). La ricchezza ed il potere dipendevano dal numero di capi di bestiame posseduto; la classe dirigente era costituita prevalentemente da batutsi, ma anche i bahutu, se ricchi, potevano essere nominati capi; inoltre, anche un muhutu povero poteva, col suo lavoro, arricchirsi e diventare potente.

Il Rwanda, paese interno e difficilmente raggiungibile quando non esistevano gli aerei, per lunghi secoli è rimasto isolato dal resto del mondo e, soprattutto, non ha conosciuto, come altri paesi africani, la tratta degli schiavi, orrendo crimine contro l’umanità[3]. Solo verso la fine del 1800 i primi colonizzatori tedeschi arrivarono nel paese ed iniziarono un sistema di governo indiretto, lasciando al re alcune importanti prerogative. Dopo la prima guerra mondiale i tedeschi persero le loro colonie africane ed il Rwanda fu affidato dalla Società delle nazioni al Belgio, come territorio sotto tutela. Furono proprio i belgi a creare il mito della superiorità dei batutsi rispetto ai bahutu. Si disse che i primi erano simili agli europei, alti, belli, intelligenti, col naso piccolo e stretto; i secondi, invece, erano dei bantu, bassi, brutti, stupidi, col naso camuso. Un altro grave errore dei belgi fu quello d’introdurre la carta d’identità con la menzione dell’etnia d’appartenenza.

Col passare degli anni, i batutsi si convinsero sempre più della loro superiorità ed iniziarono ad escludere sempre di più i bahutu dalla gestione del potere. Negli anni 50 in tutta l’Africa iniziava la stagione delle indipendenze ed anche in Rwanda il fermento era grande. Alcuni intellettuali bahutu iniziarono a reclamare il potere ed in pochi anni, dal 1959 al 1962, un muhutu, Grégoire Kaybanda, divenne prima capo del governo e poi presidente della Repubblica.

Come spesso accade nella storia, gli oppressi di ieri diventarono gli oppressori di oggi; migliaia di batutsi furono massacrati e migliaia di loro si rifugiarono nei paesi limitrofi (Uganda, Burundi e Zaire). Le cose peggiorarono ulteriormente quando, nel 1973, con un colpo di stato il generale Juvénal Habyarimana prese il potere; ai batutsi erano ormai riservati solo il 9% dei posti di lavoro e di quelli nelle scuole, nonostante essi rappresentassero il 14% della popolazione. Il potere si concentrò nelle mani dei bahutu del Nord, mentre quelli del Sud vennero spesso perseguitati. Ancora una volta ci furono dei pogrom organizzati contro i batutsi i quali, dopo essere fuggiti all’estero, iniziarono ad armarsi e ad organizzarsi militarmente. Tra i profughi di quegli anni, ancora bambino, c’era Paul Kagame, futuro presidente-dittatore del Rwanda.

I batutsi meglio organizzati erano quelli rifugiati in Uganda; essi, dopo aver partecipato alla guerra di liberazione nell’esercito di Yoweri Kaguta Museveni, attuale dittatore dell’Uganda, crearono il Fronte Patriottico Rwandese (FPR) e, nell’ottobre 1990, invasero da Nord il Rwanda. Habyarimana chiese ed ottenne l’aiuto della Francia e riuscì ad arrestare l’avanzata del Fpr.

Nel settembre 1990, dunque appena un mese prima dell’attacco del FPR, Giovanni Paolo II compì una visita apostolica in Rwanda e riuscì a convincere l’arcivescovo di Kigali a dimettersi dal comitato centrale del partito unico al potere.

Intanto, dopo la caduta del muro di Berlino, un vento di libertà e di democrazia soffiava su tutta l’Africa. Il presidente francese Mitterand, nel vertice franco-africano del giugno 1990 a La Baule, aveva chiaramente legato alla democratizzazione e al multipartitismo la concessione di aiuti da parte del governo francese. Anche il Rwanda doveva adeguarsi ed Habyarimana legalizzò i partiti politici (fino ad allora c’era un unico partito, quello del presidente, il MRND, Movimento rivoluzionario nazionale per lo sviluppo).

Tra i nuovi partiti, uno dei più importanti era il MDR (Movimento Democratico Repubblicano), composto in prevalenza da bahutu moderati, che aveva tra i suoi esponenti di spicco Faustin Twagiramungu, la signora Agathe Uwilingimana e Dismas Nsengiyaremye. Proprio quest’ultimo il 3 aprile 1993 venne nominato da Habyarimana primo ministro di un governo di coalizione tra il MDR e l’ex partito unico, che intanto aveva assunto il nome di MRNDD (Movimento rivoluzionario per la democrazia e lo sviluppo). Nacque però anche un partito di estremisti bahutu, la CDR (Coalizione per la Difesa della Repubblica), contraria ad ogni accordo non solo con il FPR, ma anche con i bahutu moderati.

            Dopo l’attacco del Fpr, alcuni estremisti della cricca presidenziale, detta “akazu”, creano delle milizie, gli interahamwe, che saranno poi tra i protagonisti del genocidio del 1994. Essi finanziano anche una radio, la RTLM (Radio-televisione libera delle mille colline) e il giornale Kangura, allo scopo di seminare odio verso i batutsi. Nasce così “l’hutu power”, un’ideologia razzista, simile al nazismo tedesco, che ha un suo decalogo (“i dieci comandamenti dei bahutu”) e parla apertamente della distruzione totale dei batutsi, che ai loro occhi non sono più persone, ma scarafaggi da schiacciare. Ogni mututsi è un nemico, come è nemico ogni muhutu che abbia pietà dei batutsi, come recita uno dei “dieci comandamenti”. Non basta uccidere gli adulti, ma è necessario massacrare anche i bambini, affinché non possano fuggire per poi tornare a vendicarsi.

            Nell’agosto 1993 Habyarimana firma con il FPR gli accordi di pace di Arusha (Tanzania), che prevedono la formazione di un governo di coalizione, guidato da un esponente dell'opposizione, nel quale sono presenti anche esponenti del FPR. Habyarimana conserva la presidenza della Repubblica fino a nuove elezioni, ma si impegna ad una riforma dell’esercito, finora composto esclusivamente da bahutu. Agathe Uwilingimana, esponente del MDR, era intanto stata nominata primo ministro il 17 luglio. Le Nazioni Unite inviano 2.800 caschi blu, con l’incarico di vigilare sul rispetto degli accordi di pace e di proteggere i leader dell’opposizione.

            Gli uomini dell’akazu, però, non accettano questa svolta moderata di Habyarimana; la divisione del potere, infatti, li costringerebbe a rinunciare a molti privilegi. Iniziano così a circolare le liste dei nemici da abbattere e s’intensifica la propaganda anti-tutsi.

            Nei primi mesi del 1994 alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani pubblicano inquietanti rapporti, in cui si chiede alla comunità internazionale d’intervenire in Rwanda prima che sia troppo tardi. Il comandante dei caschi blu, il canadese Romeo Dallaire, chiede l’aumento del suo contingente, ma il consiglio di sicurezza dell’Onu, al contrario, decide di ridurlo a poco più di 250 uomini. Il governo francese, più volte sollecitato ad intervenire, fa finta di nulla. La Chiesa cattolica intanto sta per celebrare in Italia il Sinodo dei Vescovi sull’Africa ed anche alcuni pastori rwandesi si preparano a partire per Roma.

            Il 6 aprile il presidente Habyarimana si reca in Tanzania insieme al suo omologo burundese Ntaryamira. Al ritorno, verso le ore 20,30 l’aereo presidenziale è abbattuto da ignoti nei pressi dell’aeroporto di Kigali. Questo tragico evento segna l’inizio del genocidio. Gli squadroni della morte sanno di avere ormai mano libera e l’indomani iniziano i massacri dei batutsi e dei bahutu moderati. Tra le prime a morire, insieme alla sua scorta formata da dieci caschi blu belgi, è il primo ministro Uwilingimana. Gli interahamwe e la guardia presidenziale erigono dappertutto dei posti di blocco; chi, sulla sua carta d’identità, ha la scritta “etnia: tutsi” è ucciso all’istante, ma non hanno scampo nemmeno i bahutu del Sud o quelli che somigliano fisicamente ai batutsi. La comunità internazionale compie una vera e propria omissione di soccorso e si rifiuta persino di usare la parola genocidio. Solo il Papa, primo fra tutti, già il 15 maggio all’Angelus parla di genocidio: “Si tratta in modo puro e semplice di un genocidio in cui sono purtroppo responsabili anche dei cattolici”.[4]

            Il FPR, intanto, attacca in modo massiccio gli uomini delle FAR (Forze Armate Rwandesi) i quali, ormai privi del sostegno francese, iniziano a ripiegare verso lo Zaire. Il consiglio di sicurezza dell’Onu decide, con la risoluzione 918, l’embargo sulle armi al Rwanda; dopo lunghe discussioni, il 22 giugno autorizza “l’Opération turquoise”, comandata dai francesi, che si installano nel sud-ovest del Rwanda. Sugli obiettivi di questa missione ci sono tuttora forti dubbi: era una missione umanitaria o aveva degli scopo inconfessabili, come per esempio la distruzione dei campi di marijuana nella foresta di Nyungwe di proprietà, secondo Krop, del figlio del presidente francese ?[5] È indubbio che Jean-Christophe Mitterand non sia uno stinco di santo, come testimonia il suo arresto per una vicenda relativa ad un traffico illegale di armi con l’Angola e il Congo, avvenuto in Francia il 21 dicembre 2000. Nell’estate 1994 i soldati francesi sono sostituiti da 5.586 caschi blu dell’Onu.

            Il 4 luglio il FPR conquista la capitale Kigali ed ha il controllo delle maggiori città del paese. In tre mesi di lotta, come testimonia il rapporto Gersony, anche il Fronte ha commesso molte violazioni dei diritti umani, tra cui l’assassinio, avvenuto a Kabgayi, di tre vescovi: Thaddée Nsengiyumva, Joseph Ruzindana e Vincent Nsengiyumva. Quest’ultimo, arcivescovo di Kigali, non era certo esente da colpe, in quanto membro fino al 1990 del comitato centrale del MRND; questo, però, non giustifica in alcun modo la sua uccisione extragiudiziale, che rimane un crimine orrendo e disumano. Nessun uomo può essere condannato a morte, anche se colpevole dei più atroci delitti e nessuno può essere condannato senza aver prima subito un regolare processo; ma queste norme, che sono basilari nel diritto, non sono state rispettate dagli uomini del FPR.

Un dovere d’obiettività m’impone però di precisare che ancora più grave è l’operato della guardia presidenziale e degli interhamwe, che hanno programmato ed effettuato un genocidio in cui hanno perso la vita 800.000 uomini, donne, vecchi e bambini innocenti. È dovere di chiunque ami la giustizia e la verità condannare i crimini sempre e dovunque, sia quelli effettuti dai bahutu che quelli commessi dai batutsi. Dopo aver detto con forza che i batutsi hanno subito un genocidio, bisogna ribadire con altrettanta forza che questo non autorizza il governo rwandese, dominato dal FPR, ad uccidere, in modo extragiudiziale o con processi farsa, migliaia di bahutu, né a detenere illegalmente oltre 100.000 persone. Non c’è dubbio che Habyarimana fosse un dittatore e sia stato uno dei principali responsabili del genocidio del 1994; voglio però dire che anche Paul Kagame è un dittatore ed è uno dei maggiori responsabili dei massacri di bahutu avvenuti in Rwanda nel 1994 e in Congo a partire dall’autunno 1996. Perché la comunità internazionale, colpevolmente inerte nel 1994, non prende alcun tipo di sanzioni nei confronti del governo del Rwanda ? Cui prodest, a chi giova un governo che calpesta quotidianamente i diritti umani ? Giova sicuramente agli Stati Uniti, le cui multinazionali hanno così mano libera per lo sfruttamento delle immense risorse minerarie del Congo.

            Nel luglio 1994, dunque, il Rwanda ha delle nuove istituzioni. Il nuovo presidente della Repubblica è Pasteur Bizimungu, muhutu moderato, esponente di spicco del FPR. Vice presidente e ministro della difesa è Paul Kagame, mututsi, capo militare e politico del FPR e vero uomo forte di Kigali. Primo ministro è Faustin Twagiramungu, muhutu, esponente del MDR. I posti chiave sono nelle mani del Fronte e la presunta “multietnicità” del governo è solo apparente, come gli eventi successivi dimostreranno in modo inequivocabile. Si parla di un periodo di transizione di cinque anni, alla fine del quale saranno indette elezioni libere e democratiche. Dopo oltre otto anni, il popolo del Rwanda attende ancora di sapere quando potrà eleggere i suoi governanti.

IL RWANDA DOPO IL GENOCIDIO

            Il 19 luglio 1994 Pasteur Bizimungu è ufficilamente designato presidente della Repubblica; ma il nuovo governo è davvero multietnico e multipartitico ? “A prima vista il nuovo esecutivo appare più “ecumenico” del precedente: anche stavolta si tratta di una coalizione di 5 partiti, ma mentre l’équipe di Sindikubwabo e Kabanda* era monoliticamente hutu, quella di Twagiramungu è mista: 12 hutu e 9 tutsi. La parte del leone la fa certamente l’FPR, cui vanno la presidenza e la vicepresidenza della repubblica e 8 ministeri (in base agli accordi di Arusha gliene sarebbero spettati solo 5). Segue, molto distanziato, l’MDR (Movimento democratico nazionale*, radicato nel sud del paese) cui toccano il premier e 3 ministri; 3 ministri ciascuno spettano pure al PSD (Partito socialdemocratico) e al PL (Partito liberale), uno al PCD (Partito cristiano-democratico); infine ministro della giustizia è stata nominata una personalità indipendente: Alphonse-Marie Nkubito, procuratore della corte d’Appello di Kigali e noto attivista per i diritti umani di etnia hutu. Da notare che le competenze della vicepresidenza e del ministero della difesa sono riunite nella stessa persona, ovvero il generale Kagamé”.[6]

            Una prima violazione degli accordi di pace di Arusha appare, però, subito evidente: il Fronte prende tutti i posti riservati al MRND, il partito unico precedentemente al potere. È opportuno sottolineare che i due posti più importanti, quello di presidente e di vice presidente, sono rivestiti da esponenti del Fpr. Vedremo in seguito che le personalità politiche non allineate alle idee del Fronte saranno costrette alle dimissioni o all’esilio.

            Il governo si trova ad affrontare due emergenze: i processi agli autori del genocidio e la presenza alle frontiere di milioni di profughi, tra i quali si nascondono i responsabili del genocidio. Dopo anni di guerra, i magistrati e gli avvocati del Rwanda sono morti o fuggiti all’estero; come assicurare allora una giustizia celere ed imparziale ? Nemmeno la comunità internazionale sembra capace di dare una risposta valida a questa domanda. Il Tribunale penale internazionale per il Rwanda è creato dall’Onu l’otto novembre 1994 ed è presieduto dall’italiano Cassese; con la risoluzione n° 955 il Consiglio di sicurezza ne fissa lo statuto e la sede ad Arusha, in Tanzania. Questa Corte è imparziale, ma troppo lenta; il primo processo inizia, infatti, solo nel 1997.

            Sul fronte giudiziario, il governo permette l’arresto di migliaia di innocenti; nel giro di pochi mesi, le prigioni rwandesi si riempiono fino a scoppiare. Basta la semplice accusa di falsi testimoni, magari desiderosi d’impossessarsi dei beni del presunto genocidario, per arrestare ingiustamente qualcuno. Molte persone sono condotte in centri di detenzione non ufficiali e si moltiplicano i casi di esecuzioni extragiudiziali. Le condizioni igienico-sanitarie delle prigioni sono pessime; non ci sono servizi igienici e i detenuti sono ammassati a centinaia gli uni sugli altri, in ambienti angusti e malsani.

            Per quanto riguarda il problema del rientro in patria dei rifugiati, la politica del governo si rivela fallimentare; sono pochi quelli che si azzardano a rientrare e chi torna in patria è quasi sempre arrestato, perché ritenuto colpevole di genocidio.

            Il 22 aprile 1995 migliaia di persone di etnia hutu sono massacrate dall’esercito nel campo profughi di Kibeho. L’Onu parla di ottomila morti, il mensile dei comboniani Nigrizia di almeno duemila, mentre per il presidente Bizimungu le vittime sono poco più di trecento. In seguito a questi tragici eventi, l’Unione europea decide di sospendere i finanziamenti al governo di Kigali.

All’interno del governo, il primo ministro Twagiramungu, il ministro degli interni Seth Sendashonga, il ministro della giustizia Alphonse Nkubito ed il ministro dell’informazione Jean-Baptiste Nduwingoma cercano di opporsi a queste illegalità e protestano in Consiglio dei ministri per i metodi repressivi usati dall’esercito contro i bahutu, ma il 30 agosto sono costretti da Paul Kagame a rassegnare le dimissioni. Twagiramungu decide di andare in Belgio, mentre Sendashonga si rifugia in Kenya, dove sarà assassinato alcuni mesi dopo da sicari inviati dal governo di Kigali. Il quotidiano francese “Le Monde” scrive che è morto lo “spirito di Arusha, nonostante ne siano salvaguardate le forme”. La sostituzione di Twagiramungu con Pierre Celestin Rwigema (MDR) non riesce a mascherare l’indurimento della linea politica del governo di Kigali. Il 31 agosto è assassinato da uomini in divisa il giudice Bernard Nikuze, muhutu, che in un seminario locale dell’Onu su giustizia e diritti umani aveva denunciato alcuni episodi specifici[7].

Rwigema è un muhutu moderato, ma privo di una forte personalità ed incapace di opporsi al volere del FPR. Nel 1996 lo incontro a Cyangugu, mentre è in visita all’orfanotrofio nel quale presto la mia opera come volontario del MOCI (Movimento di cooperazione internazionale) di Reggio Calabria. Le misure di sicurezza sono impressionanti, anche perché, dalla vicina frontiera con lo Zaire, ogni notte vi sono incursioni di ribelli. Il discorso del primo ministro è deludente, soprattutto perché gli aiuti del governo destinati ai circa 200 orfani si riducono all’acquisto di alcune galline e pulcini.

            Il 5 dicembre 1995 il segretario generale dell’Onu Boutros Ghali annuncia il ritiro di 1.800 uomini della missione delle Nazioni Unite in Rwanda “perché non sono più graditi alle autorità politiche di Kigali”[8]. Il 19 aprile 1996 l’ultimo contingente Onu lascia il Rwanda. Non ci sono più scomodi testimoni delle violazioni dei diritti umani effettuati dall’esercito e dal governo.

            Un altro segnale inquietante è la decisione, comunicata nei primi di dicembre 1995 dal ministero della riabilitazione, di allontanare dal paese, senza fornire adeguate spiegazioni, una quarantina di Ong, tra cui le italiane Cuamm e Intersos. Alcune di queste esplusioni, sempre secondo Raffaello Zordan, sono guidate da un criterio di gradimento politico. Solo così si spiega la decisione di espellere le sezioni francese e svizzera di “Medici senza frontiere”, mentre le sezioni belga, spagnola e olandese continuano a lavorare indistrurbate.

            Il 25 luglio 1996 Pierre Buyoya, mututsi, con un colpo di stato prende il potere in Burundi. A Bujumbura c’è ora un governo amico ed il Rwanda può preparare più agevolmente la sua offensiva contro i ribelli nascosti nei campi profughi della regione del Kivu (Zaire). Don Pierre, un sacerdote rwandese, mi dice, in un colloquio avuto a Kigali, che l’esercito è pronto ad invadere lo Zaire.

            A settembre inizia nel Kivu l’offensiva dei ribelli congolesi banyamulenge, aiutati dal Rwanda, dall’Uganda e dal Burundi. Dal 15 al 19 ottobre rientrano in Rwanda circa 500.000 rifugiati; a migliaia sono arrestati ingiustamente e molti sono massacrati dall’esercito.

            Agli inizi di novembre don Jean-François Kayiranga, della diocesi di Nyundo, è arrestato con l’accusa di genocidio; sale così a cinque il numero dei sacerdoti detenuti nelle carceri rwandesi. Le relazioni tra stato e chiesa continuano ad essere tese.

            I vescovi del Rwanda e del Burundi si riuniscono a Kigali dal 21 al 23 gennaio 1997; nel loro documento finale denunciano una società senza più alcun rispetto per le leggi civili e morali, segnata da “una pauperizzazione crescente della popolazione, crocifissa da sofferenze di ogni tipo originate da un clima generale di ingiustizia, di insicurezza e di violenza che arriva a trasformarsi in massacri e genocidi”.[9] Il 2 febbraio viene ucciso mentre celebrava la messa padre Guy Pinard, 61 anni, canadese, dell’Istituto dei Missionari d’Africa (Padri Bianchi); lavorava in Rwanda da circa trent’anni.

            Le violazioni dei diritti umani continuano senza sosta; Amnesty International denuncia che almeno seimila civili sono stati uccisi in Rwanda dal gennaio all’agosto 1997.

            Nel gennaio 1998 Paul Kagame è invitato a Bruxelles dalla Commissione sviluppo e cooperazione del Parlamento europeo, presieduta dal socialista francese Michel Rocard. Kagame è accolto in Belgio come un capo di stato ed è ricevuto, oltre che dal premier Jean Luc Dehaene, anche dal re Alberto II. Il leader rwandese è aspro e franco: “Spesso l’Europa è stata parte del problema rwandese. L’Europa ha denunciato con spirito distruttivo la situazione dei diritti umani, delle prigioni rwandesi, dei profughi rientrati. Ma nessun aiuto ci è stato fornito per risolvere tali problemi”. Il vicepresidente non prende impegni sull’organizzazione di elezioni politiche: “Non credo che i contenuti della democrazia siano misurabili dalla frequenza delle elezioni”[10]. Il 15 febbraio diviene presidente del FPR.

            A settembre arrivano le prime condanne del Tribunale penale internazionale. Il 2 Jean-Paul Akayesu, ex sindaco di Taba, è riconosciuto colpevole di genocidio, incitamento diretto e pubblico a commettere il genocidio, crimini contro l’umanità per sterminio, assassinio, tortura ed altri atti commessi contro i batutsi residenti sul territorio da lui amministrato. Il 4 è condannato all’ergastolo per genocidio Jean Kambanda, primo ministro rwandese nel 1994, arrestato in Kenya nel 1997. Il segretario dell’Onu Kofi Annan ha giudicato la sentenza un punto di svolta “nella storia del diritto internazionale”[11].

            L’episcopato rwandese, nella lettera pastorale del 20 novembre con la quale indice un sinodo straordinario, in preparazione del giubileo del 2000, destinato alla questione etnica, fa questa richiesta: “Domandiamo ai cristiani di tutte le categorie di mobilitarsi per trovare la soluzione alle nostre divisioni, ai nostri odi e ai nostri interminabili conflitti”.

            Il 7 aprile 1999, in occasione del quinto anniversario del genocidio, il presidente Bizimungu accusa Augustin Misago, vescovo di Gikongoro, di essere implicato nella pianificazione del genocidio; il 14, dopo un’aggressiva campagna di stampa nei suoi confronti, Misago è arrestato. Fino a quel momento, non erano state avviate indagini contro di lui, né da parte della magistratura, né da parte della polizia. Il 15 il portavoce della Santa Sede, Joaquin Navarro Vals, sottolinea che “l’arresto di un vescovo è un atto di estrema gravità che ferisce non solo la chiesa in Rwanda, ma l’intera chiesa cattolica”. Lo stesso giorno, il vescovo Simon Ntamwana pubblica, a nome della conferenza episcopale burundese, un breve comunicato di solidarietà a “tutti i vescovi e tutta la chiesa cattolica del Rwanda”.

Nel suo editoriale del maggio 1999, la redazione di Nigrizia attacca duramente il governo di Kigali: “Chi ha seguito negli cinque ultimi anni le vicende rwandesi - dall’attentato che ha posto fine alla vita e al regime hutu di Juvénal Habyarimana, all’uccisione di almeno 500mila tra tutsi e hutu moderati fino all’arrivo al potere del Fronte patriottico di Paul Kagame - è consapevole che questo arresto è, per così dire, logico. Risponde alla logica di un potere che, non avendo una vera base sociale e non essendo riuscito a normalizzare né, tanto meno, a pacificare il paese, si mantiene a galla agendo su due fronti; (...) A questa logica non poteva certo sfuggire la chiesa cattolica, più volte richiamata all’ordine con il chiaro intento di farne un docile strumento nelle mani di Kigali”.[12]

            Il 9 giugno il governo di Kigali rifiuta di mantenere la promessa fatta cinque anni prima; il ritorno alla democrazia è ritardato ed il periodo di transizione è prolungato di altri quattro anni. Il FPR sa bene, infatti, che in caso di elezioni libere e democratiche sarebbe sicuramente sconfitto e dovrebbe rinunciare al potere o quantomeno dividerlo con altri partiti, prevalentemente bahutu.

            Il 16 dicembre la commissione d’inchiesta dell’Onu denuncia, dopo otto mesi di lavoro, le responsabilità delle Nazioni Unite nel genocidio del 1994: non intervennero per fermare i massacri.

            Nei primi mesi del 2000, alcuni tra i principali responsabili del genocidio sono consegnati al TPI; si tratta di Elizaphan Ntakirutimana, ex presidente della chiesa avventista del Rwanda, estradato dagli Usa, Tharcisse Muvunyi, ex colonnello, arrestato a Londra e Jean de Dieu Lamuhauel, estradato dalla Francia.

            Il 28 febbraio si dimette il primo ministro Rwigema, accusato di corruzione; dopo alcune settimane, sceglierà la via dell’esilio. Al suo posto è nominato Bernard Makuza (Mdr), ex ambasciatore in Germania.

            In un articolo pubblicato il 1° marzo, il giornale canadese National Post accusa Paul Kagame di responsabilità dirette nell’attentato che il 6 aprile provocò la morte di Habyarimana. Nigrizia è il primo mensile italiano a pubblicare la notizia: “Secondo il National Post, nell’agosto 1997 tre militari del Fronte patriottico rwandese (Fpr, il movimento di Kagame) hanno affermato davanti agli inquirenti del Tribunale penale internazionale sul Rwanda (Tpir, con sede ad Arusha, Tanzania) di aver preso parte all’attentato e che Paul Kagame aveva il comando di quell’operazione. La decisione di eliminare Habyarimana sarebbe stata presa, secondo i tre informatori, perché i negoziati di Arusha non avanzavano abbastanza rapidamente, Habyarimana avrebbe potuto varare un governo di transizione e arrivare alle elezioni, il che avrebbe messo in forte difficoltà l’Fpr. Di queste affermazioni - che evidentemente Louise Arbour, all’epoca procuratore capo del Tpir e oggi giudice della Corte suprema in Canada, non ha preso in considerazione - erano al corrente anche le Nazioni Unite, sostiene ancora il National Post. L’Onu il 29 marzo, dopo quasi un mese di silenzio, ha ammesso l’esistenza di un rapporto interno relativo a queste accuse”.[13]

            Il 23 marzo si dimette il presidente Bizimungu, ufficialmente per “ragioni personali”, in realtà per contrasti sulla formazione del governo e per un’insanabile disparità di vedute con Kagame. Era uno dei pochi muhutu al potere. Il 17 aprile il parlamento elegge, quasi all’unanimità, Paul Kagame presidente della Repubblica. Tutte le cariche principali sono ormai nelle sue mani: capo dello Stato, comandante in capo dell’esercito, presidente del Fpr, ministro della difesa (anche se il 29 aprile un muhutu è nominato ministro della difesa). Nessuno può ormai negare che in Rwanda tutto il potere sia nelle mani della minoranza tutsi. Così commenta Augusto D’Angelo: “C’è chi afferma che con le dimissioni di Bizimungu tramonta la speranza di multietnicità nella guida del Rwanda. In verità quel che accade è una istituzionalizzazione trasparente della leadership rwandese. Tutti sapevano che già prima delle dimissioni era Kagame a comandare. Ora dovrà farlo dal seggio più alto, quello della presidenza della Repubblica”.[14]

            Il processo Misago, intanto, entra nella sua fase finale. Il 9 maggio il pubblico ministero chiede la condanna a morte; il giorno dopo, il papa invia un telegramma di solidarietà al vescovo. L’11 i tre avvocati difensori pronunciano le loro arringhe difensive. Il 15 giugno Misago viene assolto ed è immediatamente liberato. In settembre è a Roma per incontrare Giovanni Paolo II (il papa lo riceve l’otto) e così risponde a una domanda del prof. D’Angelo sui rischi riguardanti il suo rientro in Rwanda: “Nel ritornare vi sono rischi, mi attendono nuove difficoltà, ma le accetto. L’arresto, l’incarcerazione di un anno, la richiesta di condanna a morte testimoniano la volontà di eliminarmi. Molti amici qui in Europa mi hanno consigliato di non tornare in Ruanda perché pericoloso. Ma io devo tornare. Non sono fuggito quando ero accusato, come potrei rimanere in esilio ora che sono stato riconosciuto innocente! Se non tornassi qualcuno potrebbe restare col dubbio sulla mia innocenza”[15]. Il 17 settembre Misago rientra nel suo paese. Il 27 ottobre la corte d’appello di Kigali assolve due sacerdoti, condannati a morte in primo grado.

            Il 5 febbraio 2001, in occasione del centenario dell’evangelizzazione del Rwanda, Giovanni Paolo II invia un messaggio in cui invita tutti alla riconciliazione.

            In marzo si tengono le prime elezioni municipali dopo il genocidio.

            Il 12 aprile viene spiccato un mandato di cattura internazionale contro l’ex primo ministro Rwigema.

            Il 31 maggio l’ex presidente Bizimungu è agli arresti domiciliari. Aveva annunciato la creazione di un nuovo partito politico.

            Il 6 ottobre un volontario italiano è ucciso a Kigali con due colpi di pistola.

            Il 2 gennaio 2002 il governo di Kigali cambia l’inno nazionale e la bandiera rwandese.

            Il 16 il Monitor di Kampala pubblica un articolo in cui si annuncia la nascita dell’ADR (Alleanza democratica rwandese). Questa nuova coalizione comprende due forze politiche, il CDA (Congresso democratico africano) ed il MPDD (Movimento per la pace, la democrazia e lo sviluppo). Il portavoce, Sixbert Musangamfura, annuncia una forte opposizione al regime di Kigali.

            Per tutto il 2002 si susseguono gli arresti arbitrari e gli omicidi politici. Se le cose continuano così, nel futuro prossimo non ci sarà speranza di pace e di democrazia per il Rwanda. Eppure, nonostante tutto, mi ritornano in mente le parole del grande André Sibomana, sacerdote, giornalista e difensore dei diritti umani: “gardons espoir pour le Rwanda” (conserviamo la speranza per il Rwanda).

BURUNDI: GUERRA E SPERANZA

Il Burundi è un piccolo paese, con circa sei milioni d’abitanti. Ex colonia belga, ha ottenuto l’indipendenza nel 1962. Nel 1966 il re è deposto e nasce la Repubblica. Fin dall’indipendenza, il potere è stato sempre nelle mani dei batutsi; anche l’esercito era ed è mono-etnico. Dopo gli anni tristi della dittatura di Bagaza, sale al potere, con un colpo di stato, il maggiore Pierre Buyoya che nel 1993 decide finalmente di indire libere elezioni; Melchior Ndadaye, muhutu, del FRODEBU (Fronte Democratico del Burundi), è eletto presidente della Repubblica con una maggioranza schiacciante. Per molti burundesi, un sogno lungamente atteso si è realizzato: è nata la democrazia, è fiorita la speranza.

Dopo pochi mesi, questo sogno s’infrange: il presidente Ndadaye è assassinato in ottobre da alcuni militari e scoppia la guerra civile, nel corso della quale ci saranno centinaia di migliaia di morti. Al posto del defunto presidente, è nominato Cyprien Ntaryamira, muhutu, anche lui del FRODEBU. Il 6 aprile 1994 il presidente burundese muore, insieme al suo omologo rwandese, nell’attentato di Kigali. Sylvestre Ntibantunganya, anche lui muhutu, presidente dell’Assemblea nazionale, è nominato capo dello Stato e governa il paese per due anni.  È un buon presidente, intelligente e moderato e l’esecutivo da lui presieduto è multi-etnico. Il 25 luglio 1996 Pierre Buyoya, mututsi, ex presidente-dittatore, prende il potere con un colpo di stato. La comunità internazionale decreta l’embargo contro il Burundi. La guerra civile continua; a capo dei miliziani bahutu c’è Léonard Nyangoma, mentre l’esponente dell’estremismo tutsi è l’ex dittatore Bagaza.

Il mediatore incaricato di risolvere la crisi è Julius Nyerere, ex presidente della Tanzania; fino alla fine, svolge il suo incarico in modo mirabile ed ottiene alcuni risultati significativi. Dopo la morte del “mwalimu” (“maestro”), un grande statista africano prende il suo posto: si tratta di Nelson Mandela, premio Nobel per la pace ed ex presidente del Sudafrica. Egli intensifica i contatti e invita tutti alla moderazione. Nel 2001 si arriva al cessate il fuoco e il primo novembre nasce un governo di transizione. L’ipotesi di Mandela è semplice: una presidenza a rotazione, un mandato per un muhutu, un altro per un mututsi. I bahutu, che sono la maggioranza, non si sentirebbero garantiti da un presidente mututsi; ma i batutsi, che sono in minoranza ma controllano l’esercito, avrebbero paura di subire un genocidio come quello rwandese in caso di predominio assoluto dei bahutu. Il piano del premio Nobel porta quindi alla formazione di un governo transitorio di unità nazionale, in cui i ministeri sono equamente distribuiti tra le due etnie. Alcuni estremisti non accettano gli accordi, ma i più importanti partiti politici entrano nel governo. Primo ministro è nominato Jean Minani, muhutu, del FRODEBU; il vice presidente è il muhutu Domitien Ndayizeye. I soldati sudafricani hanno l’incarico di proteggere i ministri del nuovo governo.

Col passare dei mesi, però, la guerriglia continua ed i morti si contano a centinaia. Il 18 maggio 2002 il vescovo di Ruyigi Joseph Nduhirubusa viene rapito dai guerriglieri, dopo uno scontro a fuoco che ha provocato la morte del suo autista. Dopo alcune settimane, il sacerdote viene rilasciato.

Il 30 aprile 2003 Buyoya cede il potere al suo vice, Domitien Ndayizeye, il cui mandato durerà 18 mesi, dopo i quali ci saranno le elezioni presidenziali.

CONGO: UN PAESE RICCO ABITATO DA GENTE POVERA

La Repubblica democratica del Congo è un paese enorme, dieci volte più grande dell’Italia. È ricchissimo di materie prime: oro, diamanti, rame, cobalto, uranio, coltan; ma, paradossalmente, i congolesi sono poverissimi. In 32 anni di dittatura, Mobutu ha saccheggiato il paese accumulando un patrimonio superiore ai 10 miliardi di euro. Questo denaro, che appartiene al popolo congolese, è nascosto in parte nelle banche svizzere, in parte in altri “paradisi fiscali”. In verità, una piccola porzione di quest’enorme fortuna è stata congelata dalle autorità elvetiche e forse un giorno sarà restituita. Nel settembre 1996 i banyamulenge, un popolo del Kivu (est del Congo), si ribellano a Mobutu e iniziano una rivolta, che presto si estende. Nasce l’AFDL (Alleanza delle Forze Democratiche di Liberazione del Congo-Zaire), con a capo Laurent Kabila, che da molti anni combatte contro la dittatura di Mobutu; loro alleati sono i rwandesi, gli ugandesi e i burundesi. In pochi mesi l’Alleanza avanza rapidamente; l’esercito zairese è allo sbando, mentre Mobutu, gravemente malato, va a curarsi in Europa. In primavera le truppe di Kabila sono alle porte di Kinshasa. Invano Mandela organizza un incontro tra Mobutu e Kabila, a bordo di una nave sudafricana. L’anziano dittatore lascia per sempre il Congo e, dopo aver passato alcuni giorni dal suo amico Eyadema, presidente-dittatore del Togo, va in Marocco, dove morirà poco dopo.

Il 17 maggio l’AFDL entra a Kinshasa e Kabila si auto-proclama presidente della Repubblica democratica del Congo, ripristinando il nome dell’indipendenza, modificato in Zaire da Mobutu negli anni ’70. Il popolo è in festa e i giovani gridano “libérés”, liberati. In realtà, col passar dei mesi tutti si renderanno conto d’essere passati da un dittatore ad un altro, anche se Kabila è sicuramente meno ladro di Mobutu, uno dei peggiori dittatori di tutti i tempi. Il leader dell’opposizione democratica, Etienne Tchisekedi, non entra a far parte del nuovo governo e le elezioni sono rimandate sine die. Ministro degli esteri è un rwandese, Bizima Kara; questo la dice lunga riguardo all’influenza delle autorità di Kigali su Kabila. I rwandesi, però, esagerano: i soldati dell’APR (Esercito Patriottico Rwandese), presenti soprattutto nell’est del Congo, violano i diritti umani, uccidono, rubano. Nell’estate 1998 Kabila ordina all’esercito rwandese di lasciare immediatamente il paese. Nell’agosto scoppia la guerra e, in breve tempo, tutti i paesi della regione ne sono coinvolti. Con Kabila si schierano lo Zimbabwe, l’Angola e la Namibia; contro di lui, il Rwanda, l’Uganda e, di nascosto, anche il Burundi. Il conflitto fa un numero enorme di vittime (da due a tre milioni di morti). Nel 1999 si arriva finalmente agli accordi di pace di Lusaka (Zambia).

Il 16 gennaio 2001 Kabila è assassinato; dopo pochi giorni, suo figlio Joseph è nominato presidente. Sembra quasi che il Congo non sia più una Repubblica, ma una monarchia! Chi ha ucciso Laurent Kabila? Una delle sue guardie del corpo lo ha assassinato ed è stata subito uccisa da altri soldati; non potrà più dire il nome del mandante di questo omicidio politico. Le ipotesi sono tante, perché il defunto presidente-dittatore aveva molti nemici; per ora, nessuno conosce la verità. Joseph è un giovane militare, senza alcuna esperienza in politica; sarà capace di governare un paese immenso e in guerra come il Congo? Dopo un anno di governo, il mio giudizio sul suo operato è sostanzialmente negativo: il popolo continua a soffrire e non c’è traccia di riforme.

Nel 2001 il Parlamento belga decide di costituire una commissione d’inchiesta sulla morte di Patrice Lumumba, primo ministro congolese ucciso il 17 gennaio 1961. Dopo alcuni mesi, la commissione d’inchiesta stabilisce che il governo belga ha la responsabilità morale della morte di Lumumba. Il ministro degli esteri Michel porge le scuse del governo belga a quello congolese; c’è molta ipocrisia in questa operazione e, soprattutto, non si vogliono ammettere le responsabilità politiche del Belgio, anche per evitare un’eventuale richiesta di risarcimento danni. Il professor Ludo de Witte, in un suo libro, ha dimostrato chiaramente le responsabilità non solo morali, ma anche politiche e giuridiche del Belgio nell’assassinio del premier congolese. Gravi sono anche le colpe della Cia; a lungo gli americani hanno accusato Lumumba, che era un liberale, di essere un comunista, dunque un pericoloso sovversivo. Mi tornano in mente le parole di Helder Camara, grande vescovo brasiliano recentemente scomparso: “Se aiuto i poveri, dicono che sono un santo, ma se mi chiedo perché ci sono tanti poveri, dicono che sono un comunista”.

In ultima analisi, i responsabili politici e morali della morte di Patrice Lumumba sono i governi occidentali, sempre pronti a considerare come nemico chi, per difendere gli interessi del suo popolo, contrasta la rapacità delle multi-nazionali europee ed americane. L’anti-comunismo è spesso una maschera, dietro cui si cela la difesa di enormi interessi economici. Come può un liberale essere comunista? È come dire che Berlusconi è un comunista o che Ciampi è un fascista. Un giorno qualcuno lo spiegherà ai sapientoni di Washington, Parigi e Bruxelles.

TRA GOMA E KAMPALA

            Il 19 gennaio 2002 è sabato; il telegiornale mostra le immagini di Goma sepolta dalla lava del vulcano Nyiragongo. Nel primo pomeriggio squilla il cellulare: è il presidente di una ong aderente alla FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario). “In Congo c’è un’emergenza, centinaia di migliaia di persone hanno perso tutto quello che avevano. Se te la senti, c’è bisogno di una mano”. “Sono pronto, in 48 ore sarò in Africa”. Non c’è tempo per riflettere, bisogna agire subito. Primo problema: il biglietto aereo. È sabato e la “nostra” solita agenzia di viaggio vicino al Vaticano è chiusa. Telefono direttamente all’Ethiopian Airlines; il primo volo possibile parte da Roma alle 01,40 di lunedì 21 gennaio. Ho poche ore per preparare un bagaglio a mano, imballare la stampante che mi è stato chiesto di portare a Kampala, salutare i genitori e gli amici. Domenica, dopo la messa, Francesco, Giorgio e Francesco “Platini” mi accompagnano a prendere il pullman per Roma; alle 23 sono finalmente a Fiumicino e, dopo il check-in, m’imbarco sul volo per Addis Abeba. Viaggio in compagnia di due suore di S. Gemma e di due volontari laici: sono diretti a Bukavu, in Congo. Alle 9,30 l’aereo arriva puntuale nella capitale etiopica ed attendo in aeroporto il volo per Nairobi, leggendo La Repubblica di domenica:

Congo, l’eruzione non si ferma, in migliaia assediati dalla lava.

“La fuga è finita davanti alle acque del lago Kivu. Gli abitanti di Goma, terrorizzati dal mostro incandescente che li inseguiva a sessanta chilometri l’ora, erano scappati in tutte le direzioni. Molti si erano buttati fra le braccia dei ruandesi, rischiando magari di essere riconosciuti come miliziani hutu Interahamwe, e processati per i crimini del genocidio del ’94. Altri erano fuggiti verso ovest, scendendo verso zone del Congo politicamente “più tranquille”, ma difficili da raggiungere per gli aiuti”.

            Dove si dirigeranno i rifugiati ? Dove saranno installati i campi profughi ? In quale di questi campi andrò ? Quale sarà la reazione dell’APR, l’esercito rwandese ? Qui ad Addis Abeba nessuno può rispondere a queste domande; forse a Nairobi, dove dovrò attendere 7-8 ore, i missionari comboniani sapranno dirmi qualcosa; forse leggendo un quotidiano avrò notizie sull’evolversi della situazione. Arrivo nella capitale del Kenya con un’ora di ritardo. In sala d’attesa incontro una signora congolese, coi suoi tre figli di tredici, quattordici e sedici anni. Mi dice d’essere scampata alla morte per miracolo. Giovedì 16 era al lavoro nel suo ufficio di Goma; la radio diceva di stare calmi, perché non c’era il pericolo imminente di un’eruzione. Alle 12 ha deciso di lasciare il suo posto di lavoro, alle 12,30 l’intero palazzo è stato distrutto dalla lava. Dopo essere andata in Rwanda, è riuscita ad arrivare a Nairobi e tra poche ore prenderà un volo per gli Stati Uniti, dove l’attende suo marito. E il suo conto in banca ? Mi spiega che, in Congo, in casi come questi le banche sono saccheggiate da delinquenti o da militari e non c’è alcuna possibilità di riavere il proprio denaro.

Incontro suor Bernadette, burundese, della Congregazione di S. Gemma, lo stesso Istituto di suore incontrate sull’aereo per Addis Abeba: la sua storia è davvero incredibile ! La religiosa congolese è partita dalla Costa d’Avorio, dove svolge la sua attività in favore dei più poveri, sabato 18 gennaio, per andare a trovare suo padre, gravemente ammalato. Suor Bernadette fa scalo a Nairobi dove, dopo una breve sosta, dovrà imbarcarsi per Bujumbura. Al momento di salire, c’è qualcosa che non va; il personale di bordo dice che l’aereo è pieno e non c’è posto per lei. Inutili sono le proteste della religiosa, che mostra il suo biglietto col posto prenotato. La sentenza è dura da accettare: non ci sono più voli per il Burundi e dovrà restare in Kenya fino a mercoledì. Non è ancora finita: per uscire dall’aeroporto, dovrà pagare il visto d’ingresso di venti dollari, che suor Bernadette non ha. Conclusione: la religiosa è bloccata da tre giorni all’aeroporto e dovrà restarvi altri due. La compagnia aerea le rifiuta perfino i pasti e solo in un secondo tempo decide di concedere alla suora burundese quello che è un suo diritto sacrosanto. Leggo sullo Star, un quotidiano dello Zambia, che migliaia di rifugiati sono ritornati a Goma; alcuni tra loro dichiarano di preferire la morte a casa propria, piuttosto che vivere in un campo profughi in Rwanda. È sempre forte il timore dello scoppio di epidemie; molti, disperati e assetati, bevono le acque del lago Kivu, che potrebbero essere avvelenate in seguito all’eruzione vulcanica. Alle 22 m’imbarco per l’Uganda e alle 23,30 arrivo ad Entebbe, dove tre italiani mi attendono: si tratta di Mario, di Daniela e di un tipo losco, che chiamerò signor Rossi. Ci sono molte cose da capire per rispondere all’emergenza ed il signor Rossi me le spiega fino alle 3 del mattino; alle 3,30 finalmente andiamo tutti a dormire.

L’indomani la sveglia suona alle 6,30; solo tre ore di sonno, ma non c’è tempo per riposare. Bisogna accertarsi che il camion, come da precedenti accordi, parta per Goma alle 8. Alle 7,30 siamo al luogo dell’appuntamento, ma gli autisti non ci sono. Dopo un giro di telefonate, capiamo che è una tattica per avere più soldi. Verso le 10, i due autisti finalmente si fanno vivi; bisogna cambiare due pneumatici, totalmente usurati. Non siamo in Europa: oltre tre ore per cambiare due gomme ! Alla fine, chiedono 350 dollari d’anticipo e, verso le 14, il camion parte, coi due autisti ed i due logisti, Kourouma e Charles. Sarei voluto partire anch’io, ma il signor Rossi ha preferito di no. Ci mettiamo a lavorare al computer per ultimare il progetto d’emergenza da presentare alla Cooperazione italiana e alla sera lo illustriamo alla dottoressa Florinda Guadagna, che ci indica alcune correzioni da fare e ci consiglia di presentare il progetto l’indomani.

Al mattino presto Daniela, che aveva curato il progetto Goma, prende il volo per l’Italia. Apportiamo le modifiche consigliate e consegniamo il fascicolo alla Cooperazione italiana, organismo dipendente dal Ministero degli esteri, che ha sede in Lourdel Road, presso la nostra ambasciata. Ora bisogna organizzare il secondo camion per Goma; nel primo c’erano 250 coperte, alcune tonnellate di zucchero, biscotti e medicine. Nel secondo caricheremo 7 tonnellate di fagioli. Abbiamo la fortuna d’incontrare Jean Guy, un trasportatore d’origine italiana, molto serio, che organizza il viaggio e ci consiglia dove acquistare la merce. Ci diamo appuntamento a domani per gli ultimi accordi. Intanto Kourouma ci telefona per dirci che il nostro camion è arrivato a Goma: tre giorni per percorrere 700 chilometri ! Giovedì 24 mi sveglio alle 5; una zanzara mi tormenta ed è meglio alzarsi, fare una doccia e cominciare subito a lavorare. Contattiamo Jean Guy, che ci conferma la possibilità di acquistare le 7 tonnellate di fagioli da un suo amico e ci dice che nel primo pomeriggio inizieranno a caricare la merce. Scriviamo una lettera in cui si dichiara che il contenuto del camion è un dono del governo italiano per l’emergenza a Goma. Oltre al timbro della nostra ong, c’è anche quello della Cooperazione italiana. È un documento che potrà esserci utile alla frontiera. Passiamo in banca a ritirare il denaro per pagare il nostro fornitore: la spedizione ci costa oltre tremila euro, che saranno poi rimborsate dal governo italiano. Alle 18 il carico è pronto e alle 19 finalmente si parte. L’autista, molto bravo, è un rwandese, Jean Marie Vianney. Viaggio accanto a lui mentre, all’interno del camion, c’è Abdel Karim, anche lui del Rwanda, incaricato di sorvegliare la merce. Verso le 22,30, l’autista si accorge che una ruota è un po’ sgonfia. Ci vorrà circa un’ora per risolvere il problema. A mezzanotte andiamo a dormire in una specie di hotel molto economico, vicino Mbarara.

Venerdì 25 gennaio: alle 6 si parte, con la speranza d’arrivare a Goma prima che sia buio. Piove, ma la temperatura è piuttosto elevata. Non c’è traffico e la strada è ben asfaltata. Ogni tanto incontriamo delle mandrie di vacche dalle corna a forma di cerchio, sorvegliate da pastori adolescenti. Quanto tempo perderemo alla frontiera ? Solo Dio lo sa. Arriviamo a Kabale, la città dalla quale, nell’ottobre 1990, partì l’avanzata del Fpr verso il Rwanda. Mi torna in mente il titolo di un paragrafo del bel libro di Casadei e Ferrari: appuntamento armato a Kabale.[16] Verso le dieci arriviamo alla frontiera e, dopo circa due ore di attesa per espletare le formalità burocratiche, siamo in Rwanda. Che emozione per me tornare dopo sei anni nel Paese delle mille colline ! In un paio d’ore siamo a Kigali; mentre i due bravi rwandesi pranzano, ho il tempo di salutare rapidamente le suore di madre Teresa di Calcutta. Visito il loro orfanotrofio, nei pressi della parrocchia della Santa Famiglia, e mi colpisce un bambino, forse appena arrivato, che reca sul volto segni evidenti di malnutrizione. Le missionarie della carità sono bravissime, straordinarie, degne della loro santa fondatrice.

Bisogna, però, partire in fretta, per arrivare prima che sia buio. Fino alla frontiera col Congo ci sono circa 200 chilometri, ma la strada è in salita ed il camion, che è a pieno carico, procede molto lentamente. Quando arriviamo a Gisenyi sono le 19 ed il sole è già tramontato da circa trenta minuti. Alla frontiera ci dicono che l’ufficio è chiuso e non si può passare fino a domani. Dopo aver fatto un “regalo” di 20 euro, riesco ad ottenere il permesso d’attraversare la frontiera a piedi. È buio e, nonostante mi sia trovato molte volte in situazioni difficili e pericolose, comincio ad aver paura. Non sono mai stato a Goma; l’unica cosa che so è che devo andare alla parrocchia di Nostra Signora d’Africa. Un giovane rwandese mi chiede 70 dollari per accompagnarmi fino alla parrocchia, ma è una somma spropositata e rifiuto l’offerta. Mi avvio a piedi, faccio l’autostop, un giovane si ferma con la sua moto e mi chiede quanto gli offro per un passaggio: ci accordiamo per 5 dollari, ma poi mi viene in mente che ho solo banconote da 50 e 100 dollari. Arrivati alla chiesa, gli offro 10.000 scellini ugandesi, l’equivalente di 5 dollari e lui accetta. Busso alla porta e uno dei missionari, padre Michel, nonostante l’ora tarda, mi apre e mi fa entrare: finalmente sono salvo !

Alle 6 del mattino i padri bianchi celebrano la messa: c’è tanta gente, nonostante sia l’alba. Alle 8 incontro padre Paolo, un missionario italiano appartenente alla Congregazione di S. Francesco Caracciolo, e con la sua auto andiamo alla frontiera. Come sempre avviene coi congolesi, iniziano ad inventare delle tasse inesistenti. Paghiamo 15 dollari, poi ce ne chiedono ancora 50; a quel punto rifiutiamo e facciamo intervenire un rappresentante delle Nazioni Unite, un canadese molto in gamba, e un dirigente della Cooperazione italiana. Alla fine, la situazione si sblocca e ci permettono di attraversare la frontiera col nostro camion. In meno di mezz’ora siamo alla parrocchia Nostra Signora d’Africa. Ci sono 7 tonnellate di fagioli da scaricare e non mi tiro certo indietro, anche se i miei vent’anni sono passati da un pezzo. In un’ora il camion è scaricato, Jean Marie Vianney ed Abdel Karim possono ripartire per Kampala. Anche Kourouma, che era arrivato a Goma alcuni giorni fa col primo camion, parte per Kigali con un’auto della Cooperazione italiana ed io vado a pranzo coi padri bianchi. Nel pomeriggio padre Salvador mi porta a fare un giro a piedi per constatare di persona i danni provocati dalla lava. Almeno un decimo della città è stato distrutto: la cattedrale, il centro commerciale e finanziario, la maggior parte delle scuole. Verso le 18, poiché non c’è ancora la corrente elettrica, i padri mettono in funzione il gruppo elettrogeno; posso ricaricare il cellulare e chiamare il signor Rossi a Kampala, che mi dice di andare a Kigali. La missione a Goma è finita, ma ci sono altre cose importanti da fare in Rwanda.

Domenica la messa inizia alle 6; oltre al sacerdote, salgono sull’altare i ministri straordinari dell’eucarestia, gli accoliti e una decina di bambine, che indossano vesti belle e colorate e ballano leggere ed armoniose, esprimendo con la danza la lode a Dio e il ringraziamento per il dono della vita. Dopo la messa e la prima colazione, padre Salvador mi accompagna oltre la frontiera e, a Gisenyi, prendo un taxi-bus per Kigali. Si tratta di pulmini da 15 posti, anche se gli autisti africani li riempiono sempre fino all’inverosimile. Nella mia fila, infatti, siamo addirittura in cinque invece di tre! Dopo cinque ore di viaggio, sono nella capitale rwandese. Vado di nuovo dalle suore di madre Teresa, i bambini sono contenti di rivedermi, ma apprendo una notizia che mi rattrista molto: il bimbo che credevo denutrito è invece malato di Aids. Dopo la visita alle missionarie della carità, telefono a Johnny, il nostro referente a Kigali, che arriva in meno di un’ora. È giovane, somiglia ad Eddie Murphy e parla un buon italiano; gli chiedo alcuni numeri di telefono e prendiamo accordi per l’indomani.

Lunedì 28 gennaio, dopo la messa, vado al Consolato d’Italia per segnalare la mia presenza; è una procedura precauzionale, che tutti gli italiani farebbero bene a seguire. Johnny è già lì ad aspettarmi; do il mio passaporto alla signora Dina che, dopo aver fatto le fotocopie delle pagine più importanti, me lo restituisce. Insieme a Johnny, vado nella sede della Croce rossa, dove incontro Marco Serafino, che è stato il primo volontario della nostra ong negli anni ’80 e ora lavora per la Croce rossa internazionale. Il giovane ingegnere mi illustra un progetto di elettrificazione che potrebbe essere finanziato dal governo italiano e dalla Commissione europea. Nel pomeriggio andiamo nell’ufficio del dott. Nicola De Vito, primo consigliere del rappresentante a Kigali della Commissione europea. L’alto funzionario ci spiega che bisogna, prima di tutto, presentare il progetto al Ministero dei lavori pubblici e, solo in seguito ad approvazione da parte delle autorità rwandesi, si potrà avere il finanziamento dell’Unione Europea. Dopo questo incontro, Marco mi accompagna al “Centro di Pastorale S. Paolo”, dove alloggio. Incontro una coppia, che mi chiede se conosco un negozio di oggetti africani; si tratta di Louis, inglese, e di Miluo, giapponese. Li accompagno al negozio e, dopo una breve visita, gli propongo di andare all’orfanotrofio delle suore. Le missionarie della carità ci accolgono, come sempre, a braccia aperte, Oltre ai bambini, andiamo a trovare anche gli anziani; in tutto, ci sono 180 persone, assistite in modo splendido da 7 suore. Chiedo alla superiora come fa a trovare il tempo per occuparsi di tutte queste persone. La risposta è semplice: “ci alziamo alle 4,30 e andiamo a letto alle 22. Durante il giorno non ci fermiamo un solo istante”. Al momento dei saluti, arriva il regalo più bello; suor Anna Clara mi regala una preziosa reliquia, un pezzetto del vestito di madre Teresa, con sigillo del Vaticano. La ringrazio commosso, con le lacrime agli occhi. Marco Serafino m’invita a cena e poi m’accompagna al “Centro S. Paolo”; alle 22 vado a letto.

Martedì prendo un taxi-bus per Kampala; dopo otto ore di viaggio, arrivo nella capitale ugandese e sono molto felice: ho portato a termine la mia missione, sono ancora vivo, non mi sono ammalato e ho incontrato tante persone meravigliose.

LE RESPONSABILITÀ INTERNAZIONALI

I tre Paesi che hanno le maggiori responsabilità nella crisi della regione dei Grandi Laghi sono il Belgio, la Francia e gli Stati Uniti. Il Belgio, durante l’epoca coloniale, ha fatto ben poco per l’alfabetizzazione e l’istruzione dei popoli colonizzati. Al momento dell’indipendenza, i laureati in Congo si contavano sulla punta delle dita. Quando, nel 1960, Patrice Lumumba diviene primo ministro, il Belgio fa di tutto per eliminarlo, politicamente o fisicamente; poiché la prima soluzione è irrealizzabile, il governo belga, col consenso di quello statunitense, opta per la seconda. Se il Congo ha subito l’ultra-trentennale dittatura di Mobutu, la responsabilità politica e morale è da attribuire in primo luogo al Belgio, che ha assassinato Lumumba e sostenuto il “dinosauro”. Anche gli Stati Uniti hanno appoggiato, in piena guerra fredda, il dittatore congolese, considerato anti-comunista e filo-occidentale. Così un ladro, un assassino, un dittatore, un delinquente come Mobutu è stato ricevuto con tutti gli onori a Bruxelles, a Washington e a Parigi. La Francia, desiderosa di conquistare nuovi mercati per le sue imprese, ha sempre sostenuto il “dinosauro”, soprattutto quando il Belgio ha allentato i legami con la sua ex-colonia. Abbiamo già parlato del sostegno francese al dittatore Habyarimana, concesso anche in ragione dell’amicizia personale che legava François Mitterand al generale rwandese.

Nel nuovo ordine internazionale imposto dagli Stati Uniti, non c’è spazio per elezioni libere e democratiche, ma si parla di “legittimità combattente”. Il potere non appartiene, in questa visione, al popolo, che lo delega ai suoi rappresentanti democraticamente eletti, ma a generali vincitori di presunte guerre di liberazione, che spesso sono invece lotte per il potere. Sono gli Stati Uniti che finanziano dittatori come Paul Kagame e Yoweri Museveni, primi responsabili della guerra che da anni insanguina il Congo ed ha già provocato più di due milioni di morti. Come mai nel 1991 la comunità internazionale intervenne per difendere il Kuwait, invaso dall’Irak, mentre nessuno è intervenuto in Congo, invaso nel 1998 da Rwanda ed Uganda ? La risposta è semplice: non è intervenuto nessuno, perché i governi di Kigali e Kampala sono alleati degli Usa e nessuno può toccare gli amici degli statunitensi.

Anche le Nazioni Unite hanno responsabilità molto forti, soprattutto per quanto riguarda il genocidio rwandese. Quando nel 1994 Romeo Dallaire, comandante dei caschi blu in Rwanda, chiese un rafforzamento del suo contingente, il Consiglio di sicurezza dell’Onu decise invece di ridurlo da 2.500 a 250 unità. È vero che questa decisione fu presa su forte pressione statunitense, ma è altrettanto vero che Boutros Ghali non fece tutto quanto era in suo potere per convincere il Consiglio di sicurezza a decidere diversamente. Un’altra grave responsabilità delle Nazioni Unite è il mancato intervento in Congo nell’autunno 1996; diverso però è stato l’atteggiamento del nuovo segretario generale, il ghanese Kofi Annan. Egli, con una fermezza ed una decisione inusuale in un diplomatico, così si espresse sulla situazione congolese ai microfoni della BBC: “You can kill by shooting or by starvation. Killing by starvation is what is going on”.[17] In effetti, il mancato intervento di un contingente di caschi blu, che consentisse alle organizzazioni umanitarie di distribuire gli aiuti alimentari, provocò la morte di almeno 400.000 persone. Sotto la guida autorevole di Annan, si è notata una maggiore attenzione all’Africa da parte delle Nazioni Unite. Nel 2001 una forza di pace dell’Onu, denominata MONUC, è stata incaricata di sorvegliare l’attuazione degli accordi di Lusaka.

INTERVISTA A CARLO CARBONE

            Il 16 ottobre 2002 vado a Cerisano (CS), per intervistare Carlo Carbone, professore di Storia e Istituzioni dell’Africa e di Storia Contemporanea nell’Università della Calabria (Cosenza). Il testo, registrato e sbobinato, è stato riveduto dal docente.

Prof. Carbone, dopo la nomina di Paul Kagame alla Presidenza della Repubblica, è ancor più evidente che il Rwanda è una dittatura. Secondo lei, è possibile prevedere, nel prossimo futuro, lo svolgimento di elezioni libere e democratiche ?

Cominciamo dalla questione ‘dittatura’ che per l’Africa postcoloniale è quant’altre mai bisognosa di contestualizzazione storica.

Le caratteristiche dell’attuale sistema di governo del Rwanda non sono, in realtà, molto diverse da quelle della stragrande maggioranza dei sistemi di governo africani. E potrei anche azzardare che non sono molto diverse da quelle della stragrande maggioranza dei sistemi di governo dei Paesi del Terzo Mondo.

Si tratti di dittatura o di democrazia, le qualità dei sistemi di governo dipendono più da condizioni sostanziali che da condizioni formali. Mi spiego: se noi definiamo democratico o dittatoriale un sistema sulla base della circostanza che in quel Paese esista o no una pluralità di partiti, invece che uno solo, ovvero che esista o no una reale possibilità di alternanza di forze politiche o di classi sociali al governo, secondo i modelli che ci sono consueti, allora è chiaro che per la grande maggioranza dei Paesi del Terzo Mondo - non solo quelli africani, ma anche quelli asiatici e, di quando in  quando, anche quelli latino-americani - dovremo sentenziare (noi europei nutriamo una vera passione per questo esercizio) che si tratta di situazioni di mancanza di democrazia ovvero di dittatura.

            Ma non possiamo fermarci al livello di una osservazione formale. Ci sono, infatti, delle condizioni che hanno a che fare, come dicevo, con la sostanza più che con la forma della democrazia, o con la sua qualità. Certo, a seconda dell’inclinazione teorica dell’osservatore quelle condizioni variano ma, alla fin fine, una è la più rilevante: quella che discende dalla distanza fra la concreta realtà politica ed economica dei Paesi del Terzo Mondo, in particolare quelli d’origine coloniale, e l’astratto obiettivo teorico dell’osservatore. Non solo dell’osservatore occidentale, si badi bene, ma persino di quello africano il cui orizzonte, nella maggioranza dei casi, coincide con l’orizzonte teorico e pratico proprio delle economie capitalistiche occidentali nei cui ambienti s’è formato.

           Ora noi occidentali abbiamo, com’è ovvio, un’idea di democrazia conforme alla nostra storia. E il nostro concetto di democrazia proviene quasi direttamente dall’evoluzione del sistema capitalistico, prima in ambiente illuministico e poi in ambiente liberale. Infatti, con le integrazioni venute dal marxismo, per noi sistema democratico equivale a sistema illuministico e liberale. Sistema dotato di strumenti per quella che gli inglesi chiamano ‘governance’, strutturato per consentire l’alternanza delle forze politiche che ambiscono a sostituirsi l’un l’altra nel governo. Ma si da il caso che, salvo rarissime eccezioni, in nessun Paese del Terzo Mondo esistano condizioni di base paragonabili a quelle che ho appena descritto, cioè a quelle dell’Europa illuministico-liberale. Già solo per questo, pertanto, mi pare piuttosto arbitraria una sentenze di assoluzione o di condanna sul fondamento di una comparazione incongrua o, detto altrimenti, solo sulla base del concetto formale di democrazia. In realtà, per quanto quelle condizioni siano, è vero, ambite, ricercate, riconosciute anche nel mondo non sviluppato, si tratta di condizioni alle quali i Paesi del Terzo Mondo non riescono ad accedere e, al momento, tanto meno possono riuscirci quanto più sono, di fatto, esclusi dal ristretto novero dei soggetti dell’economia internazionale di cui invece rimangono implacabilmente oggetti.

            Ne dedurrei che, così come a tutt’oggi non è possibile, sostanzialmente, non solo stabilire un parallelismo ma, quello che sarebbe necessario, anche solo un’ipotesi di convergenza fra sistema economico africano e sviluppo capitalistico di tipo europeo, risulta altrettanto impossibile emettere valutazioni comparative su realtà incomparabili.

            Bisogna aggiungere che in Africa ci troviamo nella paradossale situazione di avere un deficit di democrazia, intesa proprio come noi la intendiamo, che è lamentato, lo dicevo prima, anche dagli stessi governanti africani il cui punto di vista - inseriti come essi sono nel circuito economico e culturale che fa capo all’Occidente - fondamentalmente coincide con il nostro. Noi europei, cioè, siamo riusciti a collocarci non solo al centro della storia dal nostro punto di vista (siamo, come si dice, “eurocentrici”), ma ci ritroviamo accanto, in questo eurocentrismo, gli stessi governanti africani e, direi di più, gli stessi teorici politici dell’Africa. Per molti di costoro, infatti, il sistema di governo - e quindi la democrazia e, reciprocamente, la mancanza di democrazia - è direttamente connesso con la prossimità del loro sistema, delle loro strutture, ai paradigmi che vengono dall’Europa. Se questo è vero, e, insomma, ho l’impressione, almeno per la mia esperienza, che questo sia vero, il problema se esista o non esista la democrazia, se esista o non esista la dittatura in un Paese africano o in genere del Terzo Mondo è un problema su cui bisogna intendersi preliminarmente in via teorica, altrimenti, lasciato alle sue nude alternative, risulterebbe un problema mal posto, la cui funzione si ridurrebbe a consentire a noi occidentali la pratica per la quale nutriamo maggior trasporto: quella di distribuire pagelle. Se la questione, insomma, si riduce all’indagine sul fatto che esista o non esista un sistema formale di democrazia come quello nel quale noi viviamo, noi europei voglio dire, da settanta, ottanta o cento anni, una volta risposto di no non avremo fatto un solo passo avanti nella conoscenza delle realtà africane. Certo non avremo un solo elemento per rispondere alla domanda di fondo: perché, nonostante le drammatiche eccezioni costituite dai totalitarismi anti-democratici d’Europa - che hanno occupato vent’anni, grosso modo una generazione, della storia d’Europa - il sistema democratico, fondato in Europa e sviluppato per l’Europa, in Europa ha funzionato, mentre non ha funzionato in Africa, non ha funzionato in Asia?

            Tutto questo premesso, alla sua domanda, con la brutalità con cui è formulata (ma è bene che siano brutali le domande), io risponderei che sì, per i nostri parametri il Rwanda, come tanti altri Paesi africani, è una dittatura; tuttavia, con altrettanta franchezza, non mi fermerei all’indagine sulla possibilità che l’attuale presidente della Repubblica, Kagame, sia o non sia, in ipotesi, sostituibile attraverso sistemi pacifici, non cruenti, attraverso elezioni, non mi pare questo il nodo. Il problema è più sostanziale: il presidente Kagame, o qualunque altro al suo posto, risponde o non risponde alle contraddittorie esigenze attuali e alle complesse condizioni culturali del suo variegato popolo? La sua presidenza è espressione reale della volontà delle varie comunità che costituiscono il suo popolo o non lo è? Se, per capire meglio, ci consentissimo per una sola volta quella che agli storici è di norma interdetto, cioè una ipotesi storica, un ‘se’, e congetturassimo che, invece di Kagame (che per coincidenza è effettivamente imparentato con la famiglia reale del suo paese), si trovasse alla testa del Rwanda uno qualunque dei re tutsi della sua storia, lei mi farebbe ancora una domanda di questo genere ? Se al posto di Kagame ci fosse a governare Kigeri V, l’ultimo re del Rwanda (Jean-Baptiste Ndahindurwa), legittimato come tutti i suoi predecessori da una totale convergenza di opinione delle varie componenti del popolo rwandese, mi chiederebbe ancora se c’è o non c’è la dittatura in Rwanda ? Eppure saremmo comunque di fronte ad un sistema monarchico di natura nettamente assolutistica, un sistema che noi europei abbiamo da tempo ripudiato. In realtà se esistesse ancora una monarchia come quella del passato rwandese, lei farebbe fatica a trovare, fra gli abitanti del Rwanda, un hutu, un tutsi, un twa che dichiarerebbe arbitrario il sistema e il potere politico che ne promana. Nessuno, ripeto: tutsi, hutu o twa essendo convinti che il re esprime effettivamente la volontà del suo popolo.

Avrà capito quindi che ritengo che il fatto che ci sia un solo uomo (o, che è lo stesso, un ristretto gruppo di uomini) al potere, e che da questo uomo solo promani la volontà politica, le decisioni politiche, ecc., probabilmente è meno importante di quanto non sia importante la rispondenza della politica di quell’uomo solo, o di quel gruppo di uomini, alle esigenze della comunità che capeggia. Badi bene che io, essendo uno storico, non parlo delle esigenze espresse dalla pura e semplice attualità, non mi riferisco solo alla corrispondenza all’oggi, ma anche della corrispondenza alla storia, perché un regime o un sistema politico può rivelarsi non democratico non solo se non interpreta le esigenze presenti della sua comunità ma anche se ne viola il passato, se fa violenza alla storia. Così, entro certi limiti, mi sembra che non siano democratici tutti quei sistemi di governo, ivi compresi quelli apparentemente democratici  (governi che pur consentono l’alternativa, governi eletti, ecc.) che non siano in sintonia con la storia del popolo dal quale sono stati espressi.

Prima di concludere su questo aspetto, ancora una brevissima considerazione sul tema della democrazia nella vicenda storica complessiva della regione dei Grandi Laghi in età contemporanea. Ci sono stati, nella regione, momenti nei quali sembrava che le speranze e le opportunità della democrazia così come la intendiamo noi fossero maggiori. Sembrava che la democrazia potesse non solo sbocciare e fiorire, ma anche ingrandirsi e consolidarsi. Alludo al periodo e alle speranza che hanno riguardato tutto il mondo, con la caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica e con l’abbattimento sostanziale del movimento comunista internazionale, del cosiddetto comunismo reale. A partire dal 1990 questo processo ha investito l’Africa come una specie di rivoluzione, ma s’è trattato, ancora una volta, di un moto indotto dall’esterno: ancora una volta l’Africa è stata oggetto, non soggetto, del suo stesso più intimo destino.

Nell’Africa francofona, per esempio, sono state poste da Mitterand una serie di condizioni per proseguire nella politica di protezione che la Francia accorda ai suoi clienti locali. Quelle condizioni avevano lo scopo, che l’opinione pubblica europea e le stesse esigenze del sistema economico internazionale consideravano ormai improcrastinabile, di introdurre il multipartitismo nel sistema franco-africano, complesso sistema di relazioni politiche, economiche e militari ineguali o asimmetriche. Lei crede seriamente che queste siano condizioni dovute ad un improvviso soprassalto di democrazia africanistica da parte di Mitterand, lo stesso Mitterand che aveva invece sostenuto i più feroci dittatori africani fino a quel momento ? Certo non lo crede ! Si trattava semplicemente di apprestare una serie di cornici formali, all’interno delle quali continuare con aggiornata efficacia la stessa politica di prima, tant’è vero che, per quanto riguarda la nostra regione, la regione dei Grandi Laghi, i Presidenti francesi, Mitterand e dopo di lui Chirac, non hanno fatto altro che proseguire, dopo il 1990, dopo l’introduzione del multipartitismo in Africa, esattamente nelle stesse politiche di prima. Solo che prima del ’90 quelle politiche le sostenevano attraverso collegamenti con sistemi monopartitici e, dopo il ’90, con sistemi pluripartitici (o, si veda il caso dell’ex Zaire, fintamente pluripartitici).

Nel caso del Rwanda, governato prima del ’90 esclusivamente dal MRND di Habyarimana, il paese fu in seguito governato da una rete politica in cui Habyarimana aveva semplicemente la maggioranza e tutti gli altri seguivano; e tanto poco cambiò la politica francese dopo l’inserimento del multipartitismo in Africa, che Mitterand non fece nulla per impedire il genocidio dei rwandesi dell’opposizione (prevalentemente tutsi ma anche hutu). Un genocidio che è venuto fuori da un sistema formalmente democratico. Ecco perché sono così attento all’uso del termine democrazia e dittatura e, soprattutto, al valore che questo temine ha nelle differenti situazioni storiche. L’indagine storica comporta una certa fatica, anzi, decisamente, molta fatica proprio perché non si può andare per schemi, procedere servendosi di regolette o di formule valide una volta per tutte attraverso le quali si stabilisce ciò che è bene e ciò che è male: i modi per il perseguimento del bene o del male variano al variare delle condizioni storiche.

Facciamo un passo indietro, professore. Il 6 aprile 1994 l’abbattimento dell’aereo sul quale viaggiava Habyarimana provoca l’inizio dei massacri. Secondo lei, quali sono le cause del genocidio che ha insanguinato il Rwanda? Si è trattato di un evento improvviso, dovuto all’emozione suscitata dalla morte del presidente o di un evento lungamente preparato? Di chi sono le colpe: del governo, della guardia presidenziale, delle milizie interahamwe, del Fpr?

Lei fa una domanda ad uno storico, non ad un giornalista. Se fossi un giornalista, mi affannerei, forse inutilmente, alla ricerca della cosiddetta causa efficiente, cioè a capire se lo scatenamento della catastrofe è dovuto all’attentato contro il presidente ed eventualmente se questo attentato è stato gestito ed attuato da gruppi di opposizione, o invece dagli stessi hutu ‘radicali’ che volevano programmare lo sterminio dei tutsi oppure, ancora, da uno dei gruppi hutu prossimi al Presidente. Ora, intanto, allo stato attuale dei fatti, qualunque risposta rischia di essere azzardata. Una risposta, certo, bisognerà pur darla, ma tenendosi alla larga dal semplicismo.

Ma, soprattutto, sia per la conoscenza storica che per avviare un qualche processo di soluzione alla questione della convivenza interetnica, è vitale riconoscere che la responsabilità di questo sterminio risale molto indietro nel tempo. Non si può immaginare di trovarne le cause né nel marzo del 1994, né nel 1993, né nel 1988, né in nessun altro dei tanti piccoli e drammatici episodi della storia della conflittualità etnica nel Rwanda della seconda metà del Novecento: bisogna valutare quegli episodi nel loro insieme e nel loro divenire. Non sarà certo necessario risalire ‘indietro nei secoli’, secondo la tesi che certo giornalismo razzista e semplificatorio ha cercato di accreditare inventando di sana pianta un inesistente ‘odio tribale secolare’, ma sicuramente di alcuni decenni e tornare alla fase terminale del periodo coloniale.

Il primo di una lunga serie di episodi che possono, ex post, essere connotati come  genocidari risale al 1959. In occasione della rivoluzione hutu per la presa del potere e per l’eliminazione della monarchia, si verifica allora il primo tentativo di stermino di quel gruppo etnico, i tutsi, cui i belgi avevano confidato la gestione esclusiva del potere ‘subcoloniale’. Ora, una rivoluzione politica era ben comprensibile nel critico momento in cui si andavano decidendo le sorti di un futuro Rwanda autonomo o indipendente, ma una rivoluzione così etnicamente connotata aveva di che sorprendere, e sorprese innanzitutto la maggioranza degli stessi banyarwanda. Il motivo è presto detto: nel passato del Rwanda e del Burundi c’era stata, questo è fuori discussione, una lunghissima, pluri-secolare consuetudine di coesistenza interetnica. Tutto quello che noi sappiamo ci permette di dire che tra queste etnie s’era sviluppata una vera e propria osmosi. Nel lungo lasso di tempo in cui i pastori tutsi entrarono via via in Rwanda, s’era formato un sistema nel quale, fosse o meno un sistema di sfruttamento come, negli anni 50, affermano gli hutu, gli uni e gli altri, se vuole i potenziali sfruttatori e i potenziali sfruttati, erano concordi nel non interrompere il flusso, diciamo così, dell’interscambio agropastorale.

La contrapposizione tra i gruppi non aveva mai raggiunto un livello che possa essere anche lontanamente paragonato a quello cui poi si è assistito nella seconda metà del secolo scorso. Non si troverà nessun esempio in contrario, neanche nei lavori degli storici hutu rwandesi, tra i quali, del resto, l’unico, per così dire, di peso scientifico, è Ferdinand Nahimana, che quindi voglio citare nonostante la sua deriva ultraradicale (è sotto processo ad Arusha per aver diretto il genocidio). Nahimana ha tentato di dimostrare che il sistema di relazioni interetniche era un sistema di sfruttamento che gli hutu, nel passato, a più riprese avevano contestato ma le sue parole sono rimaste astratte ipotesi, quando non petizioni di principio. E’ bensì vero, infatti, che le piccole comunità statuali a vario grado di indipendenza in cui era suddiviso il Rwanda precoloniale erano spesso dirette da hutu ma l’eventuale conflitto fra costoro e i tutsi aveva, per l’appunto, il carattere di uno scontro fra Stati (plurietnici al loro interno), non fra etnie.

Noi storici siamo portati a ritenere che il sistema precoloniale fosse un sistema economicamente e socialmente in equilibrio e, a riprova e coronamento di ciò, che fosse in equilibrio anche politicamente. Nel Burundi, come nel Rwanda e nel Toro, nell’Ankole, nel Buha e nelle altre regioni circostanti governavano su comunità tutte multietniche delle monarchie prevalentemente pastorali. Potevano anche essere delle monarchie hutu (ho già citato la storiografia  hutu che a giusto titolo rivendica l’esistenza di regni governati da hutu), ma i sistemi di potere erano mutuati dalla cultura pastorale tutsi. Erano culture, quelle pastorali, che, per così dire, producevano politica monarchica.

In questo sistema di equilibri, in questo sistema equilibrato economicamente, socialmente e culturalmente, c’era anche un equilibrio politico.  L’avverbio ‘culturalmente’ è importante, se si tiene presente che il sistema era omogeneo per una serie di importanti aspetti che non possono essere sottovalutati: il fatto che parlassero la stessa lingua, che praticassero la stessa religiosità, che avessero la stessa fede in un comune destino, significa che c’era la consapevolezza d’essere una comunità, che le caratteristiche di tale comunità erano condivise da tutti e che il carattere multietnico di tale comunità era fuori discussione. Come si vede si trattava di una comunità del tipo di quelle che in Europa venivano e vengono chiamate ‘Nazione’.

Questo senza che le caratteristiche culturali di ciascuna etnia andassero disperse, tanto è vero che la presenza di hutu e tutsi in quanto tali nel Paese ha sempre avuto un notevole peso nelle scelte politiche in senso lato.

A questa situazione, la situazione pre-coloniale, con l’equilibrio interetnico cui abbiamo accennato, subentra con l’arrivo degli europei un sistema la cui natura calamitosa non era stata prevista neppure dagli europei. Cosa fanno i nuovi arrivati in questa regione ? Si basano sul sistema esistente, in particolare sul sistema di potere già esistente: il colonialismo inglese e quello belga, infatti, si fondano sul governo indiretto (indirect rule). Si tratta di una scelta apparentemente rispettosa dell’esistente ma che in realtà lo stravolgono sia perché non ne vedono che gli aspetti di superficie sia perché tendono a piegarlo alle loro esigenze amministrative. Così i tedeschi prima e i belgi poi (come del resto gli inglesi in altri Stati della regione) appoggiandosi sui governanti locali, o decidendo sbrigativamente, e una volta per tutte, quali lo siano (nel caso nostro si appoggiano sui tutsi), irrigidiscono un sistema che, invece, per funzionare adeguatamente, aveva bisogno della tradizionale elasticità. Una maggioranza di governi tutsi era effettivamente al potere al momento dell’arrivo degli europei (il che avviene molto in ritardo rispetto a tutto il resto dell’Africa, negli anni 1892-1894).

Con l’arrivo degli europei e con la loro decisione di fondare il nuovo potere, quello coloniale, sulla rete politica esistente, inizia per il sistema locale un processo d’irrigidimento che prima non esisteva. Prima l’equilibrio comportava un consenso e prevedeva anche un ricambio della classe dirigente. In Burundi, in particolare, dove non c’erano dinastie bloccate nella difesa etnica del loro potere, si ipotizza, senza scandalo alcuno, che all’origine del primo nucleo di Stato ci fosse una monarchia hutu ovvero – cosa che, però, a me pare più difficile da provare -  che le dinastie reali non fossero né tutsi, né hutu. I quattro gruppi familiari, anzi, cui appartengono i principi reali, i ganwa, costituirebbero, secondo questi ultimi, una etnia a parte, diversa dalle altre che popolano il Burundi.

In realtà, il fatto che i ganwa facciano appello a questa teoria significa, per un verso, che non hanno in nessun modo ereditato una cultura di contrapposizione etnica, ma rispecchia, per l’altro verso, il dubbio, politicamente molto delicato, cui mi riferivo prima: che cioè all’origine della monarchia burundese non ci siano dei tutsi. E’ più che una supposizione che il primo re del Burundi, Ntare Rushatsi, fosse hutu.

Se ritorniamo al primo colonialismo, io direi che con l’avvento del sistema coloniale le relazioni sociali, e in particolare le relazioni interetniche, subiscono un blocco, vengono fissate una volta per tutte. Si prenda l’esempio della scuola e quello delle amministrazioni locali. Il criterio adottato dai responsabili coloniali e missionari (erano questi ultimi che monopolizzavano l’istruzione) fino agli anni 50, è stato quello in base al quale ad andare a scuola devono essere solo i figli dei capi, in maggioranza tutsi in Burundi, esclusivamente tutsi in Rwanda. Il sistema scolastico, la base, si accompagna poi ad una costruzione giuridica e legislativa che favorisce o addirittura impone il permanere dello stesso gruppo etnico al potere anche all’interno delle singole regioni. I tutsi che, in un primo tempo, detenevano il 60% del potere amministrativo locale, alla vigilia dell’indipendenza arrivano a gestirne il 96-97%., Ho citato prima l’esempio delle scuole frequentate solo dai tutsi perché è fin troppo ovvio che saper leggere e scrivere è indispensabile per accedere ai posti di gestione. Ebbene sia in Burundi che in Rwanda i tutsi sono favoriti fino al 1959, quando scoppia in Rwanda la rivoluzione hutu. A rigore, tutto avrebbe potuto lasciar pensare che gli hutu si sarebbero scagliati contro i belgi, che avevano reso i tutsi detentori esclusivi del potere. In realtà l’obiettivo della rivolta è, a sorpresa, un obiettivo identificato non politicamente ma, per la prima volta nella storia del Rwanda, etnicamente e porta a una nuova, complessa e pericolosissima attitudine reciproca dei vari gruppi etnici, come ho cercato di spiegare nei miei libri “Burundi, Congo, Rwanda. Storia contemporanea di nazioni, etnie e stati” e  “Colonalismo e neocolonialismo. La vicenda storica del Burundi e del Rwanda”.

Per concludere, dobbiamo situare questa realtà nel sistema internazionale dominato e qualificato dalla guerra fredda. Potrà sembrare paradossale, ma anche i Paesi privi di autonomia politica internazionale, come i paesi coloniali, ivi compresi quelli dell’Africa dei Grandi Laghi, hanno subito pesantemente questa influenza e ne hanno pagato il prezzo di un antinazionalismo di rinnovato vigore.

Molti ricorderanno che il grande dibattito internazionale sull’anticolonialismo, sia in Africa che fuori dall’Africa, è stato direttamente legato alla polemica politica internazionale, per via del fatto che coloro che, nel mondo intero, si battevano per la fine del colonialismo e coloro che facevano una politica anticoloniale in Africa, s’ispiravano, più o meno direttamente, più o meno apertamente, più o meno convintamente, alle teorie di liberazione che venivano sostenute dal movimento socialista internazionale. Anche i non comunisti, come Lumumba, ad esempio, non avevano certo il mondo comunista fra i propri orizzonti teorici ma potevano essere indotti a far appello alla ben concreta Unione Sovietica perché questa appariva loro come l’unica garanzia politica internazionale. Ed era di fatto, in fin dei conti, l’unico riferimento che poteva consentire a un popolo privo di qualunque risorsa e potere internazionale di opporsi alla cosiddetta madrepatria che, come nel caso del pur piccolo e debole Portogallo, era comunque incommensurabilmente più forte. Il sistematico ricorso al movimento comunista come movimento anticolonialista, condusse a una controcultura in cui anticolonialista finì col significare comunista, cosa che non era vera, ma che faceva il gioco di coloro che volevano mantenere il colonialismo e vi piegavano persino una potenza tradizionalmente anticomunista come gli Stati Uniti.

Ritorniamo allora al nostro sistema, il sistema belga. Nel 1959 i belgi non avevano ancora nessuna idea di lasciare le colonie. Erano alla vigilia della sconfitta del loro piano coloniale più tradizionale, ma non ne percepivano l’imminente, clamoroso fallimento. Ancora nel ’59 pensavano di poter dominare non solo il Rwanda e il Burundi, ma anche il Congo che, in realtà avrebbe ricevuto l’indipendenza appena l’anno dopo. Pochi anni prima, nel 1955, era apparso un saggio, molto importante e molto moderato, del resto, di un consulente del Governo belga che proponeva l’autonomia, non l’indipendenza, da concedere al Congo solo nel 1985, cioè trent’anni dopo.

Abbiamo visto che il sistema della contrapposizione colonialismo-anticolonialismo aveva finito per coincidere con la contrapposizione comunismo-anticomunismo, Est-Ovest. Ecco perché a questo punto la presenza di forze anticoloniali tra i tutsi finisce per segnare la loro sorte. Nella misura in cui gli aristocratici tutsi sono anticolonialisti - vogliano essi perseguire l’indipendenza o, in maniera meno nobile, il mantenimento del loro potere etnico - diventano perciò stesso dei comunisti contro i quali nessuno strumento di lotta è escluso. L’anti-colonialismo e il desiderio d’indipendenza dei tutsi manifestatosi chiaramente, i belgi non si limitano ad abbandonarli ma ne vogliono la rovina politica. La politica coloniale fa una virata di 180 gradi: da totalmente filo-tutsi, diventa totalmente filo-hutu. Tuttavia questo non basta, occorre sostituire anche il sistema di potere tutsi sia nel Rwanda, dove è assoluto, che nel Burundi. Nel Rwanda avviene una rivoluzione: hutu contro i tutsi. In Burundi questo non può avvenire in ragione della maggiore elasticità del sistema tutsi e della sua tradizionale minore centralità, ma in Rwanda ha luogo, ed è organizzata e sostenuta dai belgi. Sotto la bandiera della caccia ai tutsi, ‘feudali comunisti’, questa rivoluzione determina lo scatenamento di una vera e propria furia etnica: il bersaglio sono i tutsi in quanto tali. Ha inizio, nel 1959, il primo tentativo, anche se non per tutti consapevole, di sterminio a carattere etnico.

Vede, è per questo passato che non va rimosso che io mi rifiuto di rispondere alla pura e semplice domanda se la causa del genocidio del 1994 è costituita dall’uccisione di Habyarimana da parte dei tutsi, e dunque dall’ira degli hutu, o invece da un’organizzazione molto raffinata della protesta hutu attraverso l’assassinio dell’hutu Habyarimana da parte di gruppi hutu. Ipotesi, del resto, che è stata fatta apertamente e presa seriamente in considerazione sia da Jean-Pierre Chrétien che, soprattutto, da Filip Reyntjens il quale ha fatto esami molto accurati circa le vicende dello stesso attentato, ma senza limitarsi solo all’esame tecnico.

Per rintracciare le cause bisogna andare indietro nel tempo e, se si va indietro nel tempo, ebbene apparirà chiaro che il genocidio è scritto negli ultimi 45 anni della storia del paese ed è venuto fuori dall’irrigidimento, d’epoca coloniale e motivato dal colonialismo, indotto nei rapporti interetnici.

Parliamo del Burundi. Cosa ne pensa della proposta di Nelson Mandela ? Avere un presidente tutsi per un anno e mezzo e poi un presidente hutu, sempre per un anno e mezzo, può portare la pace in Burundi ?

La proposta di Mandela mi sembra più che ragionevole; si tratta di una proposta molto seria e articolata ma, se devo essere franco, senza grandi possibilità di riuscita, almeno nell’immediato. Lo dico sapendo di fare un’affermazione grave, ma ci sono davvero poche prospettive di successo completo. La proposta di Mandela può avere successo solo nei prossimi due o tre anni e, probabilmente, solo in modo parziale.

Il piano è stato accettato dalle parti obtorto collo, probabilmente più per l’importanza del mediatore cui era difficile opporre eccessive condizioni e per l’acuta attenzione della comunità africana e internazionale che per autentica disponibilità al compromesso. Eppure, come in tutte le soluzioni di compromesso, è nell’ordine naturale delle cose che ciascuna delle due parti possa guadagnarci qualcosa ma anche che debba rinunciare a qualcosa. Ho invece avuto l’impressione, in Burundi, che le riserve mentali siano innumerevoli dall’una e dall’altra parte. Il Frodebu, il partito hutu ufficiale, o almeno la maggioranza dei suoi notabili, ha pensato ai vantaggi che questa soluzione poteva portare, soprattutto al vantaggio della fine della guerra; ma i leaders di altri gruppi hutu non hanno alcuna intenzione di rinunciare al potere di interdizione comunque derivante loro dalla guerra. Sono gruppi che contano e continueranno a contare nel Paese solo fino a quando la guerra durerà. Il problema è, da parte hutu, neutralizzare queste forze, il cui peso politico equivale, sostanzialmente, al peso delle loro pallottole.

Dall’altra parte, quella tutsi, se la maggioranza, che ha il suo moderato (ma pericolante) leader in Buyoya, ha aderito alla proposta Mandela, la minoranza vede come un pericolo mortale qualunque accordo fatto con gli autori del genocidio prima che essi siano giudicati da un tribunale, normale o straordinario, e siano eventualmente condannati. Essi ritengono che l’accordo equivalga a mettere una pietra sopra un passato che invece non è giusto, e soprattutto è pericoloso per il futuro, dimenticare.

Aggiungo un altro elemento, che è tipico dell’Africa in generale e del Burundi in particolare: l’elemento regionalistico. Sia fra i tutsi che fra gli hutu si possono notare differenze di posizioni politiche anche in base alle differenze di origine regionale. In altri termini, il clima di convergenza di tutti i gruppi politici tutsi e hutu alla proposta Mandela è stato avvelenato - e il problema, allo stato attuale, reso probabilmente irrisolvibile - dal fatto che gli hutu di una certa regione del paese che sono esclusi dal sistema di potere in atto nel Frodebu assumono atteggiamenti intrattabili o, addirittura, tengono armate le loro milizie per poter in qualche modo condizionare gli equilibri politici all’interno del partito. Lo stesso si può dire per il gruppo tutsi: al suo interno ci sono alcuni gruppi regionali esclusi tradizionalmente dal potere, che adottano una tattica assolutamente rigida in modo da poter lucrare, quanto meno, una qualche visibilità politica. Come vede, la situazione politica del Paese è piuttosto complessa e va esaminata nei dettagli.

Mi pare di capire che lei ritiene la proposta Mandela utile e valida, ma difficilmente realizzabile in toto.

Sì, in effetti ritengo che la proposta Mandela si realizzerà solo in parte e questo significa che il conflitto nel Paese non si risolverà in toto, ma solo in parte.

Passiamo ora al Congo. Qual è il suo giudizio su due personaggi importanti della storia congolese: Mobutu e Laurent Kabila ?

Il giudizio su Mobutu è storicamente ormai abbastanza fondato. Abbiamo innumerevoli dati sulla sua vicenda, sia quelli che si possono raccogliere da un’analisi della storia interna del Congo indipendente, sia quelli provenienti dagli archivi delle cancellerie occidentali, in particolare gli archivi statunitensi che - lo posso testimoniare personalmente - sono molto più liberali, nei confronti degli studiosi, di quelli belgi o francesi. Questo nonostante il limite (non ufficiale ma fattuale) dei documenti militari e della ristrettissima minoranza di quelli coperti dal segreto di Stato, limite che non restringe l’assoluta libertà di accesso ai documenti del Dipartimento di Stato.

I documenti statunitensi sono estremamente importanti per la valutazione di Mobutu, perché egli era, all’inizio segretamente, un uomo degli Stati Uniti. Lo è stato a lungo, tradendo la fiducia di Lumumba, da quando, nel ‘60, il leader nazionalista gli aveva affidato il comando delle forze armate, fino agli anni 80. Lo è rimasto anche nelle occasioni in cui gli americani progettavano una sua eventuale sostituzione con altro uomo di fiducia; anche quando faceva qualche giro di valzer con la Francia e con il Belgio, senza, però, mai riuscire a suscitare grande gelosia politico-internazionale degli Usa. Anche in questi casi Mobutu rimase l’uomo più affidabile per gli Stati Uniti, non solo perché era stato il riferimento locale, anzi verosimilmente un vero e proprio agente della Cia in Congo (e ne era la memoria storica) ma soprattutto perché era il politico africano che meglio rappresentava gli interessi occidentali in Africa centrale nell’epoca della guerra fredda. Anche qui (e qui, ovviamente, ancor più che in Rwanda) la guerra fredda ha avuto il suo peso (si pensi al rischio di scontro fra le due superpotenze in occasione della secessione del Katanga fra il ‘60 e il ‘63),  fino alla caduta del muro di Berlino. Con la fine del sistema bipolare, Mobutu perse la sua funzione anticomunista e fu abbandonato al suo destino: dorato destino, viste le straordinarie ricchezze accumulate. Tuttavia, sfortunatamente per lui, il periodo coincideva con la grave malattia che lo portò alla morte.

Beninteso il giudizio storico su questo cupo personaggio non può ancora essere emesso in modo completo: non c’è nulla di definitivo nel giudizio storico. Possiamo però prendere atto che i numerosi volumi che sono già stati scritti sul suo conto e sul drammatico periodo della sua lunga presidenza costituiscono ormai una base di studio parecchio solida. Egli rientra a pieno titolo nella storia del Congo/Zaire indipendente, che ovviamente è ancora da completare, anche se le grandi linee ed i grandi temi di questa storia sono già stati tracciati.

Quanto a Kabila, egli ha passato quasi tutta la sua vita nell’ombra, tanto che nemmeno i servizi segreti occidentali sapevano molto di lui né, allo stato, risulta materiale particolarmente cospicuo (e accessibile) che lo riguardi negli archivi del Dipartimento di Stato americano.

           Kabila era ritenuto un uomo secondario. Da giovane, aveva comandato la ribellione anti-mobutista nel Congo orientale ed in questa veste aveva ottenuto sul terreno la collaborazione (e un lungo strascico di polemiche) di Ernesto Che Guevara. Anche in quel periodo egli relegava la sua figura pubblica nell’ombra e si limitava alla gestione militare delle operazioni. Non lasciò mai sospettare di voler accedere al potere politico. Finita a metà degli anni 60 la ribellione nel Congo orientale, Kabila si ritirò in clandestinità e organizzò una guerriglia che ebbe un impatto militare trascurabile e, dal punto di vista politico, fu più formale che sostanziale, infatti non lasciò che una sbiadita traccia della sua presenza fino alla metà degli anni ’80, senza infastidire granché Mobutu.

           In occasione delle due guerre dello Shaba, nel ‘77 e ’78, durante le quali non riuscì a stringere un accordo politico con i loro promotori nonostante la comune origine katanghese, la sua presenza e quella dei suoi uomini fu limitatissima. Negli anni ’80, decise di mettere da parte la guerriglia e di dedicarsi alla politica. Me lo preannunciò e me ne parlò nei colloqui che ebbi con lui, sia in Italia che in Tanzania e nel Congo orientale, tra il 1980 ed il 1986; mi parlò anche del suo partito politico, il Parti de la Revolution Populaire, su cui nutriva grandi ambizioni ma che non riuscì però mai a rendere simile al Mouvement National Congolais di Lumumba nella capacità di distendersi sull’intero territorio congolese.

           Di Lumumba, del resto, non aveva certo la straordinaria personalità, il carisma, come si usa dire: tanto Kabila era silenzioso, riservato, oscuro, tanto Lumumba era estroverso, clamoroso, tribuno, nel senso migliore del termine.

            Kabila rimane dunque nell’ombra fino a quando gli si presenta un’occasione favorevole, e del tutto imprevista, per eliminare definitivamente Mobutu. In Rwanda s’è concretato il genocidio dei tutsi ma il FPR riesce a reagirvi vittoriosamente prendendo infine il potere. Ora i legami tra i tutsi rwandesi e Kabila risalivano all’epoca immediatamente postcoloniale, quando molti rwandesi avevano combattuto in Congo a fianco di Kabila (e, per qualche mese, di Che Guevara) allo stesso tempo contro Mobutu e contro la reazione occidentale alla loro pericolosa o equivoca collocazione internazionale. Dal punto di vista socio-culturale i loro legami con il Congo non erano stati mai interrotti perché, dopo il ’59, una considerevole percentuale di tutsi aveva preferito stabilirsi definitivamente nella provincia confinante col Rwanda, il Kivu dove, del resto, altri tutsi s’erano stanziati fin dal 700. Essi furono ripresi sotto il profilo politico e militare e i rwandesi sostennero Kabila fino al suo ingresso a Kinshasa nel maggio del 1997. Tuttavia la loro ‘fortuna’ congolese andrà decrescendo in misura inversamente proporzionale al peso del loro potere: questo era anche espressione di un piano egemonico rwando-ugandese e costituiva, agli occhi di Kabila, uno strapotere. Il leader congolese troverà il modo di disfarsi di loro facendo infine, anche lui, appello all’identità etnica. A Kinshasa ci sarà una vera e propria caccia ai tutsi e una quantità – fossero operai o intellettuali - che abitavano in Congo da tantissimi anni, saranno barbaramente uccisi: bastava essere “lunghi”.

Kabila è dunque un personaggio ambiguo. Egli appartiene a quella categoria di persone, così numerose in Africa, che hanno pur lottato contro il colonialismo ma, una volta arrivate al governo, sono state ‘vampirizzate’ dal potere. Ed è proprio in quanto uomo di potere che Kabila è stato ucciso nel gennaio 2001, a seguito di una congiura interna e internazionale. Gli obiettivi di questa operazione sono stati, però, solo parzialmente raggiunti, perché è stato suo figlio Joseph a diventare presidente. Il giovane Kabila è bensì venuto a patti con gli oppositori del padre, ma è pur sempre un Kabila. Ha ottenuto, come già in precedenza il padre, un certo appoggio da una parte del ceto politico statunitense, i clintoniani, perché, dopo la caduta della pregiudiziale che escludeva uomini che avevano lottato contro gli americani, leaders come Kabila e Museveni sono considerati i protagonisti di un possibile “rinascimento africano”.

Parliamo ora dell’Uganda, da qualcuno definita “una democrazia senza partiti”. Qual è il suo giudizio su Yoweri Museveni, che è al potere dal 1986, e qual è la sua opinione su quest’espressione: democrazia senza partiti.

Dal punto di vista formale è ovvio che una democrazia senza partiti non è altro che un gioco di parole, una contraddizione in termini. La democrazia, così come la intendiamo noi, comporta l’esistenza di parti politiche e le parti politiche, nella nostra storia, sono costituite dai partiti. In pratica, però, e ne abbiamo parlato fin dall’inizio di questa intervista, è ovvio che una democrazia potrebbe funzionare anche con altri moduli di rappresentazione delle parti sociali. Sono storicamente possibili altre forme di organizzazione del consenso dopo un dibattito tra parti sociali differenti, anche se queste parti sociali non sono costituite nella forma del partito politico. Da questo punto di vista, è possibile quindi che esista una democrazia senza partiti, ma non è possibile che esista una democrazia senza parti. Democrazia significa dibattito tra diversi modi di vedere le cose. Ci può essere democrazia anche sotto il mango, “l’arbre à palabre”, dove si discute di sera, quando la comunità, o la sua parte notabile, decide il destino del villaggio, dalle cose piccole, come il furto di una capra, a quelle grandi, come la minaccia di guerra da parte di una tribù vicina. La democrazia può essere anche questo, l’importante è che queste voci, siano esse di individui o di gruppi o parti, abbiano la possibilità di esprimersi.

Nella storia dell’Uganda, questa possibilità ha avuto un esito molto vario, in maniera non molto dissimile da quello che è successo nel resto dell’Africa subsahariana. Mi spiego: il problema se bisognasse consentire l’aumento o imporre la diminuzione dell’importanza e della funzione delle varie parti politiche era legato, in Uganda come in tutta l’Africa subsahariana, al timore dell’esplosione del regionalismo. Nel monopartitismo africano non c’è nulla di leninista, ma piuttosto il riferimento a un mito dell’africanismo postcoloniale: l’integrità dei confini ereditati dal colonialismo. Con la creazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana e col suo rigoroso appoggio al criterio del rispetto dei confini coloniali, quel mito non era altro che un escamotage autoritario volto ad evitare l’esplosione etnica o tribale dei vari Stati africani. Era uno strumento per impedire una specie di ‘balkanizzazione’ generale dell’Africa. In Africa la tentazione c’era ed il centralismo aveva la funzione di contenerla. Ora, nel corso della storia dell’Uganda, si è dibattuto a lungo sul mono e sul pluripartitismo, Si è passati da regimi monopartitici a regimi in qualche modo pluripartitici, fino a quando, sotto la controllo politico del gruppo che fa capo a Museveni, il Paese reale si è trovato fuori, per così dire, dal dibattito politico: fino a quando, cioè, c’è stato un vero e proprio boom economico e l’Uganda è diventato il Paese africano con il più alto tasso di crescita economica, il 10% annuo. E la circostanza, per quanto la cosa possa sembrare cinica, rendeva in un certo senso pleonastico il dibattito teorico sulla democrazia. Questo crescita economica, del resto, è indubbiamente anche merito di Museveni: quando Clinton visita l’Uganda, non fa solo dei complimenti di rito al Paese, ma è in riferimento a questa crescita economica straordinaria (che vede, però, impropriamente come generalizzabile) che parla di “rinascimento africano”.

Fino al 1985 avevamo assistito ad una decrescita costante dell’economia. Il prodotto interno lordo e i parametri economici di tutti i Paesi africani indipendenti erano in netta diminuzione. Faccio un esempio paradigmatico: nel Congo del 1960 un sacco di manioca costava 22 volte di meno, a prezzi costanti, cioè calcolando sia l’inflazione che l’aumento degli stipendi, di quanto costasse nel 1980. Questo significa che coloro che si nutrivano di manioca nel 1980 erano 22 volte più poveri di quanto lo fossero nel 1960. L’Africa si era dunque impoverita in modo costante, anche se non ai livelli drammatici del Congo. Il sistema economico del continente – soprattutto nei comparti urbani e industriali o paraindustriali - andava sempre più verso il decadimento, verso un immiserimento (la miseria è cosa molto diversa dalla povertà) generalizzato. A partire dalla metà degli anni ’80, però, si registra un’inversione di tendenza. A cosa ciò sia dovuto è ancora argomento di discussione tra gli esperti, ma sicuramente non dipende, che so, dall’improvvisa scoperta di materie prime, perché di materie prime l’Africa già abbondava e perché quest’inversione di tendenza riguarda soprattutto Paesi che, come l’Uganda, sono sempre stati poveri di materie prime. A mio parere, la ragione principale è un modello meno insano di gestione della cosa pubblica. Alla cleptocrazia, cioè alla sistematica sottrazione di beni pubblici da parte dei responsabili della cosa pubblica, si va sostituendo un sistema di gestione nel quale il bene pubblico, se pure non perseguito in maniera calvinista, è comunque, quanto meno, preso in considerazione. La grande crescita economica dell’Uganda è quindi in buona parte da ascrivere al merito dei suoi governanti.

I periodi di fioritura, però, non durano in eterno e oggi la crescita ugandese è, di nuovo, drammaticamente prossima allo zero.

Per concludere, direi che gli interrogativi sulla situazione complessiva dell’Uganda non possono ancora avere una risposta: bisogna attendere gli effetti dell’evoluzione del ciclo economico e degli avvenimenti politici internazionali cui il Paese s’è legato. Bisogna, cioè, considerare le condizioni politiche internazionali legate alla guerra in Congo, alla quale il governo ugandese sta destinando somme enormi di denaro. Credo che l’Uganda farebbe bene a tirarsi indietro da questa guerra. La sua azione militare in Africa centro-orientale comincia a diventare una greve presenza imperialistica e, almeno, così è percepita. Mentre capisco gli eventuali motivi del governo del Rwanda, che vuole proteggere i suoi confini occidentali dalla penetrazione dei ribelli, lo stesso non riesco a fare per l’Uganda, che è ampiamente al sicuro nei suoi confini ed è presente in Congo per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la sua sicurezza interna. È probabile che il governo di Kampala voglia esercitare una sua leadership sull’Africa orientale sull’esempio di ciò che il governo sudafricano cerca di fare nell’Africa australe: si tratta di una specie di gestione dei sub-continenti, che è probabilmente nei sogni, e mi pare si stia trasferendo nei piani di politica estera, di Mbeki e di Museveni.

Parliamo di Patrice Lumumba; nell’ultimo libro di Ludo de Witte si parla a lumgo delle responsabilità del Belgio nella vicenda Lumumba, a partire dalla caduta del suo governo fino alla morte del grande leader congolese. Qual è la sua opinione a riguardo ?

Il Parlamento belga ha istituito una commissione d’inchiesta che, a conclusione dei suoi lavori, ha riconosciuto la responsabilità diretta del Belgio nell’abbattimento del governo Lumumba. Non ne è stata invece dimostrata la responsabilità diretta nell’uccisione del primo ministro congolese, benché ufficiali belgi abbiano partecipato all’esecuzione. È importante, tuttavia, che la commissione d’inchiesta abbia riconosciuto la responsabilità politica e giuridica nell’abbattimento di quello che è stato, dal 30 giugno 1960, data dell’indipendenza, ad oggi, l’unico governo legittimo del Congo, governo sorto da una consultazione legale e straordinariamente ‘partecipata’.

Quando si parla di Lumumba, si parla di un’eccezione nel panorama politico del Congo contemporaneo. Tuttavia la sua eccezionalità non si ferma alla capacitò di creare consenso nei confronti del suo partito (l’unico che abbia avuto successo su tutto il territorio congolese) e favore popolare nei confronti della sua persona: in una valutazione storica del personaggio, bisogna purtroppo riconoscere che questa stessa caratteristica, pur importante per il movimento indipendentista, ha, allo stesso tempo e con lo stesso peso, contribuito alla sua perdita.

Oltre che nel suo eventuale oltranzismo anticoloniale, è in questa sua caratteristica che va individuata la sua parte di responsabilità nella sua fine fisica. Se pur esisteva, per esempio, una possibilità di sottrarsi ai suoi carnefici con la fuga, egli la gettò via nel corso stesso della sua attuazione: perdendo tempo, fermandosi una decina di volte a parlare con i contadini nei villaggi, occupandosi della sicurezza di coloro che gli erano vicini. Era del tutto prevedibile che nel corso di poche decine di ore i suoi nemici - tra i quali, non lo si dimentichi, la stessa Ambasciata degli Stati Uniti – avrebbero avuto ragione di lui.

Quello di Lumumba era stato inserito nella lista dei possibili assassini politici per i quali l’amministrazione americana aveva dato carta bianca ai servizi segreti. Come nel caso di Fidel Castro, gli statunitensi non sarebbero poi riusciti ad ucciderlo mentre era capo del governo; avrebbero però contribuito in maniera determinante a farlo fare dai loro alleati. Lumumba sarà ucciso in Katanga, vicino Lubumbashi, che allora si chiamava Elisabethville da un gruppo di militari katanghesi al comando di militari belgi.

E’ paradossale che le considerazioni più serie e documentate sulla sua morte non provengano dal libro del ‘lumumbista’ de Witte, che si limita ad una ricostruzione ideologica della vita e della morte di Lumumba (prendendo anche qualche abbaglio, il più grosso dei quali è quello di considerarlo di sinistra). Il paradosso sta nel fatto che sia stato un responsabile dei servizi di sicurezza belgi, Jean-Claude Brassinne, a scrivere il libro più chiaro sulle circostanze di quell’assassinio. Ed è proprio lui, in questo libro del 1992, a parlare per la prima volta, in qualità di responsabile dei servizi locali di sicurezza, di un coinvolgimento diretto del Belgio, anche se, per Brassinne, non si tratta di una responsabilità giuridica. Egli riteneva che l’eliminazione di Lumumba fosse stata, tutto sommato, un’opera meritoria e quindi non nascondeva la sua partecipazione, aspettandosene, anzi, un riconoscimento pubblico e ufficiale. Solo oggi, dopo il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta, il governo belga ha finalmente messo in chiaro il ruolo del Paese come potenza coloniale.

Il personaggio storico va tuttavia ancora studiato: non si può dire esista una biografia esauriente di Lumumba, piuttosto molte biografie settoriali (per quanto, come dicevo, in molti casi parecchio limitate dalla loro ideologizzazione in un senso o nell’altro), alcune delle quali, comunque, molto documentate, soprattutto quelle frutto delle ricerche dell’Institut Africain di Bruxelles, un organismo indipendente anche se finanziato dal Ministero degli Esteri belga.

            Alla fine dell’intervista al prof. Carbone, mi pare utile riportare un passo dell’ultima lettera di Lumumba alla moglie, scritta nel gennaio 1961, pochi giorni prima della sua morte.

            “L’Africa scriverà la propria storia e sarà, a Nord e a Sud del Sahara, una storia di gloria e di dignità. Non piangermi, compagna mia. Io so che il mio Paese, che soffre tanto, saprà difendere la sua indipendenza e la sua libertà. Viva il Congo ! Viva l’Africa !”.

APPENDICE 

 

Martedi’ 28 giugno è un giorno importante per l’Uganda: in Parlamento si discute un disegno di legge di modifica costituzionale. Il punto piu’ importante del testo presentato dal governo è l’emendamento dell’articolo 105 della Costituzione, che prevede due soli mandati presidenziali, della durata di 5 anni. L’opposizione, che comprende sei partiti politici (il cosiddetto G 6), ha organizzato una manifestazione di protesta e, intorno alle 10, si raduna in piazza della Costituzione; la polizia, pero’, dichiara illegale la manifestazione e ordina alla folla di allontanarsi. I manifestanti fingono di disperdersi e si riuniscono davanti alla stazione ferroviaria; intorno alle 11,45 il corteo, composto da 7 minibus ed alcune centinaia di militanti, si dirige verso il Parlamento, dove è pero’ schierata la polizia. Inizia una guerriglie urbana, con i poliziotti che fanno uso di idranti, di gas lacrimogeni e di proiettili di gomma ed i manifestanti che rispondono col lancio di pietre. Verso le 14, la polizia riesce a disperdere la folla ed arresta cinque persone, tra cui Joel Wakayima, presidente del National Freedom Party. 

Alle 14,30 il Presidente del Parlamento Edward Ssekandi dichiara la seduta aperta. Dopo un breve dibattito, la mozione, che ha bisogno per essere approvata della maggioranza dei due terzi (196 deputati), viene messa ai voti: 232 si’, 50 no, un astenuto. Il disegno di legge puo’ quindi continuare il suo iter parlamentare, che prevede altre due votazioni, una in Commissione, articolo per articolo, e un’altra in plenaria, con voto unico. I parlamentari dell’opposizione affermano che i loro colleghi si sono fatti corrompere dal governo, accettando una mazzetta di cinque milioni di scellini (2.200 euro circa), che in Uganda sono una bella somma. 

La Bbc intervista alcuni parlamentari dell’opposizione, tra i quali l’onorevole Samuel Odonga Otto che, nell’ottobre 2004, era stato selvaggiamento picchiato dai militari, insieme ad altri due deputati del FDC (Forum for Democratic Change). Otto dice che l’opposizione non si fara’ intimorire ed ha gia’ iniziato una campagna di disobbedienza civile. Betty Kamia, dirigente del FDC, dichiara ai cronisti del Daily Monitor, unico quotidiano indipendente dell’Uganda, che 200 parlamentari stanno vendendo la nazione per cinque milioni di scellini. Altri parlamentari, tra cui Latif Ssebagala e Ssebuliba Mutumba, hanno ricevuto la loro dose di gas lacrimogeni. 

            Il direttore del Consiglio unitario dei cristiani ugandesi, reverendo Grace Kaiso, dichiara che la decisione di rimuovere il limite di due mandati presidenziali è una scelta dura, con conseguenze a lungo termine. Non è la prima volta che l’autorevole Consiglio ecumenico esprime la sua contrarieta’ a quello che è popolarmente conosciuto come “terzo mandato”.

 

Nota dell’autore: questo mio articolo è stato pubblicato, in forma anonima per motivi di sicurezza, sul sito Internet www.nigrizia.it nel  luglio 2005

 



[1] Pascal Krop, Le génocide franco-africain, Lattes 1994, pagg. 71-79.

[2] Rodolfo Casadei - Angelo Ferrari, Rwanda-Burundi, EMI 1994, pagg.103-104. La lettera cui il testo citato si riferisce è del 9 aprile 1994.

[3] La conferenza internazionale sul razzismo tenutasi a Durban (Sudafrica) nel 2001 ha dichiarato che la schiavitù è un crimine contro l’umanità.

[4] Augusto D’Angelo, Il sangue del Rwanda, EMI 2001, pag. 26.

[5] Pascal Krop, op. cit. , pag. 11.

[6] Rodolfo Casadei - Angelo Ferrari, op. cit., pag. 50. * Si tratta di Jean Kambanda. Il MDR è il Movimento democratico repubblicano e non nazionale, come erroneamente scritto nel testo citato.

[7] Stefano Squarcina in Nigrizia n° 10, ottobre 1995, pag. 9.

[8] Raffaello Zordan in Nigrizia n° 1, gennaio 1996, pag. 54.

[9] Efrem Tresoldi in Nigrizia n° 3, marzo 1997, pag. 62.

[10] Stefano Squarcina in Nigrizia n° 3, marzo 1998, pag. 56.

[11] Raffaello Zordan in Nigrizia n° 10, ottobre 1998, pag. 56.

[12] Nigrizia n° 5, maggio 1999, pag. 3.

[13] Raffaello Zordan in Nigrizia n° 5, maggio 2000, pag. 55.

[14] Augusto D’Angelo, op. cit. , pag. 93.

[15] Ibidem, pag. 114.

[16] Casadei e Ferrari, op. cit., pag. 121.

[17] “Si può uccidere sparando o sterminare per fame. Quello che sta accadendo è uno stermino per fame” (traduzione dell’autore).