Seminario “mafia”  - Aspetto sociologico

A cura di Gaglianone Renato

 

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Introduzione

 

La Chiesa calabrese, pur nelle sue diversità, si è sempre dimostrata attenta conoscitrice della realtà sociale in cui è chiamata ad essere “presenza”. In particolare, dal secondo dopoguerra in poi, è stato tutto un susseguirsi di prese di posizione che evidenziano libertà di analisi e coraggio di denuncia. A cui fa seguito la condanna  di ogni violenza, sopruso, commercio di armi, mafia, malcostume politico-sociale unito all’auspicio di edificare una nuova Calabria attraverso percorsi di educazione alla legalità coinvolgendo altri soggetti istituzionali preposti a questo scopo.

 

Ma, il nostro compito in questo incontro consisterà nel fare un percorso che ci aiuti a decifrare l’impatto che la criminalità organizzata ha nel tessuto sociale, poiché fare finta di niente non giova a nessuno. Corre anche l’obbligo di precisare che, volendo articolare questo mio intervento attingendo a varie fonti, giocoforza ci saranno ripetizioni di concetti e descrizioni di situazioni. Come ho detto sopra, in molte occasioni i Vescovi calabresi si sono espressi con chiarezza sul fenomeno “mafia”. Un esempio per tutti: “Riteniamo, innanzitutto, nostro primo dovere rinnovare la nostra condanna, chiara ed esplicita, ad ogni forma di mafia, cancro esiziale e soprastruttura parassitaria che rode la nostra compagine sociale; succhia con i taglieggiamenti il frutto di onesto lavoro; dissolve i gangli della vita civile con sequestri. Che non risparmiano più neppure le donne e i bambini, e con uccisioni cinicamente consumate, irride e calpesta i valori più alti e gli affetti più sacri della vita. Siamo convinti che occorre da parte di tutti, uno sforzo concorde e coraggioso e un’opera costante di educazione e di formazione delle coscienze perché questa disonorante piega venga eliminata[1].”

Ovviamente non è questo il contesto in cui  ci approcceremo a ciò che l’Episcopato calabrese ha prodotto affrontando il tema dell’impatto che la organizzazione malavitosa, la ’ndrangheta ha avuto e ha, nelle chiese di Calabria. Già dal 1948 i Vescovi calabresi hanno fatto un’analisi sociale delle  Comunità calabresi. E, quasi a scadenza sistematica, hanno analizzato la realtà socio religiosa delle chiese di Calabria, denunciando il ruolo che la ‘ndrangheta   ha avuto  nel promuovere e/o rallentare, se non del tutto annullare, lo sviluppo delle comunità calabresi. Sarà compito di Relatori istituzionali approfondire questo ambito del “Seminario” che ci vede coinvolti. Il nostro, quindi  sarà un approccio descrittivo;  è evidente che parleremo sì della mafia in generale ma, con una attenzione particolare alla nostra mafia, la ’ndrangheta. Rimando, anche per questo specifico approccio, alla testimonianza del Prof. Ciconte che ha molto da dire sulla ‘ndrangheta. Essa, a pieno titolo viene annoverata tra le organizzazioni criminali gerarchicamente organizzate con forti connessioni e complicità nel mondo economico e politico.

 

Una utile descrizione

 

Nel libro della Vilasi (Vilasi A., Mafie, Dissensi ed. 2012) troviamo le caratteristiche della ’ndrangheta. Ella dice che in Calabria “è presente una forma di criminalità organizzata molto simile alla mafia siciliana denominata ’ndrangheta. Il termine è di incerta derivazione, a parere di alcuni storici sarebbe mediato dal greco e significherebbe "società degli uomini valorosi". La parola avrebbe origine dalla forma dialettale ndrino, che si applica ad un "uomo dritto che non piega la schiena". Le remote origini della 'ndrangheta risalirebbero alla garduna, associazione criminosa interessata al gioco e al baratto costituitasi a Toledo nel 1412 e introdotta nell'Italia meridionale dai conquistatori spagnoli, mantenendo alcune caratteristiche poi diventate comuni ad ogni fenomeno mafioso: la "tirata" (ossia il duello di coltello tra gli adepti), il codice d'onore e la ferrea legge dell'omertà. Gli storici tendono a scorgere nell'esplosione del brigantaggio tra il 1861 e il 1865, il primo vero nucleo della mafia calabrese, anche se non tutti concordano nel collegare i due fenomeni. La mafia divenne sinonimo di "brigantaggio", "camorra", "malandrinaggio", senza essere nessuna delle tre cose, poiché il brigantaggio è una lotta aperta con le leggi sociali, la camorra è un guadagno illecito sulle transazioni economiche, il malandrinaggio è specie di gente volgare, rotta al vizio e che agisce al di sopra di persone di pessimo livello. Come ogni associazione criminale di stampo mafioso, la 'ndrangheta presenta regole interne, gerarchia, statuti che garantiscono "dignità" alle sue azioni e l'accettazione di esse da parte dell'adepto. Notizie sui codici sociali della 'ndrangheta si hanno da varie fonti: dalle testimonianze scritte sequestrate nel corso di perquisizioni alla letteratura mafiosa degli stessi affiliati. Il simbolo della 'ndrina è rappresentato dall'albero della scienza diviso in sei parti: il fusto (il capo della società o capo bastone, che ha potere di vita e di morte sugli altri affiliati), il rifusto (contabile e maestro di giornata), i rami (camorristi di sgarro e di sangue), i ramoscelli (i picciotti), i fiori (giovani d'onore) e le foglie (traditori destinati a cadere per terra).Gli sviluppi della mafia calabrese presentano una certa analogia con quelli della camorra e della mafia siciliana. Prevale nella mentalità comune un'interpretazione eroica delle cosche mafiose, viste come strumenti di assistenza e protezione dei più deboli. L'inizio del XX secolo è stato un periodo aureo per "l'onorata società" calabrese, che si estendeva già in tutto il territorio della provincia di Reggio, con basi nelle località montuose che abbondano nella provincia, l'Aspromonte. Le attività si sono sviluppate anche nel secondo dopoguerra e hanno registrato una recrudescenza di azioni violente come omicidi, tentati omicidi, rapine a contadini, abigeati, ferimenti, nonché di due reati che segnano la nuova specializzazione della mafia calabrese: l'estorsione e il sequestro di persona. Negli ultimi decenni la 'ndrangheta si è trasformata notevolmente: sono sì cambiati i reati, le vittime, le armi, ma è rimasta immutata la zona di operazioni e di rifugi, dal capoluogo all'Aspromonte. Dal settore dell'agricoltura, la 'ndrangheta si è riconvertita alle attività commerciali, all'edilizia, all'industria. Proprietari, piccoli e grandi operatori economici vengono forzosamente "protetti": nei confronti di coloro che si rifiutano di pagare la "mazzetta", si agisce con gravissimi atti minatori, incendi, attentati. Colonna portante è diventata l'industria dei sequestri: le persone sono prese in ostaggio, con periodi di prigionia sull'Aspromonte, che vanno da poche ore a molti mesi. La 'ndrangheta è oggi una delle realtà criminali più pericolose in Italia, con ramificazioni economiche in tutto il mondo: caratterizzata da assoluta omertà, spietata e quasi tribale nelle sue faide infinite, è riuscita a costruire un vero e proprio impero economico, che nel 2004 ha avuto un giro d'affari pari a circa 36 miliardi di euro, pari al 3,4% del Pil italiano. La conferma forse più eloquente del suo potere si può riscontrare nel fatto che, a tutt'oggi, i pentiti della 'ndrangheta sono pochissimi, e quasi tutti di secondo piano, senza alcun contatto con i vertici delle organizzazioni.”[2]

 

Come più volte da più parti sottolineato, la nascita, lo sviluppo e radicarsi in un determinato tessuto sociale delle organizzazione malavitose è dovuto all’assenza dello Stato e dei corpi intermedi. Questa è una realtà che non viene negata da tutti coloro che hanno studiato il fenomeno dello sviluppo delle organizzazioni malavitose nei territori dell’Italia meridionale.

Risulta sempre non facile definire fenomeno come quello mafioso. Qui ci piace solo richiamare, estendendolo ovviamente alla ’ndrangheta, quanto l’autrice, sopra citata, porta a supporto della difficoltà che si incontrano nel considerare e definire il fenomeno mafioso. La Vilasi riporta le dichiarazioni del presidente della commissione antimafia (il Sen. Pafundi) nel 1966: “la mafia in Sicilia è uno stato mentale, pervade tutto e tutti, a tutti i livelli. La mafia è finita nel sangue, nelle strutture più riposte della società. Sta soprattutto nell’atavica sfiducia nelle leggi perciò nel non osservarle, che nei siciliani assume una voluttà epidermica È una mentalità che alberga nei possidenti e nei contadini, nelle autorità locali, nella polizia, dappertutto. Di qui l’omertà. Come ho detto prima, uno stato mentale, che ammalia, affascina, contagia”.[3]

Il carattere per così dire “anarchico” del sentimento mafioso, il suo configurarsi come una sorta di spontanea insofferenza contro l’ingiustizia dell’ordine costituito, hanno determinato intorno al mafioso una aura romantica di eroe popolare che ne caratterizzerà le azioni e il comportamento in maniera particolare fino agli anni del secondo dopoguerra.

La società meridionale in genere è stata condizionata nello sviluppo e penalizzata nelle sue spontanea espressione, dai codici comportamentali dell’agire mafioso impregnandosene a tal punto da accettarli come abitudini. Proprio da questo processo di assimilazione deriva il passivo assistere alla parte della popolazione alla violenza privata da parte della mafia.

 

Un fenomeno come quello mafioso non può durare così a lungo nel tempo se le sue origini e le sue forme di funzionamento non si affermano come risposte adeguate ad esigenze di regolamentazione dei rapporti tra gruppi sociali, tra i diversi livelli territoriali e tra classe di potere economico e politico. La protezione da parte di autorità politiche ha radici antiche che si prolungano nel tempo. La protezione di cui sembra aver goduto la mafia può essere storicamente interpretata come esempio di quel tipico dovere di tutela paternalistica da parte delle classi superiori nei confronti di quelle inferiori, che si sentivano dunque vincolate da un obbligo di fedeltà.

 

Il rapporto tra cittadini e mafiosi fu caratterizzato da una parte dalla rassegnazione a subire la prepotenza, dall’altra da una generale complicità.

 

La cronaca giornalistica ha messo in luce come chiunque, cittadino imprenditore, politico magistrato, abbia cercato di contrastare, o comunque di non adeguarsi al condizionamento delle cosche mafiose, abbia subito gravi danni a cose o alla persona. Negli anni si creò una rete di rapporti tale che le funzioni di protezione sopra richiamate, innescarono meccanismi di accumulazione di ricchezza fino a che entrambi gli elementi, protezione e ricchezza, non diventarono un tutt’uno.

 

La mafia quindi si evolve come uno strumento pensato prima per l’accumulazione della ricchezza e poi per l’acquisizione del potere territoriale e politico. Mafia e politica si associarono strettamente.

 

Aspetti del comportamento mafioso, accomunano la mafia alla delinquenza ordinaria, sebbene la prima non possa essere ridotta alla seconda per una molteplicità di motivi. Le attività della criminalità comune possono essere rappresentate dall’intermediazione per la ricollocazione sul mercato dei prodotti di provenienza illecita, mentre ciò che caratterizza la mafia e la sua stabilità organizzativa, l’essere oggi configurata in forma di impresa nell’ambito delle normali attività economiche, supportate da qualificate reti di relazioni sociali e politiche. L’intreccio di queste reti  relazionali risale storicamente a due “codici” che hanno caratterizzato l’agire dei mafiosi, in particolare siciliani e calabresi: l’onore e l’amicizia strumentale.[4]

 

I “mafiosi”

 

In passato i mafiosi non erano considerati «devianti» nella società in cui operavano, anzi ad essi veniva assegnato, anche da parte delle Autorità costituite, un ruolo di «guardiani» dell’ordine e del controllo sociale. In altri termini, erano percepiti come tutori delle Comunità locali in grado di risolvere problemi e controversie, quindi come soggetti che svolgevano funzioni socialmente utili. In origine, dunque, l’etichettamento (labelling) non rappresentava uno stigma, ma un’identità, l’appartenenza a un gruppo. Ancora oggi, in realtà, i mafiosi hanno bisogno che la loro reputazione sia riconosciuta, anzi il riconoscimento stesso fa parte della propria reputazione: si è davvero mafiosi se si è riconosciuti da altri come tali. Il labelling implica un riconoscimento pubblico e un’attribuzione di caratteristiche stereotipate: in tal senso, può essere considerato un’operazione di mantenimento dei confini che stabilisce differenze. I mafiosi sono, infatti, diversi dagli altri, appartengono a una cerchia speciale di uomini. Si capisce così l’affermazione del collaboratore di giustizia Calderone, secondo il quale aspirano a far parte di Cosa Nostra coloro che «non sono niente e vogliono diventare qualcosa», oppure per usare un’espressione riferita ancora da numerosi collaboratori di giustizia, per non essere nuddu ammiscatu cu nenti, cioè «nessuno mischiato con niente».[5]

Sostenere che la mafia sia distinguibile dai suoi contesti non significa affermare che essa abbia vita autonoma, che sia cioè isolabile dalla società in cui si sviluppa. Il livello di autonomia della mafia dall’ambiente circostante è anzi molto basso. Al pari di altri fenomeni sociali, essa si riproduce proprio attraverso i rapporti con l’ambiente. Assumere che la mafia sia distinguibile dai suoi contesti significa piuttosto mettere a fuoco proprio tali rapporti, essenziali per comprenderne genesi, riproduzione e diffusione. In altri termini, per capire il successo del modello mafioso.

Che la mafia rappresenti un modello di successo è testimoniato dalla sua secolare attività e dalla sua persistenza nel tempo e diffusione nello spazio. Le fondamenta di questo successo risiedono solo in parte in caratteri costitutivi interni al fenomeno, ma sono piuttosto da rintracciare in fattori esterni, soprattutto di tipo relazionale. In altri termini, la forza dei mafiosi è data essenzialmente dalle loro relazioni esterne, vale a dire dal capitale sociale che deriva dalla capacità di allacciare relazioni e costruire reti sociali. Dal punto di vista organizzativo, gli stessi gruppi mafiosi – pur in una varietà di formule e strutture – sono sufficientemente chiusi per resistere alle pressioni di avversari e agenzie di contrasto, ma sufficientemente aperti per riprodursi. Con quest’ottica, è possibile sostenere che la riproduzione della mafia dipende in gran parte dalla capacità di procurarsi all’esterno la cooperazione, attiva o passiva, di altri attori sociali e, in particolare, di instaurare rapporti di scambio – di collusione e complicità – nei circuiti politici e istituzionali.

Il successo dei mafiosi dipende, in definitiva, dal loro grado di organizzazione e dalla riuscita dei rapporti con soggetti che condividono o intersecano gli stessi sistemi di interazione. La mafia si riproduce grazie alla capacità – come si è detto – di accumulare e impiegare capitale sociale, ovvero quel tipo di risorse collocate in reticoli di relazioni.

Di conseguenza, essi tendono a privilegiare quelle reti di relazioni che favoriscono l’accesso a persone in grado di influenzare le scelte di altri a proprio vantaggio.

I gruppi mafiosi cercano di ottenere consenso attraverso diversi canali spesso sovrapposti e combinati tra loro, svolgendo funzioni di ordine sociale, assumendo il ruolo di garanti e protettori, distribuendo risorse materiali e simboliche, stabilendo interrelazioni con i poteri pubblici. Resta sempre preponderante la coercizione – l’uso potenziale della violenza – ma non mancano altri strumenti, come la negoziazione e anche l’offerta di incentivi o la capacità di indennizzare chi risulta temporaneamente perdente.

Senza escludere il riferimento a elementi culturali, come ad esempio la promozione di una visione comune (o presunta tale).

 

I mafiosi tendono a porsi spesso come intermediari fra diverse reti di relazioni: le mettono in comunicazione, ma le tengono separate. Non hanno dunque interesse a connettere in modo forte i soggetti che fanno parte della loro rete di relazioni esterne. Essi tendono piuttosto a sfruttare i «buchi strutturali» delle reti, ovvero l’assenza di relazioni fra cerchie sociali distinte.

Un gruppo mafioso è dunque più forte e ha maggiore capacità espansiva se presenta una struttura organizzativa in grado di consentire non solo una maggiore solidarietà interna e una razionalizzazione delle attività svolte, ma anche un’estensione del network verso l’esterno, permettendo così un incremento del capitale sociale disponibile.

 

Attraverso le loro capacità relazionali, i gruppi mafiosi accrescono infatti il loro capitale sociale, che poi utilizzano per estendere i loro reticoli o per intrecciarne di nuovi, ovvero per creare legami di sostegno attivo e ottenere quel consenso necessario alla loro sopravvivenza e riproduzione.

 

Potere mafioso e società locale.

 

La mafia ha una struttura di potere territoriale che, data la legittimazione di cui ha a lungo goduto, può essere concettualizzata come una forma di autorità politica non statale, o meglio extralegale.

Storicamente il controllo mafioso del territorio non è stato percepito come una minaccia nei confronti dello Stato. Ciò ha reso possibile una coesistenza relativamente pacifica tra le due forme di potere.

Esponenti delle istituzioni e della politica hanno spesso considerato la mafia quale fonte di autorità di sostegno da utilizzare in particolari circostanze o, in generale, come autorità supplementare per ottenere consenso in determinate aree.

Il potere extralegale delle mafie riceve legittimazione non tanto dal sistema di valori e dalla tradizione culturale della società circostante, quanto dagli assetti istituzionali che regolano quella stessa società, soprattutto nei meccanismi che sovrintendono all’ordine sociale e alla produzione di beni pubblici e in quelli che connettono la sfera politica a quella economica.

 

La mafia ha dunque una forte specificità territoriale: anzi, il cosiddetto «controllo del territorio», in competizione con l’autorità statale, è una caratteristica essenziale dell’organizzazione mafiosa radicata nelle aree tradizionali. Con questa espressione si intende l’offerta di protezione su ogni tipo di transazione economica, l’estensione delle attività criminali lucrative in più ambiti, lo stabilire una rete densa di relazioni in differenti ambienti istituzionali, l’acquisizione di adeguati mezzi di controllo sulla comunità locale nel suo insieme. Le mafie trovano un fertile terreno di sviluppo nei contesti in cui non sono garantiti i diritti di proprietà e le più elementari condizioni di sicurezza personale, ovvero nei quali non è pienamente riconosciuta e legittimata un’autorità istituzionale. Laddove non è garantita la certezza del diritto, quindi il rispetto degli accordi e la validità dei contratti, si creano occasioni favorevoli per l’affermazione e il successo di un modello di governo mafioso.

 

La caratteristica originaria della mafia come fenomeno di società locale è confermata dal fatto che tra le attività tipiche delle cosche quella che più le contraddistingue è la protezione-estorsione. L’affermarsi del sistema estorsivo – organizzato a fini di protezione e imposto a livello locale – è un elemento fondamentale, in una delle molteplici forme che può assumere, la «signoria territoriale» della mafia. Il controllo del territorio si colloca in uno spazio definito e si articola attraverso specifici sistemi spaziali di interazione. Peculiare dell’attività estorsiva è che essa risulta sempre legata a un contesto locale. Il suo funzionamento è attivato da risorse relazionali e, a sua volta, ne attiva di nuove definibili in termini di capitale sociale.

In sintesi, nelle zone di tradizionale insediamento mafioso il meccanismo dell’estorsione-protezione può essere considerato: a) meccanismo di regolazione dell’economia locale, attraverso cui si rende operativo il controllo del territorio; b) strumento di accumulazione primaria del capitale mafioso; c) criterio di costruzione e riconoscimento della reputazione mafiosa (e, di conseguenza, di selezione dei quadri dell’organizzazione); d) fondamento del sistema relazionale della mafia, vale a dire base attraverso cui è accumulato, mantenuto e riprodotto il suo capitale sociale.

 

Prendo a prestito, a questo proposito, un brano di un intervento di Tano Grasso in occasione di un incontro fatto insieme a don Luigi Ciotti a Capo d’Orlando il 31 maggio 2004 (testo dal Web) egli dice: perché non può esserci mafia senza estorsione? Guardiamo il bilancio economico delle attività criminali della famiglia mafiosa: quantifichiamo le entrate complessive in 1000; su questa cifra le entrate provenienti dall’estorsione sono solo 50; la rimanente somma, 950 viene dal traffico di droga armi, Riciclaggio, eccetera. Quella somma di 50 su 1000 e assolutamente marginale, più che fare un traffico di droga; poiché l’estorsione è lo strumento fondamentale attraverso cui si realizza il controllo del territorio e al suo interno il controllo dell’economia. Il commerciante come giustifica il fatto di pagare? Io pago, dice, perché, rispetto ai problemi di sicurezza che ha ognuno che opera sul mercato, lo Stato non è in grado di proteggermi. Il mafioso dice cosa? Non ti preoccupare, non pagare le tasse allo Stato, paga me che ti proteggo! Dove l’imbroglio? Ecco l’imbroglio è che questo meccanismo è una finzione, perché il commerciante paga per essere protetto dalla stessa persona che la notte prima gli ha fatto un attentato, colui che ha creato le sue condizioni di insicurezza. Allora dov’è la finzione? La finzione sta nel fatto che quella giustificazione diventa purtroppo realtà. E lo diventa proporzionalmente alla misura in cui lo Stato è incapace di garantire una concreta sicurezza agli operatori economici. Quando il mafioso chiede il pagamento del pizzo non esagera mai nell’importo da richiedere, non bisogna pensare a un atto vessatorio; la richiesta in ragione delle concrete possibilità economiche del commerciante, secondo il principio della proporzionalità. Non è interesse della mafia esagerare nelle richieste, è importante far vedere chi comanda. Il “territorio” è linfa vitale per il mafioso… il flusso di denaro, come detto sopra, ha altre origini.

 

La mafia si espande

 

Una evidenza che salta agli occhi dagli ultimi fatti di cronaca. Da Sud a Nord si è realizzato un  processo di diffusione delle mafie, in particolare della ‘ndrangheta, in aree non tradizionali.

Fino a periodi molto recenti, il fenomeno mafioso era circoscritto a specifiche aree del Mezzogiorno. A partire dagli anni settanta, si assiste all’espansione territoriale di mafie vecchie e all’emergere di mafie nuove, che si costituiscono sul modello delle prime. Le attività illecite dei gruppi mafiosi valicano, più che nel passato, i confini della società locale e si sviluppano lungo direttrici nazionali e sovranazionali.

 

Non si può parlare di piovra. All’immagine della mafia come «piovra» – a cui si può accostare anche la cosiddetta «tesi del complotto» – può essere ricondotta l’ipotesi di un’unica strategia centralizzata di diffusione. Si tratta di un’immagine che prospetta la possibilità di racchiudere in un quadro unitario ogni forma, più o meno grave, di illegalità e di eversione dall’ordine costituito, oppure che presuppone l’esistenza di un «Grande Vecchio» che manovra da dietro le quinte un complesso scenario di trame occulte.

La mafia non è una piovra, né costituisce un’articolazione di una «super-organizzazione» eversiva. Nondimeno, essa fa parte a pieno titolo della sfera occulta della politica, è un potere invisibile con una sua autonomia e specificità.

Non starò qui a descrivere le varie ipotesi messe in campo dagli studiosi per presentare i vari “meccanismi” di riproduzione. La lettura del lavoro che si sta citando (Sciarrone) offre una panoramica esauriente sull’argomento.

 

La criminalità transnazionale organizzata.

 

Il fenomeno delle mafie non è nuovo: «quello che è nuovo è il loro numero, lo sviluppo dell’ambito delle loro operazioni transnazionali e il grado in cui la loro autorità nella società e nell’economia mondiali compete, intaccandola, con quella dei governi».

Se da sempre la grande criminalità organizzata è considerata una minaccia per l’ordine sociale, in tempi di globalizzazione tale minaccia è ritenuta da molti di più ampia portata in quanto tenderebbe ad assumere una dimensione mondiale. Si parla al riguardo di «sistema criminale integrato» o «globale», o ancora di «crimine multinazionale».

L’espressione più ricorrente è quella di «criminalità transnazionale organizzata»: essa si riferisce a quei fenomeni di criminalità organizzata che travalicano i confini di un singolo Stato e dispiegano la propria azione su scala internazionale. Tali fenomeni sono considerati il prodotto dei processi di globalizzazione: «gruppi criminali di diverse etnie o nazioni collaborano efficacemente fra loro, con la conseguenza che ogni singola struttura trae un ‘‘valore aggiunto”, in termini di potenza criminale, dalle sinergie che instaura con altri gruppi». La criminalità transnazionale sarebbe connotata da alcune peculiarità che la renderebbero particolarmente pericolosa: mostrerebbe infatti un elevato grado di mobilità e adattamento rispetto alle dinamiche economiche globali. Avrebbe, ad esempio, una spiccata capacità: di stringere alleanze strategiche con altri attori economici, legali e illegali; di sfruttare a proprio vantaggio le differenze legislative, economiche e culturali esistenti tra istituzioni pubbliche e private dei singoli Stati; di adottare nuove tecniche di riciclaggio dei capitali, utilizzando le reti telematiche e gli strumenti monetari elettronici.

Molto interessante è l’approfondimento in ordine a “globalizzazione e criminalità” fatto da Sciarrone, al quale si rimanda.

Triste, comunque constatare la difficoltà di un coordinamento delle autorità investigative per il contrasto al “crimine multinazionale”  come ha sottolineato l’ex procuratore anti mafia Pietro Grasso. [6]

 

Il problema richiede attenzione dal momento che il  peso economico e finanziario della mafia è rilevante; a giudizio di certi osservatori stranieri costituirebbe all’incirca il 10% del potenziale economico italiano. Ciò è motivo di preoccupazione per i giudici italiani dell’antimafia che incontrano difficoltà e ostacoli negli accertamenti e nelle indagini su gruppi che si proteggono sotto il velo della segretezza e navigano in acque profonde. La mafia, nella sua accezione più nota, significa affari sporchi nella gestione dell’ambiente, dell’edilizia, della politica, dei mercati. Non è quindi da sottovalutare il pericolo derivante da assemblaggi societari quali, anche se costituiti in base a principi di solidarietà sociale, possono dar luogo a rischi di contaminazioni, di commistione, di collusioni tali da trasformare il lecito e illecito nella fluidità e nel dinamismo relazionale della odierna comunità internazionale.[7]

 

Impatto nel sociale e nell’economia della criminalità organizzata.

 

Da un Rapporto dell’Unioncamere (postato nel web il 12/11/2013) ricaviamo che: la criminalità organizzata ha una elevata capacità di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale, si alimenta con la collusione e la corruzione. Il rischio è che si crei un sistema di connessioni perverse tra società civile e società mafiosa che si autoalimenta e di cui è difficile ancora valutare la complessiva portata, come ha avuto  modo di sottolineare Anna Maria Tarantola, già vice direttore Generale della Banca d’Italia, nel 2012, in occasione dell’audizione presso la commissione parlamentare antimafia. Così com’è difficile stimare quanto la mafia riesce a fatturare ogni anno o se tutte le attività illegali o solo una parte di esse sono gestite direttamente dalla criminalità organizzata. Al tempo stesso non è semplice individuare le pericolose insidiose infiltrazione della mafia nel sistema economico finanziario, specialmente nelle regioni del centro-nord. Le metodologie di calcolo risultano infatti, essere approssimative, perché accanto ai dati ufficiali sulle diverse tipologie di reati (denunzie, sequestri, confische, ecc..) diffusi dalle fonti istituzionali, c’è il cosiddetto numero oscuro costituito dai reati non denunziati o difficile da accertare. In altri termini i tentativi di misurare il reddito prodotto illegalmente dalle mafie e di valutare l’impatto in termini di PIL, comportano spesso una sottostima del fenomeno della criminalità organizzata. Esiste tuttavia un’altra tipologia di numero oscuro quello della stima della cosiddetta “area grigia”, vasta e assai eterogenea nelle sfumature, nelle funzioni e nella sua articolazione interna, che risulta composta in modo variabile, da professionisti, politici, imprenditori, burocrati, e che rappresenta il luogo dove le diverse tipologie di alleanze si stringono, si modellano e si ricompongono.[8] Esistono diversi fattori che determinano i contorni dello spessore dell’area grigia di particolare rilievo appare il radicamento territoriale delle organizzazioni mafiose, la loro capacità di regolare l’economia e la Società dei territori fungendo secondo la definizione Max Weber, da veri e propri gruppi regolativi dell’economia.[9]

 

Il rapporto Europol (giugno 2013 ) afferma che in Europa ci sono 3.600 clan criminali capaci di interagire tra loro e le organizzazioni mafiose italiane rappresentano ancora la più grave minaccia dell’Unione Europea. Le principali attività criminali di questi gruppi, che mantengono sempre un profilo basso, sono il riciclaggio di denaro e il traffico di droga su larga scala. Tuttavia, essi sono anche coinvolti nella corruzione, la contraffazione e il traffico dei rifiuti tossici. In questi tempi di crisi economica, le immense risorse che gruppi criminali organizzato hanno a loro disposizione (la ‘ndrangheta calabrese si stima generi ricavi illeciti che per 44 miliardi di euro l’anno) consente loro di indirizzarsi più facilmente nell’economia legale, iniettando la tanto necessaria liquidata in imprese che lottano per non chiudere. Tali strategie di espansione stanno ora toccando alcune parti dell’Italia e dell’Europa non colpite storicamente dalla criminalità organizzata e che potrebbe causare gravi danni per l’economia dell’Unione Europea. Per il procuratore nazionale antimafia Franco Ruberti, in seguito alla stretta del credito legale, le denunce per usura in Italia sono aumentate delle 155%. Il riciclaggio del mondo e pari al 5% del PIL in Italia  di 118 miliardi di euro superiore al 10% secondo stime della Banca d’Italia. La droga è il mercato più attivo: per capire l’estensione basta confrontare il fatturato in Italia, di 25 miliardi esentasse, con quello del comparto moda, il più importante dell’anno tessile, che fattura 45 miliardi lordi (intervista luglio 2013).

 

Sempre dal Rapporto di Unioncamere, estrapoliamo altri dati che danno la misura dell’impatto della mafia nel sociale e nell’economia. E’ importante precisare che la tendenza a misurare la dimensione economica delle organizzazioni criminali, ha generato un numero consistente di valutazioni di stime. In particolare l’attenzione si è concentrata maggiormente su quanto la mafia sia in grado di fatturare attraverso attività criminali (droga, prostituzione, usura, estorsione, traffico d’armi, traffico di esseri umani) e attività economiche illegali (contraffazione, agro-mafia, tabacco, rifiuti, abusivismo edilizio, gioco d’azzardo) piuttosto che sulla quantificazione dei costi diretti e indiretti che gravano su famiglie e imprese. Al tempo stesso, non esistono studi o report in grado di quantificare quella parte del PIL dell’economia emersa prodotta grazie al contributo di imprenditori, menager e liberi professionisti incensurati, ma legate direttamente o indirettamente a gruppi mafiosi, che governano le imprese o erogano servizi di alta consulenza aziendale a società, bisognose di aiuto, che versano in gravi difficoltà economiche e finanziarie. Qui riportiamo soltanto due esempi della operatività della organizzazione malavitosa in ordine ai beni sequestrati e confiscati e ai casi di corruzione.

Partiamo dei beni sequestrati e confiscati

Il reddito è illegale prodotto dalla mafia viene investito principalmente in attività immobiliari e asset mobiliari tali che costituiscono la prima forma di riciclaggio del denaro.

I dati dell’Agenzia nazionale per i Beni sequestrati e confiscati, aggiornarsi al gennaio 2013, evidenziano che i beni confiscati in via definitiva alla criminalità organizzata sono così ripartiti: 11.238 i beni immobili e 1.708 aziende, specialmente nel settore del commercio (29,4%), dell’edilizia (28,8%) per ristorazione (10,5%). Di questi beni, il 42% è localizzato in Sicilia, il 16% in Campania, il 14% in Calabria, il 9% in Puglia. Del restante 20%, il 9% localizzato in Lombardia, il 5% nel Lazio. Parimenti, i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno negli ultimi cinque anni in materia evidenziano quanto segue: Nel periodo maggio 2008- luglio 2011  il numero di beni sequestrati  si attesta a 42.863, di cui  2.486  aziende, per un valore di circa 19 miliardi di euro. Nello stesso periodo il numero di beni confiscati è pari a 7.747, di cui 307 aziende, per un valore di circa 4,2 miliardi di euro; nel periodo agosto 2011-luglio 2012, il numero di beni immobiliari e mobiliari sequestrati si attesta a 12.139, di cui 723 aziende per un valore di 4,1 miliardi di euro. Nello stesso periodo il numero di beni confiscati e pari a 3.218, di cui 213 aziende per un valore di circa 1,5 miliardi di euro.

Il patrimonio sottratto fino ad oggi alla criminalità organizzata e a disposizione dello Stato ammonta almeno a 20 miliardi di euro, sebbene il valore non sia attualizzato. Tuttavia il 90% delle aziende confiscate fallisce a causa dell’inadeguatezza dell’attuale legislazione incapace di garantire gli strumenti necessari per l’emersione alla legalità di valorizzarne appieno l’enorme potenzialità economica. Tuttavia, il problema non è solo italiano ma investe l’Europa intera, dato che il framework legislativo europeo è lacunoso e spesso non è implementato correttamente dagli stati membri. Ad esempio, in Italia la proposta legislativa di mettere all’asta dei beni confiscati rischia di riconsegnare questi patrimoni proprio ai mafiosi tramite dei prestanome. Secondo i dati, inoltre, dei 3.995 beni immobili ancora in gestione all’Agenzia nazionale per i Beni sequestrati e confiscati, 2.819 presentano criticità e di questi 1.666 sono gravati da ipoteche.  Più di uno su tre di fatto inutilizzabile. Inoltre su 1.789 imprese confiscate solo 60 risultano pienamente attive sul mercato con dei dipendenti che effettivamente ogni giorno si presentano in ufficio o in fabbrica.

 

Il fenomeno della corruzione.

 

                         Non è una esclusiva della criminalità organizzata.  È un fenomeno che inquina che frena lo sviluppo economico di un paese. Il confronto tra i dati giudiziari e quelli relativi alla percezione del fenomeno corruttivo, evidenzia un rapporto inversamente proporzionale tra corruzione “praticata” e corruzione “denunciate e sanzionata”: mentre la seconda si è in modo robusto ridimensionato negli ultimi 20 anni, la prima è ampiamente lievitata. A confermare ciò anche i dati sul Corruption Perception  index di Trasparency International, le cui ultime rilevazioni posizionano l’Italia al 72º posto su 174 paesi valutati, con un peggioramento rispetto alla precedente rilevazione che si vedeva al 69º posto (a pari merito con il Ghana e la Macedonia). Analoga tendenza viene registrata dalla Banca mondiale attraverso le ultime rivelazione del Rating of control of corruption, che collocano l’Italia agli ultimi posti in termini di costi, le stime della Banca mondiale evidenziano le seguenti analisi:

1-  Ogni punto di discesa della classifica di percezione della corruzione, come redatta da Trasparency International, provoca la perdita del 16% degli investimenti dall’estero;

2-  Le imprese costrette a fronteggiare una pubblica amministrazione corrotta e che devono pagare tangenti crescono in media quasi del 25% di meno delle imprese che non fronteggiano tale problema;

3-  Le piccole imprese hanno un tasso di crescita delle vendite di più del 40% inferiore rispetto a quelle grandi.

Nella lotta alla mafia e alla corruzione, i dati evidenziano quanto segue:

1- Il numero delle minacce delle intimidazioni mafiose criminali nei confronti degli amministratori locali e del personale della pubblica amministrazione sono in sensibile aumento rispetto al periodo 2010 / 2011 (+27%).

2- Gli atti intimidatori non si registrano soltanto nel Mezzogiorno dove si conta la maggiore numerosità dei casi, ma anche nelle principali regioni centro-settentrionali dell’Italia.

3- Le minacce nei confronti degli amministratori locali sono sia dirette, nel senso che colpiscono direttamente le loro persone, e indirette, valea dire che colpiscono le strutture e mezzi comunali.

4- il 2012 e un anno in cui si registra un record negativo dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa: ben 25.

 

Oltre le organizzazioni malavitose: atteggiamenti e comportamenti mafiosi.

 

Proviamo ora a declinare alcune situazioni che ci spingono a ipotizzare percorsi di educazione alla legalità. Per fare questo mi permetto elencare alcune situazioni che apparentemente nulla hanno a che fare con la mafia. In realtà solo se apriamo gli occhi della mente e del cuore a determinate situazioni che provocano sofferenza, non soltanto nei soggetti direttamente interessati, ma in tutto il tessuto sociale e culturale, avremo gli strumenti idonee per cambiare questa nostra società. Pensiamoci su.

 

Per avere comportamenti e atteggiamenti mafiosi non necessariamente bisogna essere mafiosi. Per esempio l’atteggiamento di alcuni ragazzi della scuola che sopportano atteggiamenti di bullismo senza fare nulla, può essere annoverato come comportamento mafioso. Perché il bullo è un po’ come il mafioso che chiede il pizzo all’imprenditore, se non lo paga rischia che gli venga distrutto lo stabilimento. A volte anche nello sport, come le cronache ci hanno purtroppo costretti a verificare, si possono realizzare atteggiamenti mafiosi che coinvolgono giocatori e allenatori che vendono le loro partite, ottenendo denaro.  Da noi poi accettando il fatto che la mafia vinca su qualsiasi cosa, compreso lo Stato, diventa normalità il fatto che non ci si meravigli se alcuni nostri concittadini si trovino ad essere  minacciati.

Altro atteggiamento comportamento mafioso è la raccomandazione: il fatto di privilegiare qualcuno non in base ai propri meriti ma in base alla parentela, all’amicizia o in cambio di denaro. Il grave non è tanto soltanto che esistano “ le raccomandazioni”, ma quanto la convinzione che non si possa andare avanti se non si ha un “santo in paradiso”.

 

Ecco allora che si fa l’abitudine e, quasi, non fanno più paura quei comportamenti mafiosi, l'abitudine agli ordini impositivi, la pretesa di trarre vantaggi ad ogni occasione. Qui il campo si allarga a dismisura, le cronache che riportano “storie di ordinaria corruzione” ce lo ricordano tristemente. A questo punto i mafiosi non sono i soliti capibastone, quelli dell'onorata società, ma emergono a tutti i livelli. Non c'è appalto milionario di lavori pubblici che non veda maturare la richiesta di pizzo, le buste si danno sottobanco, il diritto ad avere una quota del guadagno tratto dalla esecuzione dell'opera appaltata. Da un lato i politici, dall'altro i costruttori. Trionfa l'atteggiamento mafioso  eletto a sistema. Qualunque lavoro venga eseguito nel nostro Paese porta sempre le stimmate della corruzione.  Ecco perché devono farci paura, il corruttore in abito elegante, magari con la sciarpa tricolore o con un titolo da onorevole, e il costruttore dall'aspetto candido, in grado di portare a compimento il lavoro previsto, ricorrendo a qualche magagna per abbassare i costi mediante l'utilizzazione di materiale povero, che finisce sempre nel tempo  con il cagionare guai seri alla comunità locale. Storia di comune squallore.  (vedi rapporto Unioncamere, sopra citato)

 

L’enorme quantità di denaro di cui dispongono le organizzazione malavitose, li mette in condizione di poter gestire senza difficoltà, quelle situazioni che, per esempio, un normale imprenditore non può affrontare. Uno potrebbe chiedersi come mai queste ricchezze non vengono ad essere investite nei paesi di origine dei capi ’ndrangheta. La legislazione antimafia messa in atto in Italia, attraverso soprattutto il sequestro dei beni, porterebbe alla facile individuazione della provenienza illecita dei fondi investiti per esempio, nelle attività alberghiere o nelle ristrutturazioni di aziende agricole. Ecco allora, che utilizzando dei prestanome, o rilevando aziende in difficoltà, Lasciandole apparentemente nelle mani dei vecchi proprietari, si trovano canali per il riciclaggio[10] (tema quello del riciclaggio e delle “agromafie”, che ho potuto solo accennare ma che, comunque, sono esaurientemente esposti nei lavori e report citati in bibliografia) del denaro sporco, che in alcuni casi risulta essere anche provvidenziale per risollevare economia di alcune comunità. In una città come Roma non è difficile imbattersi in alcune realtà commerciali che durano neanche il tempo di una stagione. Vicino a dove abito io c’è un esercizio commerciale che ha cambiato gestore quattro volte in meno di un anno. Tutti gestori extracomunitari!

Oggi però nel contesto in cui ci troviamo, chiediamoci perché nelle nostre realtà sociali ancora vivono atteggiamenti e comportamenti mafiosi che risultano essere un ostacolo allo sviluppo delle nostre comunità. Perché intere comunità continuano ad essere ancora ostaggio di alcune organizzazione malavitose. Dobbiamo convincerci che soltanto se modifichiamo i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti si può vincere il fenomeno della mafia. Voglio dire che spesso sono i nostri comportamenti e i nostri atteggiamenti che permettono il sopravvivere di alcuni comportamenti cosiddetti mafiosi. Un esempio per tutti: se io, una volta che subisco, che dico, un furto, cedo al ricatto e pago un riscatto per il bene dei cui sono stato privato, io non faccio altro che dare forza a certi comportamenti. È chiaro che non è facile quando ci si trova nella situazione di essere stati privati, per esempio, dello strumento del proprio lavoro, accettare la situazione e aspettare che le istituzione facciano il loro corso. Mi è capitato, durante la mia attività pastorale, di vivere in un ambiente in cui una delinquenza comune, forse espressione di una organizzazione più grande, condizionava perfino le forze dell’ordine. Infatti, un cittadino che andava denunciare un fatto delittuoso, veniva scoraggiato dalle stesse Forze dell’ordine a procedere alla denuncia per evitare ritorsioni, danni maggiori. In situazione del genere è difficile vincere. La sola repressione non è sufficiente se non si mettono in campo strumenti di educazione alla legalità e mezzi sufficienti per colmare, eventualmente i vuoti lasciati dalle attività malavitose.

Accanto alla fiducia nello Stato io credo che bisogna anche prendere coscienza che esistono atteggiamenti e comportamenti mafiosi che bisogna saper riconoscere per evitarli e combatterli.

 

Le fonti statistiche

 

Le statistiche ufficiali prodotte dall’Istat, dal Ministero dell’Interno, dal ministero di giustizia, la Banca d’Italia, dall’Unità di Informazione Finanziaria forniscono informazione sulla criminalità e derivano da quando è stato scoperto dall’attività delle forze dell’ordine. Nello specifico, le statistiche ufficiali della delittuosità fanno riferimento ai reati registrati dalle forze dell’ordine, da questi denunciati all’Autorità giudiziaria. Dal 2004, la nuova banca dati utilizzata per le statistiche della delittuosità è il Sistema di Indagine, in cui sono contenute tutte le informazioni su ogni fenomeno rilevato dalle forze dell’ordine, compresa l’esatta indicazione del periodo del luogo del reato commesso. Oltre ai delitti denunciati all’Autorità giudiziaria da Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza, sono considerati anche i delitti denunciati dal Corpo Forestale dello Stato, dalla Polizia penitenziaria, dalla Direzione Investigativa Antimafia, ed altri uffici (Servizio Interpol, Guardia Costiera, Polizia Venatoria ed altre Polizie locali). (+ in allegato una ricca bibliografia).

Queste fonti statistiche sono una miniera di informazioni, dati conoscitivi che illuminano, “sinistramente” la realtà dell’organizzazione mafiosa e invitano a mettere in atto una strategia di lotta che parte dalla coscientizzazione, per dirla con Paulo Freire, foriera di liberta dal condizionamento mafioso.

 

Per continuare…

 

La conoscenza apre alla necessità di mettere in atto una strategia che ci mette in condizione di una effettiva lotta alla mafia. Tano Grasso nell’intervento che ho citato sopra, ricorda che un ragazzo di Scampia a Napoli gli chiese di dire una “cosa rivoluzionaria” ed egli rispose che la cosa più rivoluzionaria per Scampia è avere fiducia nello Stato. Non ci può essere antimafia senza rapporto con lo Stato: quando la società civile e lo Stato hanno funzionato insieme, i risultati sono stati notevoli.

 

Nella Commissione parlamentare antimafia, il Sen. Pisanu esprimeva questi concetti. La conoscenza delle forme di accumulazione movimentazione investimento dei capitali mafiosi e indispensabile per combattere efficacemente le grandi organizzazioni criminali italiane e straniere. I mafiosi temono la perdita dei patrimoni più della galera perché sanno che il denaro garantisce non solo il benessere della loro famiglia ma anche la continuità della loro organizzazione. Passa dunque da qui la linea più avanzate d’efficace del contrasto della repressione. Magistratura e forze dell’ordine ne sono consapevoli su questa linea stanno raccogliendo risultati encomiabili, come confermano i dati più forte e dati più recenti forniti dal Ministero dell’Interno. Il Censis ha certificato che, seppure con una certa ambiguità, in questi ultimi anni la capacità di individuazione delle mafie si è ridotta, mentre allo stesso tempo si sono alzate le barriere difensive della società meridionale E si è diffusa una nuova domanda di legalità, alimentata nelle forme più disparate dalla Chiesa cattolica, degli industriali, dagli studenti e da tanti altri centri di iniziativa. Ma non basta. Lo Stato deve fare di più, anche per incoraggiare le forze sane della sud della società. C’è bisogno, se vogliamo vincere la guerra, dei maggiori risorse materiali umane, the indagini più penetranti E di norme legislative che siano al passo con le tecniche delle procedure altamente sofisticate delle organizzazioni criminali. L’esigenza più immediata e individuare esattamente I punti critici del connubio mafia economia E su di essi approfondire la nostra ricerca, chiamando in aiuto dei magistrati, I pubblici amministratori e gli studiosi che abbiano fatto sul campo specifiche e significative esperienze. Sappiamo tutti che specialmente nel mezzogiorno l’antimafia diretta della repressione non andrà molto lontano se non sarà accompagnata dall’antimafia in diretta delle buone regole di mercato, della correttezza amministrativa e della trasparenza politica. Ma perché tutto ciò accada, perché le energie positive del sud possano definitivamente prevalere È necessario innanzitutto ripristinare la legalità. E dunque la repressione di ogni attività mafiosa e oggi il primo, indispensabile atto per risolvere la questione meridionale e sanare quella che Aldo moro chiamava la “storica ingiustizia.”[11]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Conferenza Episcopale Calabra, Messaggio alle comunità cristiane della Calabria «L’evangelizzazione e promozione umana in Calabria», 25 novembre 1979, 425-426.

[2] Cfr. Vilasi, A. C., Mafie, Origine e sviluppo del fenomeno mafioso, Dissensi, 2012 pp. 46-49

[3] Vilasi, o.c. p. 38

[4] Cfr. Vilasi, o.c. pp. 36-41

[5] Sciarrone R., Le mafie dalla società locale all’economia globale in “Meridiana”, n. 43, 2002 pp.49-82

 

[6] cfr. Del Vecchio, Anna Maria Il problema dell'impatto della criminalità organizzata nel quadro

  della mondializzazione, in Studi urbinati di scienze giuridiche politiche ed economiche [1999].

  Nuova serie A, Anno: 2013 - Volume: 80 - Fascicolo: 1/2 – pp. 7 - 24

[7] cfr. Del Vecchio, Anna Maria, o.c.  

[8] Asso  P.  F.,  Trigilia  C.  (2011)  Mafie  ed  economie  locali.  Obiettivi,  risultati  e

   interrogativi  di  una  ricerca  in  Sciarrone  R.  (a  cura  di)  Alleanze  nell’ombra.

   Mafie  ed  economie  locali  in  Sicilia  e  nel  Mezzogiorno,  Donzelli,  Roma,  pp.  XIII-XXX.

 

[9] Asso  et  al.,  2011,  pag.  XVIII

[10] Tema quello del riciclaggio e delle “agromafie”, che ho potuto solo accennare ma che, comunque, sono esaurientemente esposti nei lavori e report citati in bibliografia.

[11] Cfr. Commissione parlamentare antimafia, Relazione del Presidente Pisanu, 30/09/2009