Giovanni MAZZILLO   (informazioni sull'autore)                                                          home page www.puntopace.net

L’INCARNAZIONE DI CRISTO  E IL VALORE DELLA STORIA UMANA

Dall’”impegno storico del cristiano” al valore della storia

Nessuno dubita più dell’importanza che ha storia per la teologia. L’acquisizione di una storia non considerata astrattamente, ma come luogo e strumento della rivelazione di Dio all’umanità, è ormai  documentata dal Vaticano II. Di “impegno storico” parla spesso il magistero  postconciliare, intendendo con quest’espressione la sollecitudine che il cristiano deve avere nei confronti della realtà socio-politica nella quale egli vive. Non di rado  il miglioramento il mondo già in questo eone è giustamente fondato sull’incarnazione del Verbo. Se Egli è venuto nella nostra storia e ne costituisce la chiave di volta, quanti si richiamano a Lui devono  vivere nella storia per fare tutta la propria parte al fine di contribuire a realizzare in essa quei valori che Cristo ha inaugurato.

La storicizzazione dell’agire cristiano costituiscono oggetto di tutte le recenti encicliche pontificie e della quasi totalità dei piani pastorali della Conferenza Episcopale Italiana. E’ dunque un fatto acquisito sia per la dimensione etica del credente che per la fede stessa che le dà senso e consistenza. Varrà la pena allora trattare, seppure nei limiti di un articolo, dell’effettivo valore da attribuire alla storicità e, ancora, più a monte, alla storia stessa, soprattutto in rapporto a un tema ancora scottante per la teologia: quello relativo all’essenza e alla verità. Storia e storicità dicono infatti mutevolezza e provvisorietà, la rivelazione si appella invece alla verità immutabile di Dio, del Cristo Risorto e al perenne valore della sua grazia. Ci chiediamo allora se di fronte a questa  radicale contrapposizione,  la riflessione debba  solo tentare di armonizzare relatività della storia e assolutezza di Dio, oppure se non debba, invece, partendo dall’incarnazione di Cristo, ripensare  all’antinomia in un modo diverso. Ci domandiamo: è possibile un’impostazione che, pur non dissolvendo l’antinomia complessiva, operi una sintesi che vada al di là della pura e semplice congiunzione dei termini? Si tratta ovviamente di un problema impegnativo e che solleva,  a sua volta, una serie di ulteriori interrogativi. Tralasciando un’analisi di questi ultimi (come ad esempio differenza tra storia e storicità, coniugabilità delle antinomie in teologia, teologia dialettica etc., riteniamo che possa essere di una certa utilità offrire al lettore qualche riflessione sul grande tema dell’incarnazione ai fini di una diversa comprensione della storia stessa. Ciò farà meglio motivare e apprezzare il senso e l’urgenza dell’impegno nella storia e per la storia.

2 Precarietà della storia e “debolezza” del pensiero umano

Allorquando si affronta il tema della consistenza della storicità per la rivelazione, il problema  che immediatamente si pone è il rapporto tra storia ed essenza, cioè tra la mutevolezza contingente di ciò che scorre nell’inarrestabile fuga della temporalità dell’uomo e del mondo e ciò che invece permane oltre i cambiamenti e le modificazioni epocali. Non è una domanda da poco, perché la rivelazione ha la pretesa di parlare nella storia di quella realtà che la trascende e che non può essere scalfita né dal mutare né dall’inesorabile declinare di ciò che è umanamente storico. Ciò vale per tutte le variabili nelle quali la nostra coscienza umana ha pensato la storia. Sia che si afferri il fluire degli avvenimenti come eterno movimento che distende e risucchia imperi, uomini e cose, come fa il mare con la sua risacca, sia che si colga nel tutto un inarrestabile tramontare dal quale non esiste ritorno. Eterna mutazione e inarrestabile declino della storia rendono ugualmente fragile e persino insignificante la vicenda umana, al punto da far ritenere non plausibile l’interessamento di un ipotetico Dio, che si sarebbe nientemeno rivelato, Lui l’Intramontabile e l’Immutabile, a chi cammina per fermarsi e nasce per morire.

Si può aggiungere che nella misura in cui cresce la consapevolezza umana sui propri limiti storici, diminuisce anche la convinzione che possiamo essere oggetto di un piano più vasto e parte di un progetto più grande. Affiora proprio allora invece il crepuscolo del pensiero debole, con il suo fascino e la sua discrezione. La sua intima forza di convincere risiede paradossalmente tutta nella sua sistematica e metodica attenuazione di ogni altra visione complessiva, o più grande che sia.  Non perché ami stemperare, ma perché vuole con disincanto confessare che non possiamo, né dobbiamo, scavalcare i paletti che contrassegnano il nostro limite, quello della nostra parcellarità e della nostra insignificante frammentazione[1].

E pur tuttavia accade con il pensiero debole ciò che la storia del pensiero già conosce di ogni altra corrente interpretativa che erge il modulo metodologico con cui accosta il reale a universo sistematico in cui lo stesso metodo si ipostatizza e per ciò stesso si atrofizza. Il dubbio metodico del pensatore quando assurge al livello del dubbio sistematico diventa agnosticismo senza sbocchi, così come perde ogni altra possibilità di uscita l’idealismo diventato universo abitato solo dal  pensato e dal pensabile. Sembra subire sorte non diversa il pensiero debole che pur apparendo a prima vista solo l’umile e serena confessione della propria insignificanza, rinuncia non solo alle tradizionali pretese universali e onnivalenti della metafisica classica, ma anche alla ricerca sulla praticabilità di una via dove approdino i sentieri ormai interrotti e dove arrivino a sfociare i rigagnoli di pensiero che si ritengono già disseccati prima ancora di essere scesi a valle. A questi esiti alquanto sconfortanti non tutti si rassegnano e non sempre perché spinti da una qualche mania di onnipotenza che ancora alberga in loro, ma per motivi inerenti allo stesso procedere del pensiero. Se, parafrasando il filosofo, nella notte nera tutte le vacche sono nere, nel crepuscolo ogni strada diviene poco visibile e il pensiero debole finisce con l’essere come l’astenico, la cui astenia è aggravata dalla conseguente riduzione di ogni ulteriore attività vitale.

Concludere però il discorso qui e in questi termini mi sembra nondimeno ingiusto. L’alternativa al pensiero debole non è l’autoaffermazione pura e semplice di un pensiero forte. Né può essere la riedizione di una metafisica restaurata e resa più attraente da una armamentario lessicale aggiornato. L’alternativa sembrerebbe, al contrario, poter essere la già accennata chiarificazione tra metodo e oggetto dell’indagine e così pure l’evidenziazione delle sue preliminari rinunce. La soluzione deve essere cercata nello spostamento ulteriore del campo da investigare. Un campo che sembrerebbe potersi paragonare alle valli fluviali che si aprono, una dopo l’altra oltre le barriere dei monti, le stesse che a prima vista avresti creduto invalicabili. 

Se procedendo, ogni orizzonte prelude ad un altro e l’ultimo si apre proprio nel chiudersi del precedente, il pensiero avanza domandandosi se sia davvero sensatamente da escludere che oltre il supposto limite non ci sia altro che la mia immaginazione, la quale sempre ancora  pretende che qualcosa ci sia. Tale conseguenza non è rigorosamente logica, ma sembra piuttosto voler cogliere dalla mutevolezza degli scenari che si susseguono, come nella rappresentazione di una commedia, l’impossibilità di cogliere un panorama reale. Oppure è l’affermare che è comunque destinata all’insuccesso la ricerca di ciò che noi possiamo afferrare sempre e solo come in specchi opachi e deformanti. Data la molteplicità e la diversità degli specchi, e dato che noi non abbiamo altri strumenti, ci si rassegna a dire che sono validi e ragionevolmente da accettare, almeno per quel tanto che dobbiamo alla vita,  solo quei  frammenti e quei barlumi che in quel crepuscolo e quegli specchi possiamo ancora intravedere.

Ma al di là di queste ultime metafore, si può invece ragionevolmente affermare che fin quanto vale l’avverbio «ragionevolmente», vale ancora la ricerca e che anche quando  la storia ci apparisse in frammenti, non è per questo detto che essi siano rottami provenienti da mille oggetti non più ricostruibili[2], perché non sono mai veramente oggetti. I frammenti di storie divergenti e giustapposte possono essere anche segmenti e persino parti di qualcosa che, anche supponendo che si sia già rotta, ne fa ancora delle schegge. E’ vero: tentare di ricostruirle come fa l’archeologo non è tutto e non è possibile nel caso della storia che Dio scriverebbe con l’uomo, la storia della salvezza. Non perché manchino troppi pezzi che non rendono visibile la figura, ma perché la vera figura noi non la possediamo, né l’abbiamo mai posseduta. Ma questo costituisce per noi il vero problema.

3 Storia ed essenza

Giunti a questo punto e affermata in linea di principio almeno la possibilità dell’esistenza non fittizia, ma reale, dell’antinomia in questione, il tema diventa subito quello  della consistenza della storicità per la rivelazione, cioè il tema cardine: il rapporto tra storia ed essenza. E’ stato anche affrontato da J. Ratzinger[3] e merita un approfondimento. Non fosse altro perché tocca un problema fondamentale, al quale un teologo del calibro di K. Rahner ha dedicato una buona parte della sua ricerca.

La teologia classica, basandosi sull’importanza primaria dell’essenza umana e ritenendo ancora accessoria la storicità, aveva concentrato la sua riflessione sui significati metafisici dell’azione di Dio nell’uomo. Tanto la sua antropologia teologica quanto la stessa soteriologia tendevano a cogliere il valore della salvezza per l’uomo, prescindendo dalla singolarità di questo e di quell’essere umano. Non l’uomo singolo e situato, ciò che poi l’esistenzialismo ha chiamato l’esistente o l’esistenza, ma l’essere umano in quanto tale costituivano l’oggetto della riflessione teologica. Ciò aveva come risvolto l’impostazione «proposizionale» della rivelazione: Dio comunica le verità immutabili all’uomo e questi è tenuto a prestare l’ossequio del suo intelletto e della sua volontà con un’adesione più cognitiva che esistenziale. La storia era solo luogo di tale disvelamento delle verità.

L’impostazione essenzialistica e meta‑storica è stata superata dal Vaticano II, che ha accettato come base antropologica la complessità umana e la sua situatività esistenziale. L’uomo non è stato solo visto come problema che attende e riceve una risposta dalla rivelazione, ma è stato considerato nei suoi drammi e nelle sue speranze, nei suoi sogni e nelle sue lacrime. La domanda del Concilio non suona più: che cosa costituisce la natura dell’uomo e come questa natura viene salvata dalla duplice natura umano‑divina di Cristo? Ma piuttosto: come Dio salva quest’uomo, che vive in questo momento storico e soffre per questi disagi e nonostante ciò coltiva queste aspirazioni? La teologia dei «segni dei tempi» sembra condividere l’importanza che la riflessione umana recente ha riservato alla storicità e di riverso alla «temporalità» dell’essere umano situato e concreto. Infatti  per il Vaticano II questi segni «dei tempi» sono da leggere non solo alla luce del Vangelo, ma anche alla luce dell’esperienza umana[4]. Leggere questi segni è un dovere per tutta la comunità cristiana, per laici e presbiteri insieme[5], perché l’intero popolo di Dio «cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza di Dio o del disegno di Dio»[6].

La storia è stata ampiamente recuperata nella teologia della rivelazione conciliare, che passando dal modello proposizionale a quello comunicativo, ha ravvisato nell’agire di Dio per l’uomo e nel mondo una vera e propria storicità dello stesso atto dello svelamento di Dio. La storia non è stata più considerata una sorta di proscenio dove Dio fa pervenire i suoi «decreti» che l’uomo deve accogliere e assolvere, ma veicolo e strumento della stessa rivelazione. La riscoperta del valore salvifico globale apportato dall’agire di Dio ha ridimensionato il valore intellettivo‑conoscitivo dell’impostazione precedente e ha sollevato la domanda se la storicità non sia da ipotizzare come dato costitutivo della stessa essenza umana, sicché senza storicità non è pensabile nemmeno la stessa essenza umana.

4 Storia e salvezza

Un quesito ulteriore riguarda l’effettivo valore salvifico della storia normalmente intesa, al punto che ci si chiede in che rapporto stiano la storia con la salvezza. Guardando alle società più semplici sembra infatti che quando i rapporti umani sono armoniosi e non ci sono sconvolgimenti, la storia non solo assecondi, ma salvaguardi l’essenza umana. I membri della società che vive serenamente i momenti storici della propria vita associata si sentono al sicuro. La storia è salvatrice per se stessa e garantisce l’essenza[7]. Ciò vale, in generale, anche per le altre società più complesse, nelle quali il bisogno di ricercare la salvezza nell’essenza, più che nella storia, è di particolare importanza nei momenti di crisi, di guerra e di sconvolgimenti rapidi e incontrollabili. Al contrario, la salvezza è invece  vista più sulla linea della storia, nei momenti di tranquillità e di espansione.  Per la teologia l’osservazione non sembra però del tutto convincente. Durante le epoche di persecuzione e di insicurezza, mentre ci si aspetterebbe una fuga nella salvezza dell’essenza e secondo un modulo metafisico, la percezione della dimensione storico‑salvifica è paradossalmente molto più forte che in epoche storiche impostate secondo concezioni teocratiche o di «religione di stato». Sicché il medioevo vedeva la nascita e il consolidamento della concezione metafisicamente più vigorosa della storia della Chiesa, mentre l’epoca pre‑costantiniana era ancora tutta pervasa di un senso storico‑escatologico. L’essere stranieri in casa propria ed essere a casa propria in terra straniera è per i primi cristiani una sintesi che fa cogliere l’eccedenza escatologica in ogni situazione intra‑mondana e infra‑storica[8]. Per i primi cristiani la vita è accanto alla storia mondana, ma non in essa. Si sentono in pellegrinaggio, in stato di paroikìa[9].

Quanto a Lutero e alla Riforma, c’è un atteggiamento decisamente negativo nei confronti tanto della storia umana che della metafisica, mentre la dimensione salvifica è tutta sulla linea della redenzione operata da Cristo, che non è un novello Adamo, ma l’Adamo, e quindi l’uomo radicalmente nuovo. La conseguenza teologica suona che se la storia mondana (adamitica) è storia di dannazione, solo la storia assunta da Cristo  è storia di salvezza. Il superamento dell’opposizione ontologia‑storia è quindi ottenuto assumendo la storia umana per trascenderla nella storia della redenzione e della croce. La storia mondana in quanto tale è comunque storia di peccato e pertanto di perdizione, la salvezza non tanto della storia in sé ma dei soggetti che in essa operano  è frutto della giustificazione e della grazia di Dio.

Il problema della ricomposizione tra dimensione ontologica e dimensione storica si ripropone anche in epoca più recente prima nel mondo teologico protestante e poi in quello cattolico. Sulla più recente opposizione tra «storia della salvezza» e concezione metafisica, che nel mondo protestante è stata decisamente tracciata da K. Barth ed E. Brunner, sono intervenuti i teologi cattolici Gottlieb Söhngen e Jean Daniélou. Cogliendo la verità non sul versante prettamente metafisico, ma su quello del fatto storico della redenzione e degli eventi salvifici realmente accaduti nella storia[10],  concorda  anche quel vasto indirizzo teologico, che già prima del Vaticano II, aveva spostato l’asse della riflessione dalla metafisica alla historia salutis e la cui sedimentazione può essere considerata la monumentale collana teologica, con le più prestigiose firme del momento, che porta appunto tale nome[11]. Per i teologi di questa corrente la soluzione alla summenzionata opposizione è tutta nel fatto che l’essenza stessa dell’uomo è storica e non c’è realtà umana senza storicità[12]. Una sì netta affermazione viene giustificata ulteriormente con la  definizione formale del concetto di storia della salvezza e con la recezione di quanto la filosofia e la teologia avevano, ciascuna per il loro verso, potuto  cogliere della natura dell’essere umano[13].

E’ pur vero che la sintesi, colta sul versante dell’analisi esistenzialista, non è sempre univoca. La storicità è per Bultmann diversa  che  per  Söhngen o per Rahner. In questi due e nella maggior parte degli altri teologi non solo cattolici, ma anche evangelici, la storia è veramente storia e i fatti accaduti sono da prendere nella loro valenza di accadimenti con effetti su quel tempo e sul nostro tempo, in quanto ad esso teologicamente si allacciano, riproponendone l’attualità salvifica. Per Bultmann, invece, ciò che è veramente successo quella volta non è determinante, né teologicamente rilevante: la perennità della Parola di Dio e l’attualità di un appello sempre  presente carica ogni tempo di valore salvifico e rende la ricerca storica puro fatto cronachistico se non inventariazione archivistica. La sua opposizione sarebbe da cogliere non più nel binomio storia‑essenza, ma in quello che contrappone storia‑cronaca (Historie) alla storicità—escatologica (Geschichte). Paradossalmente la sua visione sposta tanto i limiti del realmente accaduto da sconfinare, con il suo appello  esistenziale salvifico, in  una realtà che se non è chiamata di essenza è certamente metastorica.   

5. La sintesi di K. Rahner.

Un particolare riferimento merita allora la sintesi proposta da K. Rahner, il quale coglie quella che si può chiamare la «pretesa universale» dell’esperienza e della storia nell’apertura che ogni essere umano ha verso la trascendenza. Essendo un essere fondamentalmente aperto, in forza delle sue origini creaturali e in vista della sua vocazione alla figliolanza divina, l’uomo può congiungere in sé singolarità ed universalità ed anche precarietà dell’esistere  e destinazione gloriosa della chiamata di Dio. Con queste premesse il teologo può vedere incarnata nella singolarità e nella mutevolezza storica la presenza dell’essenziale, che assume di volta in volta le più svariate forme culturali, ideali, etiche o cultuali, ciò che egli  chiama «categorialità».

Il tentativo di Rahner tocca i diversi livelli di quest’innesto che riguarda la possibilità di incontrare Dio, l’Assoluto, nella contingenza del nostro mondo. L’«incontrabilità»[14] di Dio in questo mondo è un dato cui si perviene ragionando per convergenza e non per semplice deduzione logica. L’argomentare di Rahner è non di rado un lasciar confluire in ulteriore sintesi i presupposti razionali della rivelazione (ciò che tradizionalmente erano i segni di «credibilità») e i dati effettivi della rivelazione medesima. Lo si nota a proposito della nozione di natura e soprannatura e  anche  ora qui a proposito dell’incontrabilità dell’Assoluto proprio in questo nostro mondo storico e contingente, sicché  Dio, Assoluto e Irraggiungibile, si rende accessibile. Non dalla deducibilità filosofica dal basso, ma piuttosto dalla convergenza tra ciò che la ragione umana avverte e ciò che la stessa fede cristiana da essa esige si può arrivare a scrivere: «Come Dio possa essere veramente Dio, e non semplicemente un momento del mondo e come noi, nonostante ciò, lo dobbiamo pensare proprio nel nostro rapporto religioso al mondo e non come uno che stia al di fuori del mondo, costituisce un problema di fondo per l’odierna comprensione del cristianesimo»[15].

E’ il problema di tenere insieme trascendenza e immanenza, ma non nei significati tradizionali di tali termini, perché se i termini fossero solo quelli della controversistica, Dio sarebbe ovviamente trascendente e basta e l’immanenza un concetto erroneo ed inutilizzabile per il cristianesimo. Piuttosto egli cerca solo di coniugare insieme ciò che chiama, con espressioni difficilmente traducibili in italiano, la transzendentale Entzogenheit (press’a poco: «sfuggevolezza trascendentale») di Dio e la sua kategoriale Vorfindlichkeit (traducibile con «trovabilità categoriale»). L’inafferrabilità del Trascendente diventa  non un ostacolo alla  «presagibilità» della trascendenza in noi, anzi è condizione perché questa, pur avvertita dall’essere umano attraverso l’esperienza, rimanga veramente tale, cioè trascendenza. Ma proprio tale sfuggevolezza, tale continuo ritrarsi del mistero che a nessun di noi è mai dato di carpire, è avvertibile ed è avvertito in forza delle nostre stesse origini.

Infatti dell’assolutamente Trascendente conserviamo  pur sempre le tracce, essendo stati impastati  da Lui, ed esse reclamano una terra, quella dalla quale partimmo, così com’è dell’emigrante, che della sua patria d’origine avverte l’appello amaro e dolcissimo. Il dono grandioso e inatteso della rivelazione è per noi la risposta della Trascendenza a questa costitutiva chiamata che ci sale dal profondo. Si badi bene: una risposta immeritata e non condizionata da noi, gratuita e perdonante perché la trascendenza non può non restare trascendente. Nonostante ciò, se il Trascendente non si fosse accostato a noi per dare lembi di cielo alla nostra nostalgia dell’immenso, noi ‑ come scriveva K. Rahner alcuni decenni prima ‑ avremmo ancora avvertito la Sua presenza dal suo stesso silenzio[16]. In quest’ottica si può intendere anche ciò che Rahner chiamava precedentemente percezione previa, cioè «la capacità che ha per sua natura lo spirito umano di protendersi dinamicamente verso l’illimitata vastità di tutti gli oggetti possibili»[17], una capacità percettiva che ha come termine Dio stesso, ma «non nel senso che giunga a Dio con tanta immediatezza da rappresentare con immediata oggettività l’essenza propria dell’Essere assoluto e da rendere il suo Io un dato immediato. La percezione previa si porta sull’essere assoluto di Dio in quanto si afferma l’esse absolutum sempre e fondamentalmente insieme con la vastità per sé infinita della percezione previa»[18].

E’ proprio quest’apertura la capacità, certamente conferita all’uomo da Dio, di superare l’iniziale e irriducibile opposizione tra  «trascendentale sfuggevolezza» e «categoriale trovabilità» di Dio. Anzi, senza di essa non esisterebbe nemmeno la sua «trovabilità», ma solo il disagio esistenziale del suo silenzio. Di fatto, però, Dio si è rivelato e ciò rende feconda sia la sua trovabilità quanto la sua pur sempre permanente sfuggevolezza. Rivelandosi nella storia e attraverso la storia come l’Ineffabile che ci parla di Sé, Dio carica di contenuti effettivi gli appelli esistenziali costitutivi di ogni uomo.

6 Le obiezioni di J. Ratzinger

Ma, arrivati a questo punto, si affacciano alcune obiezioni, soprattutto allorquando la visione di K. Rahner viene considerata come sintesi tra la storia esplicitamente salvifica, quella ebraico‑cristiana (che egli chiamerebbe tematica) e la storia di singoli uomini e singoli popoli. Pur apprezzando la grandiosità della sua intuizione, il Cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca in cui era ancora Arcivescovo di Monaco, avanzava delle perplessità sul fatto che la storicità fosse ritenuta essenziale per la natura umana e soprattutto sulla proposta rahneriana  di poter cogliere nella particolarità e singolarità di qualsiasi vicenda umana (per il solo fatto di essere umana e quindi costitutivamente orientata alla trascendenza) la presenza della medesima salvezza della rivelazione storica[19]. J. Ratzinger scorgeva in quella proposta il pericolo di vedere dedurre la figura del Salvatore, in quanto uomo‑Dio dalla stessa natura trascendentale dell’uomo. Egli faceva esplicito riferimento a quest’affermazione di K. Rahner: «perciò, a partire dall’essenza dell’uomo, si può dedurre l’uomo‑Dio come il vero salvatore dell’uomo: che Dio si sia fatto uomo è il caso più alto dell’attuarsi essenziale della realtà umana, è l’autotrascendenza riuscita e perfetta»[20]. E tirava la conclusione che la trascendenza della salvezza  e della stessa figura del Salvatore veniva ad essere messa in pericolo.

Il pensiero di K. Rahner, così riassunto, certamente non è travisato nei sui termini e nella sua impostazione generale. Sembra però che capiti qui qualcosa che  sposta il piano del suo argomentare. Egli ragiona infatti per sintesi che abbracciano considerazioni di tipo storico‑teologico e analisi filosofica. E’ il metodo che abbiamo chiamato della convergenza, che non è meramente deduttivo ma non riesce nemmeno a tenere separati i due tradizionali campi: la filosofia da un lato e la teologia dall’altro[21]. Chi però leggesse i suoi scritti avendo in mente il piano della pura e semplice deduzione logica è portato a ritenere che egli passi facilmente da questa a quella ontologica. Chi sposta su questo versante l’asse portante del pensiero rahneriano si allarma ‑ a buon ragione ‑ perché la sequenza logica appare inequivocabilmente la seguente: 1) esiste l’essere umano costituzionalmente aperto alla trascendenza; 2) l’essere umano presagisce la trascendenza nella sua capacità di autotrascendimento; 3) quando tale autotrascendimento giunge al sommo grado, si verifica l’incarnazione del Verbo.

Da una scaletta così congegnata si ricava una deducibilità dell’incarnazione dalla stessa natura umana. Il che vanifica la libertà di Dio ed estenua il valore della Grazia. Eppure si tratta di passaggi che non sono da porre in questa sequenza. Leggendo infatti nell’ottica dell’argomentare per convergenza, i passaggi sarebbero più propriamente da ipotizzare secondo questo schema: 1) esiste un essere umano che per sua natura creaturale è già aperto alla trascendenza; 2) egli la presagisce e sperimenta il suo costitutivo orientamento versa il Trascendente; 3) Dio stesso viene incontro all’uomo e rivela l’origine e la destinazione di questo suo orientamento trascendentale; 4) Dio decide liberamente e sovranamente di diventare uomo; 5) la sua assunzione dell’umano è assunzione, in Cristo, di tutto ciò che ne struttura la costituzione esistenziale‑trascendentale; 6) in lui, vero uomo aperto alla trascendenza, la stessa trascendenza tocca il massimo vertice cui mai si potesse pervenire: egli infatti è non solo uomo come autotrascendenza, ma il Trascendente medesimo.

7 Afferrabilità dell’essenza a partire dalla storia?

Se questa ricostruzione è giusta, non sembrerà nemmeno paradossale che la posizione di  Rahner che sembrerebbe alla fine così distante da quella di Ratzinger, per la sua insistenza sulla convergenza tra l’umano aperto alla trascendenza e la cristiana accoglienza della rivelazione compiuta in Cristo, non sia poi tanto lontana dalla sua soluzione. Anche quest’ultima infatti s’incentra sul «superamento di sé» come conversione e cambiamento di rotta, come ex‑stasi[22] e riconosce il grande valore dell’autotrascendenza come un continuo andare oltre se stessi. Punto di convergenza potrebbe essere proprio quella libertà che supera anche in Rahner un’estensione idealistica di autorealizzazione dal basso, giacché la realizzazione non può avvenire senza la Grazia. Anche in questo caso infatti la libertà umana non genera la Grazia, ma è solo da questa generata e portata al suo compimento. Il ragionamento è da considerare su un piano sincronico e non diacronico e allora si comprenderà come: se è vero che «la libertà è in rapporto in ogni caso con l’amore e l’amore con la redenzione»[23] è vero anche che l’uomo viene dall’amore di Dio e non può non tendervi. Al contrario, solo l’incontro con esso  costituisce l’essere strappati a se stessi. E del resto non si può non essere d’accordo che tale realizzazione piena avvenga nella persona di Cristo, «perché l’umanità raggiunga il suo avvenire che non è capace di realizzare da sola»[24], sicché in lui avviene il passaggio, il passah da quel sé autocentrato e autoreferente all’amore radicale dell’agàpe eis telos, (dell’amore fino alla fine). Ciò ci fa comprendere come l’andare fuori di sé sia un reale venire di Cristo verso i suoi («Io me ne vado e vengo verso di voi»:  Gv 14,28) e in questo  suo darsi senza riserve per i fratelli è la nostra salvezza, quella di ogni essere umano che ne ripercorre il cammino. Infatti, se questa è la navigazione dell’uomo, essa non può avvenire senza la stella polare che è Cristo. In lui e  nel suo darsi in totalità si svela il pieno senso del continuo trascendersi. Il viaggio verso la trascendenza è il continuo orientarsi al Cristo uomo‑Dio, il Contingente e il Trascendente, polo ultimo da cui parte e a cui approda l’autotrascendendimento umano.



    [1]Cfr. a questo proposito quanto scrive A. RIZZI, L'Europa e l'altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 51ss. La postmodernità, secondo il «pensiero debole», sarà sempre più caratterizzata da tale frammentazione che non può nemmeno più aspirare a forme compiute e a progettualità complessive. Al massimo, dovrà imparare a gestire un'etica dei beni, dei quali dispone, rinunciando a quell'etica degli imperativi morali che hanno mostrato tutto il loro disincanto. Cfr. anche G. VATTIMO, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985.

 

    [2]P.P. OTTONELLO Struttura e forme del nichilismo europeo, 1. Saggi introduttivi, Japadre, l'Aquila/Roma 1987.

 

    [3]J. RATZINGER, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, Morcelliana, Brescia 1986 (ed. tedesca 1982). I saggi che affrontano il problema sono Salvezza e storia: pp. 87‑120 e Storia della salvezza. Metafisica ed Escatologia: pp. 121‑143.

 

    [4]Confronta Gaudium et spes n. 4 (EV 1, 1324) con n. 46 (EV 1, 1466).

 

    [5]Ibid., n. 9 (EV 1, 1272).

 

    [6]Ibid., n. 11 EV 1, 1352.

 

    [7]Cfr. J. RATZINGER, Elementi di teologia fondamentale ... op. cit. 97ss. L'autore si appoggia agli studi di fenomenologia religiosa. In particolar modo a G. VAN DER LEEUW, La fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975 (ed. originale 1956).

 

    [8]Cfr. Lettera a Diogneto, la cui spiritualità riaffiora come esigenza intramontabile della chiesa: COMMISSIO THEOLOGICA INTERNATIONALIS, Themata selecta de ecclesiologia occasione XX anniversari conclusionis concilii oecumenici Vaticani II, 7.10.1985, EV 9, 1696.

 

    [9]Il termine paroikìa si trova nella prima lettera di Pietro (1Pt 1,17) ed indica una vita «fuori casa», il pellegrinaggio. Non indica dunque un territorio, ma piuttosto una comunità dispersa, «in diaspora», che vive oltre la propria abitazione, non avendo quindi una stabile dimora.  Paroikìa, per quanto strano possa sembrare, è non avere una casa, ma esserne sempre fuori. I cristiani che vivono da forestieri (pàroikoi) nel mondo (1 Pt 11), non sono tali nella famiglia di Dio, essendo suoi familiari (Ef 2,19). Nell'intestazione della I Lettera ai Corinzi di Clemente Romano si dice della chiesa di Dio che  abita da forestiera (paroikoûsa), sia che dimori a Roma che a Corinto. I «fratelli» o i «servi di Cristo» sono pellegrini (paroikoûntes) tanto a Vienna che a Lione in Eusebio (Storia ecclesiastica, V, 1,3). E' un'idea fondamentale anche in Origene (Contro Celso, VIII, 73‑75) e in Ippolito (Commento a Daniele, III,23,47). Cfr. di E. BUTTURINI, La croce e lo scettro. Dalla nonviolenza evangelica alla chiesa costantiniana, ECP, S. Domenico di Fiesole 1990, 37ss.

 

    [10]Sulla vita e il pensiero in generale degli autori menzionati cfr. le rispettive voci in W. HÄRLE / H. WAGNER, Theologenlexikon. Von den Kirchenvätern bis zur Gegenwart, Verlag C. H. Beck, München 1987. I riferimenti alle opere dei teologici sono invece reperibili in J. RATZINGER, Elementi di teologia fondamentale ... op. cit., 122ss.

 

    [11]Il titolo originale dell'opera comparsa in Germania già nel 1965, per le edizioni Benziger suona Misterium salutis. Grundriß heilsgeschichtlicher Dogmatik (Fondazione di una dogmatica storico‑salvifica).

 

    [12]La questione è risolta fin dagli inizi con chiarezza, quando  si afferma: «La questione della storicità e della storicità salvifica, è il presupposto perché l'uomo si possa concepire come l'essere della storicità salvifica, e concepire la storia salvifica come realizzazione della sua "essenza". L'uomo è essenzialmente un essere storico» (AA. VV., Misterium Salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza 1, Queriniana, Brescia 1974 (4.a) 55.

 

    [13]I nomi citati dai redattori dell'introduzione alla collana Mysterium Salutis sono molti e vanno da Hegel ad Heidegger, a Jaspers a  Ott, da Rahner a Von Balthasar a Gogarten e Bultmann: cfr. l'ampia nota 5, pag. 55.

 

    [14]Il termine è nell'originale Antreffbarkeit ed indica qualcosa di diverso dalla riscontrabilità, come invece è tradotto in italiano. Riscontrabilità infatti allude a qualcosa di sperimentabile, incontrabilità invece a ciò che è esperienziale. Ora Rahner vuole proprio evitare la facile apologetica del miracolo come sperimentabilità del divino per recuperare tutto il valore dell'esperienza come autotrascendimento e capacità di situarsi nei pressi di quell'orizzonte di tutti gli orizzonti che è la Trascendenza stessa. Cfr. K. RAHNER, Grundkurs des Glaubens. Einführung in den Begriff sed Christentums, Herder, Freiburg/Basel/Wien 1982 (l'originale è del 1976). Per la parte qui in questione cfr. pp. 88ss. La traduzione italiana: Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto del cristianesimo, Paoline, Roma 1984 (2), 116ss.

 

    [15]K. RAHNER, Grundkurs des Glaubens. Einführung in den Begriff sed Christentums, op. cit., 94. Traduzione ed evidenziazioni sono mie.

 

    [16]Cfr. K. RAHNER, Uditori della parola, Borla, Roma 1977 (2.a), 11.

 

    [17]Ibid., 90.

 

    [18]Ibid., 95.

 

    [19]J. RATZINGER, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, Morcelliana, Brescia 1986 (ed. tedesca 1982). I saggi che affrontano direttamente il problema sul rapporto storia ed essenza sono Salvezza e storia: pp. 87‑120 e Storia della salvezza. Metafisica ed Escatologia: pp. 121‑143. Le pagine su Rahner dalla 108 alla 143.

 

    [20]Ibid., 112, che cita il Grundkurs des Glaubens, op. cit.,

 

    [21]L'osservazione non è mia, ma di quanti hanno affrontato con sistematicità il complesso e grandioso sistema di Rahner. Pur distinguendo i due ambiti, in linea teorica (cfr. ad esempio, K. RAHNER, Uditori della parola, op. cit., 49ss) l'autore per il resto travalica continuamente i rispettivi limiti, anche per la sua stessa concezione unitaria dell'uomo. Ciò fa dire a H. Fries che se ciò non reca danni al valore di quanto egli asserisce,  compromette però la purezza del metodo di indagine: cfr. H. FRIES, Die katholische Religionsphilosophie der Gegenwart. Der Einfluß Max Schelers auf ihre Formen und Gestalten. Eine problemgeschichtliche Studie, Kerle, Heidelberg 1949, 257ss. Dello stesso parere è A. Marranzini, che ha curato l'edizione italiana di Uditori della parola, op. cit., 20.

 

    [22]J. RATZINGER, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, op. cit., 116: «Bisogna quindi cercare una correzione, una formula migliore. Io direi, innanzi tutto, che la direzione da prendere dovrebbe essere quella di una spiritualità della conversione, dell'ex‑stasi, del superamento di sé, concetto in verità fondamentale anche per Rahner che però perde alla fine  nella sua sintesi in larga misura il suo senso concreto».

 

    [23]Ibid., 119.

 

    [24]Ibid., 140.