Giovanni Mazzillo <info autore> | home page: www.puntopace.net
SOMMARIO dell’articolo
(pubblicato nel secondo numero di Vivarium del 2000)
L'articolo parte da
alcuni interrogativi di fondo riguardanti una possibile punto d'intesa iniziale
sul bisogno di salvezza che sale dall'uomo e dalla su vicenda storica. Lo
ricerca nel significato più profondo della religione come anelito umano e come
offerta di salvezza che lo trascende e tuttavia è in corrispondenza con esso.
Vengono così presentati i tratti
fenomenologici fondamentali emergenti da alcune tipologie religiose di base,
che si incontrano e si distinguono sul terreno della salvezza, ma viene offerta
anche una lettura polisemantica della salvezza medesima, che appare alla fine
strettamente imparentata con il sacro. Si sottolinea così non solo il valore di
riferimento che ogni religione ha per l'integrità dell'uomo, ma anche qualche
pista di comune ricerca per un presente più vivibile
che consenta una realizzazione umana senza discriminazioni e in armonia con la
natura.
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G. MAZZILLO
Redenzione nella
società multireligiosa e multirazziale
La
riflessione che qui proponiamo presuppone la risposta ad un interrogativo di
fondo che si può così formulare: esiste nella nuova fase della storia della
chiesa, almeno per come essa è vissuta da noi cattolici (anno giubilare, inizio
di un nuovo secolo e addirittura di un nuovo millennio) la possibilità di
impostare in modo nuovo i rapporti con quanti pur non credendo nello stesso
Cristo, condividono una fede in una qualche redenzione dell’’uomo, che ci
accomuna? Questa domanda richiede l’’individuazione
di quel nucleo comune relativo alla redenzione, genericamente identificato
almeno come attesa di salvezza. Porta con sé molte altre domande, che
comportano anche l'’esplorazione delle prospettive inedite che
certamente non nascono dal nulla, né tanto meno dalla retorica del nuovo
millennio. Esse dovrebbero essere già emerse in questi ultimi decenni, sebbene
ancora allo stato embrionale e magmatico e tuttavia aspettano di essere
teologicamente sistematizzate ed ecclesialmente recepite. L'’argomento ha
così due oscillazioni fondamentali: l’’identificazione
del nucleo salvifico che può accomunare le religioni e la rilevazione di quanto
sta emergendo nel dialogo interreligioso in questo trapasso epocale, al fine di
tentare una sua valutazione critica, nel tentativo di sottolineare le
prospettive che sembra vadano dischiudendosi. In un campo che, come tutti
intuiscono è non solo vastissimo, ma estremamente complesso, limiteremo l'’argomento a
queste due traiettorie principali: le attuali attese della salvezza e le
risposte che ad esse danno le stesse religioni. Questa scelta non significa l'’abbandono della
tematica religiosa o più genericamente teologica, ma ha solo l'’intento di
declinare la problematica qui aperta in maniera più concreta e maggiormente
storicizzata. Procederemo pertanto a una rapida, e pertanto non esaustiva,
identificazione delle attese che ci sembrano emergere dalla cosiddetta nuova domanda religiosa, per discutere del
loro significato sul piano di una concezione almeno implicitamente
antropologica che sia fecondamente aperta alla teologia. Ciò implica un
passaggio previo, che riteniamo indispensabile, e che possiamo riassumere sotto
la locuzione di un'’indispensabile svolta antropologica che
prima o dopo tutte le religioni sono chiamate se non a compiere almeno ad
affrontare. Siamo pertanto del parere che la risposta a tale sfida epocale
costituisce un affettivo avanzamento e fa segnare il passo nel dialogo che ci
sta a cuore. Non si può sfuggire
infatti all’’interrogativo sulla qualità della domanda religiosa, emergente dalle tante
forme di volta in volta assunte dall’’esperienza
religiosa in quanto tale: da quelle più classiche a quelle più recenti, per
discutere sul loro significato sul piano di un’’antropologia
come concezione dell’’uomo correlata a quella di Dio e dunque in
relazione alla loro visione salvifica generale. In un modo di procedere che
speriamo sia piano e accessibile, nonostante la difficoltà della materia, impostiamo la trattazione secondo questa triplice scansione concettuale: e 1)
Il vecchio e il nuovo di ciò che chiamiamo “religione”; 2) Attese e
offerta di salvezza nelle varie religioni; 3) Conclusioni:
ricerca di un presente vivibile e realizzazione umana nell’incontro con la
Trascendenza.problemi e prospettive.
Già questa prima parte,
che si presenta apparentemente semplice, è in realtà molto più articolata di
quanto non sembri a prima vista. Innanzi tutto è ardua la stessa
identificazione della religione per la sua specificità di fenomeno umano, ma
che sembra trascendere l'’umano. Pur ammettendo che ciò che noi di
lingua latina chiamiamo “religione” (e che altre culture non sentono il bisogno
di indicare in una concettualità simile alla nostra), abbia comunque a che fare
con bisogni fondamentali dell’’essere umano, non meno impervia è l'’identificazione
di questi. Si fa notare da più parti che proprio tali bisogni non sono né
omogeneamente identificabili sul globo terrestre, né nelle varie ed alterne
vicende con le quali il fenomeno religioso si è di volta in volta presentato
nella storia che noi conosciamo. Possiamo ancora alquanto caparbiamente
affermare che c’’è e ci deve essere in ogni caso un bisogno
primario dell’’uomo, dal quale tutti gli altri dipendono e
che esso giustifica l’’origine della religione. Ammesso che sia
così, non possiamo ora sfuggire alla necessità di indicarlo con precisione e di
mostrarne un valore universale che valga sui due pendii dello stesso ambito
ricercato, quello sincronico e quello diacronico. L’’interrogazione
viene così a toccare la storia delle religioni e il fenomeno religioso in
quanto tale. Basta però mettere le mani dentro un paio di ricostruzioni
storiche delle religioni, per notare subito che pur nella individuazione di
alcune variabili comuni, come forme culturalmente rilevanti per la vita dell’’essere umano
sulla terra, le loro interpretazioni differiscono di molto, così come
differiscono i diversi approcci e persino lo stesso metodo di indagine di
quella che dovrebbe essere una disciplina positiva[1].
Non intendiamo qui
riaprire la pur affascinante e vexata
quaestio su cosa sia la religione, che ha tenuto impegnata l’’Associazione
Teologica Italiana per tutto il tempo della preparazione di un suo congresso
dedicato al rapporto tra cristianesimo e religioni[2]. Intendiamo solo partire dal nostro tentativo di
approccio a questa problematica preliminare, proponendo la lettura dell’’esperienza
religiosa come esperienza esistenzialmente rilevante[3], ma che risponde a un fondamentale problema:
quello del senso della vita. Il senso del vivere e del morire, e in definitiva
dell’’esistere, ci sembra possa accomunare le
religioni intorno al suo stadio sorgivo senza del quale non solo non si darebbe
religione, ma non sarebbe possibile nemmeno rinvenire l’’umano. È una
nostra affermazione gratuita, dovuta più ad un’’intuizione e
probabilmente a una particolare inclinazione assunta dal nostro pensare
occidentale? O si tratta di un esito suffragato da una ricerca fenomenologica
di tipo comparativo? Non crediamo che si possa dare a questa domanda sanamente
critica e così inequivocabilmente chiara una risposta altrettanto univoca.
Proprio ciò che si vuole qui sapere è, infatti, più che il bandolo della
matassa lo specifico del religioso. Del resto proprio su questo punto iniziale
e decisivo lo stesso metodo fenomenologico appare nella sua complessità e, per
alcuni, nella sua fragilità. Per noi più che la problematicità del metodo
affiora la ricchezza dell’’uomo, di una ricchezza che mai come nelle
religioni manifesta una sua eccedenza e irriducibilità ad una approccio simile
ad ogni altro avente a che fare con dei semplici oggetti di indagine.
Senza potere, né volere
insistere molto su un punto che meriterebbe una trattazione a sé, dovremo
partire da un assunto, che tuttavia cercheremo di documentare nel resto del
nostro contributo, sebbene con un metodo ciclico e convergente. L’’assunto recita
che l’’indagante sulla religione è talmente
coinvolto più che nella, con la
sua indagine, che in ogni caso l’’esito della
ricerca resta condizionata non tanto dalla sua pre-comprensione (sarebbe il minor
male e potrebbe essere corretta dal cosiddetto “circolo ermeneutico”), ma resta
condizionato dalla sua impostazione religiosa. Non si fraintenda. Intendiamo
qui riferirci non al fatto che chi compie l’’indagine
aderisca o no a un sistema di credenze esplicito e riconosciuto come tale (a
una religione precisa), ma piuttosto al fatto che egli lasci aperta o dia già
per chiusa la porta di verso un senso ulteriore e complessivo a
quello che aborda con le sue forze. È proprio tale apertura o chiusura a un’’eccedenza di
senso che condiziona l’’indagine, come dimostra qualsiasi storia
delle religioni. Preveniamo un’’obiezione e la prendiamo sul serio: ma
esigere da un ricercatore sulla/e religione/i di lasciarsi sempre aperto il suo
campo d’’indagine oltre il suo campo dominabile non è
come chiedere a muratore che misura misuri la profondità di un pozzo di considerato
considerare
quel pozzo senza fondo? Questione seria, ma che evidenzia l’’indispensabile
bisogno di chiarire la qualità specifica tanto della ricerca in oggetto che di
ciò su cui si investiga. Invitiamo a considerare l’’inadeguatezza
dell’’immagine: un pozzo è, per essere tale,
sempre con un fondo. Accostarsi ad esso con uno scandaglio a sonda significa
riconoscerne previamente non la misura ma la misurabilità. Può presupporre una
certa profondità (pre-compensione) che però sarà corretta dopo l’effettiva correggerà
grazie alla sua misurazione. Il fenomeno religioso è di altra
natura[4]. Chi gli si avvicina per indagarlo può avere uno
di questi due atteggiamenti fondamentali: considerarlo come un fenomeno umano
avente un suo fondo comunque raggiungibile oppure ritenerlo un come
fenomeno che,
pur essendo umano,
potrebbe sconfinare oltre l’’umano o almeno verso ciò che non è attingibile
con una strumentazione umana. A ciò si collega ovviamente il condizionamento umano del linguaggio e dei
concetti a proposito di Dio. Si tratta di una realtà
che, lo si deve ammettere però
almeno come ipotesi, né l’uno né gli altri possono corrodere o scardinare[5].
Restando nell’ambito della ricerca come disponibile
all’imponderabile, nNon è detto che questa
sia ancora la posizione ottimale. Anche per il ricercatore che mette già in
conto l’’imponderabile si aprono ulteriori
possibilità. Una di queste è simile a quella suggestivamente descritta da R. M.
Rilke, come il lato oscuro e mai attingibile della luna. Riprendendo la
metafora, M. Heidegger dirà che così è dell’’esistenza: ce
ne sfugge e ce ne sfuggirà sempre una parte[6]. Fuori della metafora, si può dare alla
religione una certa eccedenza di senso come credito anticipato in partenza. È già molto e non
pochi ricercatori trovano questo rispetto dello specifico della religione come eccedenza metodologicamente
corretto. Tra l’altro è la via della fenomenologia, che nel campo
della religione si sofferma spesso a indicare le forme di volta in volta
assunte da
tale eccedenza
(come mana, o
in genere potenza, come totalità o suprema giustizia, come legge
universale
riguardante il corso delle cose e la legge morale, la rta vedica, o più genericamente il sacro)[7]. Per il ricercatore si apre però anche un’altra possibilità. Può
essere non solo non precluso a tale eccedenza, ma anche credente in una particolare
conformazione che tale eccedenza assume (mistero, complessità di senso, o polarità
fondamentale nell’uomo e contemporaneamente al di sopra di lui[8]). In ogni caso ci sembra che l’ipotesi di individuare
nella ricerca di senso – pur nella nostra formulazione occidentale – l’eccedenza del
religioso non ci porta è del
tutto fuori strada. Soprattutto quando quest’identificazione si
collega, come in alcuni, a una domanda e a una risposta di salvezza certamente collegate a un senso più complessivo che
si affaccia per l’uomo. In quest’accezione il senso non tocca
semplicemente il piano intellettivo (anche se questo non è né da escludere, né è escluso[9]), bensì ciò che nella
terminologia è imparentato con direzione e orientamento della vita. L’indicazione esplicita della salvezza
rappresenta un valido correttivo di un’eventuale riduzione intellettualistica. Rappresenta un
recupero sul piano esistenziale e complessivo che tocca tanto l’ambito personale che
quello collettivo del vivere umano. La salvezza, è da intendere concretamente
come salvezza per me e per gli altri. In questo senso è attigua alla redenzione e
richiede in sede di filosofia della religione un confronto sereno e
non preconcetto con le ipotesi di umanesimo e pertanto di liberazione che si sono
affacciate e continuano ad affacciarsi sulla terra[10].
Per ciò che concerne
il nostro tema pPensiamo di poter individuare il
vecchio e il nuovo che caratterizzano il mondo delle religioni proprio nella singolarità
delli
tale forma di ‘esperienza religiosa collegata al valore complessivo della
vita e pertanto al bisogno di salvezza come bisognao di eccedenza di
senso. Riteniamo, avvert endo che
da una sua lettura non sommaria traspaiaappare quel
misto di vino nuovo e di otri vecchi che costituiscono la perenne attualità del
fenomeno religiosao, insieme coned anche
tutta la sua fragilità. Ora,R riprendendo la parabola di Gesù, il
vino nuovo è in lui rappresentato dall’’irruzione del
regno più che dalla sua predicazione, questa però per
essere annuncio di quello ed ha
bisognorichiede di nuove
strutture mentali ed esperienziali. Nel nostro caso, invece, le nuove forme, oggi come ieri attraversate
dal fenomeno religioso, sono gli otri mutevoli di un vino che
invece è lo stesso e che tuttavia non si può adeguatamente valutare se non
assaggiandolo. Con ciò non neghiamo il valore dell’’analisi sul rapporto
tra i “nuovi movimenti” religiosi e le chiese d’’origine
condotta da altri[11],
ci preme soltanto ribadire che in tutte le forme assunte dalle anche
dalle tradizioni religiose tradizionali, oltre che dai “nuovi movimenti
religiosi” emerge un’’esperienza sui generis, che costituisce l’’ultima essenza
di ciò che si indica sotto quel fenomeno da noi chiamato esperienza religiosa.
È nostro intento mostrare come solo a partire da questo comune ed universale
esperire l’’ebbrezza e la novità del religioso si può
ipotizzare un più fecondo dialogo tra le antiche e recenti tradizioni religiose.
Per farci capire
meglio ricorriamo ad un esempio. Prendiamo l’’avvio da un meraviglioso
antico
testo, tratto da il Libro tibetano
dei morti, che descrive il momento in cui l’’uomo passa da
questo all’’altro mondo con le seguenti espressioni:
«L’«L’’energia
svanisce in se stessa come di sera il sole lentamente tramonta e i suoi raggi
vengono assorbiti nel disco luminoso; la luce svanisce nella luce come un
arcobaleno che si dissolve nel cielo; la forma svanisce nella forma come quando
la luce di una lampada posta in un vaso si unisce alla luce esterna quando il
vaso si rompe. La Saggezza svanisce nella Saggezza, cioè, lo Stato originario
si unifica alla condizione dello Stato di Coscienza dell’’individuo, come
la madre con il figlio; il non dualismo svanisce in sé come una goccia d’’acqua che si
unisce al mare; la liberazione dai limiti svanisce in sé, come lo spazio di una
brocca svanisce nello spazio del cielo, quando la brocca si rompe; senza
dualismo, la Saggezza Pura svanisce nella sua essenza e tutte le visioni impure
svaniscono in quello che viene detto “Unico Thig-le”, cioè la pura condizione della contemplazione»[12].
La citazione ci offre un esempio di come la morte, in
quanto esperienza limite dell’’uomo sulla terra, sia avvertita e trasfigurata
dalla religione. Il
più L’angosciante problema dell’esistenza umana
morte perde i suoi connotati tetri e ributtanti e si trasforma a
poco a poco in luce, una luce assorbita dalla pienezza della luce, filo di
sapienza che si perde nella sapienza stessa, strada tra le strade che viene
assorbita nel tutto. Siamo davanti a una visione, più che in presenza di una
concezione. È il dischiudersi di un senso complessivo che, come succede con l’’avanzare di una
luce più intensa di fronte a delle luci più deboli, non annulla ma assorbe le
altre, sicché il limitato e il parziale assumono un senso compiuto in una
visione più generale. Se il senso complessivo delle cose è assorbito in quello
del vivere e del morire, e viceversa, ci sembra che anche in presenza di questo
esempio, pur limitato, ci si debba convenientemente domandare come mai ci
possano essere arrivati uomini vissuti al di fuori dell’’ebraismo-cristianesimo,
che per noi rappresenta la rivelazione storica di Dio all’’umanità. Ci
sono arrivati – si badi - non in una sorta di intuizione teorica, ma in una
maniera esistenzialmente così rilevante, da trasformare interamente la loro
vita, fino a spingere molti di essi a fondare veri e propri conventi, nel Tibet
come altrove, sì da consacrarvi interamente ala vita.
Né deve sfuggire il fatto che ciò è avvenuto e continua tuttora ad d avvienire con la
consapevolezza di una positività dell’’esistenza umana
proprio quando essa sperimenta il suo totale naufragio, quello della morte. L’’evento più
tragico dell’’uomo appare infatti vissuto non tanto con la
resa di fronte ad una fine da accettare comunque, in nome di un’’esistenza
autentica, come direbbe sul nostro versante della filosofia occidentale il primo Martin
Heidegger, ma con l’’intuizione che nella morte si dischiude una
porta, anche se la più scomoda di tutte, che immette nella vita piena, nella
luce totale.
Non ci siamo sottratti alla suggestione di associare
questa lettura al clima spirituale suscitato dal canto di Francesco d’’Assisi, quando questi loda Dio anche per “«sorella morte”». Ma proprio tale
associazione rende più acuto l’’interrogativo sulle origini di ciò che
accomuna tanto intensamente uomini di culture e di mondi totalmente differenti.
Non è che un esempio di ciò che possiamo noi chiamiamore
l’ esperienza religiosa e,
che - a nostro modo di vedere - non deve essere esclusa nemmeno nel buddhismo,
trattato ancora da qualcuno più come una filosofia dottrina teorica che come
una vera religione. La verità è che solo nel nostro modo occidentale di
considerare la realtà si può ancora pensare alla religione separandola dalla
sapienza, o peggio ancora, separandola dalla
riflessione da noi chiamata “filosofica”. Sapienza e filosofia sono invece la stessa
cosa per quel mondo orientale che traccia unisce anche in un ulterioresecondo
organico collegamento tra la riflessione umana
e la
religione. L’’uomo orientale infatti, al pari dei filosofi
presocratici del nostro mondo occidentale, non separa la filosofia dalla
religione, la sapienza della mente dall’’intuizione del
cuore, per il semplice motivo che è nativamente portato a cogliere l’’unitarietà del
uomo sulla terra e la complessità del suo conoscere come unico dinamismo di
autocoscienza.
Ma Qquesto
Il nostro parallelismo iniziale è solo
la manifestazione di un universale modo di porsi dell’’uomo davanti alla
“totalità” della sua vita, che la storia delle religioni conosce fin dai
primordi dell’’umanità. La ricerca di un senso ulteriore,
al di là di ciò che gli occhi vedevano vedono e le orecchie odonoudivano,
sembra accompagnare tutta la vicenda umana sul pianeta terra. È come se oltre
ai cinque sensi l’’essere umano abbia un organo
particolarissimo, non meglio identificato, che fa, per così dire, da cerniera
tra quel mondo e questo mondo, tra ciò che si può esprimere e l’’ineffabile.
Questa capacità di interfacciare, si direbbe oggi, il mondo sensibile con
quello ultra-sensibile è stata chiamata “religione”, anche se tale
denominazione è anch’’essa tutta occidentale, ed infatti come
concetto non compare al di là dell’’area
linguistica latina e neo-latina[13].
E tuttavia anche laddove tale concetto non compare, l’’esperienza
umana si protende ugualmente verso ciò che è altro da sé, come in qualche
graffito preistorico le mani di esseri umani si pretendono verso l’’ignoto. Pur
condividendo la preoccupazione espressa da qualcuno a non voler perpetuare
oltre quella che è stata chiamata “«mondialatinizzazione
della religione”[14], », non si può
negare l’’universalità di questo modo particolarissimo
di comunicazione tra due piani diversi dell’’esperienza
umana che si apreattraversati nell’’esperienza
religiosa. Ciò che, in vari modi, passa sotto il nome di credenza,
o di fede, può ben essere ricondotto alla
fiducia, da un lato, e alla comunicazione con il sacro, dall’’altro[15].
Non bisogna tuttavia dimenticare che proprio una delle filiazioni linguistiche
del sacro – come quella del mondo anglosassone – collega inscindibilmente la
sacralità (das Heilige[16] in tedesco, con il corrispettivo holy in inglese) alla salute o salvezza
(das Heil), termine dal quale essa deriva.
A nostra volta, partiamo dalla condivisione del richiamo a
mantenere sempre in armonia queste due sorgenti della religione, perché un’’esperienza
fiduciale senza il riferimento alla salvezza può arrivare facilmente al
fanatismo e al fondamentalismo, mentre una sacralità senza fede fiduciale può
degenerare nel vago spiritualismo senza Dio. Ribadiamo però che l’’esperienza
avente queste connotazioni è ancora da chiamarsi esperienza religiosa, anche perché la ritroviamo ancora
in altre modalità non direttamente rituali, come ad esempio in
quanti l’’avvertono e la esprimono su un piano poetico
o riflessivo. Costoro dimostrano la validità dell’’approccio del
secondo Heidegger, il quale non solo parlava della via poetica come accesso
reale al divino, ma attestava letteralmente che la salvezza poteva ormai venire
solo da un Dio così come alla verità dell’’Essere si poteva pervenire solo
superando il pensare sull’’esserci
con un “altro pensiero”[17].
Tendendo conto di questi argomenti, possiamo anche
farci una ragione del perché la religione, lungi dall’’essere estinta
sulla terra, è sia ancora ben presente. Rifiorisce anzi
sotto innumerevoli forme e si coniuga con moduli e schemi di vita che sono solo tuttavia da
valutare singolarmente. In ogni caso, cercando di ridurre comprimere al massimo
l’eurocentrismo della nostra il più possibile una visione
latino-centrica
oltre che eurocentrica della religione, non possiamo evitare di confrontarci
con i nostri contemporanei su ciò che è alla base delle tante forme dell’’esperienza
religiosa e che, alla luce di quanto finora detto, possiamo confermare come un dinamismo che si strutturasi può
ricondurre ad un suo intimo dinamismo che sembra strutturarla intorno
ad un bisogno di salvezza. Appare fondamentalmente , declinato come
bisogno di senso globale
e corrispondente ad un ulteriore bisogno di
sfondamento dell’’orizzonte della pura immanenza, per aprirsi
un varco verso la trascendenza, dando perché dà credito al suo irresistibile
richiamo.
Rispetto
a quest’ultimo punto la
domanda sulla legittimità della religione può essere così riassunta: la religione è una forzatura o uno sfondamento dell’orizzonte dell’immanenza?
La questione coglie due sensi
diversi in termini che a prima vista potrebbero apparire duedei sinonimi. Intendiamo
la forzatura come un’operazione illegittima: non tanto come una sorta di
violenza, nel senso etimologico di operare una vis (una forza) ai danni di qualcuno o qualcosa, ma come tentativo
di compiere qualcosa che è al di sopra delle proprie forze. Forzare l’immanenza di per sé
non ci sembra né lecito né possibile, per la semplice ragione che tutta la
nostra vis resta sempre all’interno del nostro
stesso orizzonte. Sarebbe come voler spingere la propria automobile facendo
forza dal suo interno. La concezione sottostante a questa che può apparire una
pregiudiziale non è, come potrebbe erroneamente apparire, quella di due realtà
giustapposte: l’interno e l’esterno, ma piuttosto di come una stessa realtà, ma
nella quale si è situati in modi completamente diversi. Con ciò vorrei spezzare
una lancia contro le ricorrenti forme dicotomiche che parlano di esteriorità ed
interiorità, di spiritualità e di storicità, di contemplazione e di azione, di salvazione dell’anima e di appagamento del corpo, e in ultima analisi di
sacralità e di profanità, dimenticando l’unità del reale e la necessità di un dell’impatto
complessivo, ed olistico, che proprio
della religione ha nell’essere umano. Secondo il nostro modo di vedere, solo
recuperando l’unità del reale possiamo darci una ragione
plausibile dell’atto che si compie non nell’uomo
astratto, ma in ogni uomo quando questi esplica
la sua intima religositàreligiosità della quale è
permeato. Allora accade il religioso, non perché egli si regga sulle punte dei suoi
piedi e tenda verso l’alto, senza peraltro
riuscire a staccarsi da terra, ma nel momento in cui si mette in ginocchio e
raccoglie, recependolo nelle profondità del
suo essere,
il religioso (ma qualcuno lo chiamerebbe il divino) che è in lui. L’oblio di questa innata
capacità di accoglienza della Trascendenza, l’incapacità a recepirlo
per motivi di ordine estrinseco dovuto ai fattori più diversi, le patologie
sotto le quali tale richiamo insorge (dallo spiritualismo settoriale, al fondamentalismo
integralista) sono i segni evidenti di un’attesa di salvezza, anche quando non fosse più
recepita come tale, e di un urgente bisogno di terapia che risani l’uomo, restituendolo alla sua unità più profonda,
restituendogli la sua anima, oltre che il suo cuore, perché proprio di entrambi
egli può essere rapinato, della sua anima e del suo cuore, come temiamopurtroppo che ormai accade in molti casi.
Vogliamo partire proprio da quest’’ultimo bisogno
di trascendenza, come
bisogno di integrità, di salvezza, della vita, per discuterne in
estrema sintesi la sua legittimità e per indicare, dopo una rapida carrellata sulle forme
nelle quali è declinatao, a partire
da essa e dal bisogno di salvezza come bisogno di senso, alcune
praticabili piste di dialogo con i credenti delle altre religioni..
Il titolo coglie due sensi diversi in termini che a
prima vista potrebbero apparire due sinonimi. Intendiamo la forzatura come
un’operazione illegittima: non tanto come una sorta di violenza, nel senso
etimologico di operare una vis (come
forza) ai danni di qualcuno o qualcosa, ma come
tentativo di compiere qualcosa che è al di sopra delle proprie forze. Forzare
l’immanenza di per sé non ci sembra né lecito né possibile, per la semplice
ragione che tutta la nostra vis
resta sempre all’interno del nostro stesso orizzonte. Sarebbe come voler
spingere la propria automobile facendo forza dal suo interno. La concezione
sottostante a questa che può apparire una pregiudiziale non è, come potrebbe
erroneamente apparire, quella di due realtà giustapposte: l’interno e
l’esterno, ma piuttosto di una stessa realtà, ma nella quale si è situati in
modi completamente diversi. Con ciò vorrei spezzare una lancia contro le
ricorrenti forme dicotomiche che parlano
Partendo dalla
religione cristiana, diremo che Per il cristianesimo la
salvezza è già contenuta nel nome stesso del suo referente principale che è Cristoi
GesùGesù. Gesù indica il , " Dio che salva " ed.
Gesù è infatti la forma salvifica riassuntiva
della intera storia religiosa giudaico-cristiana, almeno di quella che confessa in lui la definitiva e compiuta alleanza di Dio
con l’umanità. "« Per
noi uomini e per la nostra salvezza" discese dal cielo» é non
è solo uno degli articoli
del credo cristiano, ma l'’assunto di fondo della fede che fa
riferimento a Cristo come salvatore. Del resto il Cristo, il
Messia in quanto o, l'’Inviato, è una
figura centrale tanto per il giudaismo che per il cristianesimo[18]. Se nel giudaismo la natura della sua
identificazione storica rimane problematica ed è tuttora discussa, così come è discussa
la figura di Gesù[19], nella teologia cristiana la
dottrina della salvezza assume un nome e riceve accuse connotazioni
ben specifiche, sìi
da parlare di "“redenzione”", quella redenzione
che invece l’ebraismo preferisce collegarenella maggior parte dei
casi riferire al suo soggetto, cioè a all’azione di Dio, chiamato ndolo anche “redentore” (o liberatore)
e “salvatore”, termini
che appaiono come sinonimi, come possono attestare i passi dove
le espressioni ricorrono
entrambe, come, ad esempio questo testo
di Isaia:
«Allora ogni uomo saprà che io sono il
Signore, tuo salvatore, io il tuo redentore e il Forte di Giacobbe» (Is 49,26b)[20].
Lo stesso si può dire dei
passi nei
quali simili
attributi ricorrono
singolarmente, ma sempre in un contesto salvifico, che indica di volta
in volta soccorso, riscatto o liberazione[21].
Rimandando ad
approfondimenti specifici nelle indicazioni infrapaginali, menzioniamo qui l’intensa e sintetica orazione chedove si invoca Dio con le
parole:
«... la tua forza non
sta nel numero, né sugli armati si
regge il tuo regno: tu sei invece il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il
protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 9,11).
Questa o ad altre invocazioni di Dio
come liberatore o salvatore di solito mettono di solito in diretto rapporto
tali titoli con eventi di liberazione storica vera
e propria. Così, ad esempio i testi dove Dio stesso si autopresenta con queste stesse caratteristiche:
«... io sono il
Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore» (Is 43,3);
«Io, io sono il
Signore, fuori di me non v'è
salvatore. Io ho predetto e ho
salvato, mi son fatto sentire e non c'era tra voi
alcun dio straniero. Voi siete miei testimoni - oracolo del Signore - e io sono Dio, sempre il medesimo
dall'eternità» (Is 43,11-13a)[22].
Senza attardarci oltre, la frequenza e
l’intensità delle ricorrenze di Dio come salvatore e redentore non lasciano dubbi sul
valore fondamentale di questa caratteristica di Dio[23]. È una caratteristica che passa dalla prima
alla seconda alleanza, dal Padre al suo Figlio Gesù[24]. Anche l’unto di Dio,
il suo Cristo, è redentore-liberatore. Egli appare anche come È inoltre colui che riscatta, pagandone il prezzo. È così che sul
piano teologico la La dottrina
della redenzione ha
avuto una sua evoluzione e comporta innanzi tutto un'’adeguata
concezione dell'’agire di Dio e del valore dla
visione dell'’uomo[25].
Rispetto al primo rimanda alla sua volontà detenevaredentiva, una volontà benefica e
positiva verso l'’uomo, fino a parlare di amore gratuito e
sussistente. Comporta
Rimanda anche allla
manifestazione di tale intento salvifico , così come rimanda alattraverso le
varie modalità storiche con le quali esso è stato realizzato. Da
l'uomo precedente
cancellato. In Cristo la redenzione è inoltre – come abbiamo
accennato –salvezza
e riscatto. Per ciò che riguarda l'’uomo, la dottrina della
redenzione implica
si tratta di una vera e propria
antropologia, che comprende, a grossi capitoli, la provenienza e la costituzione
umana, il peccato
e la colpa, il senso del suo vivere
e del morire dell’uomo, il valore
dei rapporti con gli altri e con la natura, insomma tutto ciò che si riferisce
alla sua vicenda
umana
nel suo insieme, soprattutto in riferimento alla storia
individuale e a quella collettiva.
Le modalità e i
significati
dell’agire di Dio, incluso
quello di Cristo, si intrecciano con lo sviluppo dell’antropologia teologica che è
innegabile, anche se resta ancorata ad alcuni capisaldi. Essi sono
riconducibili alla gratuità e sovranità di Dio, alla sua volontà salvifica
verso l’uomo,
alla globalità della salvezza in quanto estesa a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, all’accoglienza da
parte di costoro della sua opera non
frapponendo ostacoli, ma assecondandone la chiamata; una chiamata, che può avvenire, anche per vie
misteriose persino nei pagani[26]. Le linee di sviluppo
della redenzione sono quelle che vanno dalla liberazione collettiva (dall’esodo al ritorno
dell’esilio),
allo scampo che Dio accorda ad alcuni (come ad esempio a David, la cui vita è
minacciata da Saul), alla protezione che Dio stende come una cortina intorno ai suoi profeti (si pensi alle vicende
i Geremia), alla liberazione come riscatto dai debiti (la tematica del
giubileo) e come remissione dei peccati e come acquisto operato versando un riscatto (in
modo particolare l’azione di Cristo).
Su quest’ultimo punto si è discusso che senso si dovesse
dare alle espressioni neotestamentarie, a partire da quelle di Paolo, dove ricorre il verbo acquistare con il suoi derivati, al punto di
dire che gli uomini sono stati comprati
a caro prezzo e il prezzo del riscatto è il sangue di Cristo[27]. Sarebbe tempo
di superare definitivamente le esemplificazioni retoriche quanto teologicamente
fuorvianti che
hanno affermato (si sente ancora?) che tale riscatto sarebbe stato pagato al diavolo, padrone di
questo mondo.
Anche senza
arrivare a una profonda revisione del modello antropologico culturale prima
ancora che religioso della salvezza come soddisfazione e passione vicaria –
cosa pur doverosa, oltre che necessaria[28] – basterà qui dire che nei
commenti ai passi paolini citati si fa quasi unanimemente notare che l’apostolo non
si riferisce ad un’operazione di mercato o mercanteggiamento, quanto piuttosto alla
pratica di affrancare gli schiavi. Il sangue poi, ricorrente in essi, come nei brani
paralleli o similari, si riferisce al sangue dell’alleanza, alleanza nuova e definitiva: quella prefigurata
dagli stessi profeti della prima alleanza[29].
L’accento è dunque
spostato, e resta ancora da
spostare in
teologia e soprattutto nella
catechesi, dallo scambio alla gratuità di Dio, dal sacrificio alla e generosità di Cristo, il quale ha
dato se stesso per noi. Un pensiero che si rinviene tanto in Giovanni quanto in Paolo[30]. La conclusione non può
essere che una sola: la redenzione e la salvezza significano la stessa cosa. Tendono alla liberazione degli uomini ll’uomo come piena realizzazione della loro adozione a
figli di Dio e abbracciano l’affrancamento dell’intera creazione[31], essendo questa la
volontà di Dio e del suo Messia: «Cristo ci ha liberati perché
restassimo liberi» (Gal 5,1)[32].
La redenzione in quanto liberazione assume pertanto diversi
spetti. AssumePrende i caratteri di una libertà
dalle strettoie di una legge (inclusa quella giudaica) che soffocavano l’uomo. Include la liberazione
dal peccato e dalle forze del male, tende alla piena manifestazione
dell’adozione a figli che Dio riserva agli uomini, associando a questi
la sorte dell’intera creazione[33]. Il redentore redime la
realtà nella
sua totalità e attraversando tutti i suoi strarti.
Come del
resto attestano
le guarigioni
di Cristo,
narrate dai vangeli, l’uomo è guarito nell’anima e nel corpo, nella sua psiche come
nella sua dignità ferita e nella sua stessa caducità.
Tutto ciò ci porta a
considerare la redenzione come
risanamento e nuova creazione complessiva che abbraccia tutte le dimensioni della vita umana a partire dalla
volontà e dall’azione di Dio. Occorre tuttavia ancora considerarla dalla prospettiva
dell’uomo e dell’uomo contemporaneo in particolare, per
evidenziarne l’attualità e la sua incidenza nell’oggi.Ma comporta
anche un'analisi delle forme
storicamente inventariabili che sono ostili alla Ciò comporta anche
l’individuazione stessa vicenda umana dalle quali l'uomo
deve essere salvato. Se delle forze e delle forme negative da esse assunte
e che tali forme assumono una configurazione tale da
essere risultano al presente oppressive per l'’uomo, allora
si parla di una salvezza che è anche liberazione. .
In
ogni caso il termine redenzione sembra implicare la liberazione. A questo proposito diremo che già la declinazione
della redenzione come Sebbene liberazione indica una situazione di
oppressione e ostacolo al raggiungimento della piena manifestazione dei figli di Dio[34]. Sebbene il temine
provenga da provenga da libertà,
in epoca moderna la liberazione ha assunto un significato complessivo che vede
la libertà come bene fondamentale dell'’uomo e dunque, per ciò che ci
riguarda, ha finito con linguistica l'può indicare la
redenzione come dato baratto teecnoollogico e anche come
fatto storico globale. Del resto le radici di ricche della stessa
redenzione vanno nel senso dirittura liberazione complessiva sia del singolo
che della comunità in quanto popolo di Dio tanto che il Dio redentore è lo
stesso Dio liberatore. Anzi dal punto di vista lessicale non c'è
alcuna differenza. Ciò è comprensibile alla luce della concezione antropologia
della bibbia, nella quale la dimensione sociale e quella storica vanno insieme
così come vanno insieme Abbraccia l’emancipazione da forme oppressive che
passano dal livello dei rapporti tra uomo e donna e quello tra uomo ed uomo e anche a quello vigente
tra popoli e popoli. Lla dimensione religiosa, che abbiamo già visto comprendere
quella etica e quella materiale, non si può scollegare da quella
politica. È
diventato infatti palese che la redenzione comporta anche il ristabilimento dei diritti umani, a tutti i
livelli, così come comporta un diverso e costruttivo rapporto con
la natura.e quella politica della comunità dei redenti.
Non si deve infine
trascurare un ulteriore aspetto della salvezza che è legata a questi:
giudaico-cristiana che è quello della
riconciliazione. Si tratta di un movimento dinamismo spirituale
riconducibile adl
un passaggio
di stato, e che
attraversa anch’esso, i vari piani del vivere sociale e storico. Vache
va infatti da una lontananza ad un
riavvicinamento, da una inimicizia ad una riappacificazione, si sì da vedere la
salvezza come una nuova possibilità di intesa e di un comune cammino tra Dio e
gli uomini.
Con queste nostre ultime considerazioni siamo già
entrati nelle attese di salvezza provenienti dalle altre religioni. Esse
sono condivise, sebbene con accentuazioni e modalità diverse innanzi tutto con le
altre due grandi religioni monoteiste diffuse nel mondo. Con l’ebraismo, per gli ovvi motivi
biblici, coimplicati in quanto
si detto; e
con l’islamismo, per il suo imparentamento con la rivelazione biblica
e per alcuni versi a causa della sua derivazione da essa, anche
se bisogna sempre ricordare che l’Islam ha solo una salvezza come aiuto,
provvidenza e soccorso di Dio. Non ha né una redenzione, né una mediazione.
Alla luce di quanto finora detto, anche se può suonare
provocatorio, si può in primo luogo riassumere come comune
a queste grandi
religioni il bisogno di essere liberate
da integralismi e forme oppressive che paradossalmente possono – e di fatto sono ancora - collegate con la forza esistenzialmente vincolante e storicamente universalistica che è in
esse. A questo proposito, passando attraverso
la purificazione di un antropologia dottrinalmente collegata all’umanizzazione
che comporta la fede monoteista, la prima liberazione è quella di non dovere mai
più ritenere la religione, e nessuna religione, motivo di oppressione, repressione e
oscuramento di ciò che c’è di positivo nell’uomo, nell’arte, nella scienza. Sappiamo tutti
dall’esperienza storica che proprio le religioni possono essere
autoritarie e dispotiche, etnocentriche (eurocentrismo cristiano
incluso) e
reazionarie. Esse possono essere, e talora sono state, anzi in alcune “regioni” del mondo sono tuttora filantropiche ed
umanitarie, portatrici di libertà ed testimoni convinte della dignità di tutti gli uomini, anche dei
più poveri e degli svantaggiati dalla sorte[35].
Una seconda serie di considerazioni riguarda le
minacce incombenti sul mondo e sul suo futuro a causa dell’avanzamento della
povertà, con
tutte le conseguenze in fatto di mortalità dei più fragili, in primo luogo dei bambini; la standardizzazione
di modelli di vita che non
consentono a tutti di tenere lo stesso passo; la globalizzazione come
livellamento che premia i più forti e condanna all’inedia e alla
dimenticanza i più deboli; l’inquinamento ambientale; lo sfruttamento sconsiderato delle risorse della terra, la
compromissione dei delicati equilibri dell’ecosistema a tutti i livelli, da quello vegetale, a quello delle acque, a quello
degli animali, a quello climatico.
Dalle religioni sale non solo la protesta e la
richiesta di intervenire a proposito, ma anche l’urgenza di farlo al
più presto e per il bene di tutti. La volontà salvifica, in quanto creatrice e redentrice di Dio offre motivi più che
validi, fino a indicare come una missione per i credenti l’intervento in
tal senso.
In pari luogo il bisogno di salvezza assume sempre più le
caratteristiche di un bisogno di autenticità e di interiorità a fronte della
già avanzata e, almeno per il nostro bacino occidentale, tuttora imperante cultura dell’effimero,
della spettacolarità e del culto dell’immagine e degli spots pubblicitari. Le religioni possono
contribuire tuttie – senza eccezioni di sorta – nela riproporre
continuamente ai nostri contemporanei i valori di essenzialità, profondità e
spiritualità che sono minacciati e talora derisi da una civiltà sempre meno a favore
dell’uomo perché sempre più al servizio del denaro e dei suoi centri di potere.
In tutto ciò hanno
molto da dire anche quelle religioni nelle quali la salvezza consiste nel
ristabilimento di una profonda unità e rappacificazione oltre che con se
stessi anche con
la Totalità come, ad esempio, Per
la salvezza il buddhismo, e il
taoismo e molte
religioni soprattutto orientali[36]. In genere si può dire che dalle religioni basate prevalentemente su una ricerca di spiritualità a vedi
P. Poupard (diretto da), Grande
dizionario delle religioni, Cittadella - Piemme,
Assisi - Casale Monferrato 1990, 1874.
Affiora così il bisogno di La salvezza
come integrità. Del resto il temineLa
parola salvezza stesso deriva da salvo
è e rimandata al sanscrito sarvas e al persiano
antico harvas, e significa tutto, integro. Sarebbe da ricondurre a questo ceppo anche il
greco ovJlo", derivando dal termine più
antico sovlFo", e avente lo stesso significato
di intero, indiviso, oppure al gotico
sêla (fino ad arrivare al tedesco selig e all’inglese save), con il significato originario di buono, valente, felice[37].
Nel buddhismo e nelle religioni ad esse vicine (induismo e giainismo) la salvezza sembra
contenere entrambi gli aspetti. Pur non passando per la figura di un redentore come nel cristianesimo, la
salvezza è liberazione da ciò che scinde l’’uomo in se
stesso e lo rende infelice. Vi troviamo ancora
Pur non avendo una figura paragonabile al mediatore
cristiano, contiene l’’affascinante
concetto del rifugio, come ricovero e
luogo di gestazione della nuova forma di unità che l’’uomo assume con
la totalità. Tale rifugio è nel Buddha,
l’’Illuminato, in quanto figura esemplare e che
spinge all’’illuminazione. Ma c’è anche un rifugio, nel dharma, in quantola dottrina che
sottrae alla catena del karma, e nel sangha, la comunità dei discepoli alla
ricerca della liberazione. In definitiva lLa
salvezza coincide in quella liberazione che approda al nirvana. Lo stato sul quale non si può che
tacere e dire al più ciò che esso non è, anziché ciò che esso è. Se la salvezza
coincide alla fine con questo stato finale, di fatto essa indica
piuttosto il processo attraverso il quale ci si libera dal dolore (frutto del
desiderio, della ripugnanza e dell’’apatia),
liberandosi dall’’ignoranza che lo perpetua.
Il contesto complessivo delle restanti religioni
in merito
alla salvezza non è semplice da sintetizzare. Se dalle grandi religioni mondiali, alle quali abbiamo
appena accennato, passiamo a quelle cosiddette tribali affiorano consistenti diversità e disparità. In genere si fa notare
che essendo esse più “primitive”, nel senso di primarie, conservano meglio di
altre la testimonianza di una salvezza come soddisfacimento dei bisogni
fondamentali dell’uomo. Il bisogno di mangiare e di vestirsi, di
avere un ricovero e di offrire questi stessi beni primari alla famiglia, il bisogno di una
famiglia e di una posterità, il bisogno di essere scampato dalla morte sempre in
agguato con incidenti e malattie, il bisogno di guarigione, ma anche il bisogno di
conservare un’identità
nella tribù o nel proprio popolo di appartenenza, e, al di là di tutto,
ciò il bisogno di un senso ulteriore della vita [38].
Non possiamo dilungarci
oltre, ma in ogni caso dobbiamo confrontarci, sebbene rapidamente, con la posizione di chi
interpreta la risposta a tali bisogni come nascita pura e semplice della
religione. Con un
argomentare che se fosse coerente dovrebbe concludere: tolto ogni bisogno
umano, la religione cesserebbe di essere. È un ragionamento simile a quello ad esso simmetrico, che ritiene che la religione abbia origine dalla paura.
Tutto ciò rientra in quel riduzionismo della religione su cui abbiamo già
riferito. È
vero, spesso non si ritrova più in questa maniera,
talora ricompare
associato a teorie sociologiche, che pur disdegnando spiegazioni evoluzioniste e
psichiche della religione, fanno tuttavia di questa una serie di rappresentazioni
simboliche della società di appartenenza. È un’opinione che, anche restando nell’indagine
positiva, alcuni rigettano con lucidità[39], altri invece si
attardano ancora a riproporre pur sotto diverse varianti[40]. In ogni caso nessuno
nega che nelle religioni si avverte un bisogno di salvezza, seppure questa
appaia diversamente declinata.
Concludendo
l’esposizione finora fatta, l’attesa di salvezza sembra affiorare come un insieme di
attese, che non sono né slegate, né separabili dai diversi contesti vitali ed esistenziali nei
quali l’uomo si trova a vivere. Sebbene didatticamente le distinguiamo da un più generale senso di attesa collegato al bisogno di integrità, di totalità, di senso complessivo della vita, di immortalità, per adesso riassumiamo le attese
derivanti dalle religioni, in maniera molto grossolana, in queste quattro tipologie fondamentali: attesa di una vita qualitativamente migliore, attesa di rapporti con
gli altri più autentici, attesa di una migliore armonia con la natura, attesa di un futuro più
gratificante del presente.
Sono
esigenze avvertirete, paradossalmente, anche e soprattutto da chi ritiene, che con la
globalizzazione il mondo sia avviato inarrestabilmente al dominio, anzi al
destino della tecnica[41]. Si afferma anche che la stessa sorte
rischiano di subire coloro che, come i leaders
del
cristianesimo tenderanno
di sottrarsene. Per il fatto che essi non accetteranno che la tecnica da mezzo diventi fine, diventeranno inevitabilmente più deboli rispetto alla
potenza avanzante degli altri soggetti, che invece la rafforzeranno e con ciò consolideranno il loro consenso. Senza
consenso anche
la Chiesa – si conclude - (ma abbiamo motivi per
ritenere che le religioni in genere subirebbero tutte una sorte analoga) perderà inevitabilmente
rilevanza[42].
In
questa visione inquietante circa il futuro, che noi recepiamo come monito e pressante invito alla
vigilanza, avvertiamo ancora una sorta di irrinunciabile nostalgia verso la
verità, almeno
la verità
dell’uomo e
anche quella che
sa ancora
distinguere i fini dagli strumenti, perché avverte che la tecnica - e con essa la globalizzazione – non può
essere scambiata da mezzo a fine. Proprio in quest’anelito ravvisiamo un nucleo di
fede e cioè che la ricerca verso un umanesimo non debba mai essere compromessa nel suo
valore di
fondo[43]. Il pericolo incombente di scambiare fine e mezzi, con la consegna della «coscienza intellettuale» oltre che intellettiva
al dominio onnipervasivo della tecnica, individuata soprattutto nella
telematica e nell’informatica, dimostra tutta l’attualità di un
monito che le religioni devono prendere sul serio oltre che approfondire.
In
questa visione complessivamente allarmante si comprende pure lo smarrimento
dell’uomo
contemporaneo, talora preda delle sue paure e delle sue angosce che sarebbero
ancora generate, sostiene qualcuno, non tanto dalle religioni in sé, ma dall’abuso che ne hanno
fatto e ne fanno quanti si sono appropriati del loro potere perché – come diceva Gesù «Legano ... pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli
neppure con un
dito» (Mt
23,4). La religione e in primo
luogo il cristianesimo – si
afferma - devono allora profeticamente recuperare il loro originario valore
di speranza e di
liberazione
per l’uomo.
Si invoca così una doppia liberazione: liberazione dalle forze oppressive e oscure derivanti da una loro mancata eppure doverosa
interpretazione psicologica e una liberazione dai fardelli dei detentori del potere religioso. Affiora qui la via
terapeutica di una religione che ritorna ed essere più fede che religione e – in quanto tale – forza
liberatrice dell’animo umano[44].
Unitamente
al valore terapeutico della Parola che salva e che guarisce, quando si sa distinguere
il dogma dalle immagini oppressive
collegate al
mondo culturale nel quale questo è stato formulato[45], le religioni in genere
possono e devono offrire motivi per vivere ad una società che nei suoi stati più alti ne ha i
mezzi ma non le motivazioni, mentre nelle fascie più povere del mondo si
verifica il contrario. Ciò significa gettare ancora le basi per la riscoperta della condizione
dell’uomo sulla
terra. Diremmo per
una ripartenza della storia verso l’uomo nuovo, parafrasando il famoso, e, ci sembra, ormai superato testo di Fukuyama[46], che invece sembrava voler
registrare la
fine della
storia.
È vero, nei nostri
contemporanei la salvezza sembra riferirsi non tanto al futuro, ma al presente. Se si riferisce al
futuro, insegue sempre un futuro
intramondano,
collocato nell’orizzonte dell’immanenza. In un mondo che è assillato dai
problemi incombenti e che recepisce con difficoltà il richiamo a ciò che supera
l’immediato e il fruibile, la salvezza appare sempre meno interessante in quanto realtà futura
(compresa la dimensione escatologica dell’uomo)[47]. La salvezza affiora come bisogno di innocenza (in forma passiva e attiva: non nuocere e non aver danno dagli altri e
dal mondo).
Talora riprende le componenti religiose della integrità, dell’immersione in una totalità, nel ritrovamento
di se stessi dopo e al di là dell’estraneamento.
In
questo contesto si comprendono anche
gli sforzi di quei teologici che vedono un nuovo punto di partenza per la teologia e per le
religioni in
un’acquisizione
di una responsabilità collettiva per
le sorti dell’uomo e del mondo. Ai principi ispiratori di una «teologia planetaria»[48] che si faccia carico
dell’interdipendenza degli uomini e dei popoli oggi più che mai, si
accompagnano i suggerimenti di chi vede un collegamento ormai inscindibile tra
il dialogo interreligioso e la responsabilità globale versa la terra che resta una
a fronte di molte religioni[49].
Insomma la comune
storia dell’umanità sembra si debba riscrivere come comune storia
delle religioni[50].
A
questo riguardo ci sembra corretto far notare che proporre la fede solo in
maniera “responsoriale”
almeno per la fascia più
intramondana dei
bisogni umani
è ancora troppo riduttivo, non solo perché la salvezza cristiana passa
attraverso il paradosso della croce, ma anche se soprattutto perché la dimensione
trascendente della salvezza deve restare tale e quindi superare persino
l’immaginazione umana e l’attuale avvertenza dei suoi bisogni più immediati e
diretti[51]. La croce è una sfida,
ma è anche uno spostamento continuo verso un livello qualitativamente diverso e sempre più alto di ciò che si
possa raggiungere e desiderare[52]. Nemmeno sembra esaurire
tale complessità ed eccedenza qualitativa la concezione della salvezza come una uova
innocenza o come un intervento dall’altro, quasi un elicottero che reca soccorso
quando umanamente non c’è più nulla da fare. Lo stesso vale per
l’esigenza pur avvertita ed urgente di una nuova qualità etica della vita e
soprattutto del vivere sociale. Anch’essa è un aspetto della salvezza
cristiana, ma non è né l’unico né il tutto della salvezza cristiana.
Resta ancora una parola da
aggiungere su ciò che emerge dalle nuove
proposte di
intendere la salvezza come evento che dilata gli spazi esistenziali, che offre una speranza eccedente il presente, che
in nome della memoria
sovversiva di Cristo, sconvolge lo quo
predisponendosi all’irruzione di Dio nella storia umana, sino a realizzare, sebbene in stato
germinale e non compiuto, le forme iniziali di un regno di giustizia e di amore[53]. Si tratta
di approcci che nella loro complementarità
e con i correttivi, che essi possono attivare reciprocamente, sono per
la Chiesa cattolica riconducibili
all’afflato spirituale e storico
del Vaticano II.
Ne sono uno
sviluppo e un prosieguo. Richiedono una maggiore sistematizzazione e una reazione meno prevenuta
ed emotiva a livello ecclesiale generale. Ma ciò è anche una sfida e un compito
per il millennio che si apre.
Nei nostri contemporanei la salvezza non sembra
riferirsi al futuro , ma al presente. Se si riferisce al
futuro si tratta sempre di un futuro intramondano collocato nell’orizzonte dell’immanenza. In un
mondo che è assillato dai problemi incombenti e che recepisce con difficoltà il
richiamo a ciò che supera l’’immediato
e il fruibile, la salvezza è sempre meno interessante in quanto realtà futura
(compresa la dimensione escatologica dell’’uomo)[54]. Cf. R. Tomasi,
«Il bisogno di salvezza oggi», in Credereoggi 7 (1987/1) 5-37. La
salvezza affiora talora come innocenza (in
forma passiva e attiva: non nuocere e non essere nuociuti). Talora riprende le
componenti religiose della integrità, dell’a immersione
in una totalità, nel ritrovamento di se stessi dopo e al di là dell’’estraneamento.
Mia proposta: la salvezza come ricongiungimento dopo
la separazione. La religione come cammino e la salvezza più che come meta come
incontro che appaga ma nello stesso tempo rimanda. E la croce cristiana
[1] Non
possiamo qui nemmeno menzionare tali disparità, per ragioni di sparziospazio e per non uscire dal
tema. Ci limitiamo solo a rimandare a G. Mazzillo,
«Sulla definibilità della religione», in Rassegna
di teologia 38 (1997/3) 347-362.
[2] Gli
atti dello stesso congresso, tenuto a Troina nel 1997, sono reperibili in Associazione Teologica Italiana, Cristianesimo, religione, e religioni.
Unità e pluralismo dell’’esperienza di Dio alle soglie del terzo
millennio, (a cura di M. Aliotta), San Paolo, Cinisello Balsamo 1999. Qui si
trova anche un bilancio sul dibattito in questione, mentre per una
rivisitazione più puntuale sui diversi metodi e interpretazioni cf. Associazione Teologica Italiana e A., Religione e religioni. Metodologia e
prospettive ermeneutiche, (a cura di G. Lorizio), Edizioni Messaggero, Padova
1998.
[3] Cf. G. Mazzillo, «L’’esperienza
religiosa e le religioni nel loro cammino verso Cristo», in Vivarium 5 ns (1997/2) 159-179 e per un
bilancio complessivo del congresso di Troina, cf. G. Mazzillo., «Alcune prospettive», in Associazione Teologica Italiana, Cristianesimo, religione, religioni,
cit., 259-265.
[4] Su questo punto ci
sembra equilibrata la posizione di chi non solo critica il riduzionismo sempre
ritornante a proposito della religione, ma offre
anche delle linee
di ricostruzione storica, mostrandone gli equivoci di fondo e il loro superamento anche da
parte degli storici delle religioni: cf. G. Magnani, Storia comparata delle religioni. Principi metodologici,
Cittadella, Assisi 1999. Cf. Soprattutto
«Riduttività
e riduzionismo»
, ivi, 195-215.
[5] In questo contesto mi sembra interessante la risposta di M. Buber a C. G. Jung (M. Buber, L’eclissi di Dio, Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Oscar Mondadori, Milano 200010, 128-131), a proposito della natura psichica di ogni nostra idea di Dio. Significa che Dio in quanto tale è prodotto dalla nostra psiche o che, pur non escludendo una sua consistenza al di là del nostro pensare su di lui, ogni nostro concetto e linguaggio su Dio è pur sempre condizionato dalla nostra psiche? Ovviamente solo questa seconda ipotesi è accettabile, la prima escluderebbe per principio una qualche realtà di Dio a prescindere dalla sua pensabilità umana. Ecco le parole di Buber che riportano le sua obiezioni: «Ho rilevato che secondo Jung è un ‘‘dato di fatto’‘ che l'azione divina scaturisce dalla propria interiorità’‘ e che la contrappone alla ‘‘concezione ortodossa’‘, secondo la quale Dio ‘‘esiste per sé’‘; egli dichiara che Dio non esiste staccato dal soggetto umano. La domanda è quindi la seguente: Dio è soltanto un fenomeno psichico, oppure esiste anche indipendentemente dalla psiche dell'uomo? Jung risponde: Dio non esiste per sé» (ivi, 128). L’interpretazione alquanto decisa del pensiero di Jung come escludente ogni realtà “oggettiva” di Dio era stata negata dallo psicologo, che aveva reagito a Buber, ma questi precisa che affermare solo una natura psichica delle operazioni psichiche su Dio è pura tautologia. Piuttosto: «Queste tesi ricevono un significato soltanto per il fatto che con il loro no vanno oltre la sfera delle forze dell'inconscio e oltre la sfera psichica in generale. Naturalmente Jung nega che le sue tesi abbiano questo senso e cita la sua frase, secondo la quale tutte le asserzioni su Dio sono “asserzioni umane, ossia psichiche”» (ivi, 129). Che cosa concludere allora? Buber sintetizza la posizione del credente che non esclude il condizionamento psichico del discorso su Dio con queste parole: «Per chiarezza desidero però accennare qui che la mia fede nella rivelazione - non legata a nessuna «ortodossia» - non significa credere che asserzioni riguardanti Dio giungano già pronte dal cielo alla terra; bensì che la sostanza umana viene fusa dal fuoco spirituale che la invade, e solo allora da essa prorompe la parola, l'asserzione che per il senso e per la forma è umana, comprensione e lingua umana, e pure testimonia del suo suscitatore e della sua volontà» (ivi, 129-130). Su un’interpretazione eccessiva riguardo al pensiero di Jung, perché tendendente a dare valore teologico a ciò che invece dovrebbe avere – sebbene il suo linguaggio non sia sempre inequivocabile – valore psicologico cf., E. Drewermann, Parola che salva, parola che guarisce. La forza liberatrice della fede, Queriniana, Brescia 1990, 295: «La difficoltà nel caso di C. G. Jung consiste nel fatto che egli non è esente da un modo di parlare gnostico a proposito di Dio. Quando i teologi leggono Jung, rischiano di rimanere subito vittime di un fraintendimento: egli parla il linguaggio della religione, e tutti credono allora che egli parli come noi teologi. Qui giova poco ch'egli abbia detto di parlare da empirico, da pragmatico; egli non vuole affatto parlare del Dio dei teologi, ma di una entità psichica, del punto centrale in cui l'energia psichica si coagula. Questo è per lui Dio. Ciò ha provocato una confusione enorme fra i teologi, ma potrebbe essere compreso nel senso giusto, se sapessimo distinguere fra 'empirico' e 'metafisico'».
[6] Il riferimento è alla morte in quanto «la faccia della vita a noi opposta e per noi non illuminata» (Briefe aus Muzot, 332: citato da M. Heidegger, Sentieri Interrotti, La Nuova Italia, Firenze , 279).
[7] Cf. G. van der Leeuw, «La potenza teorizzata», in ID, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975, 12-18.
[8] Su questo punto
specifico cf. la “polarità” di Dio in noi e al di sopra di noi in Erich Przywara.
L’idea era
presente in Gott Geheimnis der Welt,
1923, cui seguiva lo scritto Religionsbegründung.
Cf. H. U. von Balthasar, “Erich
Przywara”, in P. Vanzan - J. Schultz, ((a cura di),) Mysterium
Salutis 12. Lessico dei teologi
del secolo XX, Queriniana, Brescia 1978, 347-354).
[9] Cf. A. Rizzi, Il Sacro e il senso. Lineamenti di Filosofia della ReligineReligione, LDC, Torino 1995.
[10] Tra queste I. Mancini
menzionava nel 1980 la cibernetica, la semeiotica, la psicanalisi, e il
marxismo (I. Mancini,
“Filosofia della religione”, in “Concilium” 16 (1980/6) 127-135
[1061-1069]).
[11] Cf. G. FILORAMO, I nuovi movimenti religiosi. Metamorfosi del sacro, Laterza, Roma-Bari 1986.
[12] Il libro tibetano dei morti, (a cura di Namkhai Norbu), Newton & Compton, Roma 1997, 27.
[13] Cf. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Minuit, Paris 1996.
[14] Lo sostiene con chiarezza J. Derrida nel testo: J. Derrida - G. Vattimo, (a cura di), La religione, Laterza, Bari 1995.
[15] Cf. ivi, 18 e passim.)
[16] Il
riferimento ad Otto è indispensabile: la sua celebre opera Das Heilige (Il sacroSacro) è del
1917.
[17] Cf. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, (a cura di A. Marini), Guanda, Parma 1987, 136.
[18] Sul messia, risalente all’ebraico mašîah ed aramaico mešiha, sui suoi significati
biblico-teologici
e i suoi sviluppi nel cristianesimo cf. le voci corrispondenti
nei vari dizionari biblici, a aprtirepartire dalla buona sintesi
reperibile già in J. Obersteiner «messianismo», in J. B. Bauer (diretto
da), Dizionario di teologia biblica,
Morcelliana Brescia 1969,
820-846. Per i significati inerenti alla pace cf. G. Mazzillo, «Gesù»,
in L.
Lorenzetti (a
cura di) Dizionario di teologia
della pace, Dehoniane, Bologna 1997, 462-464
e le
altre voci compilatie da altridiversi
autori ed ivi
presenti sotto
il lemma «Gesù
Cristo» (ivi,
461-470).
[19] Per una prima sintesi storico-teologica sul significato del Messia nell’ebraismo collegato all’ideale davidico prima e a quello apocalittico dopo e su ciò che nell’ebraismo si pensa di Gesù cf. H. Küng, Ebraismo. Passato presente futuro, Rizzoli 19973, in particolare «Il regno di Davide: ideale paradigmatico fino ad oggi» e «Davide visto da ebraismo, cristianesimo e islamismo» (pp. 93-105); «Gli apocalittici come ammonitori e interpreti del tempo» (pp. 146-148) e «Chi era Gesù?» (pp. 359-395).
[20] Cf. anche Is 60,16b: «Saprai che io sono il Signore tuo salvatore e tuo redentore, io il Forte di Giacobbe».
[21] Cf. 2Sam 22,2; Sal 18,3; 1Sam14,37; Is 42,3; 1Mac 4,28; Sal 70,6; Sal 78,35; Sap 16,7 (dove Dio è invocato come «salvatore di tutti» e non solo d’Israele); Sir 51,1; Is 17,9; Is 45,14; Is 62,10; Is 63,8; Ger 14,8a: «O speranza di Israele, suo salvatore al tempo della sventura»; Bar 4,22; Os 13,4; Ab 3,18; Sof 3,17; Lc 1,46-47: «Allora Maria disse: “L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore”»; 1Tm1,1; 1Tm 2,3; 1Tm 4,10; Tt 1,3; Tt 2,10; Tt 3,4; Gd 1,25. Per l’applicazione a Cristo cf. Lc 2,10-11: «ma l'angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore”»; Gv 4,42: «e dicevano alla donna: “Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”» At 5,31: (Stefano diceva): «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati»; At 13,23: «Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù» (testimonianza di Paolo davanti ai Giudei ad Antiochia); Rm 11,26, che riprende Is 59,20-21; Ef 5,21; Fi 3,20; 2Tm 1,10; Tt 1,4; Tt 2,13-14: «nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone»; Tt 3,6; 2Pt 2,1-2: «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro che hanno ricevuto in sorte con noi la stessa preziosa fede per la giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo: grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro»; 2Pt 1,11; 2Pt 2,20; 2Pt 3,2; 2Pt 3,18; 1Gv 4,13b-14: « egli ci ha fatto dono del suo Spirito. E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo».
[22] Cf. anche Is 45,21b: «Chi ha fatto sentire quelle cose da molto tempo e predetto ciò fin da allora? Non sono forse io, il Signore? Fuori di me non c'è altro Dio; Dio giusto e salvatore non c'è fuori di me».
[23] Si fa notare che il
termine originale
corrispondente
all’italiano
redimere
(il greco swvëzein) è hôšî ‘a e significa aiutare, salvare. Accanto ad esso si trovano altre due
espressioni corrispondenti al greco lutrou`n: ga ,al e padah, che significano rispettivamente proteggere, rendersi garante, o semplicemente liberare e riscattare, acquistare
dando un compenso. In ogni caso i significati delle espressioni sono sempre
da ricondurre ai contesti e oscillano tra il
trarre in libertà e salvare la vita o anche liberare dai peccati. Per i casi cf. J. B. Bauer, «Redenzione», in J. B. Bauer (diretto da), Dizionario...,
cit., 1144-1150.
[24] Per il NT si fa
inoltre notare che, al contrario di
quanto avviene nei testi di Qumrân dove il soggetto di ga‘al e fadha resta sempre Jahvè e
mai il Messia, anche Cristo partecipa dell’azione di riscatto e di
liberazione di Dio. Cf. i numerosi brani biblici già citati.
dhd[25] Il tema dell’agire
salvifico di Dio esige che si sia affrontato e sia in qualche maniera risolto il problema dell’antropomorfismo e
del valore da dare all’espressione agire di Dio. Su questo concetto
collegato alla dottrina della provvidenza, secondo i suoi vari modelli
interpretativi, cf. l’ampio studio di R. Bernhardt, Was heißt “Handeln Gottes”. Eine Rekonstruktion der Lehre von der Vorsehung, Kaiser, Gütersloh 1999. Il problema riguarda
anche la modalità attraverso la quale si possa arrivare alla meta escatologica progettata da Dio. A riguardo c’è l’escatologismo radicale senza la cooperazione umana, essendo sempre gratuita e
imprevedibile l’irruzione del Regno (così ad esempio K. Barth);, l’incarnazionismo, secondo
il quale Dio, grazie all’incarnazione, offre agli uomini la collaborazione a costruire il Regno, seguendo il Risorto (è,(cf., per esempio, la posizione dei
teologi che
valorizzano la costruzione delle realtà terrestri),); l’escatologismo moderato, che tiene insieme la libera e sovrana iniziativa di Dio e la collaborazione
umana assecondata dalla Grazia (cf. Y. Congar, H. Urs von Balthasar) ed infine la posizione
teologica della trascendenza della
storia,
secondo la
quale l’agire
di Dio nel mondo in modo non è predicamentale, ma con modalità diverse da quelle delle creature. Egli crea le condizioni per
le quali
queste agiscono, ma il suo agire è su un piano tutto differente, perché
sollecita a
trascendere
l’immediatezza
sì da approssimarsi sempre più alla venuta del Regno (cf. T. de Chardin, K.
Rahner, J.B. Metz e i teologi della liberazione in genere). Cf. C. MOLARI,
«Storia e Regno di Dio: problemi teologici e conflitti pastorali prima e dopo
il Concilio» in AA.VV., Venti anni di
Concilio Vaticano II. Contributi sulla sua recezione in Italia, Borla, Roma
1985 e C. MOLARI, Introduzione
all’edizione italiana, in I. ELLACURIA - J. SOBRINO, Mysterium liberationis ..., op. cit., 12-15. Cf. anche la posizione
equilibrata di Torres Queiruga, rispetto a quella da lui indicata come
«impostazione globale e diretta», in A. Torres Queiruga, La rivelazione di Dio nella realizzazione dell’uomo, Borla, Roma
1991, 162-173. Più
in generale sul linguaggio antropopatico cf. A.
Rizzi, «Il
linguaggio antropomorfico e antropopatico nella Bibbia», in Rassegna di Teologia 35
(1994) 26-57.
[26] Per portare un solo esempio, si pensi alla figura del re pagano Ciro (cf. Is 45,1-4).
[27] Cf. 1Cor 6,20 (alla lettera «con prezzo»); 1Cor 7,23; Gal 3,13; Gal 4,5; 2Pt 2,1; Ap 5,9; 14,3.
[28] In una sintesi che tiene
ancora insieme la giustizia di Dio, e dunque il concetto di riparazione, ma anche la
contemporanea coestensiva presenza in essa
dell’amore, si muovono alcuni testi
magisteriali,
come quello qui riproposto a titolo d’esempio: «Nella passione e morte di Cristo --nel fatto che il
Padre non risparmiò il suo Figlio, ma ‘‘lo trattò da peccato in nostro favore’‘ -- si esprime la
giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa dei
peccati dell'umanità. Ciò è addirittura una ‘‘sovrabbondanza’‘ della giustizia, perché i peccati dell'uomo
vengono ‘‘compensati’‘ dal sacrificio
dell'Uomo-Dio. Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente giustizia ‘‘su misura’‘ di Dio, nasce tutta
dall'amore: dall'amore del Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell'amore.
Proprio per questo la giustizia divina rivelata nella croce di Cristo è ‘‘su misura’‘ di Dio, perché nasce
dall'amore e nell'amore si compie, generando frutti di salvezza. La dimensione
divina della redenzione non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma
nel restituire all'amore quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale
egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da
Dio. In tal modo, la redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia
nella sua pienezza» (Giovanni paolo II, Dives in misericordia, n.7).
[29] Cf., a riguardo, Ger 31,31-34; 1Cor 11,24c-27 in parallelismo con Lc 22,19-20.
[30] Il celebre passo di Gv 15, 12-15 (: «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di
questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi,
perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici,
perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi») è solo l’emergenza più esplicita di un concetto
biblico fondamentale:
l’amore di Dio salva gli uomini attraverso il dono volontario di suo Figlio.
Cf. anche
1Gv 3,16 e per Paolo soprattutto Rm 5,6-8.
[31] Cf. Rm 8,19-23; Col 3,3-4;1Gv 3,2.
[32] Cf. anche Gv 8,36;At 15,10.
[33] La partecipazione «alla rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8, 19) del cosmo materiale, caduto sotto la maledizione seguita al peccato ( Gen 3,17 ) e ancora preda di una «caducità», che è insieme precarietà e vanità (in una situazione di «schiavitù della corruzione»), è un processo lento eppure inarrestabile secondo la Parola di Dio. Cf. anche 2Cor 5,17; Col 1,20; Ef 1,10; 2Pt 3,13; Ap 21,1-5.
[34] Sul valore di questa interpretazione complessiva della liberazione, recepita anche dal Magistero della Chiesa cattolica come compito della stessa chiesa cf. «La missione liberatrice della chiesa», l’intero capitolo IV, dedicato a «La chiesa e le inquietudini dell'uomo», in Congregazione della Dottrina della fede, Libertatis conscientia, n. 61ss. che si apre con queste affermazioni: «La chiesa ha la ferma volontà di rispondere all'inquietudine dell'uomo contemporaneo, oppresso da dure imposizioni ed ansioso di libertà. La gestione politica ed economica della società non rientra direttamente nella sua missione. Ma il Signore le ha affidato la parola di verità, capace di illuminare le coscienze. L'amore divino, che è la sua vita, la stimola ad essere realmente solidale con ogni uomo che soffre. Se i suoi membri rimangono fedeli a questa missione, lo Spirito santo, sorgente di libertà, dimorerà in essi, e così produrranno frutti di giustizia e di pace nel loro ambiente familiare, professionale e sociale» (EV 10/ 276).
[35] Cf. a questo riguardo le considerazioni fatte specificamente per l’ebraismo, ma con continui parallelismi anche per il cristianesimo e l’islamismo in H. Küng, Ebraismo. Passato presente futuro, Rizzoli 19973, soprattuto pp. 495-513 e passim; cf. anche P. Lapide – J. Moltmann (Edd.), Monoteismo ebraico – dottrina trinitaria cristiana. Un dialogo, Queriniana, Brescia 1980.
[36] Cf. P. Poupard (diretto da), Grande dizionario delle religioni, Cittadella - Piemme, Assisi - Casale Monferrato 1990, 1874.
[37] Sarebbe da ricondurre a questo ceppo anche il greco ojvlo", derivando dal termine più antico sovlFo", e avente lo stesso significato di intero, indiviso, similmente al gotico sêla (fino ad arrivare al tedesco selig e all’inglese save), con il significato originario di buono, valente, felice. Cf. «salvo» in O. Pianigiani, Vocabolario etimologico, Polaris, Varese 1991 e SAbatini - Colletti, Disc-Compact. Dizionario Italiano, Giunti Multimedia, Firenze 1997.
[38] Per non restare solo nel generico, anche se
data l’impostazione sintetica, ciò è inevitabile, riporto qui il caso
della religione dei Nuer, popolazione che vive nella savana circostante l’alto Nilo. Mi sembra
interessante segnalare che di solito non praticano la caccia per salvaguardare anche la vita degli animali. Questi però vengono
sacrificati solo in stato di necessità e/o in modo rituale, quando è in gioco la salvezza
dell’uomo , della famiglia e del clan. Il sacrificio di alcuni animali, come la
mucca , ha il valore della liberazione delle anime e in questa maniera porta la salvezza (cf. E. E. Evans-Pritchard, «La
religione dei Nuer», in C. Leslie [a cura di], Uomo e mito nelle società primitive. Saggi di antropologia
religiosa, Sansoni,
Bologna 1978, 71-118,
qui 111-118).
[39] Cf. quanto scrive a riguardo il già citato Evans-Pritchard: «Questo postulato di metafisica sociologica mi sembra essere un'affermazione del tutto priva di fondamento. È stato Durkheim, non il selvaggio, che ha fatto un dio della società. Tutte queste teorie sulle religioni primitive, le evoluzioniste, le psicologiche e le sociologiche, peccavano di una comune debolezza: si basavano su una documentazione inadeguata e non vagliata criticamente. Le vaste generalizzazioni su cui si basavano potevano essere state formulate soltanto in un epoca in cui gli studi sistematici delle religioni dei popoli primitivi erano lacunosi, e da persone prive di qualsiasi pur superficiale conoscenza diretta di esse. Che fossero in realtà soltanto assunzioni aprioristiche applicate ai fatti, anziché conclusioni scientifiche derivate dai fatti, divenne sempre più evidente di man in mano che andava aumentando la conoscenza di queste religioni e che ne venivano meglio valutate la varietà e la complessità» (E. E. Evans-Pritchard, «La religione dei Nuer...», cit., 117-118).
[40] Tra questi cf., ad esempio, chi scrive:«Certo il timore non fu l'unica causa originaria del sentimento religioso. L’imponente spettacolo della natura; lo splendore abbagliante del sole; le miriadi d'altri astri che brillano e si muovono nell'immensità dello spazio; la luna e le sue influenze; la vicenda delle stagioni; le proprietà degli elementi; i misteri dei sensi, del pensiero, della memoria, dei sogni, delle passioni il meraviglioso fenomeno della riproduzione delle specie, dovettero imporsi gradatamente, progressivamente, all'intelligenza dell'uomo in continua evoluzione, contribuendo a generare in lui credenze e adorazioni. Un'altra fonte del sentimento religioso fu senza dubbio l'idea della morte, che dà tanta forza al sentimento di dipendenza, origine prima di tutte le religioni. Si è potuto affermare che se l'uomo fosse immortale le religioni non esisterebbero. La nozione della morte, dell'inevitabile fine dell'esistenza sulla terra, generò infatti nell'uomo la coscienza della sua imperfezione e il conseguente bisogno di credere e di sperare in una o più potenze sovrumane che potessero aiutarlo a vivere, prolungargli la vita, dargliene un'altra dopo la morte» (D. cinti, Storia delle Religioni. Dottrine, riti usanze, SEI, Milano 19613,voll. 2 [prima edizione 1934], vol. 1 pag. 4).
[41] E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998.
[42] Privo di un carattere pubblico, infatti, si sostiene, ogni sistema anche scientifico diventa irrilevante, non riuscendo ad essere “oggettivo”. Tale oggettività è tuttavia impostata a partire dal riconoscimento della società. Alla base cf. K. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma 1975.
[43] Cf. E. Severino, Il destino della tecnica , cit., 36-37.
[44] Cf. il già citato sottotitolo del libro di E. Drewermann, Parola che salva, parola che guarisce. La forza liberatrice della fede..., cit.
[45] Se un’obiezione si può avanzare ad E. Drewermann credo che sia di questo tipo: data anche la natura complessiva, quasi olistica della sua proposta, non sempre – come del resto succedeva a Jung e ad altri - sono chiari i confini degli ambiti trattati. Talora non si assiste solo a una contaminazione di linguaggi, ma anche una confusione di piani di indagine dove il dogma sembra apparire e di fatto appare, soprattutto a quanti cercano sempre e solo errori negli scritti degli altri, non garantito e perciò messo da parte o addirittura negato. Cf., ad esempio il passaggio, immediatamente precedente quello già citato su Jung, che ricade nello stesso difetto, anche perché è un linguaggio parlato e quindi non sufficientemente elaborato, ma che certamente presta il fianco all’accusa di mettere in dubbio il dogma cristiano: «Pertanto bisogna applicare in primo luogo la critica freudiana, ad esempio rivedere la deformazione del dogma della nascita verginale unitamente a una morale sessuale totalmente sbagliata, da essa introdotta nel campo del cristianesimo, per poi dire quale fosse il suo vero senso» (E. Drewermann, Parola che salva ..., cit., 295). E tuttavia di lì a poco segue un vero atto di fede oltre che di speranza nella forza risanatrice promanante da Gesù salvatore, sebbene più sul piano dell’esperienza che su quello tematicamente dottrinale: «La relazione del cristiano col suo redentore, con Gesù di Nazaret, è una relazione personale, non intellettuale. Si tratta perciò di rendere possibili e di articolare delle esperienze. Forse l'una o l'altra può essere astratta sotto forma di una verità universale. Anche questa va però continuamente retroriferita all'esperienza concreta. Ai miei occhi, i concetti della teologia hanno tanto valore in quanto interpretano delle esperienze» (ivi, 296).
[46] Cf. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992 (originale , «The End of History», in The National Interest 16/1989).
[47] Cf. R. Tomasi,
«Il bisogno di salvezza oggi», in Credereoggi
7 (1987/1) 5-37.7 (1987/1) 5-37.
[48] Cf. T. Balasuriya, Teologia planetaria, EMI, Bologna 1986:, 24: «il sistema mondiale di fatto esistente, con il suo ordine e il suo disordine .... punto di partenza per la crescita di una teologia planetaria, in quanto esso tocca la vita di ogni persona e di ogni gruppo», infatti «questo impatto cresce rapidamente di pari passo con la crescita dell'interdipendenza globale di tutti gli uomini».
[49] Cf. P. E Knitter, «La teologia cattolica delle religioni a un crocevia», in H. Küng – J. Moltmann (edd.), «Il cristianesimo tra le religioni mondiali», in Concilium 22 (1986) 133-144; Id., Una terra molte religioni. Dialogo interreligioso e responsabilità globale, Cittadella, Assisi 1998.
[50] «Non sono prive di interesse e di rilevanza espressioni come queste: “Per la prima volta nel corso della nostra storia, abbiamo l'evidenza empirica per una comune storia della creazione”. Così ha dichiarato un gruppo di cinquanta rappresentanti provenienti da varie tradizioni religiose in quella che essi hanno definito “Una Carta della Terra”, preparata dall'International Coordinating Committee on Religion and the Earth Summit (Comitato Coordinatore Internazionale della Conferenza su Terra e Religione) a Rio de Janeiro, nel giugno del 19922. Essi hanno annunciato a livello internazionale quanto i teologi erano andati dicendo fra loro e alle loro comunità: la scienza, con quello che ci dice su come l'universo abbia avuto origine e come funzioni, sta fornendo a tutte le religioni un comune mito della creazione. Quello che Thomas Berry e Brian Swimme chiamano “la storia dell'universo” può fungere da storia religiosa interculturale» (in P. E. Knitter, Una terra molte religioni..., cit., 206).
[51] Cf., a proposito, R. Tomasi «Il bisogno di salvezza
oggi», in Credereoggi, cit.,
37.
[52] Per una panoramica su
questo paradosso e in genere sulle teologie che partano dal paradosso come
dinamismo riguardante tanto il cuore che il metodo della teolgoia cf. G. M. Hoff, Aporetische
theologie. Skizze eines Stils fundamentaler Theologie, Schöningh, Paderborn – München,
Wien, Zürich 1997.
[53] Cf. rispettivamente l’opera di Bultmann, Moltmmann, Metz e le differenti forme della teologia della liberazione.