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L’esperienza religiosa e le religioni nel loro cammino verso Cristo
(Relazione di Giovanni  Mazzillo al Convegno di “Vivarium 97”)

Introduzione

Sono molte le discipline che hanno accostato il fenomeno religioso, secondo gli approcci più disparati, da quello storico a quello psicologico, da quello sociale a quello della comparazione culturale, da quello dell’analisi strutturalista a quello della investigazione fenomenologica. Se oltrepassiamo le posizioni pregiudizialmente ideologiche del positivismo scientista e dell’illuminismo razionalista, che pur più lontane da noi, esercitano ancora una sorta di fascino discreto in alcuni nostri contemporanei, possiamo affermare che in genere la riflessione scientifica sul fenomeno religioso, sebbene con terminologie diverse, converga nell'individuare tra i dati che non cessano mai di alimentare la religione il bisogno di totalità che sale dalla profondità stessa di ogni uomo, a qualsiasi latitudine geografica e qualsivoglia epoca storica egli appartenga. È un bisogno di senso complessivo della vicenda umana nel mondo e nella storia. La critica religiosa non può negarlo, né realmente l'ha mai negato. Persino le "teorie" nate come alternative alla religione, da quella della proiezione di Feuerbach a quella del marxismo dialettico di Marx, non avrebbero senso, né sarebbero mai sorte se non avessero raccolto tale domanda, alla quale, a modo loro hanno cercato di rispondere. Le altre teorie di natura psicologica o sociologica non hanno potuto fare diversamente. Anche quelle riconducibili a una corrente che si può chiamare la “costruzione sociale” della realtà, fanno leva sul bisogno di una globalità, almeno psichicamente e socialmente strutturata. Così pure non possono rinunciarci gli approcci critici apparentemente più innocui, ma in realtà più corrosivi, come quelli di Max Weber e di altri che hanno guardato alla religione come un fenomeno secondario e funzionale alla società.

Un’obiezione più pericolosa, anche perché più diffusa e pertanto sfuggente, è invece quella che sembra provenire dal cosiddetto nichilismo[1], riconoscibile tanto nella sua forma filosofica originaria più destrutturante, che nelle sue variabili più recenti a noi note attraverso la comune denominazione del “pensiero debole”. Sono tutte forme critiche prima ancora che verso la religione, verso la totalità del senso e sono riassumibili nei termini di un’apriorica rinuncia ad una ricerca di una qualche totalità. Ma a riguardo, si può, seppure rapidamente, notare che se niente raggiunge la consistenza della definitività e nulla può realmente aspirare a una qualche pienezza sensata, dovrebbe poter aspirare a questo almeno il principio della segmentazione dei sensi, perché negare qualsiasi unitarietà di senso significa togliere il terreno sotto i piedi anche allo stesso “pensiero debole”. Non si può - insomma - ragionevolmente negare l’esistenza o la consistenza (che poi in definitiva è la stessa cosa) di qualsiasi senso globale, perché la sua affermazione è esigita - paradossalmente - dalla sua negazione. Resta infatti il fatto che l’uomo grida da ogni sua fibra il bisogno di una totalità di senso, anche se questo dovesse vestire, per adesso, i panni di Arlecchino, vale a dire, dovesse risultare, alla fin dei conti, una giustapposizione di innumerevoli sensi frammentati.

C’è dunque un paradosso nel pensiero debole, e in genere nel relativismo sistematico: l’ostinarsi a negare ogni senso di totalità rovescia solo il problema come guanto, di certo non risolve il problema, come vorrebbe. Afferma infatti una concezione complessiva che dovrebbe per principio investire l’intera vicenda uomo-natura-storia: quella di non avere alcun senso. A fronte di questa radicale, suprema affermazione di un non senso generalizzato, la domanda che nasce è ancora legittimamente critica: in nome di che cosa si può asserire che niente abbia un senso o ne abbia solo uno parziale? Non può essere che qualcosa si sottragga a questa sorta di struttura imposta in nome di un principio tutt’altro che dimostrato e non affatto evidente e che suona:  “non esiste un senso globale”.

A questo punto, è vero, si può ancora obiettare che la nostra spinta a cercarne sempre uno, nasce da una specie di impulso a trovare un senso globale che ricopra tutti i segmenti conosciuti e ancora conoscibili, ma che ogni segmento resta chiuso in se stesso e, quindi, è sempre e solo un senso parziale. L’obiezione non è così consistente, come sembrerebbe a prima vista. È piuttosto una riedizione della “teoria della proiezione” di Feuerbach o dell’interpretazione psicologica che Freud tenta della religione nell’opera Avvenire di un’illusione. È una critica autodistruttiva, che si ammanta di umiltà scientifica. A noi basta qui ribadire che il criterio della scientificità, come rinuncia a ricercare in modo più globale le cause e i principi di ogni cosa, non è un buon criterio. Né sembra soddisfacente la rinuncia pregiudiziale a collocare in un contesto più vasto qualsiasi dato umanamente conoscibile. Infatti senza il ricorso a orizzonti di senso ogni volta più vasti, niente sarebbe conoscibile. Rimane allora il bisogno del ricorso ad una globalità di senso, perché resta in piedi  l’esigenza insopprimibile di una totalità nella quale ogni punto si ricompone e diventa accettabilmente comprensibile.

Ma come si esprime questa totalità? La nostra riflessione ci conduce ad asserire che la totalità di senso coincide con ciò che chiamiamo soggetto primario della religione, e che in maniera preliminare indichiamo in qualcosa che è dentro l’essere umano ed è al di là di lui. Affermiamo infatti che la totalità di senso ha una particolarità unica nel suo genere: coinvolge l’uomo come il soggetto che ricerca, ma intercetta anche ciò che lo supera. È tra-scendenza e di-scendenza nello stesso tempo. In riferimento a questo senso complessivo come totalità di ogni senso[2], non si dovrebbe propriamente dire che l’uomo vi si aggrappa, perché di per sé non è una “sporgenza”, come se fosse un corpo esterno e basta. È qualcosa di diverso. È avvertenza di ciò che noi desideriamo raggiungere, ma che noi non produciamo, bensì ritroviamo in noi; ciò di cui non disponiamo, ma ciò a cui ci affidiamo. La nostra non è la cattura dell’inspiegabile, è al contrario una resa all’ineffabile. È l’ineffabile che ci sorprende perché ci trascende e che ritroviamo come la nostra patria e la nostra culla, ma anche la nostra foce e la nostra meta. È esperienza che qualcosa resta sempre lo sfondo e la consistenza oltre la nostra morte e la nostra vita, il nostro passato e il nostro futuro. È tutto ciò e ancora più di quanto riusciamo umanamente a formulare: ciò che costituisce la nostra grandezza e il nostro scacco. È il senso della nostra ulteriorità, pertanto è l'avvertenza della trascendenza e, in un certo modo, è la nostra trascendenza.

Chi è escluso da questa esperienza? Praticamente nessuno. È un'esperienza che avviene anche nelle altre religioni? Certamente. Asseriamo, anzi, in maniera preliminare, che tutto ciò costituisce l’esperienza della religione. Non si può dubitare, su un piano fenomenologico, che ogni uomo possa fare e in concreto faccia una tale esperienza, così come è certo, sul piano teologico, che attraverso questa stessa esperienza Dio possa raggiungere ogni esistenza umana, illuminandola con la luce della sua grazia.

Quest’asserzione si trascina un grappolo di ulteriori domande, alcune delle quali costituiscono lo scheletro del presente contributo, altre invece saranno più direttamente affrontate dai contributi degli altri relatori. Sono domande che si possono così tematizzare: La ricerca della totalità, coessenziale all'esperienza religiosa è anche una ricerca di salvezza? Quale valore salvifico è da riconoscere alle religioni non cristiane? C'è un significato cristologico in ogni esperienza religiosa? Quale effettivo riferimento hanno almeno alcune religioni verso la persona di Cristo? Cosa c'è di nuovo nell'acquisizione teologica sul valore delle altre religioni?

Per quel che ci riguarda, cercheremo di rispondere almeno ad alcuni di questi interrogativi. Non è un compito facile, anche perché l'argomento, per quel che ci risulta, non è stato ancora approfondito in termini così specifici. In ogni caso, qualsiasi riflessione sull'argomento non può essere condotta in maniera semplicistica, dal momento che l'ammissione del valore di Cristo come riferimento centrale per le altre religioni solleva due successive domande: Come asserire il ruolo centrale di Cristo senza rischiare di essere assolutisti? Come salvaguardare ancora il dialogo con le altre esperienze religiose senza rinunciare a tale riferimento a Cristo, ma cercando piuttosto di intravedere i segnali che spingono oltre, cioè verso la validità del suo messaggio? Terremo conto anche di queste difficoltà mentre articoleremo la riflessione secondo tre linee di ricerca, che cercheremo di collegare il più possibile tra loro:

1. Il dato fenomenologico (l’esperienza religiosa e l’incatturabilità del suo Referente)

2. L'approfondimento sistematico (dalle religioni come vie alla Via che è il Cristo)

3.   I possibili sviluppi (Precisazioni teologiche e recezione delle indicazioni magisteriali).


 

1 Il dato fenomenologico (l’esperienza religiosa e l’incatturabilità del suo Referente)

1.1      Ciò che sta sempre in ogni religione e al di là di essa.

Paul Tillich[3] è noto per il suo impegno a correlare insieme le questioni teologiche con le domande che salgono dalla vita dell'uomo. Verso la fine della sua vita arrivò ad enunciare quattro principi, che gli sembravano appartenere ormai al patrimonio della scienza delle religioni. Sono riassumibili nei termini che qui riportiamo.

 1) Tutte le religioni contengono «forze di rivelazione e di salvezza»; 2) l'uomo le può ricevere solo nelle effettive condizioni di limitatezza in cui versa, dovute alla sua natura, cultura e storia; 3) ogni rivelazione contiene spazio sufficiente per una critica che può muovere da diverse angolazioni, ma che tende alla purificazione della religione stessa (questa critica può essere di natura mistica, profetica o secolare); 4) la storia delle religioni può contenere un avvenimento centrale, partendo dal quale si rende possibile una «teologia universale»[4].

Il secondo e il terzo punto ammettono la legittimità della critica della religione in nome e a salvaguardia della religione stessa. Ci sembra particolarmente interessante la caratterizzazione delle modalità assunte dalla critica religiosa, da lui indicata come mistica, profetica o secolare. Siamo anche noi convinti che la religione abbia bisogno di un continuo autocontrollo critico e riconosciamo che ciò è storicamente avvenuto talora attraverso l'intuizione poetica e soprattutto attraverso l'ispirazione profetica. Il primo e il quarto principio enunciati da Tillich toccano invece frontalmente il nostro tema. Faremo riferimento, seppure in maniera non sempre diretta, al primo (che afferma che tutte le religioni contengono «forze di rivelazione e di salvezza»), e toccheremo l'ultimo (che enuncia che la storia delle religioni può contenere un avvenimento centrale, partendo dal quale si rende possibile una «teologia universale»), parlando della centralità di Cristo e del suo valore storicamente rilevante per ogni esperienza religiosa. Per arrivare a questa conseguenza, è però indispensabile che guardiamo più a fondo alla stessa esperienza religiosa, considerandola come esperienza che risponde al bisogno di totalità cui abbiamo già accennato. Intanto possiamo affermare un principio minimale, sul quale ci si può ragionevolmente aspettare un certo consenso, e cioè che l'anelito dell'uomo verso la felicità si avverte sempre all'interno e come espressione dell'aspirazione umana universale verso una globalità di senso.

1.2      L'anelito dell'uomo alla felicità e l'aspirazione ad una globalità di senso.

Crediamo che non sia contestabile, sul piano dell'osservazione fenomenologica, l'affermazione che l'uomo sia continuamente alla ricerca di ciò che lo appaghi. In tale anelito, che innerva tutte le stagioni della sua vita, l'essere umano guarda a "beni" presenti o a "beni" futuri, come concretizzazioni reali di quell'appagamento di cui va alla ricerca. Uno dei quattro pilastri della saggezza, che, al pari di altri testi, hanno conservato, per trasmissione orale, l'insegnamento di Siddharta Gautama (Buddha), ipotizza quattro possibilità di ricerca della felicità da parte dell'uomo, in quattro diverse condizioni effettive in cui egli viene a trovarsi, a seconda di come si pone di fronte alla sua felicità rispetto all'immediato presente e al futuro. Buddha ipotizza che a) l'uomo, pensando di raggiungere la felicità, possa procurarsi un male presente e un male futuro; b) possa conseguire un male presente in vista di un bene futuro; c) possa ritrovarsi in un bene presente, ma in un male futuro; d) possa, finalmente, pervenire a un bene presente e a un bene futuro[5]. L'ultimo caso è l'ottimale, è quello auspicato dall'Illuminato e si chiude con una frecciata polemica contro il clericalismo, ma con una splendida immagine: l'apparire del sole che nell'ultimo mese delle piogge disperde ogni nebbia:

«or così anche appunto, voi monaci, ecco appare questo modo di vivere, che porta bene presente così come bene futuro, e disperde raggiando le ciarle dei comuni penitenti e sacerdoti, e folgora e splende»[6].

Il discorso del Buddha, con la sua teoria dei due beni, ci riporta alla dialettica tra le diverse esigenze dell'uomo, talora avvertite come contrastanti. Sembrerebbe avere poco a che fare con la religione, ma non è così. Il bene futuro immette nel cuore di una materia che non è la pura e semplice ricerca della felicità, ma quella di una sapienza che sappia valutare pienamente la realtà. Sappia, cioè, cercare un senso complessivo, totale, indicato come futuro, al di là di quello immediato. Il progetto dell'uomo, quando è intriso di senso religioso, è al di là del presente, si apre alla totalità. Non di meno dà un senso di appagamento nell'attuale presente, anche quando questo sembri difficoltoso.

In questa maniera, l'uomo esprime non tanto il bisogno dell'altro, ma il bisogno di altro. Tende verso un bene futuro, valorizzando, in genere, anche la sua situazione presente. Possiamo ritrovare questo bisogno di altro in tutte le religioni e in genere nell'esperienza religiosa propriamente detta. Le religioni appaiono, da questa prospettiva, come manifestazioni di quest'unico incedere verso ciò che di altro la vita possa offrire, ma al di là di se stessa. Anche per questa ragione, il buddhismo è una vera e propria ricerca religiosa e non una semplice investigazione filosofica. Così sono espressioni di autentica ricerca religiosa le tante forme attraverso le quali si esprime l'anelito verso questo supplemento di senso, come supplemento di altro, che sale dall'esistenza umana. Le religioni rappresentano le forme assunte da questo cammino dell'uomo verso ciò che si può anche chiamare ulteriorità. Sono in realtà tanti cammini che obbediscono allo stesso impulso a camminare verso ciò che colma di senso l'essere umano. Il suo incedere verso l'ulteriorità appare in tutti i cammini già intrapresi, dimostrando che ciò che li accomuna è sempre il fatto che l'uomo si mette in movimento e cerca di avanzare oltre le sponde dell'ignoto. Ma come si manifestano tali cammini, che sono venuti qualificandosi come veri e propri itinerari religiosi? Ed inoltre ci può essere un'esperienza religiosa anche al di fuori di una religione esplicita e professata come tale?

1.3      L'esperienza religiosa come pellegrinaggio

Per rispondere a queste domande cominciamo con l'annotare un’effettiva difficoltà a recepire univocamente il significato di ciò che è chiamato “religione”. Se tentiamo di ricondurre il tutto al concetto ancora più generale dell’esperienza religiosa, non è facile trovare una definizione che metta insieme le “esperienze” chiamate “religiose”, ma con significati molto diversi tra loro. Nondimeno lo possiamo individuare in quel dinamismo attraverso il quale l'essere umano emigra da se stesso e guarda al di fuori sé. Si tratta di un moto dell'animo attestato ininterrottamente dalla storia della specie umana, lo stesso che ha circa settantamila anni fa ha fatto salire i primi uomini verso la spelonca detta Drachenloch (nelle Alpi svizzere), per celebrare, a come sembra atti di culto di natura sacrificale[7], e in epoca ancora preistorica, ma a noi più vicina, ha offerto sufficienti motivazioni per andare verso altre spelonche e raffigurare (attraverso tecniche di incisione o pittura) scene di vita significative per l'uomo, come la caccia di animali, o altre situazioni esistenzialmente rilevanti per lui, tra le quali si segnala quella di una figura umana che tende le mani quasi a pregare l’invisibile[8].

Se seguiamo ancora nella storia delle religioni l'immagine di questo ideale cammino dell'uomo verso ciò che l'attira come supplemento di totalità e come adempimento del suo anelito verso la pienezza, sembra siano stati soggiogati dal fascino di questa impalpabile presenza anche gli esseri umani di quelle religioni arcaiche sopravvissute in qualche regione del mondo, non meno di quanto non lo siano i nostri contemporanei.

L'esperienza di sentirsi attratti dall'oltre dell'umano, tanto da muoversi dalla propria sede abituale per andargli incontro, guardando di notte il chiarore delle stelle e calpestando di giorno sentieri ancora non percorsi, ha la sua raffigurazione più emblematica in Abramo, ritenuto padre delle tre grandi religioni storiche monoteiste (ebraismo - cristianesimo - islamismo). Si rinviene anche in altre religioni. È di grande interesse, ad esempio, il santuario di Minahassa (Celebes)[9], nel quale si conservano delle pietre venerate come sacre, menzionato tra i tanti luoghi di pellegrinaggio delle religioni arcaiche. Il suo nome originario era «quelli che chiamano», nel senso che vi si avvertono appelli che "richiamano" i visitatori, fino ad esercitare una forte nostalgia[10].

Comunque la si chiami, o "esperienza religiosa" o “esperienza spirituale”, come altri preferiscono, la base di partenza di ogni religione è ciò che talora si incontra nelle cose di ogni giorno e non solo negli eventi straordinari e che tuttavia spinge ad uscire dalla greve ordinarietà, per cogliervi il riflesso dell'assoluto. Restando nel campo della fenomenologia del pellegrinaggio, che ha caratterizzato e caratterizza quasi tutte le religioni che conosciamo, non sempre si richiede un cambiamento effettivo di luogo. Si richiede comunque un movimento dello spirito. Basti qui citare l'esempio del mistico islamico Bajazet Bastami che indicava il vero senso del pellegrinaggio intorno alla Mecca, facendo per sette volte il giro intorno ad un saggio, asserendo così che il santuario più vero, verso il quale bisogna sempre incamminarsi, è l'uomo illuminato dalla sapienza divina[11].

Con ciò siamo in grado anche di capire che l'esperienza religiosa ha una connotazione fortemente antropologica, sempre che l'uomo tenti di leggere all'interno della sua esperienza ciò che fa esplodere la carica indefinita, che sembra lambire l'infinito, che ogni esperienza comporta. Non ci soffermiamo qui su quelle che sono state chiamate “esperienze dello spirito” e che sono alla base della cosiddetta "filosofia trascendentale" e "teologia trascendentale"[12]. Facciamo un rapido riferimento all'itinerario religioso anche di chi apertamente dichiara di non seguire una particolare religione, un cammino che può essere compiuto da qualsiasi uomo, a prescindere dalla religione da lui ufficialmente professata. È l’esperienza che investe la globalità umana, senza soluzioni di continuità tra la sua dimensione contingente (legata allo spazio e al tempo) e quella spirituale (che va al di là dello spazio e del tempo), che abbraccia entrambe nello stesso atto di resa davanti a ciò che trascende  l’immediato e il contingente, sia che lo si chiami Dio, sia che non si abbia la forza, o forse il coraggio, di invocarlo come tale. Ciò coinvolge la poesia e l'arte in genere, che in questo caso non è pura affabulazione, ma interpretazione che rivela la grandezza della vita umana[13].

2       L'approfondimento sistematico (dalle religioni come vie alla Via che è il Cristo)

2.1      L'uomo in fuga che intercetta il passaggio di Dio

Prendiamo lo spunto per questo approfondimento sistematico, che qui possiamo solo impostare e indicare nei suoi sviluppi principali, da ciò che è stato rinvenuto in alcuni scritti inediti di Martin Heidegger attualmente disponibili sotto il titolo di Beiträge zur Philosophie (Contributi alla filosofia)[14].

La svolta (die Kehre) del pensatore che precedentemente aveva voluto condurre un'analisi dell'esistenza umana, ponendosi oltre la linea di qualsiasi religione, come di qualsiasi fede[15], era avvenuta - a quel che ne sappiamo - negli anni '30. La sua riflessione sul "divino" non interrompeva quella sull'ontologia che portava ancora avanti, ma piuttosto riprendeva e radicalizzava alcuni suoi presupporti, attinti dalla filosofia greca. Negli scritti che consideriamo, l'autore accosta da un altro piano di riflessione (quello artistico - poetico) le domande fondamentali già presenti in Essere e tempo, riguardanti l'io e il suo essere con gli altri: «Chi sono io? Chi siamo noi [16]. Egli riprende il tema cardine del passaggio come transito (Übergang) dell'uomo nella storia, ma in termini nuovi, perché constata che quel passaggio dell'uomo, che inesorabilmente scivola verso la morte intercetta un altro passaggio, il passaggio di Dio[17], o come egli si esprime, restando nel linguaggio greco, il «transito degli dei». Dunque l'uomo in fuga intercetta la fuga di Dio. Come mai? E, soprattutto perché anche Dio è in fuga? Si potrebbe rispondere che Dio è in fuga intanto in senso metaforico, dal momento che, secondo Heidegger, oggi manca proprio l'apertura al sacro, perché l’uomo contemporaneo si chiude alla salvezza[18]. Ma molto più è in fuga in un senso esistenziale, perché, secondo il filosofo, intravediamo la possibilità di un trascendersi dell'uomo «smarrito nella sfera della soggettività» se restiamo il più vicino possibile all'Essere nella sua verità. Solo a queste condizioni, ci è dato di cogliere il fatto che «l'Essere è il trascendente per eccellenza»[19], vale a dire: è nel profondo della nostra esistenza (è il senso dell'Esistere) e nonostante ciò è trascendente (è il senso dell'Essere).

Qui si affaccia, insistente e tormentato, il motivo del passaggio di Dio o della fuga del divino. Attingendo alla poesia di Hölderlin[20], Heidegger osserva che l’inarrestabile avanzamento verso la sua fine dell’essere qui esistente (il Dasein) incrocia Dio che passa, lo incontra di sfuggita, perché non fa in tempo a guardarlo che gli è già passato davanti e gli volta le spalle[21]. Qui però avviene una sorta di inattesa comunicazione tra l'umano e il divino, perché da Hölderlin Heidegger recepisce un altro pensiero inquietante e suggestivo: il bisogno che Dio ha degli uomini per conoscere l'abisso, perché proprio gli uomini raggiungono più rapidamente e più profondamente l'abisso[22]. In questo nuovo rapporto tra i mortali e gli dei, l'"ultimo" divino è colto nella sua essenza per l’uomo, che è questa  transitorietà, dove sembra di capire che il divino si assoggetti anche alla morte, al prendere congedo, come al venire e all'andare.

L'intuizione che ci sembra di poter cogliere in questa affermazione è che le distanze tra l'umano e il divino si sono accorciate. Non per uno svilimento del divino, ma per una solidarietà che nel comune cammino li avvicina e li rende capaci di incontro, anche se si tratta di un incontro fugace. Heidegger sembrerebbe insomma approdare a un idea che è poi l'essenza dell'esperienza religiosa: l'incontro tra l'immanenza e la trascendenza, tra l'umana ricerca di Dio e il divino che viene ad incontrare l'uomo. Lo visualizza ancora un aneddoto su Eraclito, che egli riprende da Aristotele. Una folla di visitatori è venuta da lontano ad incontrare il grande maestro. Gli ammiratori però non possono nascondere il disorientamento allorquando, finalmente lo rintracciano, non tra i libri o assorto in meditazione, bensì davanti a un forno, dove si cuoce il pane. Il filosofo è lì e si riscalda «e tradisce, con ciò, a quel posto abbastanza banale, tutta l'indigenza della sua vita»[23]. Cosa succede allora? Eraclito legge lo smarrimento sui loro volti e li invita ad entrare, aggiungendone anche il motivo: «venite, perché anche qui ci sono gli dei».

Possiamo cogliere in quest'espressione il nucleo centrale del tema che ci sta a cuore e che ci fa affermare che la religione non è solo l'esperienza dell'esodo dell'uomo incontro a Dio, ma è intuizione anche di un altro movimento: quello di Dio che si è mosso e si muove verso l'uomo. In Heidegger non è che un'intuizione di passaggio, è però di grande importanza e viene a controbilanciare la sua riluttanza a trattare la religione in maniera filosofica[24], anche perché affiora pur sempre in lui un'innata resistenza ad adoperare concetti limitati all'essere dell'uomo per indicare ciò che va al di là di lui[25].

Ritornando al nostro filo logico principale, facciamo notare che abbiamo dato rilievo all'opinione di questo pensatore non solo per l'importanza che egli riveste per la filosofia contemporanea, ma perché ci sembra indicativa di una "spiritualità" che ritroviamo nell'esperienza religiosa in quanto tale e nelle religioni che in questa attecchiscono. Essa esprime in maniera palese, attraverso l'idea del cammino, del pellegrinaggio, dell'esodo, il muoversi dell'uomo verso Dio, ma in maniera più segreta, ma altrettanto vera, l'intuizione che Dio stesso in qualche maniera viene incontro all'uomo[26].

Se è possibile cogliere tale intuizione alla luce della fenomenologia religiosa, dal punto di vista critico dobbiamo pur chiederci «Ha una qualche plausibilità che l'ulteriore, l'assoluto, l'altro al di là di ogni altro si faccia carico del finito e del contingente? È plausibile che colui che chiamiamo Dio possa intercettare lo sguardo anelante di infinito che traspare da un fuscello pensante e dubitante qual è l'uomo? E perché mai?».

Lo confessiamo: il discorso della plausibilità che l'infinito venga incontro al finito ci inquieta e ci esalta. In primo luogo, abbiamo ancora l'impressione che affermare qualcosa di Colui che, per definizione, ci supera, significhi tradire la definizione stessa dell'ulteriorità, il concetto di Dio. Ma, d'altro canto, non abbiamo altra scelta, non già per asserire qualcosa di ciò che resta umanamente non asseribile, ma per intercettare almeno il deficit di infinito, sì il «vuoto infinito» che il cuore umano si porta e per dire che è un vuoto che solo Dio può colmare. È il cor inquietum[27] di Agostino, ma è anche qualcosa di più. È l'intuizione che al cuore inquieto dell'uomo corrisponde il cuore "inquieto", impaziente di esprimere l'amore, dell'Assoluto che chiamiamo Dio, di colui che potendo anche essere l'Amore assoluto, come tale non si dà mai per vinto se non quando raggiunge coloro che proprio lui infinitamente ama; lui, l'Amore senza inizio e senza tramonto.

2.2      Cristo porta a compimento il passaggio di Dio e realizza l'esodo dell'uomo

La plausibilità di un Dio-persona corrispondente all'ulteriorità sembra si possa collegare alla plausibilità che afferra la realtà in termini non meramente razionali, ma umanamente globali: se Dio esiste e se esiste come amore, è plausibile che l'amore venga incontro a coloro egli ama. La religione può recuperare così l'ultima delle sue radici latine alle quali è stata, più intuitivamente che etimologicamente, ricondotta: religio è re-eligere[28], capacità di una scelta continua, di un amore sempre rinnovato. Ma da parte di chi? Solo da parte dell'uomo? Non di certo. Dalla parte dell'uomo è capacità di recepire un amore sempre veniente, sempre soccorrevole verso l'uomo stesso. Il mondo giudaico-cristiano attesta che questa plausibilità è diventata evento. Storicamente parlando, l'ulteriorità di ogni anelito d'amore, l'Amore stesso, ha soccorso gli uomini e il cuore sempre vigile di chi eternamente ama allora ha avuto riposo, quando ha posto la sua dimora tra loro.

Nell’ebraismo-cristianesimo è dunque chiaro che l’esodo (secondo la variante collettiva del popolo di Dio e quella personalistica dell’uomo in genere) è un atto congiunto di Dio e del suo popolo. Ricorre sovente anche l’idea che Dio passi oltre, ma al di là di quest’immagine, che esprime sempre l’irraggiungibilità del Dio trascendente, il passaggio di Dio appare dalla prima all’ultima pagina della Bibbia come un incessante cammino verso l’uomo. Lo affermano le categorie bibliche dell’elezione, dell’alleanza, della grazia, del progetto di salvezza. Lo attesta e gli dà consistenza storica la venuta del Logos tra gli uomini e nella storia umana. Gesù è il reale cammino storico del Dio che si è mosso alla ricerca dell’uomo, nella concretezza della carne e del sangue, in una vicenda avente precise coordinate spazio-temporali. Esprime con termini umani e passione umana quel “cor inquietum” di Dio, impaziente di incontrare l’uomo:

«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12,49-50, cf. Mc 10,38; Lc 9,22).

Quando finalmente il momento sarà giunto, Gesù confessa a coloro che lo hanno seguito ed hanno creduto all'Amore:

«Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». (Lc 22,15-16).

L'ora del suo esodo dal mondo è scoccata. L’esodo della salvezza che Dio da sempre ha pensato per gli uomini è al culmine[29]. L’amore raggiunge così quanti lo hanno cercato e quanti esso stesso da sempre ha desiderato incontrare. Per tutte queste ragioni, Cristo, perfettamente Dio e compiutamente uomo, porta a realizzazione storica definitiva il passaggio di Dio, ma adempie anche in maniera somma l’esodo dell’uomo.

Con queste considerazioni possiamo sintetizzare il nocciolo del nostro intervento, ribadendo che 1) le religioni sono sempre le diverse espressioni dell’esperienza religiosa; 2) esse nascono intorno alla nostalgia dell’incontro tra il cammino umano e quello divino; 3) sono infine manifestazioni storiche (collettive o individuali) di un effettivo movimento, quand’anche inconsapevole, verso Colui che compie pienamente tale incontro, cioè verso Cristo.

3       I possibili sviluppi (Precisazioni teologiche e recezione delle indicazioni magisteriali)

Giunti a questo punto ci domandiamo: possiamo affermare tutto ciò senza sminuire il valore del cristianesimo e senza fagocitare le altre religioni? C’è qualche indicazione in questo senso nella riflessione magisteriale contemporanea?

Sul versante dell’assenso magisteriale, constatiamo che già il Vaticano II, parlando dei valori religiosi e culturali degli altri popoli (da purificare, assumere, perfezionare[30]), conteneva il riconoscimento che il mistero pasquale della salvezza

«non vale solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale»[31]

L'idea è stata approfondita, più recentemente, nella Redemptoris missio, che ribadisce che le altre mediazioni di vario tipo e ordine relative alla salvezza, come sembra avvenire nel caso delle altre religioni, non sono intese come mediazioni autonome, ma piuttosto partecipate, nel senso che attingono significato e valore nella mediazione di Cristo. Non possono essere pertanto considerate né come parallele né come complementari all'unica e decisiva mediazione salvifica di Cristo[32]. In effetti ogni salvezza passa attraverso Cristo e dal momento che la chiesa ne costituisce la mediazione storicamente efficace, ogni salvezza passa - sebbene misteriosamente - anche attraverso il sacramento universale della salvezza voluta da Cristo[33].

Ciò implica che la salvezza è un dono che Dio offre a tutti, ma che tuttavia richiede di essere assecondato dall'uomo, a qualsiasi popolo appartenga. Richiede di essere assecondato anche dalle espressioni collettive dell'animo umano, da quelle più semplicemente culturali a quelle religiose. Questa risposta positiva, che ogni essere umano ed ogni sua manifestazione culturale-religiosa può dare a Dio nell'autenticità di esistenze che rispondono così all'azione dello Spirito, intercetta sempre il cammino del popolo di Dio. Infatti, la chiesa, proprio in quanto popolo messianico,

« costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità, viene assunto da lui anche come strumento di redenzione per tutti, ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,12-16)»[34].

La partecipazione alla redenzione contiene è anche un riferimento oggettivo alla mediazione salvifica del popolo di Dio. È comunque partecipazione al mistero di Cristo, perché la sconfitta della morte si compie attraverso la partecipazione alla sua risurrezione.

Ci sono altre affermazioni magisteriali che attestano la recezione di quella teologia che ha considerato le altre religioni nell'ottica di particolari mediazioni salvifiche, ovviamente non autonome, ma derivate da quella di Cristo e del popolo di Dio. Tale posizione si può chiamare “cristocentrismo inclusivo”, nel senso che esprime, come qualcuno aveva già indicato negli anni addietro «una pienezza includente»[35]. La pienezza salvifica di Cristo infatti include e non esclude le altre mediazioni, che però manifestano propria in essa tutto il loro valore. Nel dibattito sul quale è intervenuta anche la Commissione Teologica Internazionale, si registra l’interessante riconoscimento che si può raggiungere Dio anche attraverso immagini false di Dio (si pensi al politeismo) o attraverso cerimoniali cultuali e motivazioni mitologiche, oggettivamente non condivisibili. La stessa preghiera praticata nelle altre religioni, e in genere tutto ciò che è espressione dell'esperienza che spinge l'uomo verso il suo esodo, andando incontro all'Assoluto, costituisce un atto salvifico. Si richiede sempre una sola condizione: che si assecondi lo Spirito Santo, che universalmente e incontrollabilmente opera dappertutto. Tale atto salvifico è comunque sempre derivato dalla salvezza universale di Cristo:

«in quanto un atto salvifico si può avere anche attraverso una mediazione erronea; ma questo non significa il riconoscimento oggettivo di tale mediazione religiosa come mediazione salvifica, benché questa preghiera autentica sia stata suscitata dallo Spirito Santo»[36]

Non compete a noi inoltrarci oltre sul piano dell’approfondimento cristologico, vogliamo solo annotare che la proposta da noi avanzata non ha preclusioni o censure. Al contrario proprio perché vede le religioni come vie interpretate e avvalorate dalla Via che è Cristo, ci fa evitare le difficoltà derivanti da altre ipotesi teologiche. Queste, pur di ampliare il concetto di universalità della salvezza e del pluralismo salvifico, hanno eccessivamente distinto, fino a separare aspetti che devono invece restare uniti, quali, ad esempio, il Verbo e la persona di Cristo, il Gesù della storia e il Cristo della fede, il regno di Dio e la signoria di Cristo.

La proposta di considerare le religioni come cammini che non sono paralleli, ma convergenti verso la strada maestra rappresentata da Cristo ci sembra sostenibile per vari motivi. Riprende il tema delle religioni come preparazione evangelica[37], e nello stesso tempo ci fornisce il motivo di fondo del nostro assunto, che però merita un’ultima precisazione. La Via che è Cristo non è infatti una strada accanto alle altre, come se le religioni fossero tutte uguali, considerate indifferentemente come viottoli che portano alla stessa vetta[38]. Non è così, perché Cristo  è la via portante dell’incontro tra il passaggio di Dio e il pellegrinaggio dell’uomo. In Lui convergono i due movimenti già accennati, che ritroviamo anche in alcuni testi magisteriali, come questo:

«Si incontrano pertanto in Gesù Cristo le due vie, provenienti dall'alto e dal basso, che Dio aveva tracciato nell'Antico Testamento per preparare la sua venuta tra gli uomini: [...] dall'alto gli appelli sempre più vicini alla sua Parola, al suo Spirito, alla Sapienza, che discendono nel nostro mondo; dal basso, i lineamenti sempre più precisi di un Messia, re di giustizia e di pace, di un umile servo sofferente, di un misterioso figlio d'uomo, che risalgono e fanno risalire con lui l'umanità verso Dio»[39].

In conclusione, se tutte le religioni sono, ciascuna per la sua parte, una via che sfocia nella via maestra che è Cristo, lo sono per la centralità storica di Cristo, dal momento che tutte le cose sono state create «per mezzo di lui» ed «in vista di lui» (Col 1,16). Venendo nel mondo, Cristo ha offerto un riferimento universale ancora più concreto, perché si è unito ad ogni uomo[40]. Le religioni sono insieme con le culture e i popoli stessi che le praticano, luoghi e strumenti attraverso i quali Dio viene a salvare l’uomo, attraverso il soffio del suo Spirito e il mistero pasquale di Cristo[41] Ma ciò passa per quella duplice via che se nelle altre religioni è adombrata o è presentata come via di Dio e via dell'uomo, di fatto ha valore nella partecipazione a quell’incontro che si compie e si realizza totalmente in Cristo, dove si celebra in pienezza il reciproco cercarsi di Dio e dell’uomo. In questi termini ci sembra di non essere lontani dalla proposta, che viene da altri, di approfondire il rapporto tra religioni e cristianesimo non più su un piano orizzontale (che sfocia in un pluralismo livellante), ma su un piano verticale che coglie il rapporto delle religioni con Cristo senza sminuire la portata del dogma cristologico, e senza disprezzare o rifiutare la ricchezza che ogni religione si porta come suo prezioso patrimonio e come sfida a superare se stessa[42].

 

 

 



[1] Il termine nichilismo indica qui la concezione che nega qualsiasi legittimità a valori in genere considerati fondamentali. È stato usato da F. Nietzsche per indicare la sua concezione distruttiva dei valori tradizionali.

[2] Cf. K. Rahner, «Il problema umano del senso», in Idem, Scienza e fede cristiana, Paoline, Roma 1984, che scrive: «Il senso su cui ci interroghiamo (da non confondere con quello delle singole realtà dotate di senso) deve essere e rimanere sempre il mistero inabbracciabile, mai perscrutabile, mai manipolabile [...] Solo dove l’uomo accetta questa ineffabilità del senso che lo abbraccia e che non è da lui abbracciato e quindi anche della propria esistenza, solo dove l’ammette e le si affida con amore, ha ritrovato ed accettato il suo vero essere. Egli non accetta il senso totale come un senso da lui dominato, ma se ne lascia dominare [...] Noi prendiamo seriamente la nostra questione di un senso totale, riteniamo valida la risposta che vi diamo, riteniamo perciò l’esistenza di un tale senso universale, verso cui andiamo senza fabbricarcelo da noi, una realtà assoluta e chiamiamo tale realtà Dio. La questione del senso e la questione di Dio sono perciò per noi identiche» (281-282).

[3] Paul Tillich (1886-1965) è uno dei più noti teologi protestanti. Di questo Teologo di frontiera, come egli indicava se stesso, è particolarmente interessante è il metodo cosiddetto della correlazione, che consiste nello «spiegare il contenuto della fede cristiana  mediante questioni esistenziali e risposte teologiche in reciproca dipendenza». Ne deriva il valore della religione come vera e propria dimensione costitutiva della realtà umana. Se le religioni sono all'insegna dell'ambiguità dell'uomo, questa può essere vinta - asseriva Tillich - in uno sforzo di autosuperamento con un'ulteriore apertura alla fede. Il cristianesimo, basato su Cristo, offre le basi per questa capacità di restare in atteggiamento recettivo, facendo sì che la religione sia «prima di tutto una mano aperta, per ricevere un dono, e solo secondariamente una mano attiva per distribuire doni» [cf. R. Marlé, «Tillich Paul», in P. Poupard (diretto da), Grande dizionario delle religioni, Cittadella - Piemme, Assisi - Casale Monferrato 1990, 2141-2142].

[4]J. Vidal, «Tillich e Eliade», in Grande dizionario ..., cit., 2143-2146.

[5] Le opzioni sbagliate sono comunque frutto di ignoranza: «In quanto ora, voi monaci, al modo di vivere, che porta male presente così come male futuro, avviene che il non intelligente non lo comprende, non riconosce conforme alla verità: "Questo è un modo di vivere, che porta male presente così come male futuro". Siccome non lo comprende, non l'intende, non lo riconosce conforme alla verità, egli lo segue, non vi rinunzia. E mentre egli lo segue e non vi rinunzia, cresce il non bramato, non desiderato, non piacevole, e diminuisce il bramato, desiderato, piacevole: e perché? Perché proprio così, voi monaci, deve accadere, se uno è ignorante» [Buddha, I quattro pilastri della saggezza, (a cura di K. E. Neumann e G. De Lorenzo) , Newton 19965, 69].

[6] Ivi, 76.

[7]In questa sorta di “santuario” preistorico sembrano esserci i segni di un particolare culto, dimostrato dalla presenza di sette crani di orso rivolti verso l’ingresso e di altre ossa degli stessi animali [Cf. F. Fedele, «Religioni della preistoria», in G. Filoramo (a cura), Storia delle religioni 1. Le religioni antiche, Laterza 1994, 47ss].

[8]È una parte del grande patrimonio preistorico rinvenuto nella Val Camonica, ma non occorre dimenticare che tracce di questa primitiva attività spirituale dell'uomo sono anche in molti altri siti geografici, tra i quali ricordiamo, perché a noi più vicino, la “grotta del Romito” (tra Papasidero e Mormanno), dove tra l’altro alcuni ravvisano i segni di un culto sacrificale.  Cf. G. Ries, «Val Camonica», in P. Poupard (diretto da), Grande dizionario delle religioni, cit., 2206-2208. Sulle figure antropomorfe in posizione orante, talora di fronte al disco solare, cf. J. Ries (a cura di), Le civiltà del mediterraneo e il sacro. Trattato di Antropologia del sacro III, Jaka Book - Massimo, Milano 1992. 

[9]Celebes (Indonesia) è un’isola dell’arcipelago indonesiano. La popolazione, prevalentemente malese, è stata oggetto di studi di antropologia e di fenomenologia religiosa.

[10]Così nell'interpretazione di G. van der  Leeuw, Fenomenologia della religione, Boringhieri 1975, 315 (§ 57,5).

[11]Ivi.

[12]Per la seconda citiamo il passo in cui K. Rahner scrive: «Tali sono l’esperienza dell’eternità, il sentire che lo spirito è più di un frammento di questo mondo soggetto al tempo e che il fine dell’uomo non si esaurisce nella felicità terrena, l’esperienza del rischio e della fiducia piena di slancio, che non trova la sua giustificazione plausibile nel successo su questa terra» (K. RAHNER, Cose d'ogni giorno, Queriniana, Brescia 19862, 52). Per la prima rimandiamo alle riflessioni di Maréchal  e di Przywara [Cf. J. Maréchal, Le point de départ de la métaphysique, V,  Desclée De Brouwer, Bruxelles-Paris 19493 e Cf. H. U. von Balthasar, «Erich Przywara», in P. Vanzan - J. Schultz (a cura di), Mysterium Salutis 12. Lessico dei teologi del secolo XX, Queriniana, Brescia 1978, 347-354].

[13] Oggi la poesia non è considerata più come semplice e seducente invenzione senza contenuti. Molti danno alla poesia il valore di una delle forme espressive più alte della vicenda umana, partendo tanto dall'ermeneutica che dall'antropologia del linguaggio. Cf. P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, (or. 1960); Id., La metafora viva, Jaka Book, Milano 1978 (or. 1975); tra i secondi Cf. G. Calame - Griaule, Il mondo della parola, Boringhieri, Torino 1982; P. Zumthor, Introduction à la poésie orale, Paris 1983.

[14]Vengono presi in considerazioni i Beiträge zur Philosophie, secondo la sistemazione operata da F. W. von Herrmann, nella Gesammtausgabe ed editore dei Beiträge. L'articolo dal quale è partito il nostro approfondimento sulla religione in Heidegger è: J-F. Courtine, «Les traces et le passage de Dieu dans les "Beiträge zur Philosophie" de Martin Heidegger», in Archivio di Filosofia 1-3 (1994), 519-538.

[15]M. Heidegger paradossalmente affermava che la filosofia non può che essere a-tea, nel senso che essendo "fenomenologia" dell'essere concreto e reale, cioè dell'esistenza umana, non può andare al di là di questa, non dovendo e non riuscendo a indagare su un essere che non sia questo essere umano che vive qui e adesso. Scriveva, pero, contemporaneamente a Löwith che per poter cogliere la sua propria identità spirituale e storica si sentiva di affermare «io sono un teologo cristiano». La prima parte della sua riflessione resta comunque, coerentemente con le sue premesse, al di fuori da ogni approccio di natura "religiosa". Solo successivamente riprende tematiche religiose legate soprattutto alla poesia neoclassica e quindi al mondo greco. Nel suo aprirsi alla poesia, alla quale riconosce il valore di cogliere la realtà, possiamo riscoprire le tracce di Dio e del suo passaggio nel suo pensiero.

[16]Cf. §§ 25 e 64. In questa sua opera fondamentale l'analisi arriva a  sollevare la domanda sul chi sono, a motivo del suo approdo, cioè del fatto che l'essere concreto si scopre e si deve accettare solo e propriamente come "essere-per-la morte". «L'analitica precedentemente condotta si scontrava, già per ciò che riguardava la caratterizzazione preparatoria della quotidianità, con la domanda sul senso del chi è l'Essere-qui. Si mostrò che primariamente e per lo più che l'Essere-qui non è esso stesso, bensì è perduto nel Si (Man) stesso. Ciò costituisce una modificazione esistenziale del proprio Se stesso. La domanda sulla costituzione ontologica della stessità (Selbstheit) restò inevasa. Invero fu fondamentalmente fissato il filo conduttore del problema» [M. Heidegger, Sein und Zeit, M. Niemayer Verlag, Tübingen 1979 (or. 1926), § 64, p. 317]. La traduzione è nostra.

[17]Sul tema spesso dibattito dell'ateismo di Heidegger sarà bene partire dalle due domande fondamentali, alle quali oggi si cerca di dare una risposta: Heidegger era ateo? Era indifferente al tema della religione? Alla prima si può rispondere dicendo che la riflessione di Heidegger non si è mai posta, dal versante filosofico, come una ricerca che prende posizione a favore e contro l'esistenza di Dio. A scanso di ogni ulteriore equivoco, l'autore confessava infatti nel 1946: «Con la determinazione esistenziale dell'essenza dell'uomo, quindi, neppure vien deciso nulla su l'"esistenza di Dio" o sul suo "non-essere", e tanto meno su la possibilità  o impossibilità di Dei» [M. Heidegger, Che cos'è la metafisica? (Con estratti della "Lettera su l'Umanismo") (a cura di A. Carlini), La Nuova Italia, Scandicci, Firenze 1953, 119-120]. Ma questo comportava una sorta di indifferenza rispetto alla religione? Heidegger lo escludeva espressamente, affermando che «il pensiero pensante, che si pone il problema della verità dell'Essere, se lo pone in un modo più originale di quel che è  possibile alla Metafisica».. Vale a dire: «solo  partendo  dalla Verità dell'Essere, è possibile pensare l'essenza del sacro, e solo partendo dall'essenza del sacro, è possibile pensare l'essenza della divinità, così come soltanto alla luce dell'essenza della divinità è possibile che sia pensato ed espresso ciò che la parola "Dio" deve significare» (Ivi).

[18]Ivi, 12: «Forse il carattere distintivo di questa epoca è, proprio, in ciò: che a essa è chiusa la dimensione della salvezza, ed è forse questo l'unico suo vero male (Unheil)».

[19]È ciò che si trova già in Sein und Zeit: «Sein ist das transcendens schlechtin» (§7). L'edizione tedesca da noi citata riporta un'annotazione del manoscritto dell'autore: «Transcendens freilich nicht - trotz alles meta-physisehen Anklangs - scholastisch und griechisch-platonisch koinovn, sondern Transzendenz als das Ekstatische - Zeitlichkeit - Temporalität; aber 'Horizont'! Seyn hat Seyendes 'überdacht'. Transzendenz aber von Wahrheit des Seyns her: das Ereignis (M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., 440).

[20]Friedrich Hölderlin  poeta tedesco (1770-1843) il cui referente principale è costituito dalla Grecia classica, ripresa nei termini del mito estetico ed etico, persegue l'intento di una sintesi tra natura e spirito, pur nella recezione di ciò che l'anima greca aveva di più tipico: il senso tragico del fato.

[21]Si possono qui cogliere, di sfuggita, allusioni teologiche, che partono dalla impossibilità di vedere il volto di Dio dopo il peccato delle origini (secondo l'interpretazione di Martin Lutero di Gen 3), come pure il fatto che nei racconti biblici l'uomo incontra Dio sempre di sfuggita e senza mai poterlo trattenere. Di Dio si può cogliere il passaggio, udirne la voce, ma non si può scorgene l'aspetto . Così, ad esempio, in 1Re 19,11.12-13: «Ecco il Signore passò... Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: "Che fai qui, Elia?"». Dio non si può contenere (Cf. 1Re 8,27: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!»; cf. anche Is 66,1; Ger 23,24; At 7,49; At 17,24). Dio non  si può trattenere  (cf. Lc 4,42-43: «Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e volevano trattenerlo perché non se ne andasse via da loro. Egli però disse: «Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città»; Gv 20,17: «Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora  salito  al  Padre; ma và dai miei fratelli"»).

[22]Cf. J-F. Courtine, «Les traces...», cit., 522-523, che spiega questo pensiero appoggiandosi alla considerazione che se i mortali accettano la propria mortalità con serenità e consapevolezza, superano anche gli immortali a motivo della conoscenza che essi hanno della morte e della fine, insomma dell'abisso(Abgründlichkeit).

[23]Così annota Heidegger, pensando alla povertà del Dasein. Il racconto è nella Lettera sull'umanesimo, cf. M. Heidegger, Che cos'è la metafisica?, cit., 124-125.

[24]Su questo punto cf. anche l'opinione, che non ci sentiamo di condividere in pieno, di chi ritiene che Heidegger rifiuti esplicitamente Dio e non abbia compiuto nessun passo significativo verso di lui: E. Coreth, «Fuga o avvento degli Dei? Sulla questione di Dio in Martin Heidegger», in Rassegna di teologia (1996) 581-595.

[25]In ciò il filosofo è più che deciso e prende lo spunto dall'affermazione di Paolo di Tarso: «Dove [è] mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (1Cor 1,20) È questa una delle affermazioni cardini del breve scritto di  M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, La Nuova Italia, Firenze 1974 (originale del 1969). Cosa resta dunque al pensatore per cogliere il passaggio del divino? Resta la via dell'intuizione poetica, la stessa attraverso la quale si coglie il sacro e attraverso di esso una via di salvezza per l'uomo della tecnica (Cf. U. Regina, Heidegger. Esistenza e Sacro, Morcelliana, Brescia 1974).

[26]Sembra interessante ciò che afferma, a proposito della religione G. Vattimo., che ritiene che, grazie alla dissoluzione delle “metanarrazioni metafisiche” del passato, si sono oggi aperte per la religione nuove possibilità di interpretazione, per la religione stessa, che non cade più sotto la critica del razionalismo illuminista. Sono possibilità nuove che fanno cogliere nella religione una positività in termini non di pura e semplice fuga dal mondo fattuale moderno, ma di una nuova interpretazione della stessa religione raggiunta nonostante anzi proprio attraverso il riferimento religioso a una «fattualità originaria, eventualmente leggibile come creaturalità e dipendenza» [G. Vattimo, «La traccia della traccia», J. Derrida - G. Vattimo (a cura di), La religione, Laterza, Bari 1995, 81]. L’autore si spinge fino a chiedersi se oggi la filosofia, diventata interpretazione, non debba prendere coscienza del valore che abbia anche per essa l'idea religiosa della "incarnazione di Dio" nella storia.

[27] Troviamo scritto, a riguardo, in un documento pastorale della Chiesa italiana: «L'impegno di pre-evangelizzazione deve consistere anche nel favorire e sviluppare le "aperture" che l'uomo di oggi ha o può avere al messaggio evangelico, col fargli prendere coscienza che la sua "inquietudine" di fronte al crollo dei suoi miti è di natura metafisica e religiosa, secondo l'esperienza di un grande "deluso" della terra e del mondo, sant'Agostino: "Fecisti nos, Domine, ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te"; col fargli comprendere che la sua aspirazione ad un mondo più giusto e fraterno resterà sempre inappagata finché non si convince che il male sta nel cuore dell'uomo e che solo Cristo è capace di guarire l'uomo e di liberarlo dal peccato e dalle sue conseguenze, che sono appunto i mali di questo mondo; col fargli prendere coscienza che nella crisi di tutte le speranze umane solo Cristo può dare all'uomo la speranza che non delude: "spes quae non confundit"; che la sua ricerca di "qualche cosa" al di là di quello che si vede e si tocca, di una "esperienza religiosa", può essere appagata solo dalla conoscenza e dall'amore di Dio e di Cristo» (Episcopato Italiano,  «Evangelizzazione del Mondo Contemporaneo», 28.02.1974, n 23 : ECEI/2  1006). Cf. anche Paolo IV, Esortazione apostolica Gaudete in Domino. De christiano gaudio: «Sì, il freddo e le tenebre sono anzitutto nel cuore dell'uomo che conosce la tristezza. Si può accennare qui alla tristezza dei non-credenti, allorché lo spirito umano, creato a immagine e a somiglianza di Dio, e perciò a lui orientato come al proprio bene supremo, unico, resta senza conoscerlo chiaramente, senza amarlo, e di conseguenza senza provare la gioia, che arrecano la conoscenza benché imperfetta di Dio e la certezza di avere con lui un vincolo che nemmeno la morte potrebbe infrangere. Chi non ricorda le parole di sant'Agostino: "Tu ci hai creati per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te"? Perciò, è col diventare maggiormente presente a Dio, e con lo staccarsi dal peccato che l'uomo può veramente entrare nella gioia spirituale. Senza dubbio, "la carne e il sangue" ne sono incapaci. Ma la rivelazione può aprire questa prospettiva e la grazia operare questo rovesciamento. Il nostro proposito è precisamente quello di invitarvi alle sorgenti della gioia cristiana. Come lo potremmo, senza metterci tutti di fronte al piano di Dio, in ascolto della buona novella del suo amore?» (EV/5 1254).

[28]Le altre due sono relegere, che indica osservanza cultuale e religari che indica il sentirsi legati al divino,ma anche a tutti e al tutto.

[29] È ancora Luca che indica la fine terrena della vita di Gesù come esodo (Lc 9, 30-31: «Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano del suo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme).

[30]LG 17, EV/1 327: «[La chiesa] con la sua attività fa sì che ogni germe di bene che si trova nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e portato a compimento per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la felicità dell'uomo».

[31] GS 22, EV /1 1389.

[32]«Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall'essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (EV/12 562).

[33]L'enciclica sulla missione condensa questo pensiero ribadendo due fondamentali principi: «La mediazione della chiesa è da intendere, in maniera derivata, come applicazione storica della mediazione di Cristo. Nel senso che la salvezza è sempre possibile anche al di fuori dell'appartenenza esplicita istituzionale alla chiesa, e tuttavia, giacché ogni salvezza passa attraverso Cristo e dal momento che la chiesa ne costituisce la mediazione storicamente efficace, ogni salvezza passa - sebbene misteriosamente - anche attraverso il sacramento universale della salvezza voluta da Cristo» (EV/12 568).

[34]LG 9: EV/1 309.

[35]L. Sartori ha scritto di questo nuovo rapporto in questi termini: «Non rapporto secco fra un “sì” (“sì, solo la Chiesa cattolica è vera Chiesa, sacramento di salvezza”) e un “no” (“no le altre non sono vere Chiese”); ma un rapporto fra ciò che può dirsi “integrale” (cattolico) e ciò che invece resta ancora “parziale ...» [Jesus 8 (1986/10) 9]. Sull'argomento lo stesso teologo è ritornato con sistematicità in L. SARTORI, L'unità della Chiesa. Un dibattito e un progetto, Queriniana, Brescia 1989, cf. particolarmente pp. 26-38].

[36]Commissione Teologica Internazionale, «Il cristianesimo e le religioni», in Il Regno-Documenti 42 (1997/3) 75-89, qui 77 (punto I.4). L’ultima precisazione fa riferimento al testo Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e  Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, Dialogo e annuncio, n. 27.

[37] Costituisce un argomento conciliare classico l’affermazione che Dio non fa mancare agli uomini i suoi mezzi di illuminazione e di salvezza, anche attraverso le religioni di altri popoli: «Infatti tutto ciò che di buono e di vero si trova presso di loro, la chiesa lo considera come una preparazione evangelica, come un dono concesso da colui che illumina ogni uomo, perché abbia finalmente la vita» (LG 16, EV/1, 326). Le religioni «posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare. Sono tutte cosparse di innumerevoli "germi del Verbo" e possono costituire una autentica "preparazione evangelica", per riprendere una felice espressione del concilio Vaticano II tratta da Eusebio di Cesarea» (AG 53, EV/1 1650).

[38]Riprendiamo questa precisazione, facendo tesoro di quanto asserito anche dalla «teologia del processo». In particolare J. Cobb, ha enunciato la relazione tra le vie delle religioni e la Via che è Cristo, insistendo soprattutto sull’atteggiamento spirituale di chi non ha paura del nuovo, ma sa leggerlo nella luce di Cristo: «Come  alternativa a queste proposte io propongo la via della trasformazione creativa, cioè La Via che è Cristo. Ciò che voglio mettere in evidenza è che seguire questa Via non significa affidarsi ad un corpo stabilito di credenze, atteggiamenti e azioni. La fede cristiana è fiducia nella via anche se non sappiamo capire dove essa conduce. La fede cristiana è la volontà di abbandonare la sicurezza di modelli stabiliti per affrontare nuove provocazioni. Credenze estranee, con i loro atteggiamenti e le loro pratiche, che hanno una qualche apparenza ali verità e di virtù, sono le più importanti tra queste provocazioni» [J. Cobb, «Il cristianesimo è una religione?», in «Concilium» 16 (1980/6) 955-971, qui 968].

[39]Bibbia e Cristologia, EV/9, 1321.

[40] Cf., tra l’altro, GS n. 22 EV/1 1385-1390 e Redemptoris missio, n. 6 EV/12, 564.

[41] «Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo lacune, insufficienze ed errori» (Redemptoris missio, 55 EV/12, 656).

[42]Cf. la parte III del già citato documento della Commissione Teologica Internazionale e le conclusioni alle quali perviene Dupuis, che sviluppa la sua analisi interrogandosi sull'universalità di Gesù Cristo e del Regno di Dio, per arrivare, solo in un terzo passaggio, all'universalità della chiesa. Cf. J. Dupuis, «Universalità del Cristianesimo. Gesù Cristo, il Regno di Dio e la Chiesa», in M. Farrugia (a cura di), Universalità del cristianesimo. In dialogo con Jacques Dupuis, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996,19-57. Cf. anche J. Dupuis, «L'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni», in Synaxis 12 (1994) 133-165.