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QUALE TEOLOGIA DI PACE OGGI?
Introduzione
Inizio con una citazione di K.
Rahner, che scrivendo sulla pace, la collegava al tema cardine dell'amore:
"L'amore è per il cristianesimo veramente qualche cosa
di diverso da una organizzazione razionale dell'esistenza umana, che permetta a
ciascuno di ricevere almeno una porzione della felicità offerta dal mondo.
L'amore assomiglia veramente, per taluni aspetti, alla follia,
all'inverosimile, a ciò che non rende, ciò per cui uno viene considerato
sciocco e viene sfruttato. L'amore è ciò che dà ad esempio, il coraggio di
prendere iniziative ardite, di fronte alle quali i nostri uomini politici hanno
tanta paura"[1].
Ho preso in prestito le
parole di uno dei grandi teologi dell'ultimo Concilio, dopo aver riletto il suo
saggio La pace di Dio e la pace del mondo, la cui prima stesura risale
appunto all'indomani di quel decisivo evento ecclesiale, al 1966. La mia
riflessione teologica non può non collocarsi che nel contesto di quella sintesi
conciliare che mette in strettissimo rapporto la pace di Dio con la pace
del mondo, la gloria di Dio con la pace degli uomini. Una pace che
risale tuttavia ad una radice più profonda che entrambe avvolge ed entrambe
giustifica: la follia dell'amore. Se la gloria a Dio che si celebra nell'alto
dei cieli è la stessa che si riversa come pace in terra agli uomini
oggetto della sua benevolenza, la radice è per l'appunto l'eudoikìa,
la benevolenza, che non è che una delle tante manifestazioni dell'amore. La
pace nasce nell'amore e dall'amore e, come l'amore, rischia ogni giorno di
apparire inverosimiglianza e follia.
Come l'amore, la pace è
l'opposto dell'indifferenza e rigetta come insulsa la mediocrità dei
compromessi, del quieto vivere o del "tirare a campare". Se l'amore
è responsabilità di un io per un tu, come è stato giustamente scritto[2], la pace partecipa a questo stesso movimento di
interessamento all'altro e di coinvolgimento nella sorte dell'altro, fino a
rischiare di persona, prendendo in conto, ove fosse necessario, anche l'ultima
follia: dare la propria vita per coloro che si amano. Scrivo queste parole con
trepidazione e commozione, mentre dal giornale ancora aperto sembra
incoraggiarmi la foto del "pacifista ucciso" sul ponte di Sarajevo,
quello stesso ponte diventato emblema di una pace quasi impossibile, e tuttavia
una pace che le pallottole non possono arrestare, né quelle vili che hanno
fermato ieri Gabriele Locatelli, né quelle altrettanto miserabili che fecero
stringere in un ultimo abbraccio, nello stesso luogo, il giovane serbo e la sua
ragazza musulmana, rimasti sul greto del fiume a lungo, a nostra vergogna e a
nostro incoraggiamento. Si, anche a nostro incoraggiamento, perché quella
coppia e quel ragazzo caduto per la pace stanno sempre a significare che
l'amore anche se cade non finisce mai, perché l'amore è più forte.
Ma tutto questo è già
teologia. Il mio intervento vuole solo cercare di capirne il perché. Cogliendo
la richiesta di elaborare uno schizzo su quale teologia di pace oggi,
dovrò per forza di cose tenere in considerazione e collegare l'oggi e la pace,
cercando di cogliere la dimensione che li riferisce a Dio. Una dimensione
teologica che investe l'oggi non meno di quanto non investa la pace,
visto che la pace di Dio è anche pace del mondo e che la seconda non è che la
conseguenza della prima. Scoprirne l'intimo nesso non può, né deve essere
esclusivo compito del teologo, ma è incombenza di tutta la coscienza cristiana,
così come investe tutta la comunità cristiana la testimonianza di una pace che
è come l'amore, dal momento che nasce da esso: una pace più forte della morte,
perché sconvolgendo i parametri razionali umani, attinge alla follia di Dio.
In successivi
approfondimenti ci soffermeremo pertanto a declinare la pace nella sua
fondazione teologica e nelle sue prospettive di principio sistemico per
l'universo teologico, ma anche nelle difficoltà che tutto ciò incontra tra
teologi ed uomini e di Chiesa. Proseguendo da ciò che può essere più
problematico al propositivo, il discorso si snoderà attraverso questi passaggi:
1) La salvezza, la liberazione e la pace: l'agire di Dio e la
prassi dell'uomo; 2) La pace come categoria teologica; 3) La prassi di pace e
la teologia della pace: la pace come passione per l'altro.
1. La salvezza, la liberazione e la pace: l'agire di
Dio e la prassi dell'uomo
1.1. La Gloria di Dio è
la pace sulla terra
Si può essere d'accordo con
K. Rahner nell'individuare il cuore e lo spirito del Vaticano II
nell'inscindibilità del rapporto tra la pace di Dio e la pace degli uomini. Si
può, a buon ragione, affermare che se, come aveva affermato già Ireneo, la gloria
di Dio è l'uomo vivente, la pace tra gli uomini rappresenta l'atto più concreto
e storicamente più rilevante in cui prende corpo la gloria di Dio. Del resto,
se "nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero
dell'uomo" (LG 22), allora la vita umana, con tutto il suo spessore
e nella sua varietà più multiforme, può non solo dispiegarsi, ma ricevere senso
proprio dalla luce di quel mistero, che è il mistero di Cristo, venuto sulla
terra a riconciliare l'uomo e Dio, la terra e il cielo. Da quando Dio ha
attraversato le nostre strade e si è fatto pellegrino sulla nostra terra, il
cielo passa per queste vie, sicché a ragione si può dire che se ormai non c'è
più cielo senza terra[3], è altrettanto vero che non c'è terra senza cielo.
La congiunzione tra la venuta di Dio sulla terra e la vocazione dell'uomo al
cielo risiede tutta in un nuovo appello che la teologia del Concilio ritiene
essere rivolta ad ogni uomo: "Migliora la terra e rendi sempre più umani i
rapporti".
Con questi presupposti e
forti di questa convinzione, negli anni immediatamente successivi al Concilio
nascevano o si affermavano dappertutto nella Chiesa gruppi e movimenti che
riscoprivano il valore delle cosiddette realtà terrestri (in evidente
congiunzione con quelle che erano state chiamate le realtà celesti). Ciò
veniva ad assecondare quanto i teologi, dal loro canto, avevano anticipato in
epoca pre-conciliare: il valore della realtà umana e terrena, a partire dal
progetto salvifico di Dio, un progetto che abbracciava proprio quella realtà
nella sua interezza[4]. Sono noti i nomi di Teilhard de Chardin, di Chenu e
di altri teologi la cui opera è legata a queste tematiche. Sono stati quei
pionieri, che rivalutando l'attività umana all'interno di una più ampia e
profonda teologia che prendeva sul serio l'incarnazione, compivano una sorta di
svolta antropologica (si pensi all'opera del già citato K. Rahner),
ponendo le premesse per quelle riletture teologiche che intorno agli anni
sessanta rispondono ai nomi di teologia della speranza, teologia politica,
teologia della liberazione e, accanto a queste, teologia della pace.
1.2.Come parlare di Dio
nell'oggi della storia
Sono comunque riletture
teologiche che, pur con etichette e con prospettive diverse, sono accomunate
dall'interesse per la concretezza storica dell'uomo salvato dalla Grazia, così
come sono accomunate dalla scoperta del valore da dare all'opera dell'uomo come
risposta di fede e obbedienza della fede. L'importanza teologica
di alcuni studi risalenti a quegli anni e a quelli successivi risiede
esattamente in questa sintesi continuamente ricercata e storicizzata tra
credere ed agire, fede e opere. Ciò accomuna una parte della teologia
protestante e la parte più innovativa della teologia cattolica. Vede uniti
teologi europei ed extraeuropei, che non di rado si sono formati nelle scuole
europee. Le loro teologie appariranno certamente differenziate e in alcuni casi
dissimili, ma non per questo divergenti. Il fondo comune della svolta
antropologica resta e viene unanimemente riconosciuto, anche se cambia la
contestualità dell'uomo e della salvezza di cui Dio gli fa dono. È l'uomo
minacciato dall'omologazione e robotizzazione nel Nord Europa: l'uomo sempre
più incapace di sperare e di credere perché irretito dal capitalismo e
dall'opulenza; ma è anche l'uomo oppresso da poteri militari e dall'apartheid
nei paesi extraeuropei; così come è l'uomo non-persona nei paesi poverissimi
dell'America Latina. Il problema teologico, diventato quello di come parlare di
Dio dopo Auschwitz, diventa ben presto quello di come parlare di Dio
permanendo tuttora Ayacucho. Auschwitz, divenuto cimitero delle speranze
di una cultura occidentale e Ayacucho, nome quechua, oggi nome di una
città peruviana, che significa cimitero, emblematicamente il
cimitero di tutti gli sterminati dalla fame e dall'indifferenza di quanti come
noi vivono nel benessere, ma si dimenticano in fretta, troppo in fretta che la
maggioranza soffre la fame[5].
La ricostruzione delle riletture
teologiche postconciliari, fiorite tanto al Nord, che al Sud del mondo, afferma
a ragione che quelle più significative non sono più teologie del genitivo,
ma vere e proprie teologie prospettiche, che guardano cioè l'universo
teologico da una determinata angolazione. Cercando i fatti che hanno
determinato una tale svolta, alcuni menzionano l'acquisita convinzione che per
il cristiano è indispensabile l'impegno "politico", nel senso di un
impegno storico-sociale, capace di dare carne e concretezza alla salvezza di
Dio e l'acquisizione di una nuova sensibilità escatologica. Sicché, se
da una parte si storicizza nell'oggi e nell'ortoprassi la retta dottrina,
l'ortodossia, dall'altra, proprio per il riferimento alle ultime cose (ta
escatà), la sensibilità escatologica impedisce alla teologia di ridurre la
salvezza a un valore storico-terreno. Il valore preminente del regno di Dio non
si considera mai esaurito nella vicenda intramondana, fosse anche la più
esaltante e la più rivoluzionaria possibile[6]. Anche i differenti percorsi, che secondo altri la
teologia avrebbe attraversato in questo secolo, si possono capire meglio
tenendo presenti questi due fatti fondamentali[7]. Infatti il percorso di Barth e quello della
teologia dialettica in genere, pur con la loro insistenza sulla impredicatività
di Dio e sul valore preminente della sua Parola su ogni altra parola anche
teologica, non può non ricorrere alla mediazione della storicizzazione della
salvezza di Dio, pur sempre gratuita e soccorrevole, nei confronti dell'uomo di
oggi, perché proprio quest'uomo ha una sua contestualità esistenziale alla
quale anche quella teologia fa continuo riferimento. Per forza di cose anche la
teologia evangelica arriva a una sua svolta antropologica prima e politica poi.
Con Bultmann affronta decisamente e sistematicamente il problema del soggetto,
mentre, grazie a Moltmann, può tirare le prime conseguenze pratiche
dell'impegno del cristiano per un mondo rappacificato in Cristo e in continuo
avanzamento verso l'eschaton finale. In campo cattolico la nouvelle
teologie di lingua francese affianca la svolta antropologica, già
accennata, di Rahner, mentre dalla sua scuola emerge con nuovo impulso la
cosiddetta teologia politica.
1.3. Ciò che unisce i
nuovi progetti teologici
È in questo contesto, che
storicizza la salvezza nell'oggi e parte dalla concretezza dei soggetti storici
emergenti, che si afferma la teologia della liberazione in tutte le sue forme
(da quella latino-americana, alla black theology, dalla teologia
asiatica alla teologia femminista). La teologia cerca di saldare insieme i due
tradizionali capi della matassa teologica: la gratuita e sempre rinnovantesi
offerta salvifica di Dio, immessa irreversibilmente ed escatologicamente nel
mondo dalla risurrezione di Cristo, e la risposta dell'uomo come cooperazione a
un compito liberante, in maniera adulta e intelligente, a partire dalle
effettive situazioni dei soggetti, siano esse di natura esistenziale e
psicologica, che di natura sociale e politica[8]. In una parola si tratta di una saldatura che non
tiene solo conto delle varie analisi, (storica, psicologica, economica,
politica) ma che valuta la realtà alla luce del Vangelo e alla luce dei segni
dei tempi, quei segni che Papa Giovanni XXIII e il Concilio hanno
considerato delle vere chiavi per comprendere il progetto di Dio non sull'uomo
in astratto, ma sugli esseri umani di oggi[9]. In questa comprensione dell'uomo alla luce
della fede e nella riconsiderazione della fede tenendo presente l'uomo
situato, c'è un reale ascolto di Dio, mentre se ne cercano le tracce nella
storia; c'è un nuovo, eppure reale atteggiamento contemplativo e persino
mistico. È la comprensione infatti della storia a partire dalla memoria
sovversiva del Crocifisso risorto, come si esprimeva J. B. Metz, che sul
volgere degli anni '70 e gli inizi degli anni '80 riteneva più che mai urgente
riscoprire il valore "politico" della fede cristiana, mentre
attribuiva alla teologia il compito di pervenire alla sua dimensione
doppiamente critica: critica rispetto alla società contemporanea e critica
rispetto alle concettualizzazioni teologiche e alle realizzazioni storiche
ecclesiali[10].
È un'operazione importante
che finisce con il voler coniugare insieme mistica e politica. Mistica, perché
l'humus in cui ogni teologare nasce e si sviluppa rimane saldamente
ancorato alla Parola di Dio e all'esperienza redentiva e per questo liberante
di Cristo, e politica, data la significanza pubblica e storicamente efficace
della memoria sovversiva del Cristo. L'opera di Metz, alla quale si collegano
molti dei progetti teologici più recenti, è significativamente espressa in
questo binomio, lo stesso che è stato scelto come titolo della miscellanea dei
suoi discepoli e amici teologi, pubblicata nel 1988, in occasione del suo 60°
compleanno. Mystik und Politik s'intitola infatti il libro curato da
Schillebeeckx, ma che raccoglie contributi non solo di autori europei come Kuno
Füssel, Helmut Peukert, Herbert Vorgrimmler, Jürgen Moltmann, Dorothee Solle,
ma anche di autori latino-americani come il Card. Paolo Evaristo Arns, Gustavo
Gutièrrez, Leonard Boff ed altri.
Il discorso fatto finora
mette in luce questo filo teologico che può sembrare esiguo, ma che tuttavia
attraversa la teologia contemporanea, da quella delle realtà terrestri alla
stessa teologia politica, dalla teologia della speranza alla teologia della
liberazione. Ove però può apparire al meglio la sintesi tra la dimensione
mistica dell'esistenza cristiana e la testimonianza pubblica della fede è
proprio la teologia della pace, perché in essa, come spero apparirà dal resto
del mio intervento, avviene una sorta di dispiegamento di entrambe, in quel
crocevia rischioso, eppure inevitabile, dove la salvezza di Dio deve essere
concretizzato in scelte e opere di vita, così come la speranza escatologica
deve diventare speranza efficace degli infelici e inizio della loro effettiva
liberazione. La pace infatti ha la particolarità di rendere più immediatamente
evidente lo spessore storico e collettivo di una salvezza che abbraccia tutto
l'uomo e tutti gli uomini. La teologia della pace si collega direttamente all'eschaton,
all'evento del Cristo vincitore della morte e dell'inimicizia, e in forza di
ciò attinge alla dimensione mistica e cristologica della salvezza e ne
considera la carne storica e lo spessore politico. Adoperando come criterio
ermeneutico questo fecondo binomio, tenteremo ora di leggere più da vicino gli
espliciti abbozzi di una teologia della pace.
2. La pace come categoria teologica
2.1.Dalla teologia dell'azione
alla teologia della pace
Non è un caso che il primo
studio sistematico dal titolo esplicito teologia della pace sia stato
compiuto da un autore che pur essendo europeo compare tra i teologi più noti
della teologia della liberazione latino-americana. Si tratta di Joseph Comblin,
la cui opera Théologie de la paix è pubblicata a Parigi agli inizi degli
anni '60. È lo stesso autore di cui è spesso citata una recensione sulle
cosiddette teologie della prassi a partire al 1930. In quest'ultima
opera, registrando gli impulsi innovatori della teologia degli inizi del nostro
secolo, l'autore li ravvisa nel ritorno alle tre fonti prioritarie del metodo
teologico: biblica, patristica e liturgica. Segnala tuttavia come realmente
decisivo l'ingresso dell'azione in teologia come tema teologico esplicito[11], che costituisce la base delle nuove teologie
raccolte sotto le dizioni: teologia della storia, teologia delle realtà
terrestri e teologia del laicato[12]. Sono teologie dell'azione, ma che non scadono mai
nel pragmatismo. Al contrario sono pervase da un senso escatologico e persino
da una spiritualità che sfocia non di rado in quella sana dimensione mistica
che accompagna e giustifica un maturo e consapevole agire del cristiano nel
mondo. Si può ritrovare anche qui quella sintesi che ha animato anche la
teologia successiva precedentemente considerata, la stessa che ritroviamo al
fondo della teologia della pace di J. Comblin. Dopo aver esposto in un
primo volume i principi basilari della teologia della pace, l'autore si
sofferma nel II volume a considerare le alterne vicende del tema della pace
durante i secoli della storia della chiesa per arrivare ad un'esposizione più
sistematica di quella che dovrebbe essere una genuina dottrina della pace, non
astrattamente considerata, ma vista nella prassi del cristiano e della chiesa
in genere.
2.2.Il superamento della
dottrina della pax costantiniana
Riandando, seppure
brevissimamente, a quel momento storico che ha segnato profondamente vicende e
pensiero della cristianità, alla pax costantiniana, non si potrà
facilmente essere in disaccordo con chi come Comblin sottolinea che il progetto
di pace imperiale condizionò fortemente anche la teologia della pace,
provocando un'involuzione pressoché totale della coscienza cristiana nel
rapporto con il potere statale e quindi anche con l'uso della violenza
militare. La teologia passava dal rifiuto della violenza e dall'obiezione di
coscienza dei primi secoli, che faceva negare il giuramento di fedeltà
all'imperatore, alla convivenza e al compromesso con gli organi statali
costituiti. Proprio questi, forti di un'alleanza con la chiesa, potevano da
quel momento in poi giustificare l'impiego dell'esercito imperiale e ogni altro
intervento di natura coercitiva e violenta, giustificandoli come parte di quel
progetto di pacificazione che lo stesso Costantino non aveva nascosto nemmeno
al concilio di Nicea[13]. La pax costantiniana non era però altro che
la riverniciatura cristiana della pax augustea, quel formidabile e disastroso
strumento ideologico-militare con il quale l'impero romano era riuscito a
conquistare e dominare il mondo raggiungibile dell'epoca. Il meccanismo era lo
stesso. Se cambiava la copertura religiosa, non cambiava il progetto
espansionistico. Diventava semmai più subdolo, perché a Nicea Costantino
espresse i due punti del suo programma: diffondere la fede cristiana e
mantenere la pace nell'impero[14], associando la missione, caratteristica fondamentale
della fede, alla pacificazione pur sempre imposta con le lance e le spade dei
legionari.
Il fatto teologicamente
rilevante è che con Costantino la chiesa e non solo la cristianità riconosce un
ruolo salvifico all'impero, ritenuto provvidenziale e strumento di preparazione
dell'avvento del Regno di Dio. L'escatologia subisce un forte inquinamento
ideologico e giustifica anche l'uso della coercizione fisicamente e non solo
moralmente violenta, in forza di quel passaggio già accennato dalla pax di
Augusto alla pax di Costantino. Ciò che si eredita è però non solo un
ideale, ma anche tutto lo strumentario ideologico. Se il motto vetero-romano
era: si vis pacem para bellum, esso non viene di fatto mai rinnegato. Il
militarismo ha le sue leggi e le sue coperture alle quali non può non
appellarsi, pena lo scadimento in assurdità palese e perdita di credibilità tra
la gente. Cosicché anche l'impero cristiano prosegue nella stessa logica. E la
logica evangelica? E la pratica della non violenza e il rifiuto del servizio
militare? Il Vangelo non è ovviamente rinnegato (né poteva esserlo), ma è per
così dire circoscritto e delegato solo ad alcuni: a quanti saranno ministri di
culto nella stessa cristianità.
Non si sottolineerà mai
abbastanza quanto abbia nociuto alla chiesa e alla diffusione del vangelo
questa sorta di delega degli ideali evangelici a una minoranza e ad una casta..
La follia della carità evangelica è stata di fatto ritenuta interamente folle,
impraticabile e la chiesa ha dovuto dedicare non poche energie all'arruolamento
ed addestramento (termini militari, ma che qui hanno il loro senso) di gruppi
specializzatisi all'osservanza integrale del vangelo[15]. Ciò ha
impedito che si spegnesse del tutto l'ideale della pace evangelica, anche se
questa è stata ritenuta radicalmente inetta a governare i popoli e a conservare
la pace politica.
Chi, come noi oggi, si pone
il problema di una valutazione del passato, non già per una condanna, ma per
una sua comprensione che ci faccia superare le sue contraddizioni, si trova di
fronte non solo a una successione di avvenimenti che si sono autogiustificati
con la premessa ideologica precedente. Ma non si può nemmeno sottrarre al
dovere di formulare un giudizio sull'adempimento di quella promessa sempre
fatta, ma non mantenuta, della pax costantiniana: la pace non ha di
fatto regnato nell'Occidente ed esso, pur qualificandosi come cristiano, ha
dipanato la sua storia plurisecolare passando da una guerra all'altra, da una
persecuzione all'altra, da una conquista all'altra. Cosa ne è dell'ideale
imperiale, ritenuto il più realistico possibile, di una pacificazione che la
coercizione avrebbe certamente portato e mantenuto nel mondo occidentale? Non
si può contraddire Comblin quando, tirando le somme, conclude: "Non
soltanto l'Occidente non è riuscito a fondare la pace, ma gli sforzi smisurati
che ha compiuto per conquistarla l'hanno portato spesso a fare la guerra.
Guerre per mantenere l'ordine e per diffondere la libertà; guerre contro i
barbari e contro i tiranni; guerre di conquista e di liberazione; guerre per
estendere l'ordine; guerre per la trasformazione materiale del mondo e per la
civiltà: tutte guerre combattute in nome della pace"[16].
Se, alla luce della Parola
di Dio e dei segni dei tempi, ci chiediamo ora come ciò sia potuto accadere, la
risposta non può che essere una. Il "realismo" della pace imperiale
prima, e quella dell'occidente cristiano in genere, non è divenuto reale per il
semplice motivo che il potere ha le sue leggi e le sue dinamiche che si
impongono comunque. Anche al di sopra dei professati e decantati ideali cristiani,
ogniqualvolta questi vengono ritenuti puri ideali, incapaci di incidere
efficacemente nella storia. Lo stesso si può dire delle varie coperture
ideologiche che, in epoca più recente, si sono portate a proposito della guerra
giusta, della guerra di legittima difesa e della guerra condotta per mantenere
l'ordine e la giustizia nel mondo. Agli inizi del nostro secolo lo aveva ben
compreso Benedetto XV, se poteva autorevolmente affermare:
"Ma per non contenerci più sulle generali, come
le circostanze Ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte
più concrete e pratiche, ed invitare i governi dei popoli belligeranti ad
accordarsi sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una
pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi governanti di precisarli e
completarli"[17].
L'ammissione di essere
finora rimasti nel vago è accompagnata da una duplice presa di distanza: la
dottrina della pace che si mantiene con le armi e l'alleanza almeno ideale, se
non ideologica, della chiesa ufficiale con i regnanti cattolici, che di fatto
non era che un prolungamento della dottrina costantiniana. Benedetto XV si
distanzia da entrambe le pregiudiziali e prosegue:
"E primieramente, il punto fondamentale deve
essere che sottentri alla forma materiale delle armi, la forza morale del
diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e
reciproca degli armamenti, secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura
necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli
Stati; e, in sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato, con la sua
alta funzione pacificatrice, secondo le norme da concertare e la sanzione da
convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni
internazionali all'arbitro o di accettarne la decisione"[18].
2.3.I pilastri della teologia della pace
Ripensando ai motivi
teologici che da Costantino fino a Benedetto XV hanno provocato
l'allontanamento della coscienza cristiana dalla pace biblicamente intesa e ne
hanno invece prodotto una a misura dei regnanti, non è da tralasciare il fatto
che sia stata abbandonata proprio la tensione verso quella sintesi
mistico-politica che abbiamo visto essere determinante per una corretta
impostazione teologica del tema in questione. Riponendo la teologia della pace
tra i sogni chimerici e ritenendo la pace puro e semplice dono escatologico, la
coscienza cristiana ha compiuto la doppia scelta di privatizzare la fede e di
lasciare campo libero ai governanti, che in caso di guerra, per adempiere la
moralità non dovevano fare altro che attenersi ai principi della "guerra
giusta". Gli stessi principi che si facevano risalire ad Agostino e
Tommaso. L'impraticabilità di un discernimento in questo senso e le
autogiustificazioni addotte dai regnanti (spesso entrambi cristiani) in guerra
tra loro, nella lunga storia della cristianità, ha reso questa dottrina
"realistica" della pace molto più "chimerica" di quella di
una pace basata su ben altri principi: quello della nonviolenza e della
resistenza non militare all'eventuale avversario.
Per arrivare a capire la
portata di tale innovazione, sarà tuttavia utile riportare alcuni giudizi
completamente negativi sull'impero romano e la sua ideologia di chi come S.
Agostino viene troppo spesso invocato a ideologo della guerra giusta. Della
smania conquistatrice di Roma il vescovo di Ippona, uno dei conquistati da
quello stesso potere onnipotente, diceva che nasceva da una libido dominandi
e che se la sicurezza era garantita dalle guarnigioni dei legionari, tutto l'ordine
romano nel suo insieme non era che un grande disordine, un immenso atto di
brigantaggio, un grande latrocinium[19]. Ipotizzava pertanto come atto ripatore e come nuovo
ordine istituzionale una comunità di popoli differenti e reciprocamente
rispettosi che consentisse anche ai regni più piccoli prosperità e pace. Un
progetto "utopico" che anche S. Tommaso d'Aquino arriva a
intravedere, se ritiene che la pace fondata sulla vittoria delle armi è come la
pace dei peccatori, fondata sul terrore, e quindi non è in realtà vera pace[20]. È in questo contesto che si comprende come lo
stesso Tommaso affronti il tema della pace nel trattato sulla carità e non in
quello sulla giustizia. Con Agostino e la tradizione a lui antecedente, anche
Tommaso non può ignorare che la pace nasce dalla carità e ne è suo concreto
coronamento, anzi la pace è caritatis actus[21], opera e frutto della carità. Diremmo oggi che la
pace è l'amore che diventa prassi e questo perché non ci può essere in realtà
amore che non diventi prassi.
Il pensiero di Tommaso non
resterà isolato nella storia della teologia, anche se occorre dire che sotto
l'urgenza delle giustificazioni da fornire all'espansionismo dei regnanti
medievali e rinascimentali, fino ad arrivare alle teorie giustificatrici della conquista,
non pochi teologi hanno lasciato nel cassetto quest'autentico pilastro della
teologia della pace. Certamente non possiamo qui soffermarci su quei teologi
che giustificano la guerra e la conquista come Francisco de Vitoria, nato il
1492, lo stesso anno in cui Colombo approdava in America e ne prendeva possesso
a nome dei cristianissimi sovrani di Portogallo. Le Lezioni sul diritto di
guerra del teologo spagnolo sviluppano casuisticamente le restrizioni
tomiste, incluso il dovere dell'obiezione di coscienza in caso di ordine del
principe di violare palesemente la giustizia, e tuttavia giustificano la
liceità della guerra e dell'espansionismo, in nome del potere che i principi
(ovviamente cristiani) hanno non solo sui loro sudditi, ma anche sugli stranieri,
per
"costringerli ad astenersi dall'ingiustizia, e
ciò in virtù del diritto delle genti e dell'autorità del mondo intero. Anzi
sembra che questo sia il diritto naturale: altrimenti il mondo non potrebbe
vivere con stabilità"[22].
Non tutti erano di quest'avviso.
Qualcuno come Bartolomeo de Las Casas mostrava un autentico spessore profetico,
quando, mettendosi contro il parere dei più, affermava:
"Uno di quelli ai quali incombe il compito di
predicare la parola, potrebbe giudicare conveniente che gli infedeli si
sottomettano alla dominazione del popolo cristiano, perché, una volta
assoggettati, si potrebbe insegnar loro la fede in modo puntuale [...] A questo
noi rispondiamo ciò che segue. Ché né gli infedeli, né soprattutto i loro
principi, vorrebbero sottomettersi volontariamente alla dominazione del popolo
cristiano e allora sarebbe necessario di arrivare inevitabilmente alla
guerra"[23].
Ma la guerra non può
essere accettata come fatalità, né in forza di un fine superiore. Con il vero
realismo dell'uomo di fede, ma che ha compassione e amore per il prossimo, il
profetico domenicano proseguiva:
"Ora la guerra produce i mali seguenti:
invasioni e assalti ripetuti, impetuosi, furiosi; violenze e gravi
perturbazioni; scandali, morti, carneficine, massacri, rapine, spoliazione; i
genitori sono privati dei loro figli e i figli dei loro genitori; la
devastazione di città, di villaggi, di popoli innumerevoli [...] In realtà cosa
è la guerra se non un omicidio e un ladrocinio generalizzato? E più esso si
allarga e più diventa criminale. A causa di essa migliaia di innocenti sono
precipitati in una estrema disgrazia. Per così dire, gli uomini nella guerra
perdono le loro anime, i loro corpi, i loro beni"[24].
La motivazione profonda di
una decisione così netta non può essere che di natura spirituale. È il
riferimento a Cristo e ai suoi apostoli, al Crocifisso e al suo modo di
convertire le genti. Ancora una volta proprio l'autentica dimensione mistica
attinge la vera pace evangelica, l'evangelium pacis[25].
Sono testi sorprendentemente
moderni anche se vengono dalla stessa epoca della conquista e ciò
significa che il principio, spesso apologeticamente invocato, che non si può
giudicare il passato con la sensibilità moderna, non convince del tutto. Non
convince, perché uomini come Francesco d'Assisi prima e Bartolomeo de las Casas
poi, pur essendo contemporanei dei teologi che giustificavano la guerra e la
conquista violenta dei pagani, hanno saputo, in forza del vangelo, opporre un
rifiuto secco e motivato. Evidentemente quando ci si lascia parlare dal vangelo
non c'è epoca che tenga.
Ma con questo riferimento
alle fonti più genuine della teologia della pace, al Vangelo e all'esempio di
Gesù, all'unione con lui che deve contraddistinguere il cristiano, al carattere
pubblico e testimoniale della sequela, possiamo rafforzare la nostra tesi che
ritiene che lì dove la dimensione mistica dell'esistenza cristiana diventa
reale e operante non può attecchire la violenza, né può esistere alcuna
giustificazione ideologica di essa. È anche questo un filone ricorrente,
sebbene minoritario, nella storia della teologia e che ritroviamo, ad esempio,
in Erasmo da Rotterdam[26], così come, tra i protestanti, lo ritroviamo presso
i Quaccheri, che in nome della fraternità cristiana praticavano l'obiezione di
coscienza, affrontando prigionia e persecuzione[27] e presso gli anabattisti[28]. Nella storia della chiesa cattolica nel 1800 contro
l'ondata di militarismo che investiva la Germania, alcune personalità di spicco
della cultura e della chiesa tedesca come il vescovo Wilhelm Emmanuel Ketteler
e il gesuita Georg Michael Pachtler indirizzarono precise petizioni al Concilio
Vaticano I perché prendesse posizione contro questo fenomeno[29].
Per il resto, però, occorre ammettere che gli ultimi
secoli, fino ad arrivare a Benedetto XV, non hanno visto i cattolici, né il
magistero ecclesiastico impegnati sul tema della pace se non in qualche rara
eccezione[30]. Anche in questi casi, le idee centrali alle quali
fa appello ogni abbozzo di teologia della pace, sia in campo protestante, che
in campo cattolico, è un preciso riferimento cristologico: la prassi e
l'insegnamento di Gesù impongono ai cristiani, alla chiesa e a quanti non si
rassegnano alla violenza, comportamenti adeguati. Infatti, ritornando ai nostri
giorni, quella teologia della pace riemerge puntualmente con gli stessi
argomenti di fondo, anche se richiede oggi più che mai una sistemazione non
solo dottrinale (cosa che è parzialmente avvenuta e la Pacem in terris ne
costituisce il momento di rilancio provvidenziale ed essenziale).
Se, in sintesi, si può affermare che la riflessione
teologica ha focalizzato in questi ultimi due decenni il duplice carattere
mistico e politico di ogni teologia incarnata, si può ugualmente concludere che
la teologia della pace di cui la chiesa e il mondo hanno bisogno è una teologia
che non deduca la pace da altri principi teologici, ma che parta dalla pace
tout court e ne evidenzi essenza e morfologia movendo da una prassi precisa: la
prassi di Dio, irreversibilmente immessa nel tessuto della storia da Cristo e
comunicata alla comunità di quanti credono in lui, cioè di quanti credono
all'amore.
3. La prassi di pace e la teologia
della pace: la pace come passione per l'altro
3.1. Perché la teologia della pace non può nascere che da una prassi di
pace
Il richiamo alla prassi
non deve sembrare eccessivo. Se, in genere, senza prassi non esiste
corrispondente teoria, senza un vissuto di fede non esiste teologia[31], così come senza sequela di Gesù non esiste prassi
veramente cristiana. Tutti i nostri riferimenti storici hanno messo in luce che
la pace nasce e si radica in un agire e precisamente nell'agire in conformità
con Cristo, prendendo a cuore coloro che egli ha preso a cuore. È proprio tale
riferimento a Cristo come artefice di pace che ci consente di rispondere alle
certamente non superficiali obiezioni di chi ritiene problematica una teologia
della pace che sia dedotta dal semplice shalom vetero-testamentario (pur
tuttavia ricchissimo di significati) o che sia solo la risposta estemporanea a
un bisogno impellente dell'oggi, ma che non ha una effettiva capacità di
resistenza oltre un singolo periodo storico[32].
Può sopravvivere una
teologia della pace e resistere oltre l'immediato e ciò che è attualmente
impellente? Per non mettere il carro davanti ai buoi, si può rispondere che
innanzi tutto bisognerà produrre un'adeguata teologia della pace, o meglio una
teologia che non sia una nuova teologia del genitivo, ma una
riflessione saldamente ancorata alla fede e criticamente e sufficientemente
rispondente alla criteriologia dei segni dei tempi. Che, al contempo,
sia organicamente collegata alla prassi, in un duplice senso: in quanto
recettiva e riflessiva rispetto a questa e in quanto capace di orientare la
stessa prassi cristiana[33]. Ma si potrebbe obiettare: non si chiede troppo? Si
chiede in realtà solo ciò che un'autentica riflessione teologica non può
disattendere: il legame costante con la Parola di Dio recepita e vissuta
nell'esperienza cristiana e con quel suo intimo dinamismo che tende ad
attualizzare e rendere pubblica l'esperienza di fede. La testimonianza di una
realtà salvifica non come auspicato benessere per la propria individualità o
per la propria chiesa, ma come promessa per il mondo[34]: per gli uomini di ogni latitudine e per la stessa
materia. Si chiede troppo? E tuttavia si può replicare: ma una teologia che non
soddisfi queste pretese è veramente teologia?
3.2. La pace come
promessa che prende carne nel mondo
La teologia non si
interessa di astrazioni su un ipotetico Dio in quanto pura e concettuale
trascendenza, ma di un l'Assoluto che è alla sbarra del relativo, coinvolto
nella prassi storica di esseri umani, sicché la questione su Dio non è
accademica, ma è spesso una questione di vita o di morte[35]. In questa prassi umana, che si dibatte tra la vita
e la morte, assume nome e carne l'Assoluto. La teologia della pace muove da
questo primo e inaudito evento, quello che sconvolge non solo ogni logica
umana, ma anche ogni rassegnato guardare alla vicenda umana come inevitabile
cifra di decadimento e di scacco[36]. Se Dio si fa carne tra gli uomini e diventa uno di
loro, il suo muoversi nel mondo e nella storia non può restare ininfluente per
lo stesso mondo e la stessa storia. Il suo apparire sulla terra dimostra una
inoccultabile passione per quelli che sulla terra nascono e muoiono, piangono e
ridono, progettano e sperano. La carne di Dio divenuto uomo non è separabile
dai progetti di Dio; il suo piangere lacrime umane nel mondo non si può
sdoppiare dal suo agire affinché questo mondo migliori. Se Cristo è il nome del
fallimento e delle speranze dell'Assoluto, nell'agire di Cristo c'è la cifra
teologica che svela l'autentico destino della storia e degli esseri umani assunti
come suoi fratelli nello stesso mondo. Più sinteticamente, se tale
interessamento di Dio alla sorte umana prende corpo in coordinate di spazio e
di tempo, Cristo è il nome della passione che l'Assoluto nutre per l'uomo, per
tutti gli uomini e per ogni uomo.
L'annuncio di questa
passione per l'uomo manifesta la gloria di Dio e la pace sulla terra. A darlo
sarà Cristo stesso, quasi smarritosi sulle nostre vie e incespicante tra le
contraddizioni umane. Andrà avanti, fino in fondo, fino alla fine e recherà lo
stesso messaggio che alcuni udirono nella notte in cui venne al mondo:
"Gloria a Dio e pace sulla terra". Il suo messaggio trasformerà la
congiunzione grammaticale in un'asserzione verbale: la gloria di Dio è
la pace sulla terra. Ma che tipo di pace? Certamente non la pace dei
dominatori, ma la pace che realizza la fame di giustizia che sale da quanti
sono curvi a piangere l'oppressione. Ciò qualifica e connota definitivamente
ogni futura teologia della pace. Non la pace periodica sosta della guerra[37], né la pace che rappresenta il coronamento dei sogni
umani, il compimento di quanto il cuore dell'uomo da sempre si augura,
cambiando il segno di tutte le sue sconfitte e proiettando in un'ipotetica
situazione paradisiaca le sue aspirazioni ancestrali.
Giustamente, per una corretta teologia della pace non
basta una pace che sia solo una dimensione antropologica assurta a valore
assoluto[38]. Anche rispetto allo shalom, occorrerà dire
che il vangelo della pace ha una sua eccedenza e che non viene a
ricoprire semplicemente gli ambiti, pur vastissimi, della pace
vetero-testamentaria. Certamente la pace che porta Cristo è da capire anche
alla luce dello scomodo logion in cui egli afferma:
"Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e
come vorrei che fosse gia acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come
sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare
la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione" (Lc 12, 49-51).
Ma affermato questo, si può negare che il vangelo sia
tale, e cioè evangelium pacis, e divenga, ad esempio, evangelium
crucis? Evidentemente no. E non solo perché il mistero della croce senza
quello della risurrezione non sarebbe che una menomazione del kerygma[39], ma perché la pace che Gesù lascia ai suoi la sera
della Pasqua è rischiarata dal sole della risurrezione. È riconciliazione con
Dio e tra gli uomini, attraverso il ministero della riconciliazione[40], ma ciò è anche inizio di una pace che si estenderà
al cosmo intero[41].
Nonostante le inevitabili
incomprensioni, separazioni, persecuzioni[42] cui i figli di Dio, i "costruttori di
pace"[43] andranno incontro, l'annuncio da loro ricevuto e
trasmesso non può essere che la lieta notizia di un compimento, non come puro e
semplice adempimento e traguardo di desideri umani (la semplice Voll-endung:
pienezza finale), ma l'atto centrale dell'azione di Dio. La sera del primo
giorno dopo il sabato in cui Gesù dà la pace e impegna i suoi a trasmetterla, è
la sera del compimento, quello stesso che l'aveva fatto esclamare dall'alto della
croce: "tutto è compiuto", nel senso che "tutto è stato portato
a perfezione"[44]. Il
compiersi di questi due pomeriggi, quello del venerdì e quello della domenica
di Pasqua, ricorda da vicino l'adempiersi di un altro, definitivo giorno,
quello della Pentecoste, di cui si dice espressamente che arrivava a perfezione[45]. L'evangelo è l'annuncio di questo compimento che è
l'inizio di un perfezionamento definitivo e così l'hanno capito gli agiografi
neo-testamentari, i quali hanno afferrato lo "scompiglio" di Cristo
come vera pace e annuncio di pace[46].
Si tratta di una pace che non si ammanta di irenismo
perché è sempre coniugata con la giustizia, di cui sembra essere la sorella
gemella, non nel senso greco, ma perché Dio chiama le sue creature a
realizzarla insieme con la giustizia. Lo shalom ebraico le coniuga
insieme[47], così come fa anche il Nuovo Testamento. È
nell'ottica della pace data da Gesù che Giacomo può esclamare: "Un frutto
di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace"
(Gc 3,18), chiudendo così la circolarità dell'espressione di Isaia:
"effetto della giustizia sarà la pace" (Is 32,17). La teologia della
pace non può ignorare questa complementarità che vede "la pace nascere
dalla giustizia", e "la giustizia come frutto della pace".
È l'intimo e
irrinunciabile legame alla giustizia che ci fa comprendere che l'annuncio
gioioso a favore di quanti la costruiscono è lo stesso che proclama felici
quelli che hanno fame e sete di giustizia e coloro che piangono a motivo di
essa. La pace dunque fornisce corpo non a delle speranze generiche, ma immette
i poveri e gli infelici nell'eschaton di Dio, ne fa i protagonisti,
perché ad essi, agli sconfitti e ai perseguitati, appartiene il regno dei cieli
(Mt 5,1ss). Se tutto ciò è stato compiuto da Dio ed è una meraviglia ai nostri
occhi (cfr. Sal 118,23), possiamo affermare che la prima teologia della prassi
è teologia dell'agire di Dio, ma questa è anche teologia della pace: teologia
che annuncia le opere di Dio, le cui promesse prendono finalmente carne nel
mondo.
3.3. Pace, solidarietà e
liberazione
L'opera di Dio nel mondo
chiede la collaborazione umana, non perché ne abbia indispensabile bisogno, ma
perché la sua opera la prevede e la richiede. Se infatti è questo il suo
progetto, ha senso l'espressione biblica che parla del fare la pace. All'espressione
di Gesù si accompagna ben presto anche quella di apostoli come Pietro e Paolo,
che diventati essi stessi artigiani di pace all'interno delle comunità
primitive e tra comunità provenienti da mondi diversi, raccomandano che il
cristiano si dedichi alle opere di pace e all'edificazione vicendevole
(Rm 14,19), eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua
(1Pt 3,11). Cercare la pace e seguirla significa immettersi nella scia del Regno
di Dio, diventare costruttori di pace, perché bisogna seguirla, così come si
segue Cristo. Sequela di Gesù ed edificazione della pace ricompongono così il
binomio mistico-politico che forse può costituire una soluzione al problema
teologico lasciato irrisolto dal vaticano II e che riguarda il valore
dell'agire umano nella "costruzione" del Regno di Dio.
Costruire la pace agendo nell'ottica e nel solco
dell'agire di Cristo significa infatti far dipendere il proprio operare dalla
continua conversione a Cristo, nella radicalità della sua sequela. Una
radicalità che significa perfezionamento e superamento della logica umana,
essendo chiamati ad essere radicali (cioè perfetti) fino a seguire con
totale fiducia e abbandono la logica delle beatitudini e le direttive del
discorso missionario. Se Gesù vuole che i suoi vadano senza bisaccia e senza
bastone (Lc 9,3) la nonviolenza non è facoltativa per il suo discepolo[48]. Se questi si fida ciecamente di Colui che lo manda,
realizza l'unione mistica con Cristo ed opera efficacemente per il mondo.
Certamente non con parametri mondani, né di per sé creaturali, ma non
per questo il suo agire è meno realistico. Al contrario egli continua la follia
del realismo del maestro[49].
La prassi di pace non è
che una liberazione già in atto. Legata alla giustizia del Vangelo che si pone
dalla parte degli ultimi e rifiuta la convenzione, inventata dai ricchi, del dare
a ciascuno il suo, la costruzione della pace attinge continuamente a una
riserva escatologica che non esclude la persecuzione e nemmeno il martirio.
L'amore cristiano non traccia confini così netti tra il mio e il tuo,
perché si alimenta alla sorgente dell'amore che continuamente si dona e che
piange della sofferenza dell'altro e gioisce di cuore della gioia dell'altro
(Rm 12,15). È anche la grande lezione della Pacem in terris, che
considera ogni dimensione dell'umano come parte di un unico intreccio.
Ma ciò significa anche che
la teologia della pace mette in conto una sorta di visione. Senza
perdere il suo realismo, anzi proprio in nome di una realismo più ampio, vede
relazioni e riconciliazione lì dove il buon senso non vede che nemici ed
ostacoli. È un'operazione che certamente avviene nella fede. Fede esplicita,
oppure fede implicita in chi supera la contingenza e dà per la pace non solo
qualcosa, ma è disposto a dare anche se stesso, è disposto anche a passare per
folle[50]. Afferma K. Rahner:
"Orbene, in simili casi un uomo può conseguire la grandezza e la
libertà interiore, per venire e capo di simili rinunce in tutto silenzio e
senza gratifica alcuna, solo se egli è aperto a quella Realtà e a quella
Realizzazione (Erfüllung) che noi chiamiamo Dio"[51].
Dio appare così la "Possibilità che trascina
ogni altra possibilità della pace", la cui sensatezza non è presente nelle
singole e limitate realtà creaturali. Per questo chi più si avvicina alla pace
si avvicina a Dio, a qualunque popolo appartenga.
Ma non avviene qualcosa di
simile anche per chi s'impegna per la liberazione andando perfino contro i suoi
interessi e le fattibilità contingenti? Per chi non si rassegna a che l'altro
essere umano sia calpestato e deriso, dimenticato e discriminato. La
liberazione passa attraverso un cammino che è insieme culturale e spirituale:
dall'altro come nemico all'altro come amico, dall'altro come diverso all'altro
come parte di me[52], per cui il mio io, ogni io, non può essere più
considerato secondo la cultura della modernità come unico soggetto autarchico
ed autoreferente, ma come realmente responsabile dell'altro[53]. In questa riscoperta dell'altro e nel cammino per
una riavvicinamento tra differenti culture che sanno convivere pur nella
diversità e che si sentono ciascuna per la sua parte corresponsabili del tutto[54], A. Rizzi individua il nucleo del suo abbozzo di una
teologia europea della liberazione. La pace vi riveste un'importanza decisiva e
letterariamente costituisce infatti uno dei capitoli centrali del suo libro.
Anche a noi sembra che teologia della pace e teologia
della liberazione siano profondamente collegate tra loro. Sembra anzi che la
pace, colta nell'accezione teologica summenzionata, pur con tutta la sua
ricchezza polisemantica, come è stato scritto, possa costituire una prospettiva
ed un orizzonte complessivo con cui rivisitare tutta la teologia. Alle argomentazioni
di L. Sartori che arriva a questo medesimo risultato[55] si può aggiungere che la pace è un orizzonte
sufficientemente vasto ed espressivo della globalità dell'esperienza di fede
come sequela e come testimonianza di amore per il mondo; si presta ad esprimere
la molteplice e inesauribile ricchezza della storicizzazione della salvezza; e
può infine offrire alla presenza della chiesa e alla sua azione nel mondo una
prospettiva concreta e tuttavia non riduttiva della sua evangelizzazione
liberante.
La teologia della pace è
legata alla teologia della liberazione come una faccia della medaglia è
collegata al suo rovescio. Se i poveri del mondo hanno già cominciato a
produrre - pur con tutte le incomprensioni subite - una loro teologia dal
rovescio della storia, la loro teologia della liberazione non può essere
limitata ad un contesto regionale. Bisognoso di liberazione è anche il nostro
mondo, che se ha preteso per secoli di essere il diritto della storia,
oggi ha manifestato tutte le sue lacune e tutta la sua arroganza. Non è solo l'arroganza
dei sazi[56] che quest'ultimo decennio ha smascherato, ma anche
la nostra insicurezza e la nostra povertà di idee, di valori, di speranze.
Abbiamo bisogno di questo supplemento d'anima e la teologia della liberazione ce
lo può fornire, così come possiamo prestare, a nostra volta, alla nostra
cristianità opulenta una riflessione sulle cause della fame e della violenza,
per rimuoverle con metodo, con tenacia e con amore.
In questo modo la teologia della pace e la teologia
della liberazione potranno essere congiunte in una sola teologia che è quella
della vita ed è quella dell'amore. Il metodo di analisi è simile: parte dalla
prassi e la giudica alla luce della Parola di Dio; così come sono simili i
soggetti: i poveri e coloro che subiscono violenza; ed è ancora simile
l'obiettivo: la liberazione e l'instaurazione di un mondo realmente fraterno. È
pur vero che restano punti da chiarire, ma non possiamo certamente essere
ancora noi europei a voler pretendere di avere già la ricetta in tasca. Se la
pace è non solo riconciliare i diversi, ma renderli più uguali per ciò che
riguarda l'uso dei beni, anche a costo di cedere ciò che ci rende spavaldi e
sicuri, una nostra riconquistata libertà anche dai beni ci avvicinerà di più al
Cristo e ci farà capaci di condividerne la follia, la follia dell'amore. Perché
la pace è come l'amore, anzi è l'amore diventato concretezza storica. Anche la
pace "assomiglia veramente, per taluni aspetti, alla follia,
all'inverosimile, a ciò che non rende, ciò per cui uno viene considerato
sciocco e viene sfruttato". La pace "è ciò che dà ad esempio, il
coraggio di prendere iniziative ardite, di fronte alle quali i nostri uomini
politici [ma è da aggiungere: non solo i politici, ma ancora troppi cristiani]
hanno tanta paura"[57].
[1] K. RAHNER, "La pace di Dio e
la pace del mondo", in ID., Nuovi saggi III, Paoline, Roma
1969, 789-910, qui 805.
[2] M. BUBER, Ich und Du,
Heidelberg 198311, 22.
[3] Così suona anche l'interessante
quaderno di Concilium (1991/4) cf. particolarmente: J. DE TAVERNIER,
"Dio opera redenzione attraverso mediazioni cosmiche e storiche": Ivi,
19-32.
[4] Cfr. G. FROSINI, La fede e le
opere. Le teologie della prassi, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992 e A.
FIERRO, Introduzione alle teologie politiche, Cittadella, Assisi 1977.
[5] Cfr. "Dire Dio dopo
Auschwitz, durante Ayacucho. Dialogo tra Jürgen Moltmann e Gustavo
Gutierrez", in Mosaico di pace 4 (1993/2) 11-26.
[6] Cfr. G. FROSINI, La fede
..., op. cit., 145.
[7] Cfr. R. GIBELLINI, La teologia
del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, particolarmente 559ss. L'autore
menziona quattro movimenti di percorso: dialettico, antropologico, politico,
ecumenico-planetario.
[8] Sulla possibilità e le modalità
di un'effettiva cooperazione umana con Dio in quanto prassi storica cf. C.
MOLARI, "Introduzione all'edizione italiana", in I. ELLACURIA - J.
SOBRINO (edd.), Mysterium liberationis. I concetti fondamentali della
teologia della liberazione, Borla/Cittadella 1992, 12ss: "rapporto tra
speranza storica e regno di Dio".
[9] La lettura e l'interpretazione
dei segni dei tempi avviene infatti, per il Vaticano II, non solo alla luce
del Vangelo, ma anche alla luce dell'esperienza umana. Cfr. GS
n. 4 (EV 1, 1324) con n. 46 (EV 1, 1466).
[10] Cfr. J. B. METZ, La fede nella
storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978.
[11] Cfr. J. COMBLIN, Verso una
teologia dell'azione, Ave, Roma 1967.
[12] L'ambito regionale esaminato è
prevalentemente quello francofono e i titoli e gli autori riportati sono
diventati significativi al di là di quell'area geografica: G. THILS, Théologie des réalités
terrestres, t. I - Préludes, Desclée, Bruges-Paris 1947; t. II - Théologie
de l'histoire, Desclée, Bruges-Paris 1949; M.-D. CHENU, Le Saulchoir: una scuola teologica,
Marietti, Casale Monferrato 1982; E.
MOUNIER, Feu la chrétienté, Seuil, Paris 1950; Y.M. J. CONGAR, Jalons pour une
théologié du laïcat, Cerf, Paris 1953.
[13] È citata a riguardo la
"Lettera ad Ario e ad Alessandro", in EUSEBIO DI CESAREA, Vita di
Costantino (PG, t. XX), ma anche l'opera di H. KRAFT, Kaisers
Kostantin religiöse Entwicklung, Tübingen 1955.
[14] Se anche la lettera in questione
non fosse autentica, il resto della storia dell'imperatore convertito dimostra
che egli perseguiva una politica di questo genere.
[15] Cfr. È "la morale del doppio
binario": cf. G. MATTAI, "Verso una 'coscienza teologica' della
pace", in Il problema della pace tra filosofia e politica, Edizioni
Augustinus, Palermo 1986, 17. Di G. Mattai cf. anche ID., Oltre le sabbie
mobili. Contributi del Magistero all'etica sociale, SEI, Torino 1992.
[16] J. COMBLIN, Teologia della
pace II, Paoline, Roma 1966, 241.
[17]
Les Enseignements Pontificaux. La
Paix Internationale,
t. I, La guerre moderne, 105s, trad. it. Paoline, Roma
1958, n. 105ss: così citato da J. COMBLIN, Teologia..., op. cit.,
245-246.
[18] Ivi,
246.
[19] Sono riporti a documentazione: De
Civ. Dei, III, 10.14; IV, 6.14.15; V, 4; XIX, 7.
[20] "Si enim homo concordat cum
alio non spontanea voluntate, sed quasi coactus timore alicuius mali sibi
imminentis, talis concordia non est vere pax: quia non servatur ordo utriusque
concordantis, sed perturbatur ab aliquo timorem inferene. Et propter hoc
praemittit, quod pax est tranquillitas ordinis" Summa Th. IIa IIae,
q. 29, a. 1, ad 1.
[21] Ivi, q. 29, a. 4, ad 1.
[22]
Lezioni sul diritto di guerra
(1539), citato da M. TOSCHI, Pace e vangelo. La tradizione
cristiana di fronte alla guerra, Queriniana 1980, 208-215.
[23]
BARTOLOMEO DE LAS CASAS,
Intorno all'unico modo di condurre alla vera religione i popoli infedeli,
cap. VI, 394, in M. MARTIN LOT (ed.), L'evangile e la force, Paris
1964, 110ss, citato in M. TOSCHI, Pace e vangelo, op. cit., 204s.
[24] Ivi, 205.
[25] Il coraggioso padre domenicano
difensore degli Indios così prosegue: "Gli apostoli [...] hanno seguito le
tracce di Cristo, modello di tutte le perfezioni e di tutte le grazie, ed hanno
praticato per convertire il mondo e per rifondare tutte le chiese, la maniera
di fare che il Cristo aveva comandato loro. Essi non hanno preso le armi,
riunito dei combattenti, impegnato degli eserciti per dominare il mondo; ma
hanno predicato il Crocifisso in parole semplici, con ragionamenti pii, pieni
di forza e accompagnati da miracoli; così hanno addolcito i cuori feroci dei
barbari" (Ivi, 205).
[26] "Considerate con quanta
sollecitudine Cristo, prima di morire, ha raccomandato questa pace che ha
predicata tante volte durante tutta la sua vita: (Gv 13, 34; 15, 12) [...] Capite
dunque ciò che egli ha lasciato ai suoi fedeli? Ha forse lasciato loro in
eredità cavalli? o guardie che li difendono? o ricchezze? o il diritto di
comandare? Cosa dunque ha lasciato? Ha dato loro la pace, ha lasciato loro la
pace: la pace con gli amici e la pace con i nemici [...] La sciamo stare le
tragiche conseguenze delle antiche guerre; pensiamo solo a quelle che si sono
combattute in questi ultimi dieci anni. Dove mai non si è combattuto nel modo
più barbaro per terra e per mare? Quale fiume, quale mare non è stato tinto di
sangue umano? Quale regione non è stata bagnata di sangue cristiano? e i
cristiani - vergogna inaudita - combattono più crudelmente degli ebrei, dei
pagani, delle bestie feroci. Tutte le guerre che gli ebrei hanno combattuto
contro i gentili, i cristiani avrebbero dovuto sostenerle contro i vizi, ma,
sciaguratamente, essi oggi si sono alleati con i vizi e combattono contro gli
uomini. Gli ebrei almeno erano spinti a combattere dagli ordini di Dio; i
cristiani, se si mettono da parte i pretesti invocati e si esaminano i fatti
nella loro realtà, sono trascinati dall'ambizione, guidati dall'ira, pessima
consigliera, spinti dalla più insaziabile avidità di possesso" (Contro
la guerra, a cura di F. Gaeta, L'Aquila 1968, 76ss, citato in M. TOSCHI, Pace
e vangelo, op. cit., 216-219. L'edizione critica è Desiderii Erasmi
Roterodami Opera Omnia, ed. Clericus, voll. 10 [11 tomi] Lugduni Batavorum,
1703-1726).
[27] Fu fondatore della Società
degli amici l'inglese Georg Fox (1624-1691), che sostenendo la necessità di
una interiorizzazione del Cristo e della sua luce, infiammò nella sua
predicazione itinerante non pochi contemporanei. Il Movimento si diffuse in
America grazie a William Penn. Solo nel 1689 l'atto di tolleranza conferì una
sorta di libertà di azione a coloro che originariamente erano vilipesi con il
nome di Quakers, tremabondi. Cfr. K. ALGERMISSEN, "Quäker",
in Lexikon für Theologie und kirche VIII, 573-575.
[28] La motivazione cristologica del
rifiuto della violenza è molto esplicita nel Fraterno accordo di alcuni
figli di Dio concernente sette articoli: "Ora da molti [...] viene
domandato se un cristiano possa e debba servirsi della spada contro i malvagi
per la protezione e la difesa del bene e per amore. La risposta ci è stata
rivelata unanimemente così: Cristo ci insegna e comanda (Mt. 11, 9s) che noi
dobbiamo imparare da lui, il quale è mite ed umile di Cuore, e così troveremo
quiete per le nostre anime" (citato in M. TOSCHI, Pace e vangelo,
op. cit., 24-39).
[29] Cfr. C. NOPPEL,
"Frieden", in Lexikon für Theologie und kirche IV, 186.
[30] Viene ricordata, a questo punto,
la Praeclara gratulationis di Leone XIII, del 20.6.1984, e
successivamente la Pacem Dei munus di Benedetto XV, del 1.8.1917.
[31] Cfr. W. STEGMÜLLER, Neue Wege
der Wißenschaftsphilosophie, Springer, Berlin/Heidelberg/New York 1980; per
ciò che riguarda il rapporto dialettico tra scienziato e oggetto della ricerca
W. SCHULTZ, Le nuove vie della filosofia contemporanea 1. Scientificità,
Marietti, Casale Monferrato 1986. Per una prima valutazione delle conseguenze
in campo teologico, cf. E. BENVENUTO, Teologia e scienze della natura,
in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Teologia e istanze del sapere oggi in
Italia, Messaggero, Padova 1989, 73-102; C. MOLARI, Razionalità
scientifica e razionalità teologica: metodologie a confronto, in
"Rassegna di teologia" 31 (1990) 27-50.
[32] Cfr. su queste legittime
preoccupazioni, in realtà più orientate a rafforzare, che non a stroncare una
teologia della pace: E. BENVENUTO, "Domande sul pacifismo
cristiano. Pace e teologia", in Il Regno/Attualità 35 (1990)
n. 10, 312-323; ID., "Per una pace che solo Cristo ha svelato", in Servitium
26 (1992) n. 81, 20-27; cf. anche la lettera di A. RIZZI in Mosaico di pace
2 (1991/2) 16-17.
[33] Cfr. L. SARTORI, "Lettera
aperta ai teologi. Per una teologia della pace", in Mosaico di pace
6 (1991/febbraio) 25-26.
[34] C. MOLARI, "Per una teologia
della pace: il dibattito è aperto. La pace come valore", in Mosaico di
pace 7 (1991/marzo) 27.
[35] "Theology means speaking
about God the Absolute which is at stake inside the relativy, namely in
the historical praxis of human beings, often as a matter of life and death"
(E. SCHILLEBEECKX, "In search of the salvific value of a political praxis
of peace" in PAX CHRISTI INTERNATIONAL, Peace spirituality for peace
makers, ed. Omega, Anversa 1983, 21).
[36] Di grande efficacia ancora una
pagina di K. Rahner, due anni prima della sua morte: "Il messaggio della
croce, della risurrezione e dell'irrompente regno di Dio si colloca su un piano
diverso da quello dell'agire morale normale. Nelle situazioni della sua vita
privata e anche pubblica il cristiano non ha a che fare solo con "comandamenti"
e "norme", di cui vede di cui vede la
ragionevolezza e legittimità e che fino a un certo punto riesce a spiegare
anche ai non cristiani. Egli conosce pure altri criteri e motivazioni,
"appelli" e "chiamate", mediante cui Dio lo
stimola con una particolare urgenza. In tal modo egli viene condotto a prendere
le sue decisioni entro tutt'altro orizzonte. La Scrittura dice di quanto
avviene su questo piano: "Chi può comprendere, comprenda"» (K. RAHNER, Le
armi atomiche e il cristiano, in ID., Scienza e fede cristiana,
Paoline, Roma 1984, 394-418; qui 407-408).
[37] La pace non è armistizio, né
tacere delle armi. Non è nemmeno, come nella mitologia greca di Esiodo e
Pindaro una delle ore (l'eirène, accanto alla eunomìa,
disciplina, e alla dike, giustizia). Nè tantomeno è la sosta della
guerra ritenuta con Eraclito "la madre di ogni cosa": cf. E. JÜNGEL, L'essenza
della pace, Morcelliana, Brescia 1984, 20-21).
[38] È la preoccupazione di E.
Benvenuto, che opportunamente insiste sul fatto che la pace di Cristo ha una
sua caratteristica innovativa che le viene dal fatto che la fede è pur sempre
il paolino "scompiglio" del sapere umano ed è annuncio di un fuoco
che non combacia con lo shalom ebraico.
[39] Cosa che faceva il catechismo di
Pio X, il quale nel menzionare i due misteri principali della fede, accanto
all'unità e trinità di Dio menzionava la passione e la morte, ma dimenticava la
risurrezione di Cristo.
[40] <<Allora Gesù disse loro di nuovo:
"Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi". Detto questo,
soffiò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo.
A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno
ritenuti"» (Gv 20, 21-23).
[41] Proprio per questo la pace di
Gesù è diversa da come la dà il mondo (Gv 14, 27), ma è pur sempre salvezza da
annunciare all'intera creazione (pase te ktìsei), perché "La
creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa
infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di
colui che l'ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla
schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di
Dio" (Rm 8, 19-21).
[42] È il senso della spada di
cui parla Matteo, in un contesto che prevede persecuzione e sofferenza per i
cristiani: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non
sono a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare..." (Mt
10, 34s) .
[43] È l'esatta traduzione di eierenepoiòi
di Mt 5, 9.
[44] È il senso teologico di telèo.
[45] Il verbo rende meglio quel valore
teologico precedentemente affermato: è sumpleròo.
[46] Cfr. Ef 6, 15, che riprende anche
Is 52, 7; 40, 3.9.
[47] La pace è giustizia ed è
identificata con l'Alleanza e con la Legge di Dio, data al suo popolo perché
realizzi l'amore:"misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace
si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal
cielo" (Sal 85, 11-12). Zaccaria invita ad amare la pace insieme alla
verità (Zc 8, 19). L'alleanza di Dio, in quanto alleanza di vita e di pace
("benessere") è presente in Malachia (2, 5). L'alleanza stessa è
chiamata alleanza di pace nel Libro dei Numeri (25, 12), in Isaia (54, 10), in
Ezechiele (34, 25). Nell'Antico testamento Isaia afferma: "effetto della
giustizia sarà la pace" (Is 32, 17).
[48] Cfr. G. LOHFINK, Per chi vale
il discorso della montagna? Contributi per un'etica cristiana, Queriniana,
Brescia 1990, 46ss.
[49] Le posizioni vanno da un escatologismo
radicale che non prevede la cooperazione umana nella gratuita e imprevedibile
irruzione del Regno (cf. la posizione di K. Barth) all'incarnazionismo, che
ritiene che con l'incarnazione Dio abbia offerto ai cristiani la possibilità di
costruire il regno nella fedele sequela del Risorto (cf. teologia delle realtà
terrestri), all'escatologismo moderato, che ritiene che il regno irrompe
pur sempre per libera iniziativa di Dio, ma che per sua munificenza tiene in
considerazione anche la collaborazione umana assecondata dalla Grazia (Y.
Congar, H. Urs Von Balthasar) e la posizione della trascendenza della storia,
che interpreta l'agire di Dio nel mondo in modo non predicamentale, cioè
non secondo le modalità tipiche delle creature, restando Dio sempre
trascendente, in quanto fonda e crea le condizioni per cui le creature agiscano.
Gli uomini possono trascendere se stessi nel loro operare e accostarsi sempre
più alla venuta del Regno (T. de Chardin, K. Rahner, J.B. Metz e i teologi
della liberazione in genere). Cfr. C. MOLARI, "Storia e regno di Dio:
problemi teologici e conflitti pastorali prima e dopo il Concilio", in
AA.VV., Venti anni di Concilio Vaticano II. Contributi sulla sua
recezione in Italia, Borla, Roma 1985 e C. MOLARI, Introduzione all'edizione
italiana, in I. ELLACURIA - J. SOBRINO, Mysterium liberationis ...,
op. cit., 12-15.
[50] Cfr., a questo riguardo, uno
degli ultimi interventi di K. Rahner sulla pace, che per molti versi utopizza
ulteriormente quanto aveva scritto nel saggio precedentemente citato: K.
RAHNER, "Die Offenheit auf Gott hin. Die theologische Dimension des
Friedens", in Entschluß 38 (1983/3) 11-13.
[51] Ivi, 12.
[52] Cfr. A. RIZZI, L'Europa e
l'altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline,
Cinisello Balsamo (MI) 1991.
[53] Ivi, part. 117ss: "L'io come
responsabilità".
[54] Sul valore ecumenico della
teologia della pace cf. INCONTRI INTERNAZIONALI UOMINI E RELIGIONI COMUNITA'
SANT'EGIDIO, La pace è possibile, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
1993.
[55] Cfr. L. SARTORI, "Lettera
aperta ai teologi. Per una teologia della pace", cit.
[56] Così suonava in tedesco un'opera,
per altri versi discutibile, di J. R. GALBRAITH, Die Arroganz der Satten.
Strategien für die Überwindung del weltweiten Massenarmut, Bern/München 1980.
[57] K. RAHNER, "La pace di Dio e
la pace del mondo" cit., 805.