Giovanni Mazzillo                                                                                                                  home page      www.puntopace.net

QUALE TEOLOGIA DI PACE OGGI?  (vedi anche il relativo PDF TeologiaPaceOggiAssisi1993.pdf )

Introduzione

Inizio con una citazione di K. Rahner, che scrivendo sulla pace, la collegava al tema cardine dell'amore:

"L'amore è per il cristianesimo veramente qualche cosa di diverso da una organizzazione razionale dell'esistenza umana, che permetta a ciascuno di ricevere almeno una porzione della felicità offerta dal mondo. L'amore assomiglia veramente, per taluni aspetti, alla follia, all'inverosimile, a ciò che non rende, ciò per cui uno viene considerato sciocco e viene sfruttato. L'amore è ciò che dà ad esempio, il coraggio di prendere iniziative ardite, di fronte alle quali i nostri uomini politici hanno tanta paura"[1].

Ho preso in prestito le parole di uno dei grandi teologi dell'ultimo Concilio, dopo aver riletto il suo saggio La pace di Dio e la pace del mondo, la cui prima stesura risale appunto all'indomani di quel decisivo evento ecclesiale, al 1966. La mia riflessione teologica non può non collocarsi che nel contesto di quella sintesi conciliare che mette in strettissimo rapporto la pace di Dio con la pace del mondo, la gloria di Dio con la pace degli uomini. Una pace che risale tuttavia ad una radice più profonda che entrambe avvolge ed entrambe giustifica: la follia dell'amore. Se la gloria a Dio che si celebra nell'alto dei cieli è la stessa che si riversa come pace in terra agli uomini oggetto della sua benevolenza, la radice è per l'appunto l'eudoikìa, la benevolenza, che non è che una delle tante manifestazioni dell'amore. La pace nasce nell'amore e dall'amore e, come l'amore, rischia ogni giorno di apparire inverosimiglianza e follia.

Come l'amore, la pace è l'opposto dell'indifferenza e rigetta come insulsa la mediocrità dei compromessi, del quieto vivere o del "tirare a campare". Se l'amore è responsabilità di un io per un tu, come è stato giustamente scritto[2], la pace partecipa a questo stesso movimento di interessamento all'altro e di coinvolgimento nella sorte dell'altro, fino a rischiare di persona, prendendo in conto, ove fosse necessario, anche l'ultima follia: dare la propria vita per coloro che si amano. Scrivo queste parole con trepidazione e commozione, mentre dal giornale ancora aperto sembra incoraggiarmi la foto del "pacifista ucciso" sul ponte di Sarajevo, quello stesso ponte diventato emblema di una pace quasi impossibile, e tuttavia una pace che le pallottole non possono arrestare, né quelle vili che hanno fermato ieri Gabriele Locatelli, né quelle altrettanto miserabili che fecero stringere in un ultimo abbraccio, nello stesso luogo, il giovane serbo e la sua ragazza musulmana, rimasti sul greto del fiume a lungo, a nostra vergogna e a nostro incoraggiamento. Si, anche a nostro incoraggiamento, perché quella coppia e quel ragazzo caduto per la pace stanno sempre a significare che l'amore anche se cade non finisce mai, perché l'amore è più forte.

Ma tutto questo è già teologia. Il mio intervento vuole solo cercare di capirne il perché. Cogliendo la richiesta di elaborare uno schizzo su quale teologia di pace oggi, dovrò per forza di cose tenere in considerazione e collegare l'oggi e la pace, cercando di cogliere la dimensione che li riferisce a Dio. Una dimensione teologica che investe l'oggi non meno di quanto non investa la pace, visto che la pace di Dio è anche pace del mondo e che la seconda non è che la conseguenza della prima. Scoprirne l'intimo nesso non può, né deve essere esclusivo compito del teologo, ma è incombenza di tutta la coscienza cristiana, così come investe tutta la comunità cristiana la testimonianza di una pace che è come l'amore, dal momento che nasce da esso: una pace più forte della morte, perché sconvolgendo i parametri razionali umani, attinge alla follia di Dio.

In successivi approfondimenti ci soffermeremo pertanto a declinare la pace nella sua fondazione teologica e nelle sue prospettive di principio sistemico per l'universo teologico, ma anche nelle difficoltà che tutto ciò incontra tra teologi ed uomini e di Chiesa. Proseguendo da ciò che può essere più problematico al propositivo, il discorso si snoderà attraverso questi passaggi: 1) La salvezza, la liberazione e la pace: l'agire di Dio e la prassi dell'uomo; 2) La pace come categoria teologica; 3) La prassi di pace e la teologia della pace: la pace come passione per l'altro.

1. La salvezza, la liberazione e la pace: l'agire di Dio e la prassi dell'uomo

1.1. La Gloria di Dio è la pace sulla terra

Si può essere d'accordo con K. Rahner nell'individuare il cuore e lo spirito del Vaticano II nell'inscindibilità del rapporto tra la pace di Dio e la pace degli uomini. Si può, a buon ragione, affermare che se, come aveva affermato già Ireneo, la gloria di Dio è l'uomo vivente, la pace tra gli uomini rappresenta l'atto più concreto e storicamente più rilevante in cui prende corpo la gloria di Dio. Del resto, se "nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (LG 22), allora la vita umana, con tutto il suo spessore e nella sua varietà più multiforme, può non solo dispiegarsi, ma ricevere senso proprio dalla luce di quel mistero, che è il mistero di Cristo, venuto sulla terra a riconciliare l'uomo e Dio, la terra e il cielo. Da quando Dio ha attraversato le nostre strade e si è fatto pellegrino sulla nostra terra, il cielo passa per queste vie, sicché a ragione si può dire che se ormai non c'è più cielo senza terra[3], è altrettanto vero che non c'è terra senza cielo. La congiunzione tra la venuta di Dio sulla terra e la vocazione dell'uomo al cielo risiede tutta in un nuovo appello che la teologia del Concilio ritiene essere rivolta ad ogni uomo: "Migliora la terra e rendi sempre più umani i rapporti".

Con questi presupposti e forti di questa convinzione, negli anni immediatamente successivi al Concilio nascevano o si affermavano dappertutto nella Chiesa gruppi e movimenti che riscoprivano il valore delle cosiddette realtà terrestri (in evidente congiunzione con quelle che erano state chiamate le realtà celesti). Ciò veniva ad assecondare quanto i teologi, dal loro canto, avevano anticipato in epoca pre-conciliare: il valore della realtà umana e terrena, a partire dal progetto salvifico di Dio, un progetto che abbracciava proprio quella realtà nella sua interezza[4]. Sono noti i nomi di Teilhard de Chardin, di Chenu e di altri teologi la cui opera è legata a queste tematiche. Sono stati quei pionieri, che rivalutando l'attività umana all'interno di una più ampia e profonda teologia che prendeva sul serio l'incarnazione, compivano una sorta di svolta antropologica (si pensi all'opera del già citato K. Rahner), ponendo le premesse per quelle riletture teologiche che intorno agli anni sessanta rispondono ai nomi di teologia della speranza, teologia politica, teologia della liberazione e, accanto a queste, teologia della pace.

1.2.Come parlare di Dio nell'oggi della storia

Sono comunque riletture teologiche che, pur con etichette e con prospettive diverse, sono accomunate dall'interesse per la concretezza storica dell'uomo salvato dalla Grazia, così come sono accomunate dalla scoperta del valore da dare all'opera dell'uomo come risposta di fede e obbedienza della fede. L'importanza teologica di alcuni studi risalenti a quegli anni e a quelli successivi risiede esattamente in questa sintesi continuamente ricercata e storicizzata tra credere ed agire, fede e opere. Ciò accomuna una parte della teologia protestante e la parte più innovativa della teologia cattolica. Vede uniti teologi europei ed extraeuropei, che non di rado si sono formati nelle scuole europee. Le loro teologie appariranno certamente differenziate e in alcuni casi dissimili, ma non per questo divergenti. Il fondo comune della svolta antropologica resta e viene unanimemente riconosciuto, anche se cambia la contestualità dell'uomo e della salvezza di cui Dio gli fa dono. È l'uomo minacciato dall'omologazione e robotizzazione nel Nord Europa: l'uomo sempre più incapace di sperare e di credere perché irretito dal capitalismo e dall'opulenza; ma è anche l'uomo oppresso da poteri militari e dall'apartheid nei paesi extraeuropei; così come è l'uomo non-persona nei paesi poverissimi dell'America Latina. Il problema teologico, diventato quello di come parlare di Dio dopo Auschwitz, diventa ben presto quello di come parlare di Dio permanendo tuttora Ayacucho. Auschwitz, divenuto cimitero delle speranze di una cultura occidentale e Ayacucho, nome quechua, oggi nome di una città peruviana, che significa cimitero, emblematicamente il cimitero di tutti gli sterminati dalla fame e dall'indifferenza di quanti come noi vivono nel benessere, ma si dimenticano in fretta, troppo in fretta che la maggioranza soffre la fame[5].

La ricostruzione delle riletture teologiche postconciliari, fiorite tanto al Nord, che al Sud del mondo, afferma a ragione che quelle più significative non sono più teologie del genitivo, ma vere e proprie teologie prospettiche, che guardano cioè l'universo teologico da una determinata angolazione. Cercando i fatti che hanno determinato una tale svolta, alcuni menzionano l'acquisita convinzione che per il cristiano è indispensabile l'impegno "politico", nel senso di un impegno storico-sociale, capace di dare carne e concretezza alla salvezza di Dio e l'acquisizione di una nuova sensibilità escatologica. Sicché, se da una parte si storicizza nell'oggi e nell'ortoprassi la retta dottrina, l'ortodossia, dall'altra, proprio per il riferimento alle ultime cose (ta escatà), la sensibilità escatologica impedisce alla teologia di ridurre la salvezza a un valore storico-terreno. Il valore preminente del regno di Dio non si considera mai esaurito nella vicenda intramondana, fosse anche la più esaltante e la più rivoluzionaria possibile[6]. Anche i differenti percorsi, che secondo altri la teologia avrebbe attraversato in questo secolo, si possono capire meglio tenendo presenti questi due fatti fondamentali[7]. Infatti il percorso di Barth e quello della teologia dialettica in genere, pur con la loro insistenza sulla impredicatività di Dio e sul valore preminente della sua Parola su ogni altra parola anche teologica, non può non ricorrere alla mediazione della storicizzazione della salvezza di Dio, pur sempre gratuita e soccorrevole, nei confronti dell'uomo di oggi, perché proprio quest'uomo ha una sua contestualità esistenziale alla quale anche quella teologia fa continuo riferimento. Per forza di cose anche la teologia evangelica arriva a una sua svolta antropologica prima e politica poi. Con Bultmann affronta decisamente e sistematicamente il problema del soggetto, mentre, grazie a Moltmann, può tirare le prime conseguenze pratiche dell'impegno del cristiano per un mondo rappacificato in Cristo e in continuo avanzamento verso l'eschaton finale. In campo cattolico la nouvelle teologie di lingua francese affianca la svolta antropologica, già accennata, di Rahner, mentre dalla sua scuola emerge con nuovo impulso la cosiddetta teologia politica.

1.3. Ciò che unisce i nuovi progetti teologici

È in questo contesto, che storicizza la salvezza nell'oggi e parte dalla concretezza dei soggetti storici emergenti, che si afferma la teologia della liberazione in tutte le sue forme (da quella latino-americana, alla black theology, dalla teologia asiatica alla teologia femminista). La teologia cerca di saldare insieme i due tradizionali capi della matassa teologica: la gratuita e sempre rinnovantesi offerta salvifica di Dio, immessa irreversibilmente ed escatologicamente nel mondo dalla risurrezione di Cristo, e la risposta dell'uomo come cooperazione a un compito liberante, in maniera adulta e intelligente, a partire dalle effettive situazioni dei soggetti, siano esse di natura esistenziale e psicologica, che di natura sociale e politica[8]. In una parola si tratta di una saldatura che non tiene solo conto delle varie analisi, (storica, psicologica, economica, politica) ma che valuta la realtà alla luce del Vangelo e alla luce dei segni dei tempi, quei segni che Papa Giovanni XXIII e il Concilio hanno considerato delle vere chiavi per comprendere il progetto di Dio non sull'uomo in astratto, ma sugli esseri umani di oggi[9]. In questa comprensione dell'uomo alla luce della fede e nella riconsiderazione della fede tenendo presente l'uomo situato, c'è un reale ascolto di Dio, mentre se ne cercano le tracce nella storia; c'è un nuovo, eppure reale atteggiamento contemplativo e persino mistico. È la comprensione infatti della storia a partire dalla memoria sovversiva del Crocifisso risorto, come si esprimeva J. B. Metz, che sul volgere degli anni '70 e gli inizi degli anni '80 riteneva più che mai urgente riscoprire il valore "politico" della fede cristiana, mentre attribuiva alla teologia il compito di pervenire alla sua dimensione doppiamente critica: critica rispetto alla società contemporanea e critica rispetto alle concettualizzazioni teologiche e alle realizzazioni storiche ecclesiali[10].

È un'operazione importante che finisce con il voler coniugare insieme mistica e politica. Mistica, perché l'humus in cui ogni teologare nasce e si sviluppa rimane saldamente ancorato alla Parola di Dio e all'esperienza redentiva e per questo liberante di Cristo, e politica, data la significanza pubblica e storicamente efficace della memoria sovversiva del Cristo. L'opera di Metz, alla quale si collegano molti dei progetti teologici più recenti, è significativamente espressa in questo binomio, lo stesso che è stato scelto come titolo della miscellanea dei suoi discepoli e amici teologi, pubblicata nel 1988, in occasione del suo 60° compleanno. Mystik und Politik s'intitola infatti il libro curato da Schillebeeckx, ma che raccoglie contributi non solo di autori europei come Kuno Füssel, Helmut Peukert, Herbert Vorgrimmler, Jürgen Moltmann, Dorothee Solle, ma anche di autori latino-americani come il Card. Paolo Evaristo Arns, Gustavo Gutièrrez, Leonard Boff ed altri.

Il discorso fatto finora mette in luce questo filo teologico che può sembrare esiguo, ma che tuttavia attraversa la teologia contemporanea, da quella delle realtà terrestri alla stessa teologia politica, dalla teologia della speranza alla teologia della liberazione. Ove però può apparire al meglio la sintesi tra la dimensione mistica dell'esistenza cristiana e la testimonianza pubblica della fede è proprio la teologia della pace, perché in essa, come spero apparirà dal resto del mio intervento, avviene una sorta di dispiegamento di entrambe, in quel crocevia rischioso, eppure inevitabile, dove la salvezza di Dio deve essere concretizzato in scelte e opere di vita, così come la speranza escatologica deve diventare speranza efficace degli infelici e inizio della loro effettiva liberazione. La pace infatti ha la particolarità di rendere più immediatamente evidente lo spessore storico e collettivo di una salvezza che abbraccia tutto l'uomo e tutti gli uomini. La teologia della pace si collega direttamente all'eschaton, all'evento del Cristo vincitore della morte e dell'inimicizia, e in forza di ciò attinge alla dimensione mistica e cristologica della salvezza e ne considera la carne storica e lo spessore politico. Adoperando come criterio ermeneutico questo fecondo binomio, tenteremo ora di leggere più da vicino gli espliciti abbozzi di una teologia della pace.

2. La pace come categoria teologica

2.1.Dalla teologia dell'azione alla teologia della pace

Non è un caso che il primo studio sistematico dal titolo esplicito teologia della pace sia stato compiuto da un autore che pur essendo europeo compare tra i teologi più noti della teologia della liberazione latino-americana. Si tratta di Joseph Comblin, la cui opera Théologie de la paix è pubblicata a Parigi agli inizi degli anni '60. È lo stesso autore di cui è spesso citata una recensione sulle cosiddette teologie della prassi a partire al 1930. In quest'ultima opera, registrando gli impulsi innovatori della teologia degli inizi del nostro secolo, l'autore li ravvisa nel ritorno alle tre fonti prioritarie del metodo teologico: biblica, patristica e liturgica. Segnala tuttavia come realmente decisivo l'ingresso dell'azione in teologia come tema teologico esplicito[11], che costituisce la base delle nuove teologie raccolte sotto le dizioni: teologia della storia, teologia delle realtà terrestri e teologia del laicato[12]. Sono teologie dell'azione, ma che non scadono mai nel pragmatismo. Al contrario sono pervase da un senso escatologico e persino da una spiritualità che sfocia non di rado in quella sana dimensione mistica che accompagna e giustifica un maturo e consapevole agire del cristiano nel mondo. Si può ritrovare anche qui quella sintesi che ha animato anche la teologia successiva precedentemente considerata, la stessa che ritroviamo al fondo della teologia della pace di J. Comblin. Dopo aver esposto in un primo volume i principi basilari della teologia della pace, l'autore si sofferma nel II volume a considerare le alterne vicende del tema della pace durante i secoli della storia della chiesa per arrivare ad un'esposizione più sistematica di quella che dovrebbe essere una genuina dottrina della pace, non astrattamente considerata, ma vista nella prassi del cristiano e della chiesa in genere.

2.2.Il superamento della dottrina della pax costantiniana

Riandando, seppure brevissimamente, a quel momento storico che ha segnato profondamente vicende e pensiero della cristianità, alla pax costantiniana, non si potrà facilmente essere in disaccordo con chi come Comblin sottolinea che il progetto di pace imperiale condizionò fortemente anche la teologia della pace, provocando un'involuzione pressoché totale della coscienza cristiana nel rapporto con il potere statale e quindi anche con l'uso della violenza militare. La teologia passava dal rifiuto della violenza e dall'obiezione di coscienza dei primi secoli, che faceva negare il giuramento di fedeltà all'imperatore, alla convivenza e al compromesso con gli organi statali costituiti. Proprio questi, forti di un'alleanza con la chiesa, potevano da quel momento in poi giustificare l'impiego dell'esercito imperiale e ogni altro intervento di natura coercitiva e violenta, giustificandoli come parte di quel progetto di pacificazione che lo stesso Costantino non aveva nascosto nemmeno al concilio di Nicea[13]. La pax costantiniana non era però altro che la riverniciatura cristiana della pax augustea, quel formidabile e disastroso strumento ideologico-militare con il quale l'impero romano era riuscito a conquistare e dominare il mondo raggiungibile dell'epoca. Il meccanismo era lo stesso. Se cambiava la copertura religiosa, non cambiava il progetto espansionistico. Diventava semmai più subdolo, perché a Nicea Costantino espresse i due punti del suo programma: diffondere la fede cristiana e mantenere la pace nell'impero[14], associando la missione, caratteristica fondamentale della fede, alla pacificazione pur sempre imposta con le lance e le spade dei legionari.

Il fatto teologicamente rilevante è che con Costantino la chiesa e non solo la cristianità riconosce un ruolo salvifico all'impero, ritenuto provvidenziale e strumento di preparazione dell'avvento del Regno di Dio. L'escatologia subisce un forte inquinamento ideologico e giustifica anche l'uso della coercizione fisicamente e non solo moralmente violenta, in forza di quel passaggio già accennato dalla pax di Augusto alla pax di Costantino. Ciò che si eredita è però non solo un ideale, ma anche tutto lo strumentario ideologico. Se il motto vetero-romano era: si vis pacem para bellum, esso non viene di fatto mai rinnegato. Il militarismo ha le sue leggi e le sue coperture alle quali non può non appellarsi, pena lo scadimento in assurdità palese e perdita di credibilità tra la gente. Cosicché anche l'impero cristiano prosegue nella stessa logica. E la logica evangelica? E la pratica della non violenza e il rifiuto del servizio militare? Il Vangelo non è ovviamente rinnegato (né poteva esserlo), ma è per così dire circoscritto e delegato solo ad alcuni: a quanti saranno ministri di culto nella stessa cristianità.

Non si sottolineerà mai abbastanza quanto abbia nociuto alla chiesa e alla diffusione del vangelo questa sorta di delega degli ideali evangelici a una minoranza e ad una casta.. La follia della carità evangelica è stata di fatto ritenuta interamente folle, impraticabile e la chiesa ha dovuto dedicare non poche energie all'arruolamento ed addestramento (termini militari, ma che qui hanno il loro senso) di gruppi specializzatisi all'osservanza integrale del vangelo[15]. Ciò ha impedito che si spegnesse del tutto l'ideale della pace evangelica, anche se questa è stata ritenuta radicalmente inetta a governare i popoli e a conservare la pace politica.

Chi, come noi oggi, si pone il problema di una valutazione del passato, non già per una condanna, ma per una sua comprensione che ci faccia superare le sue contraddizioni, si trova di fronte non solo a una successione di avvenimenti che si sono autogiustificati con la premessa ideologica precedente. Ma non si può nemmeno sottrarre al dovere di formulare un giudizio sull'adempimento di quella promessa sempre fatta, ma non mantenuta, della pax costantiniana: la pace non ha di fatto regnato nell'Occidente ed esso, pur qualificandosi come cristiano, ha dipanato la sua storia plurisecolare passando da una guerra all'altra, da una persecuzione all'altra, da una conquista all'altra. Cosa ne è dell'ideale imperiale, ritenuto il più realistico possibile, di una pacificazione che la coercizione avrebbe certamente portato e mantenuto nel mondo occidentale? Non si può contraddire Comblin quando, tirando le somme, conclude: "Non soltanto l'Occidente non è riuscito a fondare la pace, ma gli sforzi smisurati che ha compiuto per conquistarla l'hanno portato spesso a fare la guerra. Guerre per mantenere l'ordine e per diffondere la libertà; guerre contro i barbari e contro i tiranni; guerre di conquista e di liberazione; guerre per estendere l'ordine; guerre per la trasformazione materiale del mondo e per la civiltà: tutte guerre combattute in nome della pace"[16].

Se, alla luce della Parola di Dio e dei segni dei tempi, ci chiediamo ora come ciò sia potuto accadere, la risposta non può che essere una. Il "realismo" della pace imperiale prima, e quella dell'occidente cristiano in genere, non è divenuto reale per il semplice motivo che il potere ha le sue leggi e le sue dinamiche che si impongono comunque. Anche al di sopra dei professati e decantati ideali cristiani, ogniqualvolta questi vengono ritenuti puri ideali, incapaci di incidere efficacemente nella storia. Lo stesso si può dire delle varie coperture ideologiche che, in epoca più recente, si sono portate a proposito della guerra giusta, della guerra di legittima difesa e della guerra condotta per mantenere l'ordine e la giustizia nel mondo. Agli inizi del nostro secolo lo aveva ben compreso Benedetto XV, se poteva autorevolmente affermare:

"Ma per non contenerci più sulle generali, come le circostanze Ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche, ed invitare i governi dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi governanti di precisarli e completarli"[17].

L'ammissione di essere finora rimasti nel vago è accompagnata da una duplice presa di distanza: la dottrina della pace che si mantiene con le armi e l'alleanza almeno ideale, se non ideologica, della chiesa ufficiale con i regnanti cattolici, che di fatto non era che un prolungamento della dottrina costantiniana. Benedetto XV si distanzia da entrambe le pregiudiziali e prosegue:

"E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forma materiale delle armi, la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti, secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato, con la sua alta funzione pacificatrice, secondo le norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la decisione"[18].

2.3.I pilastri della teologia della pace

Ripensando ai motivi teologici che da Costantino fino a Benedetto XV hanno provocato l'allontanamento della coscienza cristiana dalla pace biblicamente intesa e ne hanno invece prodotto una a misura dei regnanti, non è da tralasciare il fatto che sia stata abbandonata proprio la tensione verso quella sintesi mistico-politica che abbiamo visto essere determinante per una corretta impostazione teologica del tema in questione. Riponendo la teologia della pace tra i sogni chimerici e ritenendo la pace puro e semplice dono escatologico, la coscienza cristiana ha compiuto la doppia scelta di privatizzare la fede e di lasciare campo libero ai governanti, che in caso di guerra, per adempiere la moralità non dovevano fare altro che attenersi ai principi della "guerra giusta". Gli stessi principi che si facevano risalire ad Agostino e Tommaso. L'impraticabilità di un discernimento in questo senso e le autogiustificazioni addotte dai regnanti (spesso entrambi cristiani) in guerra tra loro, nella lunga storia della cristianità, ha reso questa dottrina "realistica" della pace molto più "chimerica" di quella di una pace basata su ben altri principi: quello della nonviolenza e della resistenza non militare all'eventuale avversario.

Per arrivare a capire la portata di tale innovazione, sarà tuttavia utile riportare alcuni giudizi completamente negativi sull'impero romano e la sua ideologia di chi come S. Agostino viene troppo spesso invocato a ideologo della guerra giusta. Della smania conquistatrice di Roma il vescovo di Ippona, uno dei conquistati da quello stesso potere onnipotente, diceva che nasceva da una libido dominandi e che se la sicurezza era garantita dalle guarnigioni dei legionari, tutto l'ordine romano nel suo insieme non era che un grande disordine, un immenso atto di brigantaggio, un grande latrocinium[19]. Ipotizzava pertanto come atto ripatore e come nuovo ordine istituzionale una comunità di popoli differenti e reciprocamente rispettosi che consentisse anche ai regni più piccoli prosperità e pace. Un progetto "utopico" che anche S. Tommaso d'Aquino arriva a intravedere, se ritiene che la pace fondata sulla vittoria delle armi è come la pace dei peccatori, fondata sul terrore, e quindi non è in realtà vera pace[20]. È in questo contesto che si comprende come lo stesso Tommaso affronti il tema della pace nel trattato sulla carità e non in quello sulla giustizia. Con Agostino e la tradizione a lui antecedente, anche Tommaso non può ignorare che la pace nasce dalla carità e ne è suo concreto coronamento, anzi la pace è caritatis actus[21], opera e frutto della carità. Diremmo oggi che la pace è l'amore che diventa prassi e questo perché non ci può essere in realtà amore che non diventi prassi.

Il pensiero di Tommaso non resterà isolato nella storia della teologia, anche se occorre dire che sotto l'urgenza delle giustificazioni da fornire all'espansionismo dei regnanti medievali e rinascimentali, fino ad arrivare alle teorie giustificatrici della conquista, non pochi teologi hanno lasciato nel cassetto quest'autentico pilastro della teologia della pace. Certamente non possiamo qui soffermarci su quei teologi che giustificano la guerra e la conquista come Francisco de Vitoria, nato il 1492, lo stesso anno in cui Colombo approdava in America e ne prendeva possesso a nome dei cristianissimi sovrani di Portogallo. Le Lezioni sul diritto di guerra del teologo spagnolo sviluppano casuisticamente le restrizioni tomiste, incluso il dovere dell'obiezione di coscienza in caso di ordine del principe di violare palesemente la giustizia, e tuttavia giustificano la liceità della guerra e dell'espansionismo, in nome del potere che i principi (ovviamente cristiani) hanno non solo sui loro sudditi, ma anche sugli stranieri, per

"costringerli ad astenersi dall'ingiustizia, e ciò in virtù del diritto delle genti e dell'autorità del mondo intero. Anzi sembra che questo sia il diritto naturale: altrimenti il mondo non potrebbe vivere con stabilità"[22].

Non tutti erano di quest'avviso. Qualcuno come Bartolomeo de Las Casas mostrava un autentico spessore profetico, quando, mettendosi contro il parere dei più, affermava:

"Uno di quelli ai quali incombe il compito di predicare la parola, potrebbe giudicare conveniente che gli infedeli si sottomettano alla dominazione del popolo cristiano, perché, una volta assoggettati, si potrebbe insegnar loro la fede in modo puntuale [...] A questo noi rispondiamo ciò che segue. Ché né gli infedeli, né soprattutto i loro principi, vorrebbero sottomettersi volontariamente alla dominazione del popolo cristiano e allora sarebbe necessario di arrivare inevitabilmente alla guerra"[23].

Ma la guerra non può essere accettata come fatalità, né in forza di un fine superiore. Con il vero realismo dell'uomo di fede, ma che ha compassione e amore per il prossimo, il profetico domenicano proseguiva:

"Ora la guerra produce i mali seguenti: invasioni e assalti ripetuti, impetuosi, furiosi; violenze e gravi perturbazioni; scandali, morti, carneficine, massacri, rapine, spoliazione; i genitori sono privati dei loro figli e i figli dei loro genitori; la devastazione di città, di villaggi, di popoli innumerevoli [...] In realtà cosa è la guerra se non un omicidio e un ladrocinio generalizzato? E più esso si allarga e più diventa criminale. A causa di essa migliaia di innocenti sono precipitati in una estrema disgrazia. Per così dire, gli uomini nella guerra perdono le loro anime, i loro corpi, i loro beni"[24].

La motivazione profonda di una decisione così netta non può essere che di natura spirituale. È il riferimento a Cristo e ai suoi apostoli, al Crocifisso e al suo modo di convertire le genti. Ancora una volta proprio l'autentica dimensione mistica attinge la vera pace evangelica, l'evangelium pacis[25].

Sono testi sorprendentemente moderni anche se vengono dalla stessa epoca della conquista e ciò significa che il principio, spesso apologeticamente invocato, che non si può giudicare il passato con la sensibilità moderna, non convince del tutto. Non convince, perché uomini come Francesco d'Assisi prima e Bartolomeo de las Casas poi, pur essendo contemporanei dei teologi che giustificavano la guerra e la conquista violenta dei pagani, hanno saputo, in forza del vangelo, opporre un rifiuto secco e motivato. Evidentemente quando ci si lascia parlare dal vangelo non c'è epoca che tenga.

Ma con questo riferimento alle fonti più genuine della teologia della pace, al Vangelo e all'esempio di Gesù, all'unione con lui che deve contraddistinguere il cristiano, al carattere pubblico e testimoniale della sequela, possiamo rafforzare la nostra tesi che ritiene che lì dove la dimensione mistica dell'esistenza cristiana diventa reale e operante non può attecchire la violenza, né può esistere alcuna giustificazione ideologica di essa. È anche questo un filone ricorrente, sebbene minoritario, nella storia della teologia e che ritroviamo, ad esempio, in Erasmo da Rotterdam[26], così come, tra i protestanti, lo ritroviamo presso i Quaccheri, che in nome della fraternità cristiana praticavano l'obiezione di coscienza, affrontando prigionia e persecuzione[27] e presso gli anabattisti[28]. Nella storia della chiesa cattolica nel 1800 contro l'ondata di militarismo che investiva la Germania, alcune personalità di spicco della cultura e della chiesa tedesca come il vescovo Wilhelm Emmanuel Ketteler e il gesuita Georg Michael Pachtler indirizzarono precise petizioni al Concilio Vaticano I perché prendesse posizione contro questo fenomeno[29].

Per il resto, però, occorre ammettere che gli ultimi secoli, fino ad arrivare a Benedetto XV, non hanno visto i cattolici, né il magistero ecclesiastico impegnati sul tema della pace se non in qualche rara eccezione[30]. Anche in questi casi, le idee centrali alle quali fa appello ogni abbozzo di teologia della pace, sia in campo protestante, che in campo cattolico, è un preciso riferimento cristologico: la prassi e l'insegnamento di Gesù impongono ai cristiani, alla chiesa e a quanti non si rassegnano alla violenza, comportamenti adeguati. Infatti, ritornando ai nostri giorni, quella teologia della pace riemerge puntualmente con gli stessi argomenti di fondo, anche se richiede oggi più che mai una sistemazione non solo dottrinale (cosa che è parzialmente avvenuta e la Pacem in terris ne costituisce il momento di rilancio provvidenziale ed essenziale).

Se, in sintesi, si può affermare che la riflessione teologica ha focalizzato in questi ultimi due decenni il duplice carattere mistico e politico di ogni teologia incarnata, si può ugualmente concludere che la teologia della pace di cui la chiesa e il mondo hanno bisogno è una teologia che non deduca la pace da altri principi teologici, ma che parta dalla pace tout court e ne evidenzi essenza e morfologia movendo da una prassi precisa: la prassi di Dio, irreversibilmente immessa nel tessuto della storia da Cristo e comunicata alla comunità di quanti credono in lui, cioè di quanti credono all'amore.

3. La prassi di pace e la teologia della pace: la pace come passione per l'altro

3.1. Perché la teologia della pace non può nascere che da una prassi di pace

Il richiamo alla prassi non deve sembrare eccessivo. Se, in genere, senza prassi non esiste corrispondente teoria, senza un vissuto di fede non esiste teologia[31], così come senza sequela di Gesù non esiste prassi veramente cristiana. Tutti i nostri riferimenti storici hanno messo in luce che la pace nasce e si radica in un agire e precisamente nell'agire in conformità con Cristo, prendendo a cuore coloro che egli ha preso a cuore. È proprio tale riferimento a Cristo come artefice di pace che ci consente di rispondere alle certamente non superficiali obiezioni di chi ritiene problematica una teologia della pace che sia dedotta dal semplice shalom vetero-testamentario (pur tuttavia ricchissimo di significati) o che sia solo la risposta estemporanea a un bisogno impellente dell'oggi, ma che non ha una effettiva capacità di resistenza oltre un singolo periodo storico[32].

Può sopravvivere una teologia della pace e resistere oltre l'immediato e ciò che è attualmente impellente? Per non mettere il carro davanti ai buoi, si può rispondere che innanzi tutto bisognerà produrre un'adeguata teologia della pace, o meglio una teologia che non sia una nuova teologia del genitivo, ma una riflessione saldamente ancorata alla fede e criticamente e sufficientemente rispondente alla criteriologia dei segni dei tempi. Che, al contempo, sia organicamente collegata alla prassi, in un duplice senso: in quanto recettiva e riflessiva rispetto a questa e in quanto capace di orientare la stessa prassi cristiana[33]. Ma si potrebbe obiettare: non si chiede troppo? Si chiede in realtà solo ciò che un'autentica riflessione teologica non può disattendere: il legame costante con la Parola di Dio recepita e vissuta nell'esperienza cristiana e con quel suo intimo dinamismo che tende ad attualizzare e rendere pubblica l'esperienza di fede. La testimonianza di una realtà salvifica non come auspicato benessere per la propria individualità o per la propria chiesa, ma come promessa per il mondo[34]: per gli uomini di ogni latitudine e per la stessa materia. Si chiede troppo? E tuttavia si può replicare: ma una teologia che non soddisfi queste pretese è veramente teologia?

3.2. La pace come promessa che prende carne nel mondo

La teologia non si interessa di astrazioni su un ipotetico Dio in quanto pura e concettuale trascendenza, ma di un l'Assoluto che è alla sbarra del relativo, coinvolto nella prassi storica di esseri umani, sicché la questione su Dio non è accademica, ma è spesso una questione di vita o di morte[35]. In questa prassi umana, che si dibatte tra la vita e la morte, assume nome e carne l'Assoluto. La teologia della pace muove da questo primo e inaudito evento, quello che sconvolge non solo ogni logica umana, ma anche ogni rassegnato guardare alla vicenda umana come inevitabile cifra di decadimento e di scacco[36]. Se Dio si fa carne tra gli uomini e diventa uno di loro, il suo muoversi nel mondo e nella storia non può restare ininfluente per lo stesso mondo e la stessa storia. Il suo apparire sulla terra dimostra una inoccultabile passione per quelli che sulla terra nascono e muoiono, piangono e ridono, progettano e sperano. La carne di Dio divenuto uomo non è separabile dai progetti di Dio; il suo piangere lacrime umane nel mondo non si può sdoppiare dal suo agire affinché questo mondo migliori. Se Cristo è il nome del fallimento e delle speranze dell'Assoluto, nell'agire di Cristo c'è la cifra teologica che svela l'autentico destino della storia e degli esseri umani assunti come suoi fratelli nello stesso mondo. Più sinteticamente, se tale interessamento di Dio alla sorte umana prende corpo in coordinate di spazio e di tempo, Cristo è il nome della passione che l'Assoluto nutre per l'uomo, per tutti gli uomini e per ogni uomo.

L'annuncio di questa passione per l'uomo manifesta la gloria di Dio e la pace sulla terra. A darlo sarà Cristo stesso, quasi smarritosi sulle nostre vie e incespicante tra le contraddizioni umane. Andrà avanti, fino in fondo, fino alla fine e recherà lo stesso messaggio che alcuni udirono nella notte in cui venne al mondo: "Gloria a Dio e pace sulla terra". Il suo messaggio trasformerà la congiunzione grammaticale in un'asserzione verbale: la gloria di Dio è la pace sulla terra. Ma che tipo di pace? Certamente non la pace dei dominatori, ma la pace che realizza la fame di giustizia che sale da quanti sono curvi a piangere l'oppressione. Ciò qualifica e connota definitivamente ogni futura teologia della pace. Non la pace periodica sosta della guerra[37], né la pace che rappresenta il coronamento dei sogni umani, il compimento di quanto il cuore dell'uomo da sempre si augura, cambiando il segno di tutte le sue sconfitte e proiettando in un'ipotetica situazione paradisiaca le sue aspirazioni ancestrali.

Giustamente, per una corretta teologia della pace non basta una pace che sia solo una dimensione antropologica assurta a valore assoluto[38]. Anche rispetto allo shalom, occorrerà dire che il vangelo della pace ha una sua eccedenza e che non viene a ricoprire semplicemente gli ambiti, pur vastissimi, della pace vetero-testamentaria. Certamente la pace che porta Cristo è da capire anche alla luce dello scomodo logion in cui egli afferma:

"Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse gia acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione" (Lc 12, 49-51).

Ma affermato questo, si può negare che il vangelo sia tale, e cioè evangelium pacis, e divenga, ad esempio, evangelium crucis? Evidentemente no. E non solo perché il mistero della croce senza quello della risurrezione non sarebbe che una menomazione del kerygma[39], ma perché la pace che Gesù lascia ai suoi la sera della Pasqua è rischiarata dal sole della risurrezione. È riconciliazione con Dio e tra gli uomini, attraverso il ministero della riconciliazione[40], ma ciò è anche inizio di una pace che si estenderà al cosmo intero[41].

Nonostante le inevitabili incomprensioni, separazioni, persecuzioni[42] cui i figli di Dio, i "costruttori di pace"[43] andranno incontro, l'annuncio da loro ricevuto e trasmesso non può essere che la lieta notizia di un compimento, non come puro e semplice adempimento e traguardo di desideri umani (la semplice Voll-endung: pienezza finale), ma l'atto centrale dell'azione di Dio. La sera del primo giorno dopo il sabato in cui Gesù dà la pace e impegna i suoi a trasmetterla, è la sera del compimento, quello stesso che l'aveva fatto esclamare dall'alto della croce: "tutto è compiuto", nel senso che "tutto è stato portato a perfezione"[44]. Il compiersi di questi due pomeriggi, quello del venerdì e quello della domenica di Pasqua, ricorda da vicino l'adempiersi di un altro, definitivo giorno, quello della Pentecoste, di cui si dice espressamente che arrivava a perfezione[45]. L'evangelo è l'annuncio di questo compimento che è l'inizio di un perfezionamento definitivo e così l'hanno capito gli agiografi neo-testamentari, i quali hanno afferrato lo "scompiglio" di Cristo come vera pace e annuncio di pace[46].

Si tratta di una pace che non si ammanta di irenismo perché è sempre coniugata con la giustizia, di cui sembra essere la sorella gemella, non nel senso greco, ma perché Dio chiama le sue creature a realizzarla insieme con la giustizia. Lo shalom ebraico le coniuga insieme[47], così come fa anche il Nuovo Testamento. È nell'ottica della pace data da Gesù che Giacomo può esclamare: "Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace" (Gc 3,18), chiudendo così la circolarità dell'espressione di Isaia: "effetto della giustizia sarà la pace" (Is 32,17). La teologia della pace non può ignorare questa complementarità che vede "la pace nascere dalla giustizia", e "la giustizia come frutto della pace".

È l'intimo e irrinunciabile legame alla giustizia che ci fa comprendere che l'annuncio gioioso a favore di quanti la costruiscono è lo stesso che proclama felici quelli che hanno fame e sete di giustizia e coloro che piangono a motivo di essa. La pace dunque fornisce corpo non a delle speranze generiche, ma immette i poveri e gli infelici nell'eschaton di Dio, ne fa i protagonisti, perché ad essi, agli sconfitti e ai perseguitati, appartiene il regno dei cieli (Mt 5,1ss). Se tutto ciò è stato compiuto da Dio ed è una meraviglia ai nostri occhi (cfr. Sal 118,23), possiamo affermare che la prima teologia della prassi è teologia dell'agire di Dio, ma questa è anche teologia della pace: teologia che annuncia le opere di Dio, le cui promesse prendono finalmente carne nel mondo.

 3.3. Pace, solidarietà e liberazione

L'opera di Dio nel mondo chiede la collaborazione umana, non perché ne abbia indispensabile bisogno, ma perché la sua opera la prevede e la richiede. Se infatti è questo il suo progetto, ha senso l'espressione biblica che parla del fare la pace. All'espressione di Gesù si accompagna ben presto anche quella di apostoli come Pietro e Paolo, che diventati essi stessi artigiani di pace all'interno delle comunità primitive e tra comunità provenienti da mondi diversi, raccomandano che il cristiano si dedichi alle opere di pace e all'edificazione vicendevole (Rm 14,19), eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua (1Pt 3,11). Cercare la pace e seguirla significa immettersi nella scia del Regno di Dio, diventare costruttori di pace, perché bisogna seguirla, così come si segue Cristo. Sequela di Gesù ed edificazione della pace ricompongono così il binomio mistico-politico che forse può costituire una soluzione al problema teologico lasciato irrisolto dal vaticano II e che riguarda il valore dell'agire umano nella "costruzione" del Regno di Dio.

Costruire la pace agendo nell'ottica e nel solco dell'agire di Cristo significa infatti far dipendere il proprio operare dalla continua conversione a Cristo, nella radicalità della sua sequela. Una radicalità che significa perfezionamento e superamento della logica umana, essendo chiamati ad essere radicali (cioè perfetti) fino a seguire con totale fiducia e abbandono la logica delle beatitudini e le direttive del discorso missionario. Se Gesù vuole che i suoi vadano senza bisaccia e senza bastone (Lc 9,3) la nonviolenza non è facoltativa per il suo discepolo[48]. Se questi si fida ciecamente di Colui che lo manda, realizza l'unione mistica con Cristo ed opera efficacemente per il mondo. Certamente non con parametri mondani, né di per sé creaturali, ma non per questo il suo agire è meno realistico. Al contrario egli continua la follia del realismo del maestro[49].

La prassi di pace non è che una liberazione già in atto. Legata alla giustizia del Vangelo che si pone dalla parte degli ultimi e rifiuta la convenzione, inventata dai ricchi, del dare a ciascuno il suo, la costruzione della pace attinge continuamente a una riserva escatologica che non esclude la persecuzione e nemmeno il martirio. L'amore cristiano non traccia confini così netti tra il mio e il tuo, perché si alimenta alla sorgente dell'amore che continuamente si dona e che piange della sofferenza dell'altro e gioisce di cuore della gioia dell'altro (Rm 12,15). È anche la grande lezione della Pacem in terris, che considera ogni dimensione dell'umano come parte di un unico intreccio.

Ma ciò significa anche che la teologia della pace mette in conto una sorta di visione. Senza perdere il suo realismo, anzi proprio in nome di una realismo più ampio, vede relazioni e riconciliazione lì dove il buon senso non vede che nemici ed ostacoli. È un'operazione che certamente avviene nella fede. Fede esplicita, oppure fede implicita in chi supera la contingenza e dà per la pace non solo qualcosa, ma è disposto a dare anche se stesso, è disposto anche a passare per folle[50]. Afferma K. Rahner:

  "Orbene, in simili casi un uomo può conseguire la grandezza e la libertà interiore, per venire e capo di simili rinunce in tutto silenzio e senza gratifica alcuna, solo se egli è aperto a quella Realtà e a quella Realizzazione (Erfüllung) che noi chiamiamo Dio"[51].

Dio appare così la "Possibilità che trascina ogni altra possibilità della pace", la cui sensatezza non è presente nelle singole e limitate realtà creaturali. Per questo chi più si avvicina alla pace si avvicina a Dio, a qualunque popolo appartenga.

Ma non avviene qualcosa di simile anche per chi s'impegna per la liberazione andando perfino contro i suoi interessi e le fattibilità contingenti? Per chi non si rassegna a che l'altro essere umano sia calpestato e deriso, dimenticato e discriminato. La liberazione passa attraverso un cammino che è insieme culturale e spirituale: dall'altro come nemico all'altro come amico, dall'altro come diverso all'altro come parte di me[52], per cui il mio io, ogni io, non può essere più considerato secondo la cultura della modernità come unico soggetto autarchico ed autoreferente, ma come realmente responsabile dell'altro[53]. In questa riscoperta dell'altro e nel cammino per una riavvicinamento tra differenti culture che sanno convivere pur nella diversità e che si sentono ciascuna per la sua parte corresponsabili del tutto[54], A. Rizzi individua il nucleo del suo abbozzo di una teologia europea della liberazione. La pace vi riveste un'importanza decisiva e letterariamente costituisce infatti uno dei capitoli centrali del suo libro.

Anche a noi sembra che teologia della pace e teologia della liberazione siano profondamente collegate tra loro. Sembra anzi che la pace, colta nell'accezione teologica summenzionata, pur con tutta la sua ricchezza polisemantica, come è stato scritto, possa costituire una prospettiva ed un orizzonte complessivo con cui rivisitare tutta la teologia. Alle argomentazioni di L. Sartori che arriva a questo medesimo risultato[55] si può aggiungere che la pace è un orizzonte sufficientemente vasto ed espressivo della globalità dell'esperienza di fede come sequela e come testimonianza di amore per il mondo; si presta ad esprimere la molteplice e inesauribile ricchezza della storicizzazione della salvezza; e può infine offrire alla presenza della chiesa e alla sua azione nel mondo una prospettiva concreta e tuttavia non riduttiva della sua evangelizzazione liberante.

La teologia della pace è legata alla teologia della liberazione come una faccia della medaglia è collegata al suo rovescio. Se i poveri del mondo hanno già cominciato a produrre - pur con tutte le incomprensioni subite - una loro teologia dal rovescio della storia, la loro teologia della liberazione non può essere limitata ad un contesto regionale. Bisognoso di liberazione è anche il nostro mondo, che se ha preteso per secoli di essere il diritto della storia, oggi ha manifestato tutte le sue lacune e tutta la sua arroganza. Non è solo l'arroganza dei sazi[56] che quest'ultimo decennio ha smascherato, ma anche la nostra insicurezza e la nostra povertà di idee, di valori, di speranze. Abbiamo bisogno di questo supplemento d'anima e la teologia della liberazione ce lo può fornire, così come possiamo prestare, a nostra volta, alla nostra cristianità opulenta una riflessione sulle cause della fame e della violenza, per rimuoverle con metodo, con tenacia e con amore.

In questo modo la teologia della pace e la teologia della liberazione potranno essere congiunte in una sola teologia che è quella della vita ed è quella dell'amore. Il metodo di analisi è simile: parte dalla prassi e la giudica alla luce della Parola di Dio; così come sono simili i soggetti: i poveri e coloro che subiscono violenza; ed è ancora simile l'obiettivo: la liberazione e l'instaurazione di un mondo realmente fraterno. È pur vero che restano punti da chiarire, ma non possiamo certamente essere ancora noi europei a voler pretendere di avere già la ricetta in tasca. Se la pace è non solo riconciliare i diversi, ma renderli più uguali per ciò che riguarda l'uso dei beni, anche a costo di cedere ciò che ci rende spavaldi e sicuri, una nostra riconquistata libertà anche dai beni ci avvicinerà di più al Cristo e ci farà capaci di condividerne la follia, la follia dell'amore. Perché la pace è come l'amore, anzi è l'amore diventato concretezza storica. Anche la pace "assomiglia veramente, per taluni aspetti, alla follia, all'inverosimile, a ciò che non rende, ciò per cui uno viene considerato sciocco e viene sfruttato". La pace "è ciò che dà ad esempio, il coraggio di prendere iniziative ardite, di fronte alle quali i nostri uomini politici [ma è da aggiungere: non solo i politici, ma ancora troppi cristiani] hanno tanta paura"[57].

 

 



[1] K. RAHNER, "La pace di Dio e la pace del mondo", in ID., Nuovi saggi III, Paoline, Roma 1969, 789-910, qui 805.

[2] M. BUBER, Ich und Du, Heidelberg 198311, 22.

[3] Così suona anche l'interessante quaderno di Concilium (1991/4) cf. particolarmente: J. DE TAVERNIER, "Dio opera redenzione attraverso mediazioni cosmiche e storiche": Ivi, 19-32.

[4] Cfr. G. FROSINI, La fede e le opere. Le teologie della prassi, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992 e A. FIERRO, Introduzione alle teologie politiche, Cittadella, Assisi 1977.

[5] Cfr. "Dire Dio dopo Auschwitz, durante Ayacucho. Dialogo tra Jürgen Moltmann e Gustavo Gutierrez", in Mosaico di pace 4 (1993/2) 11-26.

[6] Cfr. G. FROSINI, La fede ..., op. cit., 145.

[7] Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, particolarmente 559ss. L'autore menziona quattro movimenti di percorso: dialettico, antropologico, politico, ecumenico-planetario.

[8] Sulla possibilità e le modalità di un'effettiva cooperazione umana con Dio in quanto prassi storica cf. C. MOLARI, "Introduzione all'edizione italiana", in I. ELLACURIA - J. SOBRINO (edd.), Mysterium liberationis. I concetti fondamentali della teologia della liberazione, Borla/Cittadella 1992, 12ss: "rapporto tra speranza storica e regno di Dio".

[9] La lettura e l'interpretazione dei segni dei tempi avviene infatti, per il Vaticano II, non solo alla luce del Vangelo, ma anche alla luce dell'esperienza umana. Cfr. GS n. 4 (EV 1, 1324) con n. 46 (EV 1, 1466).

[10] Cfr. J. B. METZ, La fede nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978.

[11] Cfr. J. COMBLIN, Verso una teologia dell'azione, Ave, Roma 1967.

[12] L'ambito regionale esaminato è prevalentemente quello francofono e i titoli e gli autori riportati sono diventati significativi al di là di quell'area geografica: G. THILS, Théologie des réalités terrestres, t. I - Préludes, Desclée, Bruges-Paris 1947; t. II - Théologie de l'histoire, Desclée, Bruges-Paris 1949; M.-D. CHENU, Le Saulchoir: una scuola teologica, Marietti, Casale Monferrato 1982; E. MOUNIER, Feu la chrétienté, Seuil, Paris 1950; Y.M. J. CONGAR, Jalons pour une théologié du laïcat, Cerf, Paris 1953.

[13] È citata a riguardo la "Lettera ad Ario e ad Alessandro", in EUSEBIO DI CESAREA, Vita di Costantino (PG, t. XX), ma anche l'opera di H. KRAFT, Kaisers Kostantin religiöse Entwicklung, Tübingen 1955.

[14] Se anche la lettera in questione non fosse autentica, il resto della storia dell'imperatore convertito dimostra che egli perseguiva una politica di questo genere.

[15] Cfr. È "la morale del doppio binario": cf. G. MATTAI, "Verso una 'coscienza teologica' della pace", in Il problema della pace tra filosofia e politica, Edizioni Augustinus, Palermo 1986, 17. Di G. Mattai cf. anche ID., Oltre le sabbie mobili. Contributi del Magistero all'etica sociale, SEI, Torino 1992.

[16] J. COMBLIN, Teologia della pace II, Paoline, Roma 1966, 241.

[17] Les Enseignements Pontificaux. La Paix Internationale, t. I, La guerre moderne, 105s, trad. it. Paoline, Roma 1958, n. 105ss: così citato da J. COMBLIN, Teologia..., op. cit., 245-246.

[18] Ivi, 246.

[19] Sono riporti a documentazione: De Civ. Dei, III, 10.14; IV, 6.14.15; V, 4; XIX, 7.

[20] "Si enim homo concordat cum alio non spontanea voluntate, sed quasi coactus timore alicuius mali sibi imminentis, talis concordia non est vere pax: quia non servatur ordo utriusque concordantis, sed perturbatur ab aliquo timorem inferene. Et propter hoc praemittit, quod pax est tranquillitas ordinis" Summa Th. IIa IIae, q. 29, a. 1, ad 1.

[21] Ivi, q. 29, a. 4, ad 1.

[22] Lezioni sul diritto di guerra (1539), citato da M. TOSCHI, Pace e vangelo. La tradizione cristiana di fronte alla guerra, Queriniana 1980, 208-215.

[23] BARTOLOMEO DE LAS CASAS, Intorno all'unico modo di condurre alla vera religione i popoli infedeli, cap. VI, 394, in M. MARTIN LOT (ed.), L'evangile e la force, Paris 1964, 110ss, citato in M. TOSCHI, Pace e vangelo, op. cit., 204s.

[24] Ivi, 205.

[25] Il coraggioso padre domenicano difensore degli Indios così prosegue: "Gli apostoli [...] hanno seguito le tracce di Cristo, modello di tutte le perfezioni e di tutte le grazie, ed hanno praticato per convertire il mondo e per rifondare tutte le chiese, la maniera di fare che il Cristo aveva comandato loro. Essi non hanno preso le armi, riunito dei combattenti, impegnato degli eserciti per dominare il mondo; ma hanno predicato il Crocifisso in parole semplici, con ragionamenti pii, pieni di forza e accompagnati da miracoli; così hanno addolcito i cuori feroci dei barbari" (Ivi, 205).

[26] "Considerate con quanta sollecitudine Cristo, prima di morire, ha raccomandato questa pace che ha predicata tante volte durante tutta la sua vita: (Gv 13, 34; 15, 12) [...] Capite dunque ciò che egli ha lasciato ai suoi fedeli? Ha forse lasciato loro in eredità cavalli? o guardie che li difendono? o ricchezze? o il diritto di comandare? Cosa dunque ha lasciato? Ha dato loro la pace, ha lasciato loro la pace: la pace con gli amici e la pace con i nemici [...] La sciamo stare le tragiche conseguenze delle antiche guerre; pensiamo solo a quelle che si sono combattute in questi ultimi dieci anni. Dove mai non si è combattuto nel modo più barbaro per terra e per mare? Quale fiume, quale mare non è stato tinto di sangue umano? Quale regione non è stata bagnata di sangue cristiano? e i cristiani - vergogna inaudita - combattono più crudelmente degli ebrei, dei pagani, delle bestie feroci. Tutte le guerre che gli ebrei hanno combattuto contro i gentili, i cristiani avrebbero dovuto sostenerle contro i vizi, ma, sciaguratamente, essi oggi si sono alleati con i vizi e combattono contro gli uomini. Gli ebrei almeno erano spinti a combattere dagli ordini di Dio; i cristiani, se si mettono da parte i pretesti invocati e si esaminano i fatti nella loro realtà, sono trascinati dall'ambizione, guidati dall'ira, pessima consigliera, spinti dalla più insaziabile avidità di possesso" (Contro la guerra, a cura di F. Gaeta, L'Aquila 1968, 76ss, citato in M. TOSCHI, Pace e vangelo, op. cit., 216-219. L'edizione critica è Desiderii Erasmi Roterodami Opera Omnia, ed. Clericus, voll. 10 [11 tomi] Lugduni Batavorum, 1703-1726).

[27] Fu fondatore della Società degli amici l'inglese Georg Fox (1624-1691), che sostenendo la necessità di una interiorizzazione del Cristo e della sua luce, infiammò nella sua predicazione itinerante non pochi contemporanei. Il Movimento si diffuse in America grazie a William Penn. Solo nel 1689 l'atto di tolleranza conferì una sorta di libertà di azione a coloro che originariamente erano vilipesi con il nome di Quakers, tremabondi. Cfr. K. ALGERMISSEN, "Quäker", in Lexikon für Theologie und kirche VIII, 573-575.

[28] La motivazione cristologica del rifiuto della violenza è molto esplicita nel Fraterno accordo di alcuni figli di Dio concernente sette articoli: "Ora da molti [...] viene domandato se un cristiano possa e debba servirsi della spada contro i malvagi per la protezione e la difesa del bene e per amore. La risposta ci è stata rivelata unanimemente così: Cristo ci insegna e comanda (Mt. 11, 9s) che noi dobbiamo imparare da lui, il quale è mite ed umile di Cuore, e così troveremo quiete per le nostre anime" (citato in M. TOSCHI, Pace e vangelo, op. cit., 24-39).

[29] Cfr. C. NOPPEL, "Frieden", in Lexikon für Theologie und kirche IV, 186.

[30] Viene ricordata, a questo punto, la Praeclara gratulationis di Leone XIII, del 20.6.1984, e successivamente la Pacem Dei munus di Benedetto XV, del 1.8.1917.

[31] Cfr. W. STEGMÜLLER, Neue Wege der Wißenschaftsphilosophie, Springer, Berlin/Heidelberg/New York 1980; per ciò che riguarda il rapporto dialettico tra scienziato e oggetto della ricerca W. SCHULTZ, Le nuove vie della filosofia contemporanea 1. Scientificità, Marietti, Casale Monferrato 1986. Per una prima valutazione delle conseguenze in campo teologico, cf. E. BENVENUTO, Teologia e scienze della natura, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Teologia e istanze del sapere oggi in Italia, Messaggero, Padova 1989, 73-102; C. MOLARI, Razionalità scientifica e razionalità teologica: metodologie a confronto, in "Rassegna di teologia" 31 (1990) 27-50.

[32] Cfr. su queste legittime preoccupazioni, in realtà più orientate a rafforzare, che non a stroncare una teologia della pace: E. BENVENUTO, "Domande sul pacifismo cristiano. Pace e teologia", in Il Regno/Attualità 35 (1990) n. 10, 312-323; ID., "Per una pace che solo Cristo ha svelato", in Servitium 26 (1992) n. 81, 20-27; cf. anche la lettera di A. RIZZI in Mosaico di pace 2 (1991/2) 16-17.

[33] Cfr. L. SARTORI, "Lettera aperta ai teologi. Per una teologia della pace", in Mosaico di pace 6 (1991/febbraio) 25-26.

[34] C. MOLARI, "Per una teologia della pace: il dibattito è aperto. La pace come valore", in Mosaico di pace 7 (1991/marzo) 27.

[35] "Theology means speaking about God the Absolute which is at stake inside the relativy, namely in the historical praxis of human beings, often as a matter of life and death" (E. SCHILLEBEECKX, "In search of the salvific value of a political praxis of peace" in PAX CHRISTI INTERNATIONAL, Peace spirituality for peace makers, ed. Omega, Anversa 1983, 21).

[36] Di grande efficacia ancora una pagina di K. Rahner, due anni prima della sua morte: "Il messaggio della croce, della risurrezione e dell'irrompente regno di Dio si colloca su un piano diverso da quello dell'agire morale normale. Nelle situazioni della sua vita privata e anche pubblica il cristiano non ha a che fare solo con "comandamenti" e "norme", di cui vede  di cui vede la ragionevolezza e legittimità e che fino a un certo punto riesce a spiegare anche ai non cristiani. Egli conosce pure altri criteri e motivazioni,  "appelli" e "chiamate", mediante cui Dio lo stimola con una particolare urgenza. In tal modo egli viene condotto a prendere le sue decisioni entro tutt'altro orizzonte. La Scrittura dice di quanto avviene su questo piano: "Chi può comprendere, comprenda"» (K. RAHNER, Le armi atomiche e il cristiano, in ID., Scienza e fede cristiana, Paoline, Roma 1984, 394-418; qui 407-408).

[37] La pace non è armistizio, né tacere delle armi. Non è nemmeno, come nella mitologia greca di Esiodo e Pindaro una delle ore (l'eirène, accanto alla eunomìa, disciplina, e alla dike, giustizia). Nè tantomeno è la sosta della guerra ritenuta con Eraclito "la madre di ogni cosa": cf. E. JÜNGEL, L'essenza della pace, Morcelliana, Brescia 1984, 20-21).

[38] È la preoccupazione di E. Benvenuto, che opportunamente insiste sul fatto che la pace di Cristo ha una sua caratteristica innovativa che le viene dal fatto che la fede è pur sempre il paolino "scompiglio" del sapere umano ed è annuncio di un fuoco che non combacia con lo shalom ebraico.

[39] Cosa che faceva il catechismo di Pio X, il quale nel menzionare i due misteri principali della fede, accanto all'unità e trinità di Dio menzionava la passione e la morte, ma dimenticava la risurrezione di Cristo.

[40] <<Allora Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi". Detto questo, soffiò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo.
A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno ritenuti"» (Gv 20, 21-23).

[41] Proprio per questo la pace di Gesù è diversa da come la dà il mondo (Gv 14, 27), ma è pur sempre salvezza da annunciare all'intera creazione (pase te ktìsei), perché "La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rm 8, 19-21).

[42] È il senso della spada di cui parla Matteo, in un contesto che prevede persecuzione e sofferenza per i cristiani: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare..." (Mt 10, 34s) .

[43] È l'esatta traduzione di eierenepoiòi di Mt 5, 9.

[44] È il senso teologico di telèo.

[45] Il verbo rende meglio quel valore teologico precedentemente affermato: è sumpleròo.

[46] Cfr. Ef 6, 15, che riprende anche Is 52, 7; 40, 3.9.

[47] La pace è giustizia ed è identificata con l'Alleanza e con la Legge di Dio, data al suo popolo perché realizzi l'amore:"misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo" (Sal 85, 11-12). Zaccaria invita ad amare la pace insieme alla verità (Zc 8, 19). L'alleanza di Dio, in quanto alleanza di vita e di pace ("benessere") è presente in Malachia (2, 5). L'alleanza stessa è chiamata alleanza di pace nel Libro dei Numeri (25, 12), in Isaia (54, 10), in Ezechiele (34, 25). Nell'Antico testamento Isaia afferma: "effetto della giustizia sarà la pace" (Is 32, 17).

[48] Cfr. G. LOHFINK, Per chi vale il discorso della montagna? Contributi per un'etica cristiana, Queriniana, Brescia 1990, 46ss.

[49] Le posizioni vanno da un escatologismo radicale che non prevede la cooperazione umana nella gratuita e imprevedibile irruzione del Regno (cf. la posizione di K. Barth) all'incarnazionismo, che ritiene che con l'incarnazione Dio abbia offerto ai cristiani la possibilità di costruire il regno nella fedele sequela del Risorto (cf. teologia delle realtà terrestri), all'escatologismo moderato, che ritiene che il regno irrompe pur sempre per libera iniziativa di Dio, ma che per sua munificenza tiene in considerazione anche la collaborazione umana assecondata dalla Grazia (Y. Congar, H. Urs Von Balthasar) e la posizione della trascendenza della storia, che interpreta l'agire di Dio nel mondo in modo non predicamentale, cioè non secondo le modalità tipiche delle creature, restando Dio sempre trascendente, in quanto fonda e crea le condizioni per cui le creature agiscano. Gli uomini possono trascendere se stessi nel loro operare e accostarsi sempre più alla venuta del Regno (T. de Chardin, K. Rahner, J.B. Metz e i teologi della liberazione in genere). Cfr. C. MOLARI, "Storia e regno di Dio: problemi teologici e conflitti pastorali prima e dopo il Concilio", in AA.VV., Venti anni di Concilio Vaticano II. Contributi sulla sua recezione in Italia, Borla, Roma 1985 e C. MOLARI, Introduzione all'edizione italiana, in I. ELLACURIA - J. SOBRINO, Mysterium liberationis ..., op. cit., 12-15.

[50] Cfr., a questo riguardo, uno degli ultimi interventi di K. Rahner sulla pace, che per molti versi utopizza ulteriormente quanto aveva scritto nel saggio precedentemente citato: K. RAHNER, "Die Offenheit auf Gott hin. Die theologische Dimension des Friedens", in Entschluß 38 (1983/3) 11-13.

[51] Ivi, 12.

[52] Cfr. A. RIZZI, L'Europa e l'altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991.

[53] Ivi, part. 117ss: "L'io come responsabilità".

[54] Sul valore ecumenico della teologia della pace cf. INCONTRI INTERNAZIONALI UOMINI E RELIGIONI COMUNITA' SANT'EGIDIO, La pace è possibile, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993.

[55] Cfr. L. SARTORI, "Lettera aperta ai teologi. Per una teologia della pace", cit.

[56] Così suonava in tedesco un'opera, per altri versi discutibile, di J. R. GALBRAITH, Die Arroganz der Satten. Strategien für die Überwindung del weltweiten Massenarmut, Bern/München 1980.

[57] K. RAHNER, "La pace di Dio e la pace del mondo" cit., 805.