Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

PACIFICAZIONE (PACEM FACERE), ORIZZONTE DI FEDE. La pace come orizzonte, "ripensamento" e sollecitazione a "riformulare" la fede stessa

[Articolo pubblicato su Servitium 26 (1992/giugno) 268-275]

Un tema di questa portata suscita ovviamente molte attese, ma accende anche alcuni timori, sia tra gli specialisti dello studio teologico sia tra le fila del popolo cristiano in genere. Se la pace come orizzonte complessivo del credere ripropone per tutti l'attualità e l'ampiezza della grande "utopia" dello shalom biblico, non di meno lascia affiorare dalle labbra dello studioso la domanda pertinente: «Non sarà per caso anche questo un tentativo pretenzioso di assolutizzare un aspetto della fede, per dare valore universale a una singola esperienza, che, per quanto interessante, rimane pur sempre limitata e parziale?». Se la scienza è scienza - asserisce l'assunto sottostante a questa obiezione - nemmeno un valore altissimo quale quello della pace potrà e dovrà inquinarne la purezza cognitiva e la previa sospensione di qualsiasi giudizio, almeno fino a quando non si siano acquisiti tutti i parametri per entrare nel merito e pronunciarsi con giudizio in sereno e non prevenuto, neanche a fin di bene come può accadere con il tema/valore della pace.

Le diffidenze non si registrano solo nel campo della riflessione scientifica propriamente detta, ma anche nell'ambito più direttamente pastorale-ecclesiale. «Si, la pace, la pace ...» andava ripetendo un Vescovo, non nascondendo riserve e perplessità di fronte a chi gli aveva recato uno studio che si proponeva di considerare l'agire di Gesù come ispirato e mosso dalla progettualità dello shalom biblico-teologico. E quasi a contrappunto di ciò, ancora più recentemente, di fronte alla decisione del senato USA di recedere dalla decisione di installare i bombardieri (armati con armi convenzionale e/o nucleari), gli F16, a Isola Capo Rizzuto, in Calabria, anziché rallegrarsi perché si scongiurava finalmente il pericolo di dover convivere o forse di veder usare nel proprio cielo "strutture di peccato", cioè armi di sterminio, certamente condannate e condannabili dall'etica cristiana, non sono stati pochi coloro che invece hanno espresso la loro amarezza e la loro delusione. Lo hanno fatto in privato e in pubblico, scrivendo anche su qualche testata diocesana, la stessa che in altre pagine del giornale parlava dell'urgenza di difendere la vita e di promuovere una cultura di vita. E le esigenze primarie della pace, anche quelle riproclamate puntualmente il 1° Gennaio e quelle su cui ritorna insistentemente il magistero del Papa? Sì, quelle sono idealità altissime, ma che non si può pretendere di invocare nelle scelte storiche contingenti, perché in queste ciò che conta è l'economia, le occasioni di investimento.

Non semplice valore, ma concretizzazione della redenzione

Sono solo alcuni esempi, ma che aggiunti a quelli raccolti appena un anno fa in occasione della guerra del Golfo, testimoniano quanta poca incidenza pratica si dia nei fatti alla proclamazione della pace, considerata ancora da troppe parti solo come "suprema e somma idealità". Ma qui è appunto il nostro tema e il nostro problema. Nel caso della pace si tratta solo di un orizzonte ultimo, amplissimo, che sconfina con la pienezza escatologica del mondo avvenire o non piuttosto di una realtà che, seppure non raggiunta né ancora raggiungibile in pienezza, conosce una gradualità di percorso e una realizzabilità storica nell'oggi e nel futuro più immediato? E inoltre: la risposta a questa domanda, apparentemente solo di ordine valutativo storico, non dipenderà per caso da una precedente opzione teologica sulla effettiva performatività storica che si dà alla salvezza di Dio manifestatasi irreversibilmente e inarrestabilmente nell'evento Cristo? In altre parole: se Egli ha preso carne in questa storia e ha redento e salvato questa e non un'ipotetica realtà superumana o interstellare, il messaggio-vangelo della pace sulla terra e nei cieli[1] non è da prendere in senso traslato, ma in senso autenticamente storico. Del resto, se le cose non stessero così, non si saprebbe nemmeno che senso dare al binomio liberazione ed evangelizzazione, che, dalla Evangelii Nutiandi alle dichiarazioni più recenti di Giovanni Paolo II, sono ormai diventati un leitmotiv nella chiesa post-conciliare[2]

In quella che viene poi chiamata «liberazione integrale», sia dall'episcopato latino-americano raccolto a Puebla il 1979 sia dai documenti sulla teologia della liberazione della Congregazione per la dottrina della fede[3], è allora inclusa la valenza storica della redenzione e, di conseguenza, anche quella della pace. Come si chiedeva già Paolo VI «come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l'autentica crescita dell'uomo?»

Anche se appartiene a un diverso ordine di riflessione, una riflessione simile si può e si deve condurre a livello più squisitamente teologico. Anche qui infatti la posta in gioco è non una semplice scienza (teologica) asettica e sganciata dall'attività della fede e dalla prassi ecclesiale (ammesso che ne possa esistere una siffatta), ma la stessa concezione della teologia e dei luoghi dove essa sorge e si autostruttura.

Teologia estrinsecistica ed intrinsecistica

Recentemente la discussione ha toccato la definizione della teologia fondamentale, per estendersi poi a quella della teologia in quanto tale e ha ripreso termini quali intrinsecismo ed estrinsecismo, per contraddistinguere due diversi atteggiamenti scientifici. Con il secondo s'intende una visione della scienza teologica che separando natura e soprannatura, ragione e fede, considera esterne e quindi pezze giustificative le argomentazioni relative ai cosiddetti preambula fidei. Con il primo s'intende invece il movimento inverso, quello che considera unitariamente la realtà umana e, di conseguenza, quella storica. Se ciò ha dei primi effetti sul sapere teologico visto come vero "sapere" e con una sua interna "ragione", comporta un'inevitabile contiguità tra la salvezza e la concretezza umana nella quale essa di realizza e di cui è espressione, seppure ancora parziale e provvisoria.

A questo proposito scrive Max Seckler:

«A rigor di termini bisognerebbe dire che una teologia fondamentale di natura intrinsecistica realmente fondamentale non solo condurrà con intrinseca logicità a una teoria del contenuto e del concetto fondamentale del cristianesimo, bensì che essa deve addirittura considerare l'elaborazione di una simile teoria come il suo compito più alto. Si fa troppo poca ricerca genuina dei fondamenti relativamente al contenuto e al concetto fondamentale del cristianesimo»[4]

Ma a questa formulazione che ha il pregio della chiarezza, in una materia dove la complessità e l'inafferrabilità anche solo teorica degli ambiti toccati sono pane quotidiano, corrispondono altre che vanno a dilatare oltre misura proprio quel confine faticosamente raggiunto. La teologia fondamentale «deve mantenersi aperta sul piano teorico-sistematico e anche processuale a un discorso di fondazione multidimensionale e in linea di principio non concludibile. Pertanto non dovrebbe cercare la sua unità in se stessa, cioè nella consistenza di un sistema chiuso, bensì, in primo luogo nella forza integrativa del suo oggetto e dei processi interpretativi ad esso correlati e mantenentisi storicamente aperti nei suoi confronti»[5].

Da qui la scelta dell'ambito ermeneutico per determinare compito e metodo della teologia: «La parola di Dio ha bisogno di testimoni e di operai per farsi sentire, ma di testimoni e di operai tali che lascino che sia essa a parlare. Perciò per una teologia fondamentale intrinsecistica è la cosa stessa a fondare e sorreggere la sequela ('res sibi faciens fidem'), ma il lavoro teologico fondamentale non diventa per questo superfluo, bensì più che mai necessario»[6]

Se l'opzione di Seckler, come quella di non pochi teologi recenti, sembra non possa essere tacciata di estrinsecismo, è tuttavia da chiedersi fino a che punto i criteri con i quali si articola il suo discorso teologico siano direttamente riconducibili ai princìpi della teologia in quanto tale o quanto piuttosto non si lascino eccessivamente influenzare da ciò che del sapere della fede è solo periferico e riformulazione scientifica, pur con nomenclature moderne che ricorrono di volta in volta all'ermeneutica, all'epistemologia o in genere alla concettualità, di nuovo astratta e quindi sempre sottraentesi al dato e alla sua storicizzazione, alla sua effettualità e in definitiva alla stessa performatività dell'oggetto/soggetto considerato.

Inderivabilità dei principi della teologia e pace

A questo riguardo, Elmar Klinger, della scuola di K. Rahner, di cui è stato assistente per molti anni, non ha dubbi. Parlando di un «nuovo concetto di pastorale e dell'«opzione dei poveri» come «nuovo punto di vista della teologia»[7] scrive: «Con il concetto di pastorale il Concilio amplia anche il concetto di fede: questa è la confessione della vocazione dell'uomo e svela l'ultima verità della sua esistenza, l'origine e il futuro dell'uomo in Cristo e in Dio"[8]

Lo stretto legame tra teologia, confessione di fede ed opzione del concilio condiziona, secondo Klinger, la stessa questione del luogo sorgivo della riflessione:

«La teologia fondamentale si occupa dei princìpi della teologia ed è il luogo nel quale la teologia si richiama ai suoi princìpi e dà ragione di essi. Il problema principale dei manuali è lo scambio di questo luogo con i suoi princìpi. Entrambi non si possono più distinguere l'uno dagli altri né rapportarsi l'uno agli altri. Invece dell'ermeneutica come uno dei princìpi della teologia si parla di una teologia fondamentale ermeneutica e invece di un necessario rapporto della teologia con un contesto si parla di una teologia fondamentale contestuale. Il nuovo libro di Walter Kern, Hermann Josef Pottmeyer e Max Seckler soffre di questa mancanza. Invece di dire che la teologia fondamentale è il luogo nel quale la teologia dà ragione di come essa intenda la fede - ermeneutica- di ciò che di essa difende - apologetica - o di ciò che essa stessa rappresenta -analitica -, si parla di una teologia fondamentale integrativa. Ciò non è un luogo dove qualcuno si trova, ma un concetto generale (Oberbegriff) integrativo, che abbraccia molteplici attività»[9].

Klinger precisa meglio la sua posizione differenziandosi da quella dell'opera citata, dicendo che se per Seckler «il suo punto determinante si trova nel raggiungimento cognitivo e nella ricostruzione ragionevole della realtà e della verità costruente l'esistenza cristiana», ciò significa lasciare da parte i significati, pur di principio, del Concilio e ciò porta ad una mancanza di prospettiva[10].

La conseguenza è di grande interesse per il nostro tema. Ci sentiamo infatti di condividere la preoccupazione di Klinger che vede allontanata la teologia dai suoi stessi princìpi, con la confusione tra luoghi teologici e modalità scientifiche interpretative. La posizione dell'ordinario di teologia fondamentale alla facoltà teologica di Würzburg è, al contrario, molto più lineare: la teologia fondamentale deve elaborare da se stessa i suoi princìpi e bastare ad essi. Ciò non solo è possibile, ma è in armonia con lo spirito del Vaticano II ed è l'indirizzo seguito da una parte della teologia recente, di cui l'autore dà informazione[11].

Con tutto ciò sembra si possa più serenamente affermare che se la teologia non deve rassegnarsi a cercare altrove (aliunde) i suoi principi (relativamente alle proprie prospettive generali , alle opzioni teologiche, che diventano necessariamente "teologali"), ci può e ci deve essere spazio per considerare la prospettiva della pace come orizzonte complessivo. Ciò presuppone ovviamente che tale orizzonte 1) sia sufficientemente vasto ed espressivo della globalità dell'esperienza di fede; 2) si presti ad esprimere la molteplice e inesauribile ricchezza della storicizzazione della salvezza; 3) possa offrire alla presenza della Chiesa e alla sua azione nel mondo una prospettiva concreta e tuttavia non riduttiva della sua evangelizzazione liberante.

Il discorso su queste tre condizioni previe richiederebbe certamente un trattato vero e proprio. Qui non possiamo fare altro che offrire alcune considerazioni generali che servano da sintesi, ma dalle quali ogni seria teologia della pace dovrà ogni volta ripartire. La prima sulla validità dell'estensione del tema pace tocca problemi di ordine lessicografico e di ordine biblico teologico.

Parlando genericamente, credo non si possa negare che sia la quantità sia la qualità teologica dello "shalom" autorizzano un uso della "pace" come orizzonte di fede complessivo, che lo lega all'annuncio della salvezza in quanto "vangelo della pace" (Ef 6,15; cfr. Is 52,7; 40,3.9). Sulle altre due condizioni basti qui accennare al fatto che tutta la storia della salvezza si può leggere nell'ottica che il profeta esprimeva con le parole: «Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Infatti il mistero nascosto precedentemente ad ogni uomo e noto solo a Dio (1 Cor 2,7-8; Rm 16,25) è sostanzialmente questo progetto di pace, che abbraccerà anche i pagani (Rm 16,25-27; Col 1,25-28; Ef 3,1ss). Cristo è pertanto contenuto centrale e chiave di volta del progetto, essendo mistero svelato e Parola che lo rivela (1Tm 3,16; Rm 16,25; Col 1,26-27). Ne è il realizzatore perché artefice di riconciliazione e di riconvocazione (Ef 2,14-16; Gal 3,28) e colui che tutto riunifica e ricapitola (Ef 1,10). Porta ed è il vangelo della pace, che è vangelo di salvezza (1 Ts 2,4) e che coincide con il vangelo di Dio (Rm 1,1; 15,16; 2 Cor 11,7; 1 Ts 2,2.8-). Il suo messaggio è parola di vita (Fil 2,16) e di verità (2 Cor 6,7; Col 1,5; 2Tm 2,15), perché è parola di riconciliazione (2 Cor 5,19) ed è la stessa pace[12].

Ma da ciò consegue che il popolo messianico non può non essere che il popolo della pace. Dio ne indica le caratteristiche che lo assimilano e lo congiungono a lui in quest'opera.



[1] Nell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, Luca esplicitando l' acclamazione messianica degli altri evangelisti ("Osanna al figlio di David") la riformula: "Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli" (Lc 28,38), richiamando la "gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini da lui amati" dell'annuncio della natività (Lc 2,14).

[2] «Tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo, liberazione - ci sono infatti dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l'uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell'ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare. Legami dell'ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giusti-zia e nella pace la vera, l'autentica crescita dell'uomo? Noi abbiamo voluto sottolineare questo ricordando che è impossibile accettare che <<nell'evangelizzazione si possa o si debba trascurare l'importanza dei problemi, oggi cosi dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace del mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal vangelo sull'amore del prossimo sofferente e bisognoso>> (PAULUS VI, Sermo habitus ineunte tertia Synodo Episcoporum, 27 septembris 1974: AAS 66 (1974), 532). Ebbene, le medesime voci che con zelo, intelligenza e coraggio hanno affrontato nel corso del citato sinodo questo tema cruciale, hanno offerto, con nostra grande gioia, i princìpi illuminanti per cogliere la portata e il senso profondo della liberazione quale l'ha annunziata e realizzata Gesù di Nazaret, e quale la predica la chiesa". (Evangelii Nutiandi, n.31: Enchiridion Vaticanum 5, n.1623).

[3] La II Istruzione (vedi nota 20) parla della liberazione operata da Cristo nell'annuncio del vangelo ai poveri e nell'opera del mistero pasquale (cf. ivi, nn. 49-51). Ciò esige dalla chiesa un'opera di autentica liberazione, riconoscendo che «i suoi membri hanno coscienza delle proprie manchevolezze e dei ritardi in questa ricerca. Ma una moltitudine dei cristiani, fin dal tempo degli Apostoli, ha impegnato le proprie forze e la propria vita per la liberazione da ogni forma di oppressione e per la promozione della dignità umana» Tutto ciò costituisce «uno stimolo ed una luce per quelle iniziative liberatrici, che al giorno d' oggi si impongono» (ivi, n. 57). Cr. anche tutto il cap. IV: "La missione liberatrice della Chiesa".

[4] M. SECKLER, Teologia fondamentale: compiti e strutturazione, concetti e nomi, in: AA. VV., Corso di teologia fondamentale 4: trattato di gnoseologia teologica, Queriniana, Brescia 1990, 557. L'edizione originale tedesca risale al 1985.

[5] Ivi, 558-559. L’autore fa riferimento in nota al sistema aperto e mai concludibile proposto in F. SCHÜSSLER FIORENZA, Foundational Theology. Jesus and the Church, New York 1984, nel quale la stessa definizione è continuamente rimessa in questione dall'interagire e reciproco rimbalzo di tre fattori in gioco: costruzione di senso, istanze di garanzia e teorie sul fondamento.

[6] M. SECKLER, Teologia …, cit., 580.

[7] E. KLINGER, Der neue Bregriff von Pastoral un die Option für die Armen. Ein neuer Standpunkt der Theologie, in IDEM, Armut. Eine Herausforderung Gottes. Der Glaube des Konzils und die Befreiung des Menschen, Benzinger, Verlag, Zürich 1990, 272ss.

[8] Ivi, 273. La traduzione qui e relativamente ad altri testi è mia. Il libro non è infatti reperibile in italiano.

[9] Ivi, 277.

[10] Ivi, nota 7.

[11] Nell’opera citata, alla nota 7, Klinger porta ad esempio tutta la collana da lui diretta Würzburger Studien zur Fundamentaltheologie, Frankfurt/Bern/New York 1986 ss, l'opera di C. Boff, Theologie und Praxis, München 1983 e il mio volume Theologia come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta 1988. A mia volta, rimando a quest'ultimo per il discorso fondativo di quanto qui ho affrontato solo come questione.

[12] Gesù- Cristo è secondo la nuova alleanza artefice di pace e s'identifica con la pace, perché già l' antica aveva salutato il messia come la stessa pace (Mi 5,4 Is 9,5).