Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Articolo già pubblicato su Nigrizia

 

Valutazione etico-teologica della problematica del debito Internazionale alla luce dalla Bibbia e del magistero
(anche ecumenico e popolare).
(G. Mazzillo)

Ciccare sul paragrafo che si intende leggere

“Nessuno vive per se stesso...”

L’altro che mi fu affidato....

Niente è mio, perciò ogni cosa è di tutti

Il debito dei creditori verso i debitori

 

 “Nessuno vive per se stesso...”

Non abbiamo nessun debito l'uno verso l'altro e contemporaneamente siamo sempre debitori l’uno verso l'altro. Il paradosso di questa affermazione iniziale dice anche il paradosso della vita umana sulla terra. Rimanda, da un lato, a quella solitudine esistenziale che ci fa dire che ogni essere umano nasce solo e vive solo, ma nello stesso tempo registra la consapevolezza che ciascuno dipende necessariamente dagli altri. Si potrebbe affermare che il bandolo della matassa che ogni vita umana è tutto nel trovare l'equilibrio tra gli estremi di questo paradosso. L'uomo infatti non può vivere né completamente per se stesso, né completamente in dipendenza dagli altri. Forse si potrebbe riassumere il lungo cammino della cosiddetta “civiltà“ inseguendo questo stesso filo che oscilla tra dipendenza ed emancipazione, per cogliere una sorta di tensione continua ad armonizzare i due aspetti. Dipendenza qui vuol dire innanzi tutto un'appartenenza precedente alla volontà, perché ogni essere umano è comunque in riferimento non solo generico ad altri, ma in riferimento ad una famiglia, una tribù, una cultura, una religione, un popolo.

Percorrendo sommariamente a ritroso le tappe dell'emancipazione degli esseri umani, apparirà una prima somiglianza tra il cammino progressivo dell'umanità con l'affrancamento dell'adolescente dalle sue figure parentali. Ma, come nei rapporto di famiglia, il soggetto che si rende autonomo resta pur sempre legato ad essa, così anche gli individui che cercano un’autorealizzazione dalla loro condizione iniziale restano pur sempre a questa collegata, anche se non lo volessero; restano comunque espressione di essa, riproponendo comportamenti, modelli, prassi che non sarebbero altrimenti né comprensibili né possibili. Si è soliti dividere grezzamente la storia in due grossi tronconi: prima della “modernità” e dalla modernità in poi. Ciò che viene prima è ancora ritenuto all'insegna di un asservimento dell'individuo al gruppo di appartenenza (sia essa la famiglia, lo stato o la chiesa). Con l'avvento della modernità invece si ritiene che il soggetto emerga, per affermarsi contro tutto ciò che ne impedisce il movimento di emancipazione.

Sicché, a dar retta a una simile ricostruzione, prima della modernità dovremo dire di essere ancora nella preistoria, dopo la modernità di essere finalmente entrati nella storia umana. Collegato a questo pre-giudizio c'è un altro giudizio di valore su quanti non hanno partecipato a questo processo di emancipazione verificatosi solo nel nostro occidente. Coloro che hanno vissuto al di fuori della nostra “civilizzazione” sono stati e sono ancora in fondo ritenuti “selvaggi” o “primitivi”, intendendo con queste denominazioni uno stato di minorità, che ha tutto da imparare dai “civili e nulla da dare a questi. È la storia di tutte le conquiste, perché di questo si tratta, le quali dal nostro mondo europeo si sono irradiate sulla parte restante del globo terrestre, e che è ancor sempre giustificata con il prestesto di “dover portare agli altri la nostra civiltà”. Non per nulla le prime conquiste di questo tipo vanno di pari passo con il sorgere e l’affermarsi della modernità.

L'ideologia che le ha coperte ha però nascosto solo parzialmente gli intenti commerciali, economici, di vero sfruttamento e strozzinaggio, che si è consumato a danno dei popoli “incivili” e tutto a vantaggio dei nostri popoli “civili”. Il culmine di questa copertura ideologica, ammantata di filantropia, si raggiunge all'epoca della rivoluzione francese, quando l'urgenza di trovare dei principi universali per regolamentare il traffico delle merci e del mercato, fece invocare i famosi principi di libertà, uguaglianza e persino fraternità. Libertà ed uguaglianza, come si può notare, sono direttamente funzionali alla libertà di commerciare con chiunque e dovunque, così come l'affermazione della uguaglianza ha certamente a che fare con l’affermazione di un valore universale del denaro. Ma ciò significa anche che, nonostante alcuni abbiano tentato, attraverso questa via, di mediare principi illuministi nati dalla valorizzazione della comune ragione umana, lo sfruttamento dei paesi extra europei non solo è continuata e continua, in maniera indiscriminata, ma che cesserà solo quando verrà a mancare questa copertura ideologica.

Possiamo affermare che anche quando l'uomo ha cercato di rendersi autonomo, attraverso l'emancipazione e la realizzazione si sé, tale intento non è mai riuscito del tutto. Al contrario, l'economia ha ancora richiamato tutti al comune destino che associa gli umani e quindi alla mutua interdipendenza. Ma ciò ha come conseguenza una sorta di ristabilimento della reciproca appartenenza che dal piano dell'esistenza è passata a quello della interdipendenza commerciale, dal piano dell'essere è scivolare su quello dell’avere.

Essere l'uno con l'altro ed essere l'uno per l'altro è comunque insopprimibile, perché appartiene alla “natura” umana. Ciò si manifesta in maniera più evidente nelle società e culture arcaiche, dove l'appartenenza ad una sorte comune è espressa in tutte le forme e nei vari aspetti della vita umana, che è sempre una vita sociale. Essere esclusi dalla comunità significa essere esclusi dal flusso della vita. Il fatto stesso di vivere comporta primariamente ed originariamente una specie di reciproca obbligazione ad essere con l'altro e per l'altro. Se di un'etica dobbiamo qui parlare, non ci sarà difficile scoprire che essa obbedisce al principio della responsabilità comune e del sentire e vivere in solidum la vicenda dell'esistenza. Il fatto di venire al mondo non è mai un'astrazione, ma è sempre un venire in un determinato mondo, in un preciso contesto, contrassegnato non soltanto da una territorio, ma da una comunità che ha una sua etica. È questo il senso che diamo all'espressione essere in debito l'uno con l'altro. Ma è anche qualcosa di più: qui infatti si realizza l'adagio paolino che invita a saper ridere con chi ride e piangere con chi piange. Qui il singolo resta coinvolto in una vicenda che non è più soltanto sua, ma è di tutto il gruppo e in questo gruppo può realizzare pienamente se stesso.

In questa concezione generale il debito non è un indebitamento, ma è piuttosto un coinvolgimento nella storia degli altri, che è anche la propria storia. Più che di obblighi e di obbligazioni si dovrà parlare di comune appartenenza, la quale ha certamente le sue esigenze, che sono da rispettarsi da parte di tutti, ma si tratta comunque di una comune realtà non tanto scelta, quanto donata. Il soggetto se la trova davanti e la recepisce, vive in essa e di essa, così come si vive nell'aria e nel mondo in cui si nasce. Il “debito”, in quanto nuova responsabilità contratta in forza di una promessa o di uno scambio, è un'altra cosa: è ciò che proviene da una deliberazione individuale e che è, per così dire, aggiunta e mai sostituita a quella comune obbligazione di ciascuno verso tutti e di tutti verso ciascuno. Questo sta a significare che non solo è possibile, ma fa parte della natura “primaria” dell'essere umano sentirsi obbligati verso gli altri e sentirsi in debito con loro, alla stessa maniera che gli altri si sentono in debito verso il singolo.

La nostra domanda tipicamente occidentale non tarda ad affacciarsi: «che cosa ne è della libertà dell'individuo?». Nella concezione abbozzata, infatti, sembrerebbe che gli spazi per il soggetto siano così contratti, da diventare inconsistenti. Abituati come siamo a poter fare del nostro tempo, del nostro denaro, del nostro corpo e di quanto abbiamo, tutto ciò che vogliamo, stentiamo a capire come ci possa essere libertà in coloro che, al contrario, condividono il loro tempo e i loro averi con gli altri, al punto di sentirsi “in debito” quando la vita altrui dipende proprio da loro ed essi non sanno fare a meno, perché si sentono “obbligati”, ad aiutarli. La solidarietà qui sembrerebbe sfuggire alla libertà, al capriccio e quindi può essere facilmente sospettata, se non del tutto rifiutata dall’uomo individualista di stampo occidentale. «Che cosa ne è della libertà?»: anche questa domanda è palesemente rivelatrice di una concezione particolare della vita e della percezione del proprio posto nel mondo, del proprio modo di vedere e interpretare i rapporti.

 Si potrebbe definire una visione tipicamente egocentrica, nel senso che il soggetto si considera non solo punto di partenza, ma alla fine “produttore” e quindi ultimo referente di tutto l'esistente. È una sorta di autoreferenzialità che è particolarmente sviluppata nel nostro mondo e che ha costituito la predella di rilancio della modernità. Gli altri esistono solo se il singolo ne ha bisogno; di essi può fare quello che vuole. Non, ovviamente, nel senso che può disporne a suo piacimento, perché anche lui ha un limite, ma nel senso che può richiamarsi ad essi oppure ritirarsi completamente in se stesso, a seconda dei suoi stati di animo e delle sue decisioni momentanee.

Ma qual è questo limite “dell’altro” che anche l'io moderno è costretto a riconoscere? È solo quello che pone ogni io sullo stesso piano dell'altro come entità con cui si ha a che fare, con cui si può e si deve spesso “contrattare”, con cui bisogna comportarsi così come si pretende che l'altro debba comportarsi con me. Anche in questo caso si potrà notare il carattere “contrattuale” del rapporto che l'io moderno stabilisce con gli altri. Non per nulla i grandi illuministi hanno parlato di “contratto sociale”. Ciò che ne deriva va visto all'insegna di una contrattualità che tutto misura con la bilancia e a ciascuno chiede ciò che ciascuno “deve”. È però sintomatico un fatto: l'esattezza di simili scambi e di uguale “peso” delle persone non è per nulla invocata al di fuori della cerchia del mondo europeo o in genere occidentale, pur così attento alla giustizia “retributiva”, ma che dimentica del tutto anche queste norme più elementari di rapporti contrattuali nel momento in cui si affaccia al di là delle “colonne d'Ercole” del proprio mondo, costruito a propria misura. Infatti al di là di esso non disdegna di saccheggiare e sfruttare, fino ad annientare il “diverso”, che è ritenuto tale e che solo per questo, quando non è più da sfruttare, viene distrugge. Viene eliminato, perché non ci sia più nessun ostacolo all'io occidentale per soddisfare le sue mire espansionistiche o più prosaicamente i suoi interessi commerciali e monetari.

L’altro che mi fu affidato....

Il nostro ragionamento ci ha condotto fino alle soglie di quella concezione cristiana che ovviamente è agli antipodi della concezione egocentrica della vita. Per tutti vale l'adagio paolino che dice, a proposito del rapporto che ciascuno ha con Cristo: «Nessuno di noi [...] vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,7-8). Ma ciò che si afferma del nostro legame con Cristo lo si deve parimenti affermare del nostro legame con gli altri, non solo perché ogni altro è comunque legato a Cristo e noi siamo tutti le membra dello stesso corpo, ma anche perché il legame con gli altri è una logica conseguenza della “novità” che Cristo ci ha portato. Possiamo allora indicare una linea che ci consente di sciogliere l'enigma iniziale, dicendo che siamo contemporaneamente in debito l'uno con l'altro e non abbiamo nessun debito l'uno verso l'altro, solo perché e solo quando noi viviamo l'esigenza dell'amore, che poi altro non è che la ripresa, con ulteriori motivazioni, di quella primaria e reciproca appartenenza della quale abbiamo in apertura. Un’altra affermazione di Paolo ci consente di giustificare il paradosso, la seguente: «Non abbiate alcun debito con nessuno, se no quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge» (Rm 13,8).

È l'amore, dunque, ciò che ci rende liberi e ci lega agli altri. Ci lega infatti a Dio, sorgente della vita e della stessa libertà, e quindi ci riconduce alle nostre radici e anche a ciò che costituisce la comunità umana nel suo insieme. Ma ciò significa anche un'assunzione di responsabilità verso gli altri, verso ogni altro, che come me viene da Dio e a lui fa ritorno. È sulla stessa terra e insieme con me ha la responsabilità sia della terra che di tutti gli altri.

La responsabilità appare pertanto un impegno a custodire l’altro, la sua vita. Nasce dalla consapevolezza già accennata della partecipazione di ogni essere umano alla stessa umanità, al punto che nessuno è veramente “estraneo”. La figura emblematica che indica, per contrasto, dove conduce la mancanza di responsabilità per il fratello, è Caino, la cui insensatezza si mostra nelle parole con le quali vuole nascondere il suo delitto, quello con il quale ha eliminato Abele: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).

Dio non può gradire quelle parole, perché è vero il contrario: ciascuno è custode di suo fratello. Ha contratto con lui un debito per il fatto di essere venuto al mondo, essendo figlio di Dio come l’altro. Il fondamento di questa sua cura dell’altro è da riscoprire nella cura che Dio ha per tutte le sue creature. È cura, che, come si diceva, nasce dall’amore. La letteratura sapienziale esprime l’amorevolezza di Dio verso ogni cosa, oltre che verso ogni essere umano nell’intensa preghiera del libro della Sapienza: «Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?» (Sap 11, 23-25).

Corrisponde a questa visione teologica il fatto che già agli albori dell’umanità tutti gli esseri umani sono chiamati, in Adamo che li rappresenta, a mantenere la vita sulla terra, a coltivare e custodire il giardino, che simboleggai il mondo intero (Gen 2,15) e a dare un nome agli animali. Sono impegni confermati alla nuova umanità rappresentata da Noè, al quale Dio dice: «Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell'arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina» (Gen 6,19).

Su questa base di comune responsabilità per tutto il creato, alla quale Dio associa tutti gli uomini, si innesta anche il discorso della corresponsabilità verso la propria comunità di appartenenza, che è collegato all'idea che Israele ha della propria realtà storica. Israele sa di dover tutto alla potenza di Dio che lo ha radunato, liberato e continuamente lo fa vivere. Sa anche che la stessa terra sulla quale vive è il suolo da lavorare e sul quale abitare, ma che propriamente non gli appartiene, bensì appartiene a Dio, signore di quella terra, in quanto ne è anche il creatore. Come tale è sua creatura, resta di sua proprietà e a lui deve sempre essere riferita (cf., a titolo d’esempio, Es 9,29; Dt 10,14; Gs 2,11; Sal 24,1; Sal 46,11).

Dalla chiamata di Abramo fino al presente, il popolo d'Israele ha mantenuto tale consapevolezza, anche se talvolta si è arrogato il diritto di disporre della terra in maniera arbitrario. Eppure già nella risposta di Abramo al re di Sodoma, Dio appariva non solo come “creatore del cielo e della terra”, ma anche come motivo più che sufficiente di sicurezza, perché garantiva un futuro al patriarca e alla sua discendenza: «Ma Abram disse al re di Sòdoma: “Alzo la mano davanti al Signore, il Dio altissimo, creatore del cielo e della terra: né un filo, né un legaccio di sandalo, niente io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito Abram”» (Gen 14,22-23). Il dono delle terra è, insieme con quello della posterità, ciò che solo Dio può promettere e dare ad Abramo, così come farà con il suo popolo una volta che sarà stato liberato dall’Egitto.

Niente è mio, perciò ogni cosa è di tutti

Nel libro del Levitico il tema della proprietà della terra è finalmente collegata a quella del giubileo, al punto da regolamentare i passaggi perché chi ne risulta privo possa riscattarla: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini. Perciò, in tutto il paese che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo. Se il tuo fratello, divenuto povero, vende una parte della sua proprietà, colui che ha il diritto di riscatto, cioè il suo parente più stretto, verrà e riscatterà ciò che il fratello ha venduto. Se uno non ha chi possa fare il riscatto, ma giunge a procurarsi da sé la somma necessaria al riscatto, conterà le annate passate dopo la vendita, restituirà al compratore il valore degli anni che ancora rimangono e rientrerà così in possesso del suo patrimonio. Ma se non trova da sé la somma sufficiente a rimborsarlo, ciò che ha venduto rimarrà in mano al compratore fino all'anno del giubileo; al giubileo il compratore uscirà e l'altro rientrerà in possesso del suo patrimonio» (Lv 25,28.

L’anno giubilare è l’anno in cui ogni ebreo rivive l'esperienza gioiosa della libertà da ogni condizionamento storico e sociale. È il momento in cui si ristabilisce sulla terra l'ordine primordiale, tanto da rimettere ogni cosa al suo posto: i debiti vengono cancellati perché tutti risultano essere in debito verso Dio, verso la creazione del verso i propri simili; gli schiavi vengono pertanto liberati e i prigionieri sono scarcerati. Il giubilo rappresenta per così dire la festa degli oppressi liberati, perché l'oppressione non appartiene all'ordine di Dio, ma al disordine dell'uomo. Tutto ciò che c'è da fare è riportare le condizioni attuali nelle quali il popolo di Dio si trova alle sue condizioni iniziali. Era anche questo il senso della profezia messianica di Isaia (Is 61, 1-3) e che Gesù applica alla sua missione e a tutta la sua prassi, pensando anche all’anno giubilare come anno di salvezza (Lc 4,18-22).

Del resto, anche fuori dell’anno giubilare, i debiti sono collegati al dovere di soccorrere comunque il prossimo con il prestito. Troviamo formulato magistralmente tale dovere, con quello corrispondente della restituzione nel libro del Siracide: «Chi pratica la misericordia concede prestiti al prossimo, chi lo soccorre di propria mano osserva i comandamenti. Da’ in prestito al prossimo nel tempo del bisogno, e a tua volta restituisci al prossimo nel momento fissato» (Sir 29, 1-2).

Ma la restituzione che, pure è prescritta, non è un dovere assoluto, così com’è quello del soccorso del fratello bisognoso. È sempre da effettuarsi, ma a condizione che si sia nella condizione di poterlo farlo. Infatti il principio assoluto è la misericordia, cioè quello di aver cura amorevole dell’altro. La fondamentalità di tale principio si basa sull’assolutezza dell’amore di Dio, al punto che la Bibbia prescrive persino la restituzione del mantello, preso come pegno, a colui che nella notte non avesse altra coperta per riscaldarsi: « Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l'aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso”(Es 22,25-26; cf. Dt 24,10-13). La Parola di Dio prescrive la solidarietà verso le categorie più deboli (orfani, vedove e stranieri), con la motivazione che gli attuali benestanti sono stati tutti stranieri ed ospiti in terra d’Egitto, e con il sottinteso teologico che in ogni caso siamo tutti pellegrini e forestieri sulla terra (Dt 27,19).

L’insegnamento di Gesù non fa che confermare e motivare ulteriormente il principio della responsabilità solidale verso il fratello (ed ogni uomo lo è, aggiunge Gesù, anche il nemico) sulla base della ineguagliabile misericordia di Dio. La parabola del servo spietato con il suo simile che gli doveva una cifra irrisoria, mentre a lui era stata condonata una cifra pressoché infinita (Mt 18,23-35) attesta, una volta di più, che il cristiano non può pretendere da chi non ha, proprio lui che ha ricevuto e riceve tutto: «Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo» (Lc 6,30 cf. Mt 5,42;Lc 12,33; Mt 7,12; Tb 4,15

L’impostazione etica è certamente di un’eticità dell’amore e della solidarietà e non della fredda e burocratica corresponsione, nei termini della “libertà” ed “uguaglianza” di fronte alla legge. La fraternità riveste qui, a differenza che nell’illuminismo, l’importanza di una vera fonte del diritto e viene prima dell’uguaglianza e della libertà. Non nel senso che queste siano secondarie. Sono infatti termini correlativi e in qualche maniera presupposti di quella, eppure qualora dovessero entrare in alternativa, la fraternità prevale. Siamo dunque all’opposto dei principi della rivoluzione borghese, per la quale prevale sempre la libertà dell’individuo e la sua affermazione. Lì il soccorso dell’altro, che pure è contemplato, è però sempre e solo nell’ottica della filantropia, e quindi al più in quella della consapevolezza che anche lui è un uomo.

Il debito dei creditori verso i debitori

Per una comunità mondiale quale quella cristiana, ma lo si deve asserire in genere per l’intera comunità mondiale, è doppiamente assurdo il fatto che i rapporti tra i popoli e gli esseri umani non siano nemmeno impostati in quelli della filantropia (che qua e là ancora appare in qualche economista “illuminato”), ma in quella dell’economia, con leggi autonome e con l’ammissione, da qualche parte ormai dichiarata esplicitamente, che il “nostro” paradigma economico impone strutturalmente dei sacrifici, quelli, ovviamente, come sempre, dei più indifesi. In questi termini si trova scritto: «Alcuni si azzardarono a fare incursioni sullo sgradevole terreno del “calcolo di incidenti” e morti”, ossia dei sacrifici di vite richieste dalla logica dei modelli di sviluppo. In costoro si percepisce uno sforzo incredibile per non “inserire” tali risultati disastrosi nella logica dell’economia, cercando di trasformarli in “effetti esterni” o, nella peggiore ipotesi, in “effetti transitori”» (cf.. H. Assmann - F. J. Hinkelammert, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia [Teologia e Liberazione 5], Cittadella Editrice, Assisi 1993, 305, con riferimento a E. J. Mishan, Analisi costi-benefici, Etas, Milano 1974, 3^ parte, su «effetti esterni», bibliografia su «calcolo di vite»).

Ciò che possiamo a nostra volta rilevare e che la “crescita economica” in atto, è non solo sempre più distorta ed asimmetrica, come denunciava già la Populorum progressio di Paolo VI, ma sembra inesorabilmente condannare milioni di esseri umani di ogni area periferica ad essere sacrificati all’economia e non solo all’irrelevanza sociale. Sembra condannarli ad una programmata eliminazione sacrificale.

Del resto è già in atto una tendenza che ci fa prevedere, che, se non interverranno inversioni di rotta, l’economia sacrificherà sempre più il sociale e che la finanza trionferà sulla politica, affermando nei fatti il “valore” del denaro su ogni altro valore. È una prospettiva agghiacciante, che però non ci deve trovare conniventi. Non dovrà accadere che proprio mentre chiediamo perdono per aver taciuto ai tempi dello sterminio degli Ebrei, continuiamo a tacere sulle nuove e più sottili forme di sterminio che si vanno consumando ai nostri giorni.

La nostra reazione deve essere coerente non solo con la nostra fede in Cristo, ma anche con i valori nei quali egli ha creduto (su questo tema rimando al mio libro Gesù e la sua prassi di Pace, La meridiana, Molfetta [BA] 1990). La nostra reazione non può essere che frontalmente critica, perché ancora crede e lotta perché il denaro non sia il nostro ultimo idolo, sapendo che l’uomo vale più del cibo che mangia e del vestito che indossa. Recependo la lezione di uno dei martiri del nostro tempo, padre Ignazio Ellacuría, assassinato in San Salvator per il suo impegno teologico a favore degli oppressi, dobbiamo far sì che la chiesa non sia solo corpo mistico ma anche corpo storico (cf. anche I. Ellacuría,«Il popolo crocifisso» in Conversione della Chiesa al Regno di Dio, Queriniana, Brescia 1992, 41-69). Di fatto è già il popolo dei tanti che sembrano i relitti di una società che nemmeno più li calcola, come se fossero l’inevitabile cascame dell’inarrestabile e immodificabile “avanzamento economico”. Essere per noi chiesa significa essere fautori di una cultura in contro-tendenza, che afferma il valore primario dell’uomo e degli impoveriti dall’avanzamento economico di pochi. Tali principi o saranno principi portanti di ogni progetto di intervento ispirato cristianamente  oppure ogni nostro “progetto culturale” sarà al più un sogno neo-espansionistico spirituale, un progetto mistico e non storico, se non un puroi e semplice flatus vocis. 

 Il debito estero va affrontato dunque con questi principi e con questo strumentario teologico, perché non si può tacere oltre sul fatto che ogni uomo è «un fratello per il quale Cristo è morto» ( 1Cor 8,11) e pertanto ciascuno deve sentirsi eticamente impegnato a portare i pesi degli altri (cf. Rm 12,10). I documenti del magistero ecclesiale che riprendono quest’idea (cf. Cei, Evangelizzazione e cultura della vita umana, n. 40 ECEI/ 4, 2042) partono spesso dalla critica all’uomo moderno che ha smarrito l’orizzonte trascendente della vita umana, riducendosi ad “una cosa”, e trascurando quel primo impegno di corresponsabilità per gli altri esseri (gli uomini in primo luogo) che deriva dalla stessa vita ricevuta da Dio come dono e realtà “sacra”, affidata alle sue mani.

Se queste sono le premesse, ci sono obbligazioni storiche concrete, come - paradossalmente - c’è anche la responsabilità dei creditori verso i debitori, per ciò che riguarda il debito estero. Lo sosteneva già la. Pontificia Commissione “Iustitia et pax”, che affermava: «Di fronte alle situazioni di urgenza nelle quali possono trovarsi i paesi debitori incapaci di assicurare il pagamento del loro debito esterno - e neanche il pagamento degli interessi annuali -, le responsabilità dei diversi creditori sono state precisate nel quadro di una solidarietà della sopravvivenza» (cf. Un approccio etico del debito internazionale, III, 3 EV/10, 1099). Ciò è in linea con l’obbligo morale di difendere i diritti degli oppressi (Cf. Christifideles laici, n. 39, EV/11, 1776) e di sentire la propria parte di responsabilità verso i popoli affamati, al punto che lo stesso Nuovo Catechismo della Chiesa ribadisce «Il dramma della fame nel mondo chiama i cristiani che pregano in verità ad una responsabilità fattiva nei confronti dei loro fratelli, sia nei loro comportamenti personali sia nella loro solidarietà con la famiglia umana» (CCC n. 2831), ereditando una tradizione magisteriale che ormai è chiara almeno su un punto: la nostra comune partecipazione allo stesso destino (cf. Octogesima adveniens   n. 21).

Si può finalmente comprendere l’espressione paolina che, in maniera letterariamente paradossale, esclude ogni debito e riafferma il reciproco debito dell’amore: «Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge (Rm 13,8-10).

La solidale e vicendevole dipendenza è certamente una leva etica efficace per vincere l’indifferenza verso i “sacrificati” dall’economia e per chiedere chiaramente il condono del debito estero, che succhia ormai il sangue dei più disperati nei paesi del terzo mondo.

È questa la conseguenza di quanto affermato anche in altri interventi magisteriali come la Centesimus annus di Giovanni Paolo ii e il documento CEI Democrazia economica, sviluppo e bene comune, del 13 giugno 1994, dove c’è un riconoscimento di valori economici quali l’efficienza, la produttività ed anche del ruolo del mercato e dell’iniziativa imprenditoriale, ma a patto che poggino non sulla semplice e pura legge del mercato, ma sul principio etico della giustizia sociale e, ancora più a monte, su quello della solidarietà. Misconoscere ciò significa abbandonarsi ad un’economia che significa oppressione, ad un’economia che uccide. Il debito estero, che pesa ogni giorno di più sulle spalle di persone che hanno la sola colpa - incolpevole - di essere nate in’area del mondo è una di queste strutture di peccato, ingiusta e assassina.

Sono queste le ragioni che più recentemente hanno fatto intervenire anche altri, per condividere l’appello della lettera apostolica Tertio millennio di Giovanni Paolo II, che chiede il condono del debito internazionale. L’ormai famoso numero 51 contestualizza tale richiesata non solo in quella ovvia dell’anno giubilare, ma in quella più vasta dell’opzione preferenziale per i poveri e della dimensione profetica della fede cristiana: « Si deve anzi dire che l'impegno per la giustizia e per la pace in un mondo come il nostro, segnato da tanti conflitti e da intollerabili disuguaglianze sociali ed economiche, è un aspetto qualificante della preparazione e della celebrazione del Giubileo. Così, nello spirito del Libro del Levitico (25, 8-28), i cristiani dovranno farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l'altro, ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni. Il Giubileo potrà pure offrire l'opportunità di meditare su altre sfide del momento quali, ad esempio, le difficoltà di dialogo fra culture diverse e le problematiche connesse con il rispetto dei diritti della donna e con la promozione della famiglia e del Matrimonio» Il testo riprende quanto già affermato, un decennio prima, dallo stesso papa, con la motivazione seguente: «Non si può qui passare sotto silenzio lo stretto collegamento tra simile problema, la cui crescente gravità era stata già prevista dalla Populorum progressio, e la questione dello sviluppo dei popoli» (Nel ventesimo anniversario dell'enciclica «populorum progressio» n. 19, EV/10, 2557, il 30 dicembre 1987)

L’intento di formare, oltre che di informare, per un nuovo approccio etico ai problemi sociali impellenti, tra i quali è indicato il debito estero, è presente nel testo della Congregazione per l'educazione cattolica, La dottrina sociale della chiesa nella formazione sacerdotale, del 30-12-1988, [cf. n. 28: EV/11, 1963]. Ritorna nel Comunicato stampa finale sulla III assemblea generale del comitato centrale del grande giubileo dell'anno 2000 [Vaticano, 11-12 marzo 1997], e si può dire che in genere sia sullo sfondo della preparazione al Giubileo, fino all’appello del Card. Etchegaray, presidente del consiglio pontificio Giustizia e Pace, che invoca una volontà politica autentica dei paesi ricchi per l’applicazione di quel condono invocato da oltre dieci anni: «Le istituzioni finanziarie internazionali riconoscono sempre più che il peso del debito sui paesi più poveri ostacola il loro sviluppo economico e provoca conseguenze sociali disastrose. Ci rallegriamo di questa presa di coscienza. Di fronte all’urgenza del problema, si tratta ora di tirare le conseguenze pratiche, in vista di un’applicazione rapida dei nuovi termini della riduzione del debito a un numero più grande possibile di  paesi. Sono i poveri che pagano il prezzo delle indecisioni e dei ritardi» (nostra traduzione dal testo francese in http: // www.vatican.va / news_services/bulletin/news/1265.html).

Ma non è solo in ambito cattolico che cresce la consapevolezza dell’insostenibilità del debito estero. L’assemblea ecumenica che si tenne a Basilea dal 15 al 21 maggio del1989 approvò un testo in cui si invitava a superare tanto le barriere confessionali che le frontiere nazionali, almeno per ciò che riguarda la giustizia e della pace, fino a proporre l’eliminazione del debito estero, il superamento dello squilibrio tra Nord­sud, il rifiuto del razzismo, l’abolizione della guerra in quanto istituzione, l’assunzione di uno stile di vita che favorisca la riduzione dei consumi energetici ed uno sviluppo sostenibile per tutti. L’assemblea ecumenica di Graz, (23-29 giugno 1997) ha ripreso e approfonditi anche questi temi e per ciò che concerne il debito internazionale ha, con maggiore concretezza, proposto anche il suo inserimento nei prossimi incontri internazionali dei cosiddetti G7: 

«Raccomandiamo alle chiese di farsi promotrici, nello spirito dell'anno giubilare, di un movimento volto a ottenere il condono dei debiti dei paesi più poveri e a fissare per questo come data simbolica particolarmente significativa l'inizio del nuovo millennio. Motivazione: la questione del condono del debito deve assumere un posto di rilievo nell'ordine del giorno dell'incontro dei G7 di Birmingham (giugno l998) e Berlino (l999). In occasione di questi incontri le chiese dovrebbero intervenire con pubbliche campagne di opinione in difesa degli interessi dei paesi più poveri e influenzare i governi europei affinché facciano quanto è in loro potere. nel quadro del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, per una soluzione permanente del problema del debito» (Documento finale 3, 6.1-2, in Il Regno-Documenti 42 [1997/15] 485).

Il tema è ripreso anche in altri punti, e raccoglie esplicite sollecitazioni che sono venute dalle componenti più sensibili delle varie chiese. Certamente impegna tutti a dare concretezza con sottoscrizioni, azioni di sensibilizzazione e con uno stile più sobrio di vita a che i più poveri non siano ulteriormente oppressi con pesi dei quali non hanno né colpa, Né talvolta consapevolezza. Ciò che sanno è che il loro stesso lavoro, quando ne hanno uno, non basta nemmeno per quel livello minimale di vita dignitosa cui hanno diritto, e di cui però dai conquistatori di ieri e dalle strutture finanziarie di oggi sono stati e sono violentemente defraudati.