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G.Mazzillo 3  Incontri sulla Lumen gentium. Parrocchia San Paolo, Praia a Mare, gennaio 2004

2° Incontro: Chiesa popolo di Dio in cammino

2. 1. Pellegrini di Chiesa, pellegrini di pace

Avvio: Documento del Convegno ecclesiale di Loreto, del 1985 «Siamo convenuti [...] come pellegrini di Chiesa, da sempre chiamati a seguire Cristo Gesù e a vivere di Lui, crocifisso, risorto e vivo per riconciliare pienamente gli uomini con se stessi, tra di loro e con Dio»[1].

Da sottolineare: «siamo convenuti» e «pellegrini di Chiesa», cioè la natura convocativa e peregrinante del popolo di Dio, come ci ricorda anche la Relazione finale del Sinodo dello stesso anno. Anche qui troviamo l’aggancio tra il carattere «misterico» e il carattere «storico» della Chiesa nella sua dimensione peregrinante, sicché il popolo messianico «anticipa in sé la nuova creatura»[2].

Il mistero della Chiesa è dunque congiunto con la sua fisionomia storico-escatologica di popolo di Dio. La Lumen gentium parla espressamente della realtà del popolo di Dio nel cap. II (De populo Dei) e della sua indole escatologica nel cap. VII (De indole eschatologica ecclesiae peregrinantis eiusque unione cum eccelesia coelesti). I documenti successivi ribadiscono la validità e l’attualità dell’espressione “popolo di Dio”, così determinante nella riflessione dogmatica conciliare.

È un popolo distinto quello della Prima Alleanza e congiunto ad esso. Si tratta di uomini che vivono vicissitudini sociali ed esistenziali, nella fitta rete dei rapporti interrelazionali, e che la Chiesa conciliare prende sul serio, consapevole che l’uomo nasce, soffre, agisce e muore in un tessuto interumano, dal quale il popolo di Dio non è alieno perché è costituito da esso, incarnato com’è nella storia e nella società .

La Lumen gentium lega la storicità all’escatologia, l’ecclesialità alla socialità. Ciò è fondamentale per comprendere l’agire e la missione del «popolo messianico» come popolo che, realizzando le beatitudini, diventa popolo di pace.

2.2. L’importanza teologica del popolo di Dio nel Vaticano II

Tutti i commentatori del Vaticano II mettono in risalto che alcune vicende riguardanti la cronistoria del cap. II della Lumen gentium, chiari segnali di differenti impostazioni teologiche. Il primo schema sulla Chiesa, discusso in aula ai primi di Dicembre del 1962, Aeterni Unigeniti Patris comprendeva 11 capitoli, dei quali il primo portava il titolo «Natura della Chiesa militante»; il II: «I membri della Chiesa militante e sua necessità per la salvezza»; il III: «L’episcopato come supremo grado del sacramento dell’ordine e il sacerdozio»; il IV: «I vescovi residenziali»; il V: «Gli stati per acquistare la perfezione evangelica»; il VI: «I laici». Seguivano i capitoli sul magistero (VII); autorità ed obbedienza nella Chiesa (VIII); rapporti tra Chiesa e stato (IX); il dovere della Chiesa di annunciare a tutti e dovunque il Vangelo (X); l’ecumenismo (XI). Insieme a questo schema era stato distribuito a parte quello riguardante la Vergine Maria.

Nessuna novità teologica rispetto all’ecclesiologia dei manuali dell’epoca. Piuttosto evidenzia la preoccupazione di arrivare a chiarimenti su alcuni punti rimasti ancora sospesi, come la sacramentalità dell’episcopato, la residenzialità dei vescovi, la necessità dell’obbedienza, il valore e il ruolo del sacerdozio, della vita consacrata e dei laicato; e su problemi riguardanti i rapporti ecclesiali esterni, come i rapporti con lo stato, con gli acattolici e in genere con i “non convertiti”.

Lo schema fu respinto perché mostrava solo l’aspetto giuridico e non mistico-dogmatico della Chiesa. Qualcuno accusò esplicitamente il documento di clericalismo, mentre per bocca del vescovo argentino Mons. Devoto fu rivolto l’appello ad una rivalutazione chiara di tutto il popolo di Dio nell’impostazione ecclesiologica generale. Lo schema fu rielaborato e concentrato in quattro capitoli, riprendendo in certa misura il progetto del teologo di Lovanio G. Philips. Il I capitolo trattava il mistero della Chiesa; il II la sua struttura gerarchica e in particolare l’episcopato; il III il popolo di Dio e specialmente i laici; il IV la vocazione alla santità della Chiesa. Titolo del nuovo schema era già «Lumen gentium cum sit Christus», cioè «essendo Cristo luce delle genti».

Il dibattito in aula conciliare chiarì che per popolo di Dio s’intende tutta la Chiesa, inclusa la gerarchia, per cui il III capitolo (sul popolo di Dio) divenne il II, mentre quello relativo alla gerarchia divenne il III. Il IV capitolo fu dedicato ai laici; il V all’universale vocazione alla santità ; al VI alla vita religiosa; al VII all’indole escatologica della Chiesa; VIII alla Beata Vergine Maria. Tutta la costituzione fu infine votata e approvata il 19 Novembre 1964, con l’aggiunta della Nota explicativa praevia sulla collegialità, in riferimento al cap. III, a motivo delle riserve sollevate in merito nello dibattito conciliare.

Il Concilio accettava e faceva sua la locuzione “popolo di Dio”, distinguendola da tutte le immagini bibliche atte a descrivere la Chiesa e attribuendole uno spessore storico-salvifico e storico-sociale, ben al di là della metafora. Il popolo di Dio sembrava diventare insomma una vera e propria categoria teologica, ben diversa da una qualsiasi immagine della Chiesa, intercambiabile con qualsiasi altra[3].

Tuttavia, il riferimento al popolo di Dio è stato visto più come uno dei punti dell’ecclesiologia del Vaticano II che non come prospettiva complessiva e per questo fondamentalmente innovativa[4]. È una osservazione la nostra che non è del tutto originale, essendo stata fatta anche da altri che si sono cimentati con la categoria del popolo di Dio[5].

Facendo un bilancio, non si ribadirà mai abbastanza che l’ecclesiologia del popolo di Dio non nasce “ex novo” al Vaticano II, ma riprende una grande prospettiva delle origini,  che per alcuni rimane viva fino al IV secolo[6]. Sul perché di quell’oscuramento, che da allora in poi ha coperto tutti i secoli che ci separano dal Vaticano II, sono stati avanzate alcune ipotesi. O. Semmelroth individua nell’ecclesiologia del “popolo di Dio” il culmine dell’alleanza bilaterale tra Dio e la sua comunità nel mentre si afferma il carattere peregrinante della Chiesa. Ma ciò susciterebbe una sorta di “materialità” di quella Chiesa che invece nelle altre figure bibliche affiorava in tutta la sua estensione spirituale[7].

È una spiegazione interessante che però conferma solo  altre cause di natura storica, oltre che teologica, fino alla più recente difficoltà, emersa in questi ultimi decenni, ad accettare una coerente impostazione della salvezza come salvezza storica che passa attraverso la costituzione del popolo delle beatitudini come popolo di pace: non solo una storia della salvezza, ma una salvezza reale della storia.

2.4. L’espressione «popolo di Dio» in tutto il Vaticano II

Nella Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla liturgia, approvata un anno prima di quella sulla Chiesa, il termine «popolo» è usato con diversi significati. Ha talora nel testo una connotazione sociologica, come, ad esempio, quando indica una realtà storico-culturale o etnologica. Così, per esempio, si parla di gruppi etnici, religiosi e popoli (SC 38: EV/1, 66); di tradizioni ed indole di vari popoli (SC 40: EV/1, 69) e dell’utilità della lingua «volgare», uguale a popolare, oggi tradotta «lingua viva» nella liturgia (SC 36: EV/1, 62). Quando si tratta del popolo di Dio, la terminologia sembra ancora incerta e ricorre poche volte espressamente in questi termini. La dicitura è talora «popolo cristiano», talora «popolo», che, in un contesto liturgico-teologico si intende tuttavia come popolo di Dio. Nella maggior parte dei casi si adopera comunque la parola «Chiesa». Al «popolo cristiano» si riconoscono le prerogative della prima lettera di Pietro[8] e si afferma che a una «piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura della stessa liturgia e alla quale il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato” (1Pt 2,9; cf. 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo» (SC 14: EV/1, 23).

Si afferma, inoltre che la Chiesa è «sacramento di unità», «cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei Vescovi» (SC 25: EV/1, 42). Il popolo di Dio, aggiunge un altro testo, esige decoro e sincera pietà nell’adempimento del ministero liturgico (SC 28: EV/1, 47).

Il popolo è talora distinto dai ministri e sta di fronte a loro. In questo caso si parla solo di popolo o di «partecipazione di popolo» (SC 48: EV/1, 85; 53: EV/1, 90). Spesso se ne parla come dei «fedeli» (SC 53: EV/1, 90 e passim). In altri casi, come quando «Dio parla al suo popolo» (SC 33: EV/1, 52s)[9], è ovvio che parla alla Chiesa nel suo insieme, sicché nel popolo sono inclusi anche i ministri ordinati. Così è anche per i cosiddetti «pii esercizi del popolo cristiano», che «sono quelli delle Chiese particolari, in quanto queste sono espressione della Chiesa universale» (SC 13: EV/1, 20s). In un’accezione genuinamente biblico-teologica, si parla anche del popolo vetero-testamentario, ma con un immediato riferimento alla Chiesa della nuova alleanza:

«Quest’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell’Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, principalmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione, mistero col quale “morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ha rinnovato la vita”. Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa» (SC 5: EV/1, 7).

La continuità è ribadita nella citazione di Eb 1,1:

«”dopo avere già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti” (Eb 1,1), quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto carne, unto di Spirito Santo, ad annunziare la buona novella ai poveri, a risanare i cuori affranti, “medico della carne e dello spirito”, mediatore di Dio e degli uomini» (SC 5: EV/1, 6).

Una sistematica applicazione della categoria del popolo di Dio alla Chiesa avviene pertanto nel Concilio con la Lumen gentium, con il suo valore di realtà storico-salvifica e messianica nello stesso tempo. Un testo esemplare:

«Questo popolo messianico ha per capo Cristo “consegnato per i nostri peccati, risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,25), che regna glorioso in cielo dopo aver ottenuto il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Lo statuto di questo popolo è la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali, come in un tempio, inabita lo Spirito di Dio. La sua legge è il nuovo comandamento di amare come ci ha amati Cristo (cf. Gv 13,34). Il suo fine è il regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre più, per essere portato a compimento alla fine dei secoli, quando apparirà il Cristo vita nostra (cf. Col 3,4); allora “anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio” (Rm 8,21)» (ivi, EV/1, 309).

È un popolo che realizza le promesse messianiche e le speranze più genuine di ogni uomo:

«Perciò il popolo messianico, anche se di fatto non comprende ancora la totalità degli uomini e ha spesso l’apparenza di un piccolo gregge, è però per l’intera umanità germe sicurissimo di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità, viene assunto da lui anche come strumento di redenzione per tutti, ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,12-16)» (ivi).

2.5. I tratti fondamentali del popolo di Dio

Il popolo di Dio come popolo messianico (n. 9) ha una natura universale perché costituisce per ogni uomo e per tutti gli uomini il germoglio delle indomite speranze di una liberazione dei popoli e del cosmo. È un’affermazione teologica, ma anche un impegno e un compito, che deve vedere impegnati tutti i suoi componenti, nella diversità dei ministeri e dei carismi.

I numeri 10-12 della Lumen gentium trattano pertanto la dimensione sacerdotale del popolo di Dio, approfondendo l’affermazione riguardante tutti i battezzati «consacrati mediante la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo, per essere un’abitazione spirituale e un sacerdozio santo» (LG 10: EV/1, 311). Il popolo messianico è pertanto popolo sacerdotale, perché offre il servizio della lode, della testimonianza e della profezia. Per questa ragione viene anche ripreso un dato tradizionale del «senso della fede» del popolo di Dio. Il valore teologico della percezione di fede dei “credenti” è ribadito, accanto a quello magisteriale (LG 12: EV/1, 316s), anche in forza della giustificazione precedente, che asseriva che i sacramenti diventano abbondanti in tutti i credenti (LG 113ss). In questo stesso contesto si parla della famiglia come «Chiesa domestica», che vive ed attua il carattere sacerdotale riconosciuto alla Chiesa nel suo insieme. Il popolo di Dio appare ancora come popolo unico ed universale nei numeri 13-15. Ad esso sono riferiti tutti i popoli della terra, con un diverso grado di appartenenza, che è rapportato al modo di vivere le realtà divine, i cui germi sono comunque presenti in ogni uomo:

«Tutti gli uomini sono chiamati a far parte del nuovo popolo di Dio. Perciò questo popolo, restando uno e unico, deve estendersi a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si compia il disegno della volontà di Dio, che in principio creò la natura umana una, e decise di raccogliere alla fine in unità i suoi figli dispersi (cf. Gv 11,52)» (LG 13: EV/1, 318).

L’unica cattolicità è espressa in questa universalità che non conosce limiti né frontiere:

«ad essa in vari modi appartengono, oppure ad essa sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, e sia infine tutti gli uomini che la grazia di Dio chiama alla salvezza» (LG 13: EV/1, 321).

Coerentemente con questa affermazione, i numeri successivi considerano i fedeli cattolici «incorporati pienamente alla società della Chiesa» (LG 14, 323s.), i non cattolici come coloro con i quali «la Chiesa si sa congiunta per molteplici ragioni» (LG 15: EV/1, 325); i non cristiani come «coloro che non hanno ancora accolto il Vangelo» e che tuttavia sono in vari modi «ordinati» al popolo di Dio (LG 16: EV/1, 326).

L’appartenenza per gradi alla realtà del popolo di Dio non esclude certamente dall’obbligo missionario dell’evangelizzazione. Lo ricorda la costituzione della Lumen gentium, che ne allarga però tanto il concetto che l’estensione, parlando di obbligo missionario di tutta la Chiesa e della accoglienza dei fattori positivi presenti nelle altre religioni, sicché la Chiesa

«con la sua attività fa sì che ogni germe di bene che si trova nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e portato a compimento» (LG 17: EV/1, 327).

2. 6. Popolo messianico alla sequela di Cristo

La Chiesa è popolo di pellegrini, perché vive tra due fatti storici: la risurrezione di Gesù ed il suo ritorno, la vittoria sulla morte e la sua parusia, in uno stato di itinerazione continua che si protende verso tutto ciò che è umano e verso tutti i popoli.

Per questa ragione escatologica,

«la Chiesa pellegrinante continua a portare iscritta nei sacramenti e nelle istituzioni del tempo presente la figura fugace di questo mondo; e vive tra le creature che gemono nei dolori del parto e aspettano la manifestazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19-22)» (LG 48: EV/1, 417).

È dunque il capitolo VII che parla della Chiesa dei discepoli pellegrini (LG 49: EV/1, 419) e della Chiesa dei viatori (LG 490: EV/1, 419), una Chiesa che è in comunione e che è comunione con i santi, cioè con «coloro che hanno seguito fedelmente Cristo», dai quali ci sentiamo «spronati a ricercare la città futura» (LG 50: EV/1, 421). L’essere sulla via significa - come si dice nel cap. V - che i cristiani

«Obbedendo alla voce del Padre adorato in spirito e verità, [...] seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria» (LG 41: EV/1, 390).

Seguire Cristo umile e povero, carico della croce, e ugualmente colmo delle speranze dell’umanità e dell’intera creazione, significa essere in cammino come popolo delle beatitudini. Proprio le beatitudini vengono ricordate come carattere distintivo e determinante tanto per i «religiosi» che per i laici, per i consacrati ad un ministero ordinato come per i consacrati con il battesimo. La costituzione sulla Chiesa lo afferma per i primi:

«I religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido e singolare come il mondo non possa essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini» (LG 31: EV/1, 363).

Ma lo afferma anche per i laici, dicendo che essi

«devono nutrire il mondo con i frutti dello Spirito (cf. Gal 5,22) e diffondervi lo spirito dei poveri, dei miti e dei pacifici, che il Signore nel suo Vangelo ha proclamato beati (cf. Mt 5,3-9)» (LG 38: EV/1, 389).

Su questo compito, di mitezza e di pace, scaturente dall’impegno delle beatitudini ritorna più diffusamente il Decreto sull’apostolato dei laici, in un testo che appare essere decisivo per una spiritualità del popolo di Dio come popolo delle beatitudini:

«La carità di Dio, “riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5), rende i laici capaci di esprimere realmente nella loro vita lo spirito delle beatitudini. Seguendo Gesù povero, non si abbattono per la mancanza dei beni temporali né si inorgogliscono per l’abbondanza di essi; imitando Gesù umile, non diventano vanagloriosi (cf. Gal 5,26), ma cercano di piacere a Dio più che agli uomini, sempre pronti a lasciare tutto per Cristo (cf. Lc 14,26) e a patire persecuzione per la giustizia (cf. Mt 5,10), memori della parola del Signore: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso e prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24)» (AA 4: EV/1, 927).

La stessa unione a Cristo nello spirito delle Beatitudini viene riconosciuta, in un modo speciale ai destinatari preferenziali dell’annuncio di Gesù:

«Coloro che sono oppressi da povertà, infermità, malattia e altre tribolazioni, o soffrono persecuzioni a causa della giustizia, sappiano di essere uniti in modo speciale a Cristo che soffre per la salvezza del mondo. Il Signore nel Vangelo li ha proclamati beati» (LG 41: EV/1, 395).

La somiglianza con Cristo, la sua sequela, la persecuzione per la giustizia significano per tutti la stessa chiamata alla santità nella ricerca di una vita più umana sulla terra, ma come, vedremo significa anche una sorta di “nucleo cristiforme” nel popolo di Dio, che è costituito da quelli che sono uniti a Gesù «in modo speciale», intorno ai quali si ricongiungono anche gli altri:

«tutti i fedeli cristiani, di qualsiasi stato o ordine, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: santità che promuove un tenore di vita più umano anche nella stessa società terrena» (LG 40: EV/1, 389).

È una vocazione personale che diventa convocazione del popolo messianico, chiamato a seguire Cristo, per contribuire a realizzare la pienezza della redenzione liberatrice.

Il popolo di Dio raccoglie tali pellegrini, che sulle tracce di Cristo rafforzano la coesione tra loro nello stesso Spirito e sono testimoni di una grazia e di una ricchezza che non viene da loro. Pertanto non le possono gelosamente custodire per sé, ma le devono continuamente offrire ai loro fratelli. Attraverso questa fermentazione d’amore della realtà, secondo l’esempio di Gesù, il popolo di Dio vive la sua dimensione teologale.

2.7. Popolo che costruisce la pace

Nell’eucaristia questo popolo si ritrova convocato in Cristo, sicché «prega e insieme lavora perché la pienezza del mondo intero sia trasformata in popolo di Dio, in corpo del Signore e in tempio dello Spirito Santo, e perché in Cristo capo siano resi onore e gloria al Creatore e Padre di tutti» (LG 17: EV/1, 327).

Il popolo di Dio vive così il dinamismo salvifico della riconciliazione umana e cosmica, alla quale sono chiamati sia i singoli cristiani che la stessa Chiesa.

Il Concilio non nasconde i termini storici di questa riconciliazione. Essa passa anche attraverso un’effettiva pace, che, come si ripete più volte, è in pericolo e con essa lo stesso futuro del mondo (GS 15: EV/1, 1367). Per la sua salvezza dovranno contribuire tutti, anche i popoli poveri materialmente, ma ricchi spiritualmente, perché

«Inoltre va notato come molte nazioni, economicamente più povere rispetto ad altre, ma più ricche di saggezza, possono a quelle offrire un aiuto rilevante (ivi).

Anche per queste ragioni, il compito della costruzione della pace è un compito tipico del popolo delle beatitudini, perché figli di Dio saranno quelli che la costruiscono. È un compito che per il Vaticano II il popolo di Dio non può disattendere. La pace è uno dei problemi umani più impellenti e richiese la sollecitudine di tutti (GS 49: EV/1, 1467) e pertanto esige un’adeguata educazione (GE 1 EV/1, 822), anzi una particolare formazione al senso dell’altro e, si direbbe oggi, un’educazione alla mondialità. È un compito ed un servizio verso i più poveri e non va disgiunto da una lotta (il testo originale ha «debellando») contro la fame, l’ignoranza e le malattie. Si tratta di un compito di tutti i «fedeli», ai quali il Concilio prescrive :

«Si applichino con particolare cura all’educazione dei fanciulli e degli adolescenti nei vari ordini di scuole, che vanno considerate non solo come un mezzo meraviglioso per la formazione e lo sviluppo della gioventù cristiana, ma insieme come un servizio di somma importanza per gli uomini, specialmente per le nazioni in via di sviluppo, in ordine all’elevazione della dignità umana e alla preparazione di condizioni più umane. Inoltre assumano la loro parte nei tentativi di quei popoli che, lottando contro la fame, l’ignoranza e le malattie si sforzano di creare migliori condizioni di vita e di stabilire la pace nel mondo» (AG 12: EV/1, 1114).

Il compito della costruzione della pace esige ancora il contributo dei cristiani e delle stesse associazioni internazionali cattoliche, perché è in rapporto con la fratellanza, la solidarietà e la stessa responsabilità nei confronti del mondo di cui il popolo di Dio deve avere coscienza[10].

Assumendo la consapevolezza della propria realtà di popolo salvato, sembra suggerire il Concilio, la Chiesa avverte la responsabilità di una salvezza da rendere storica anche nei compiti da adempiere nel mondo, tra i quali la costruzione della pace. Se la verità va compiuta  “nella carità, lo stesso è da dirsi della pace, ugualmente da «attuare», oltre che da invocare costantemente nella preghiera. Vi sono chiamati tutti i cristiani, cioè l’intero popolo di Dio:

«Pertanto tutti i cristiani sono pressantemente chiamati a «praticare la verità nell’amore» (Ef 4,15), e a unirsi agli uomini sinceramente amanti della pace per implorarla e per attuarla» (GS 78: EV/1, 1590).

E che non si tratti di un’esortazione generica lo dimostra il fatto che il Concilio parla della realizzazione della pace anche condannando l’inumanità della guerra e ristabilendo condizioni di giustizia per una pace reale e non fittizia, preparando così effettivi «strumenti di pace»:

«Illustrando pertanto la vera e superiore concezione della pace, il concilio, condannata la mostruosità della guerra, intende rivolgere un ardente appello ai cristiani, affinché, con l’aiuto di Cristo autore della pace, collaborino con tutti gli uomini per stabilire tra loro una pace fondata sulla giustizia e sull’amore e per preparare strumenti di pace» (GS 76: EV /1, 1586).

Ma quali sono questi strumenti di pace? Dopo aver menzionato la formazione alla pace, la realizzazioni di condizioni di giustizia sociale, la lotta contro la fame, l’ignoranza e la malattia, il Concilio ne indica altri che dipendono più direttamente dalla mutata coscienza della propria realtà ecclesiale.

L’ecumenismo è uno degli effetti di quel dinamismo innescato dalla nuova sensibilità del popolo di Dio verso i suoi compiti, tra i quali riveste una particolare importanza la promozione e la diffusione della pace. Alla base c’è la consapevolezza che i frutti della fede sono insieme frutti spirituali, di maturazione del senso della preghiera, ma anche - anzi inseparabilmente legati a questi - frutti di crescita della responsabilità sociale. È ciò che si chiama «fede operosa», vicina come concetto alla «pace da attuare»:

«E questa fede operosa ha pure creato non poche istituzioni per sollevare la miseria spirituale e corporale, per coltivare l’educazione della gioventù, per rendere più umane le condizioni sociali della vita, per ristabilire la pace universale» (UR 23: EV/1, 569).

È della massima importanza, ed è per molti la vera rivoluzione del Vaticano II, questo collegamento diretto tra la fede in Dio e la carità operante, tra la vocazione alla vita unitrinitaria e la convocazione per rendere più umano il mondo, tra la contemplazione del Dio invisibile e la lotta nonviolenta per cambiare la società visibile, e ciò affiora anche nel documento sull’unità dei cristiani. In un testo che indica la cooperazione di fratelli di diverse confessioni compaiono espressamente le due dimensioni. La prima è collegata alla testimonianza della fede alla condivisione della speranza:

«Tutti quanti i cristiani professino davanti a tutti i popoli la fede nel Dio uno e trino, nell’incarnato Figlio di Dio, redentore e signore nostro, e con comune sforzo nella mutua stima rendano testimonianza della speranza nostra, che non delude» (UR, 12: EV/1, 537)

La seconda si aggancia alla confessione di fede in Cristo, Signore del mondo, fattosi servo degli uomini, e richiama tutti al comune servizio della giustizia, della solidarietà, insomma della pace:

«La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione che già vige tra di loro, e fa risplendere in una luce più piena il volto di Cristo servo. Questa cooperazione, già attuata in non poche nazioni, deve essere ogni giorno più perfezionata - specialmente nelle nazioni dove sta compiendosi l’evoluzione sociale o tecnica - sia nell’apprezzare rettamente la dignità della persona umana, sia nel promuovere il bene della pace, sia nell’attuare l’applicazione sociale del Vangelo, sia nel far progredire con spirito cristiano le scienze e le arti, come pure nell’usare i rimedi d’ogni genere per venire incontro alle miserie del nostro tempo, quali sono la fame e le calamità, l’analfabetismo e l’indigenza, la mancanza di abitazioni e la non equa distribuzione dei beni» (ivi, cf. anche GS 92: EV/1, 1640).

L’ecumenismo non può prescindere da questa attenzione verso il mondo e i suoi bisogni e ciò costituisce un ecumenismo di tipo nuovo, per cui tutte le chiese, sono chiamate a guardare oltre se stesse, a collaborare e stimarsi reciprocamente, a ritrovare la via dell’unità tramite la loro comune e fattiva testimonianza nel mondo. Insomma attraverso non un ecumenismo ecclesiocentrico, né introverso, ma, potremmo dire, attraverso un ecumenismo estroverso:

«Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiana la via verso l’unità dei cristiani» (ivi).

È una cooperazione, infine, che il popolo di Dio offre a tutti, anche alle religioni non cristiane, facendo ammenda, per la sua parte, delle proprie colpe storiche. Infatti,

«sebbene, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto sinodo esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà (NA, 3: EV/1, 860).

In definitiva il Concilio enuclea una vera e propria teologia del retto agire del singolo cristiano e di tutto il popolo di Dio, una prassi che sappia sempre congiungere la confessione della fede con la attuazione della giustizia, o più sinteticamente sappia «fare la verità nella carità», realizzando così la pace. Di questa pace viene anche delineata la sua natura teologica e sociologica, cioè la pace viene indicata come una delle caratteristiche collegate all’irruzione del Regno:

«Il Signore infatti desidera estendere il suo regno anche per mezzo dei fedeli laici: «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace» (LG 36: EV/1, 378).

Ma ciò non giustifica alcuna passività né può essere invocato come alibi al disimpegno, al contrario, la certezza acquisita nella fede che «la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio (cf. Rm 8,21)» (ivi),

fa concludere che siamo in presenza non solo di una promessa, ma anche di un vero e proprio comando:

«Una ben grande promessa e un ben grande comando vengono rivolti ai discepoli dalle parole dell’apostolo: “Tutto è vostro, voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio” (1Cor 3,23). I fedeli devono dunque riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio; e aiutarsi a vicenda nel condurre una vita più santa anche mediante le loro attività secolari, perché il mondo sia impregnato dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace» (LG 36: EV/1, 378-379).

Anche per questo motivo i cristiani sono scongiurati a vivere in pace con tutti, superando qualsiasi discriminazione, congiungendo ancora una volta la realizzazione della pace con la figliolanza di Dio, lo «stare in pace con tutti gli uomini, per essere realmente figli del Padre che è nei cieli» (NA 5: EV/1, 871).

La pratica dell’ecumenismo e del dialogo con le altre religioni e con gli uomini in genere è dunque uno degli strumenti per la costruzione della pace. Il Vaticano II ne affianca altri, individuando anche gli attuali ostacoli e che il popolo di Dio è invitato a rimuovere. Sono le disuguaglianze economiche[11], i contrasti tra le nazioni e gli squilibri tra loro[12], la mancanza di un’autorità internazionale in grado di risolvere con efficacia le difficoltà internazionali, per cui si ammette ancora che, extrema ratio, sebbene solo per legittima difesa, si ricorra alle armi[13]. Ma anche questo rende insicura la pace, minacciata dalla corsa al riarmo[14], per cui il popolo di Dio è chiamato a impegnarsi concretamente per contribuire al disarmo[15], deponendo ogni spirito di rivalità. Ma a ciò si aggiunge l’aspetto più positivo della costruzione dell’unità tra gli uomini, perché,

«Mentre a poco a poco va unificandosi e in ogni luogo diventa ormai meglio consapevole della propria unità, l’umanità non potrà tuttavia portare a compimento l’opera che l’attende, di costruire cioè un mondo veramente più umano per tutti gli uomini e su tutta la terra, se gli uomini non si volgeranno tutti con animo rinnovato alla vera pace» (GS 77: EV/1, 1585).

Il Vaticano II può così alla fine indicare la sorgente dello zelo pastorale da cui è mosso e che deve sempre animare e motivare l’intero popolo di Dio: è la sequela di Gesù ed è la fedeltà a una delle sue beatitudini, si potrebbe dire alla beatitudine cardine di tutte le altre:

«Per questo motivo il messaggio evangelico, in armonia con le aspirazioni e gli ideali più elevati del genere umano, risplende in questi nostri tempi di rinnovato fulgore quando proclama beati i promotori della pace, “perché saranno chiamati figli di Dio”» (Mt 5,9) (ivi).

Il cerchio così si chiude e la nostra riflessione ritorna al punto dal quale era partita. Non si tratta di un nuovo dovere etico che incombe sul credente in quanto tale e su tutti i credenti come popolo di Dio, ma di una vera e propria storicizzazione della salvezza, al fine di dare corpo storico al corpo mistico della Chiesa, come diceva P. Ignacio Ellacuría. La missione del popolo di Dio, in forza della realizzazione storica della salvezza sacramentale che egli porta, è missione di pace mente il Vangelo da recare a tutti gli uomini è un Vangelo di pace. Si comprende così il denso significato teologico di un testo della Lumen gentium che vede la cattolicità a cui è chiamato il popolo di Dio come prefigurazione e promozione di una pace universale, quella che ci avvicina il più possibile ai tempi messianici:

«A questa cattolica unità del popolo di Dio che prefigura e promuove la pace universale, sono dunque chiamati tutti gli uomini; ad essa in vari modi appartengono, oppure ad essa sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, e sia infine tutti gli uomini che la grazia di Dio chiama alla salvezza» (LG 13: EV/1, 321).

 


 

[1] Cei; La Chiesa in Italia dopo Loreto, Nota Pastorale n. 2: ECEI/3, 2646.

[2] Sinodo dei vescovi , Relazione conclusiva , 7.12.1985,EV/9, 1790.

[3]Pur parlandone come una delle forme di descrizione della Chiesa, il Sinodo straordinario dei vescovi convocato per la valutazione del ventennio post-conciliare, sembra alla fine privilegiare la dizione della Chiesa come popolo messianico: «Tutta l'importanza della Chiesa deriva dalla sua connessione con Cristo. Il concilio ha descritto in diversi modi la Chiesa come popolo di Dio, corpo di Cristo, sposa di Cristo, tempio dello Spirito santo, famiglia di Dio. Queste descrizioni della Chiesa si completano a vicenda e devono essere comprese alla luce del mistero di Cristo o della Chiesa in Cristo. Non possiamo sostituire una falsa visione unilaterale della Chiesa puramente gerarchica con una nuova concezione sociologica anch'essa unilaterale. Gesù Cristo è sempre presente nella sua Chiesa ed in essa vive come risorto. Dalla connessione della Chiesa con Cristo si comprende chiaramente l'indole escatologica della stessa Chiesa (cf. LG c. VII). In questo modo la Chiesa pellegrinante sulla terra è popolo messianico (cf. LG 9) che già anticipa in se stessa la nuova creatura» ( EV/9, 1790).

[4]Così, ad esempio H. Küng, La Chiesa, Queriniana, Brescia 1969 (ed. orig. 1967) dedicava un capitolo a «La Chiesa popolo di Dio» (pp. 119-168), mantenendo l'impostazione che va «dall'antico al nuovo popolo di Dio», non per un rinnegamento dell'antico, ma per una sorta di fatalità dovuta al rifiuto di Cristo della «gran parte del popolo» (p. 127ss). Anche il Mysterium Salutis 7: L'evento..., cit., sopratitolava un capitolo «Il nuovo popolo di Dio sacramento della salvezza»(pp. 347-437), con un titolo soltanto redazionale per una trattazione condotta prevalentemente sul versante sacramentale. Altri prendevano una certa distanza dalla denominazione popolo di Dio non ritenendola la più idonea ad indicare la Chiesa, perché di essa occorrerebbe invece evidenziare il legame a Cristo. Cf., a titolo d’esempio, J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1971 (or. 1969). Degli autori di questo periodo o del periodo successivo che invece hanno dato maggior rilievo al popolo di Dio abbiamo parlato o parleremo ancora, ma, per venire agli anni a noi più vicini, l'ecclesiologia non sembra andare al di là di una semplice recensione del tema che ci interessa: cf, a titolo d'esempio, G. Alberigo et A. L’ecclesiologia del Vaticano II. Dinamismi e prospettive, Dehoniane, Bologna 1981; D. Valentini, Il nuovo Popolo di Dio in cammino. Punti nodali per un'ecclesiologia attuale, Las, Roma 1984; S. Dianich - E. R. Tura, Vent’anni di Concilio Vaticano II. Contributi sulla sua recezione in Italia, Borla, Roma 1985; G. Alberigo - J. P. Jossua, Il Vaticano II e la Chiesa, cit., 1981; S. Dianich, Chiesa estroversa..., cit.., 1987; C. Scanzillo, La Chiesa sacramento di comunione. Commento teologico alla Lumen Gentium, Dehoniane, Roma 1987. In H. Zirker, Ecclesiologia, Queriniana, Brescia 1987, W. Kern, h.j. Pottmeyer e M. Seckler (Edd.), Corso di teologia fondamentale 3. Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 1990, e J. Ratzinger, La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991 l'espressione "popolo di Dio" compare di tanto in tanto nel testo, ma mai come trattazione specifica; compare con maggiore frequenza in altre pubblicazioni, che rimandano in modo continuo ai grandi temi del Vaticano II, come ad esempio M. Keh, Die Kirche..., cit., che dedica un capitolo al tema: «Katholizität: Volk Gottes und katholische Kirche (pp. 411-430). Per la traduzione italiana cf. M. Kehl, La Chiesa. Trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995 e la mia posizione in RdT ssegna di teologia] 38 97] 537-552. In B. Forte, La Chiesa icona della Trinità. Breve ecclesiologia, Queriniana 1984, si riprendeva il tema dell'ecclesiologia totale all'interno di un capitolo intitolato «La Chiesa popolo di Dio» (pp. 27-43), mentre nella più voluminosa e recente ecclesiologia Id., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, si dedica un capitolo al «popolo di Dio» (pp. 79-119), affiancandolo ad altri come «Corpo di Cristo», «Tempio dello Spirito Santo», «La Chiesa comunione» ecc. Un caso del tutto singolare è da registrare in una recensione sulle ecclesiologie contemporane, che forse è però sintomatica rispetto all'oscuramento del tema del popolo di Dio nell'ecclesiologia in genere: si tratta di B. Mondin, Le nuove ecclesiologie, Paoline, Roma 1980. È vistosa l'assenza di qualsiasi ecclesiologia sul popolo di Dio, pur nella recensione di tutte le altre, da quella kerygmatica, a quella comunionale, dalla sacramentale alla pneumatica.

[5]Cf. G. Colombo, «Il “popolo di Dio ” e il “mistero” della Chiesa nell'ecclesiologia postconciliare», in Teologia 10 (1985) 97-169, qui 103: «In questa prospettiva e sotto questo profilo, la categoria "Popolo di Dio", "canonizzata" dalla Lumen Gentium, da un lato si propone come principio ermeneutico per la comprensione dell'ecclesiologia post-conciliare; ma, dall'altro lato e proprio per questo si sottopone alla "verifica" della ecclesiologia post-conciliare. In ogni caso, l'interrogativo emergente dovrebbe essere questo: che ne è della categoria Popolo di Dio nel post-Concilio?» (ivi, 103); ma cf. anche S. Dianich, che dedica un intero capitolo al tema «"popolo di Dio": la forma fondamentale dell'aggregarsi dei cristiani», ma constata anche la scarsa fortuna da esso avuta nell'ecclesiologia recente. Cf. Dianich, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1993, 231-255.

[6]Si rimanda a J. Eger, Salus Gentium. Eine patristische Studie zur Volkstheologie des Ambrosius von Mailand, München 1947 e a J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, München 1954.

[7]Cf. O. Semmelroth, «La Chiesa...», cit., 441.

[8]1Pt 2,4-10: «Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso. Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d'inciampo e pietra di scandalo. Loro v'inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati. Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; ]voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia».

[9]«La sacra liturgia, benché sia principalmente culto della maestà divina, è anche una ricca fonte di istruzione per il popolo fedele. Nella liturgia, infatti, Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con la preghiera» (SC 33: EV/1, 52).

[10]«Inoltre, le varie associazioni cattoliche internazionali possono servire in tanti modi all'edificazione della comunità dei popoli nella pace e nella fratellanza. Perciò bisognerà rafforzarle, aumentando il numero di cooperatori ben formati, con i necessari sussidi e mediante un adeguato coordinamento delle forze. Ai nostri giorni, efficacia d'azione e necessità di dialogo impongono che le imprese siano comuni. Per di più, simili associazioni giovano non poco a istillare quel senso universale che tanto conviene ai cattolici, e a formare la coscienza di una veramente universale solidarietà e responsabilità» (GS 90: EV/1, 1633) .

[11]«Infatti le troppe disuguaglianze economiche e sociali, tra membri e tra popoli dell'unica famiglia umana, suscitano scandalo e sono contrarie alla giustizia sociale, all'equità, alla dignità della persona umana, nonché alla pace sociale e internazionale». (GS 29: V/1, 1411).

 [12]«Grandi divergenze sorgono anche tra le razze e persino tra i vari gruppi della società; tra nazioni ricche e meno dotate e povere; infine, tra le istituzioni internazionali, nate dall'aspirazione dei popoli alla pace, e l'ambizione di imporre la propria ideologia nonché gli egoismi collettivi esistenti negli stati o in altri organismi» (GS 8: EV/1, 1344) ; «Simili squilibri economici e sociali si avvertono tra l'agricoltura, l'industria e il settore dei servizi, come pure tra le diverse regioni di una stessa nazione. Una opposizione che può mettere in pericolo la pace del mondo intero si fa ogni giorno più grave tra le nazioni economicamente più progredite e le altre» (GS 63: EV/1, 1536 ).

[13]Comunque si aggiunge: «Ma altra cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli e altra cosa è voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. Né la potenza bellica rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto» (GS 79, EV/1, 1596).

[14]A questo riguardo il testo è accorato, ma mostra anche una grande sapienza e lungimiranza, indicando almeno la ricerca di strade alternative: «Qualunque cosa si debba pensare di questo metodo dissuasivo, si convincano gli uomini che la corsa agli armamenti, alla quale si rivolgono molte nazioni, non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause di guerra, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. E mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente. Anziché guarire veramente, nel profondo, i dissensi tra i popoli finiscono per contagiare anche altre parti del mondo. Nuove strade converrà cercare, partendo dalla riforma degli spiriti, perché possa essere rimosso questo scandalo e al mondo, liberato dall'ansietà che l'opprime, possa essere restituita la vera pace» (GS 81: EV/1, 1604).

[15]Si tratta di un impegno che inizia con la preghiera per le sorti del mondo e prosegue collaborando a tutto ciò che promuove il senso dell'unità dell'unica famiglia umana:«Bisogna rivolgere incessanti preghiere a Dio, affinché dia loro la forza di intraprendere con perseveranza e condurre a termine con coraggio quest'opera di sommo amore per gli uomini, per mezzo della quale si costruisce virilmente la pace. Quest'opera esige oggi certamente che essi estendano la loro mente e il loro cuore al di là dei confini della loro nazione, deponendo ogni egoismo nazionale e ogni ambizione di supremazia su altre nazioni, nutrendo invece un profondo rispetto verso tutta l'umanità, avviata ormai così laboriosamente verso una sua maggiore unità» (GS 82 EV/1, 1608); «Le consultazioni sui problemi della pace e del disarmo, già coraggiosamente e instancabilmente condotte, i consessi internazionali che trattarono questi argomenti, devono essere considerati come i primi passi verso la soluzione di problemi così gravi e con maggiore insistenza ed energia dovranno quindi essere promossi in avvenire, al fine di ottenere risultati concreti. Stiano tuttavia bene attenti gli uomini a non affidarsi esclusivamente agli sforzi di alcuni, senza preoccuparsi minimamente dei loro propri sentimenti» (ivi, EV/1, 1609); «Di qui l'estrema urgente necessità di una rinnovata educazione degli animi e di un nuovo orientamento nell'opinione pubblica. Coloro che si dedicano all'attività educatrice, specie della gioventù, e coloro che contribuiscono alla formazione della pubblica opinione, considerino come loro dovere gravissimo inculcare negli animi di tutti sentimenti nuovi, ispiratori di pace. E ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, mirando al mondo intero e a tutti quei doveri che gli uomini possono compiere insieme per condurre l'umanità verso un migliore destino» (ivi).