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CORSO DI FONDAZIONE ECCLESIOLOGICA DELL’ETICA SOCIALE

APPUNTI - 2 Parte

A. A. 2004/2005

Prof. G. Mazzillo

 

IL POPOLO DI DIO TRA ANTICHE SCELTE E NUOVE SFIDE

1. Raccordo con la prima parte

Eravamo partiti interrogandoci sul valore teologico della realtà. Avevamo raccolto l'invito a cercare ancora. Abbiamo tentato di cercare oltre e la nostra ricerca ci ha condotti alle soglie di quella più complessiva concezione dell'uomo aperta appunto all'ulteriorità e all'alterità. Si è affacciata una concezione incastonata in un intero universo teologico, capace di cogliere nel vissuto dell'uomo il vissuto di Dio, perché scorgeva nella progettualità umana (progettualità storica e comunitaria nello stesso tempo) una più vasta e più profonda progettualità salvifica, la soterìa di Dio, cioè quel piano salvifico che Dio ha prefigurato prima di noi e senza di noi, e che tuttavia Egli va compiendo con la nostra cooperazione, il nostro interagire con lui, attraverso la storia umana e nella nostra storia collettiva.

Dovrebbe essere ormai acquisita la natura di questa nostra cooperazione con Dio: una cooperazione che ripercorre le stesse modalità dell'agire di Dio verso di noi e pertanto un agire solidale vissuto nella sequela di Gesù. Sia che lo si qualifichi come solidale, sia che lo si indichi nei termini più classici della pratica dell'amore (o della carità), si tratta di un agire che interessa non solo il singolo cristiano, ma la stessa comunità in quanto tale, al punto che si può parlare di una vera e propria testimonianza comunitaria dell'amore. Ciò è stato acquisito dalla stessa riflessione magisteriale del Vaticano II e di non pochi pronunciamenti delle diverse conferenze episcopali di varie parti del mondo. A quelli già menzionati gioverà forse aggiungere ciò che scrivevano anche i vescovi italiani sul rapporto strettissimo tra la cosiddetta: evangelizzazione proclamata con la parola e il vangelo predicato con la vita:

«[Rifare con l'amore il tessuto cristiano della comunità ecclesiale]. L'evangelizzazione e la testimonianza della carità esigono oggi, come primo passo da compiere, la crescita di una comunità cristiana che manifesti in se stessa, con la vita e le opere, il vangelo della carità. È vero, infatti, che sentiamo urgente rivitalizzare il tessuto sociale del nostro paese, con lo sguardo rivolto a tutta l'umanità: ma ciò ha come condizione “che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali”. Se il sale diventa insipido, con che cosa infatti lo si potrà rendere salato»[1].

Vangelo, testimonianza, carità e vita comunitaria sono in questo testo i riferimenti non solo pastorali, ma anche dottrinali degli Orientamenti per gli anni ‘90. Corrispondono all'avvenuta maturazione conciliare di passaggi ecclesiologici particolari, dei quali si potrà pur sempre obiettare che sono ancora da tradurre in prassi ecclesiale, e tuttavia è già molto che siano stati recepiti almeno a livello dottrinale.

Che si tratti di veri e propri passaggi (di mentalità e sensibilità teologica) appare evidente nel confronto con la teologia antecedente al concilio, anche se non si avvertirà mai abbastanza che una volta recepita una nuova ecclesiologia, non è detto che la chiesa si sia già rinnovata come per incanto. Se oggi l'ecclesiologia conciliare appare teologicamente matura ed è anche pastoralmente orientata, a ciò non corrisponde - automatismo - un'ecclesialità che sia teologalmente rinnovata ed evangelicamente ispirata. Riconoscerlo ed adoperarsi per una verifica in questo senso può essere forse uno dei migliori contributi ad un effettivo rinnovamento pur sempre ancorato non solo al tradizionale sentire cum ecclesia (nel senso di una consonanza con il pensiero e con le valutazioni della gerarchia), ma anche un effettivo sentire ecclesiam (nel senso di un'avvertita corresponsabilità nel giudicare particolari situazioni e nel progettare e assecondare corrispondenti interventi ecclesiali). Si potrà arrivare solo per questa via a quel clima di partecipazione che anche il testo in oggetto si augura quando afferma:

«Ciascuno, secondo il proprio ministero e il dono dello Spirito Santo ricevuto, deve sentirsi impegnato in prima persona a edificare la comunità nell'amore di Cristo, partecipando con piena corresponsabilità alla sua vita e alla sua missione»[2].

Ma ciò significa una corresponsabilizzazione di tutti per la vicenda ecclesiale, nell'attraversamento di quei passaggi obbligati non solo da parte di quanti hanno conosciuto le due stagioni ecclesiali, quella antecedente e quella susseguente al concilio, ma anche e soprattutto da parte di coloro che sono venuti dopo il Vaticano II. Proprio costoro infatti, non avendo nessuna esperienza di questi effettivi itinerari, propugnano in non pochi casi modalità e impostazioni che invece sono soltanto una ricaduta nei vecchi modelli.

C'è dunque bisogno di attraversare alcuni passaggi che sono veri e propri trapassi culturali prima ancora che ecclesiali. Sono qui considerati obbligati perché senza di essi non è possibile compiere le scelte del vaticano II, quelle opzioni di fondo che, solo se assecondate e coerentemente perseguite, producono l'esodalità ecclesiale alla quale facevamo riferimento nella prima parte di questo nostro contributo. Sono passaggi già indicati altrove[3], e che qui riprendiamo con alcune integrazioni e nuove contestualizzazioni. Vanno dalla fede professata alla fede praticata, dall'apologetica del miracolismo al narrare Dio con una vita credibile, dalla carità come virtù individuale alla riscoperta dell'amore come dinamismo teologale, dalla chiesa societas alla chiesa come popolo di Dio. Individuano un mutamento sostanziale nei contenuti fondamentali dell'agire cristiano perché riguardano la concezione della fede, della chiesa e della carità. Sono tuttavia strettamente collegati a delle vere e proprie opzioni che il Vaticano II ha certamente compiuto e che in questa seconda parte raccoglieremo intorno a due grandi titoli: 1) La Parola di Dio e la Comunità dei credenti e 2) Narrare Dio attraverso la credibilità dell'amore. Ciò significa che solo facendo scelte di Dio, la comunità ecclesiale potrà affrontare quelle che abbiamo chiamate le sfide del futuro.

2. La Parola di Dio e la Comunità dei credenti

La prima grande scelta operata dal Vaticano II è quella di dare l'assoluto primato alla Parola di Dio. Un primato non solo dottrinale, si diceva, ma anche sostanziale. Il concilio ritiene che la chiesa si convertirà nella misura in cui saprà mettersi in ascolto della Parola di Dio: una Parola che è vangelo di grazia e di salvezza, di liberazione e di speranza. Passare dal vangelo creduto al vangelo vissuto è uno degli snodi fondamentali della teologia del Vaticano II e riguarda la stessa concezione della fede, dalla quale poi dipende l'ecclesiologia come pure l'atteggiamento della chiesa nei riguardi del mondo. Nel Vaticano II siamo in presenza di una fede che non è il solo ossequio intellettuale nei confronti delle verità credute o della pura e semplice Verità in quanto tale. Questo era il concetto che della fede sottostante al Vaticano I, quando la presentava come soggezione dell'uomo al suo Creatore e come dipendenza della ragione umana (creata) alla Verità (increata) che è Dio[4]. Nel Vaticano II invece la fede si esprime come accoglienza della vocazione che Dio rivolge all'uomo, una vocazione che appare dispiegata in tutta la sua ampiezza nella Gaudium et Spes[5] e che viene descritta come vera e propria vocazione tanto alla vita trinitaria che a quella comunitaria, in un continuo impegno storico verso gli altri, un impegno concreto prestato allo scopo di migliorare il mondo per testimoniare e anticipare l'avvento del regno di Dio sulla terra.

È pertanto pienamente da condividere che con il Vaticano II le gioie e angosce degli uomini sono entrate del Denzinger, cioè in quella raccolta di affermazioni riguardanti il nostro “depositum fidei” e che fino a questo concilio terminavano di solito con la sanzione della scomunica a quanti non credessero rettamente: “anatema sit”, “sia scomunicato”. Non si tratta solo di un diverso metodo di approccio al mondo, per cui la chiesa sarebbe passata dalla scomunica al dialogo, ma di una diversa concezione della fede. Questa non si esaurisce nell'ossequio della propria intelligenza alla Verità, ma è più biblicamente intesa come adesione di tutta l'esistenza umana a Dio, che chiama continuamente a una vocazione di amore, un amore attraverso cui il mondo stesso è da guardare con gli occhi di Dio. Ne deriva che non potrà capire il Vaticano II chi non si accosta al mondo con l'amore di questo stesso concilio. Non lo capirà mai nemmeno “l'uomo di chiesa” il cui cuore resta lontano dai problemi ed aneliti che sono stati avvertiti dal Vaticano II. Ritorna la massima agostiniana dell'amore come unica via per poter conoscere. In definitiva, non solo chi non ama il Concilio non potrà capirlo, ma non lo capirà neanche chi non ama l'uomo, gli uomini, il mondo e il loro futuro.

La solidarietà è radicata in quest'approccio di syn-patheia, la capacità e la volontà di soffrire e sperare insieme con gli altri, con uno sguardo di amore che ripropone, testimonia e attualizza l'atteggiamento amorevole di Dio. La fede è insomma solidarietà non solo teologica, ma teologale, perché intrisa della carità di Dio. Ne è tutto pervaso il Vaticano II, il cui trapasso teologico è, a ragione, particolarmente avvertito nel passo spesso citato che recita:

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»[6]

Ma sbaglia chi parla solo di opzione antropologica della chiesa conciliare, senza indicarne le intime ragioni teologiche. L'afflato della solidarietà è coscienza di una corresponsabilità verso quegli stessi uomini ai quali Dio ha parlato e continuamente parla, ai quali Cristo si è donato anima e cuore. Si può asserire che ciò che è autenticamente umano sta a cuore anche ai discepoli del Signore[7] per la fondamentale ragione che questi sono suoi discepoli e ne devono accogliere e praticare la Parola. L'opzione antropologica è dunque innanzi tutto un'opzione teologica e la scelta della condivisione solidale è scelta di restare in costante ascolto della Parola del Signore. Da queste premesse dottrinali scaturiscono l'imperativo etico della solidarietà e l'accoglienza del dono di Dio della corresponsabilità. Tutto ciò in forza della fede che asseconda e persegue una comunione che sa testimoniare l'amore di Dio con il prodigio di una vita concretamente spesa, e non tanto retoricamente proclamata.

2.1. Il ruolo della Parola nell'ecclesiogenesi

La Parola di Dio per la chiesa è tutto. La sua stessa genesi non è concepibile senza di essa. Dalla Parola di Dio la chiesa è non solo convocata, ma anche generata. L'espressione del Vaticano II «Dio parla al suo popolo»[8] non è un'immagine retorica, né una acquisizione liturgica della Sacrosanctum Concilium, indica molto di più: colui che parla è lo stesso che ha fatto le cose con la sua Parola. Ha dato l'esistenza con il soffio della sua bocca, sicché «egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste»[9]. La Parola di Dio che ha creato i mondi, ha plasmato la chiesa e la sostiene in vita. La sua convocazione, come è stato già nell'Antico Testamento, raduna e raccoglie, mette insieme uomini diversi, stirpi differenti e persino popoli dissimili, per operare il prodigio della liberazione, per realizzare l'alleanza.

Dio parla per convocare il suo popolo. Chiama Mosè dal roveto ardente per radunare la sua comunità:

«Va'! Riunisci gli anziani d'Israele e dì loro: Il Signore, Dio dei vostri padri, mi è apparso, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, dicendo: Sono venuto a vedere voi e ciò che vien fatto a voi in Egitto» (Es 3,16).

Alla stessa maniera Gesù, Parola vivente del Padre, raccoglie quel popolo, per nutrirlo di Parola e di pane:

«Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34).

L'assemblea di Dio è costituita come tale dalla sua Parola, una Parola che soccorre, perché riaggrega i dispersi, in forza di un'elezione che risale al di là del tempo. La comunità di Dio è stata da lui, e solo da lui, voluta come tale, cioè popolo scelto tra gli altri. Istituendo l'assemblea sacra, la Parola ne fissa anche i caratteri:

«Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra» (Dt 7,6)[10].

La Parola di Dio proclama una reciproca appartenenza tra Jahvè e il suo popolo, tanto da affermare «voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio!» (Es 6,7)[11].

A questo popolo, di cui Dio rimane pur sempre re, guida e capo[12], la sua parola si rivolge continuamente con l'accorato appello: «ascolta, popolo mio»[13].

È lo stesso appello con cui Gesù si rivolge ai suoi discepoli perché stiano con lui: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'» (Mc 6, 31) e agli oppressi e agli afflitti di ogni genere:

«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,28-30).

Se il giogo poteva talvolta sembrare pesante nell'Antica alleanza, ciò avveniva solo a scopo di correzione, affinché il popolo di Dio si ravvedesse[14], perché Jahvè voleva allora come vuole adesso, solo recare dolcezza e felicità ai suoi eletti[15]. Se ciò vale già per l'Antico Testamento, nel Nuovo si afferma decisamente il carattere gratificante della Parola di Dio, che chiama a libertà e non a schiavitù. La chiesa, in quanto popolo di Dio, è generata, nutrita e liberata dal suo Signore. La sua Parola le affida come compito la convocazione, la cura e la liberazione dei suoi stessi membri, cioè di quelli riconosciuti esplicitamente come tali, e di quanti facciano semplicemente parte della comunità umana.
 

2.2. La Parola come buona notizia

Se il vangelo è davvero buona notizia, non può essere che annuncio di liberazione nei vari livelli in cui si esprime la vicenda umana, sia personale che comunitaria. È lieta notizia di quella sorprendente gratuità che viene da lontano, ma che tocca le persone e le cose a noi più vicine. Tocca l'intimo di ciascuno di noi e le strutture storico-sociali nelle quali viviamo e con le quali interagiamo. È insomma l'annuncio che ci riempie di stupore: cioè che ciascuno di noi è amato e benedetto da Dio. Ciascuno, e perciò tutti, ma in particolar modo quelli che hanno più bisogno di sentirselo dire e di vederselo dimostrato: i senza speranza e senza nessuno, i diseredati, gli impoveriti e gli infelici di ogni sorta.

Sapersi amati con un amore autentico, non blaterato, né reclamizzato, non fittizio né strumentale, non per ciò che si dovrebbe essere, ma per quello che si è, non nonostante, ma proprio a causa della propria situazione di minorità e di bisogno: proprio questo costituisce il vangelo di salvezza e di grazia, di liberazione e di speranza. Costituisce il vangelo della pace: una pace piena che finalmente riconcilia con il proprio cuore, mentre permette di fare l'esperienza dell'abbraccio di Dio. Riconcilia con gli altri, con i diversi, non più nemici, né concorrenti, né avversari, ma tutti figli dello stesso Padre, tutti redenti dallo stesso sangue di Cristo. È il nucleo del lieto annuncio della speranza, la speranza che un mondo più fraterno è più solidale è finalmente cominciato. È iniziato e si va compiendo con l'abbraccio di Dio, perché l'amore vero é un amore concreto, è l'amore che mentre abbraccia solleva da terra (parafrasando un'espressione di Giovanni Paolo II), è l'amore che corre a soccorrere il figlio caduto, per prendersi cura di lui.

La Parola di Dio è euangelion, notizia di gioia, annuncio di pace, perché riconciliazione e salvezza (evangelium pacis), ma, per questa ragione, tende a ristabilire rapporti interumani basati sulla giustizia perché fondati in Dio e quindi nella verità, (evangelium liberationis). Dio irrompe nel nostro mondo attraverso la vicenda e la realtà umano-divina di Cristo e ce ne dà immediatamente notizia. Perciò l'euangelion è soprattutto annuncio dell'amore, vangelo della carità (evangelium caritatis)[16]. Una carità che fa allargare le mani alla condivisione e spinge infaticabilmente i piedi alla testimonianza e alla propagazione del Vangelo, perché brucia prepotentemente nel cuore[17].
 

2.3. Una Parola che diffonde la pace

L'evangelium pacis è l'annuncio dell'amore di Dio, quell'amore di cui ogni essere umano, anche senza esserne cosciente, ha impellente bisogno. Contrariamente a ciò che ritiene il razionalismo, ammalato di autosufficienza e succube infelice della propria razionalità[18], ogni essere avverte la necessità esistenziale non solo di sentirsi amato, ma anche dell'attestazione dell'amore. La Parola di Dio viene incontro a questo radicale bisogno di amore, che è anche confessione di insufficienza e implicita richiesta d'aiuto. Possiamo afferma, senza alcun dubbio, con le parole del libro della sapienza:

«Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?» (Sap 11, 23-25).

La Parola di Dio ha come suo nucleo portante e come principio fondativo di ogni ulteriore discorso su Dio questa certezza, che Dio ci è amico perché ama la vita e vuole la pace di ogni sua creatura. Annuncia la pace con Dio nel momento in cui testimonia la prassi di Dio, che fa sempre con noi ciò che egli chiede anche alla sua comunità: «salvare, cioè abbracciare e sollevare con amore redentivo»[19]. Ogni agire di pace, tanto del singolo cristiano come della comunità nel suo insieme, nasce come risposta a questa proposta di Dio. È fede non in un qualsiasi Dio, ma nel Dio della rivelazione, che coltiva pensieri di pace, Quei pensieri di Jahvè sono diventati progetto e trama esistenziale della vita di Gesù, artefice e principe di pace, che nel suo peregrinare per le strade della Palestina e per le vie ancora più contorte dei cuori dei suoi contemporanei come degli uomini di oggi, era certamente sorretto da un solo pensiero:

«Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).

In Gesù avveniva l'identificazione non solo con il progetto di pace di Jahvè, ma con la stessa pace,[20] sicché la sua vita era tutta in quel progetto che esprimeva le sue scelte, la sua vita e la sua sorte, fino a diventare pace attraverso il suo corpo immolato e il suo sangue versato, sull'altare liturgico della sua cena di addio, come sull'altare insanguinato della croce. Per questo Paolo poteva, con la densità teologica che lo caratterizza, asserire di Gesù «egli infatti é la nostra pace», partendo dalla premessa che egli è

«colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo un muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia» (Ef 2,14).

La Parola di Dio è l'annuncio di Cristo pace tra Dio e le sue creature, di pace tra tutte le sue creature. Il popolo di Dio è chiamato ad essere “costruttore di pace”. Quanti gli appartengono sono figli di Dio nella misura in cui sono gli eirenopoioi, cioè i facitori della pace (Mt 5,7).

Ma come era già stato per Gesù, anche la sua comunità deve sempre coniugare la pace con la giustizia e la misericordia, con la gratuità e l'essenzialità. Una pace non facile, dunque, che passa attraverso scelte, e talvolta, lacerazioni dolorose:

«Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre» (Lc 12,51-53);

Come è stato per Gesù, così deve essere per il popolo di Dio: pende su di esso una spada, che non è in nessun modo violenza che viene da Dio o da effettuare sugli altri, ma piuttosto è la linea di demarcazione tra il pensare come Gesù e il pensare come i potenti di questo mondo. È una linea di divisione che talvolta indica la spada della Parola di Dio, che scende ben più in profondità dei giudizi correnti e della razionalità comune[21]. Perché, oltre tutto, denuncia formalismo e abuso del potere tanto nella società che nel popolo di Dio[22].

La Parola che manda per qualsiasi missione è parimenti misericordiosa e amorevole. Attualizza infatti la redenzione di Gesù, la sua liberazione. Della redenzione il popolo di Dio ripete lo stesso gesto, l'atto che abbraccia e sollevava nello stesso tempo. Anche la chiesa si deve identificare nel buon samaritano che soccorre e solleva, e nel sollevare da terra sa stringere tra le braccia con la tenerezza del suo Maestro. Deve avvertire infatti la piena responsabilità dell'altro, se è vero che l'amore è responsabilità di un io per un tu (M. Buber).

La Parola di Dio suscita nella sua comunità la fede incrollabile nell'agire di pace, facendo ritenere che la nonviolenza è più forte e che la pace è sempre migliore di ogni altra scelta, perché l'una e l'altra sono state scelte da Dio e sono diventate via tracciata da Cristo, via sulla quale siamo stati chiamati a seguirlo.

L'amore diventa così autentico amore teologale, se ripercorre la stessa via tracciata dal suo Signore e offre i frutti maturi dell'amore, che sono: aiutare, educare, guarire, elevare, redimere[23]. Sono i verbi che indicano l'attività di Gesù, ma diventano anche i passaggi obbligati dell'agire della chiesa. Sono attività costruttive e che tuttavia talora comportano conflitti, perché contro chi ama in maniera concreta e non verbalistica, in maniera storica e non spiritualistica si scatena talvolta l'odio e persino la violenza. È la reazione di chi non condivide la pace, non perché non l'apprezzi, ma perché una pace effettiva e reale mette in forse i suoi progetti di dominio e i suoi privilegi sugli altri.

2.4. La Parola che ci chiede di restaurare la giustizia

La Evangelii Nutiandi indicava l'attività caritativa della comunità ecclesiale come ingiustizia da combattere e giustizia da restaurare[24].

Per noi si tratta di due aspetti della stessa missione alla quale la Parola di Dio chiama la chiesa come predicazione ed effettuazione dell'evangelium pacis: Se l'evangelizzazione, nuova o antica che sia, produce i suoi frutti, produce la giustizia. Infatti solo il ristabilimento della giustizia porta alla pace: pax opus iustitiae, la pace non solo effetto, ma opera della giustizia. Insomma la pace vera è prassi della giustizia.

Regno di Dio e prassi di pace procedono di pari passo, perché l'agire di Dio è sempre un agire misericordioso e liberante, tendente a ristabilire il diritto leso e la giustizia violata. Il tema centrale dell'alleanza, e del conseguente regno messianico, ruota sempre intorno ad una realtà che esprime il manifestarsi storico di Dio in un regno di pace (Sal 72,3-77). Il binomio pace e giustizia è ciò che qualifica i tempi maturi del messia[25].

In conformità con quella del Padre, anche la prassi di pace di Gesù è amore verso i derelitti e i sofferenti; è chiamata degli esclusi, difesa dei condannati, ma è anche denuncia dei soprusi e delle discriminazioni civili e religiose. È il cammino della sua sequela. È il cammino tracciato dalla Parola di Dio per la sua comunità.

Per chi vale il discorso della Montagna? Vale per noi, comunità di Cristo, se per noi vale il Suo vangelo[26]. Come comunità cristiana siamo chiamati a convertirci continuamente a Cristo. Non in un senso vago e generico, ma nella radicalità della sua sequela. Una sequela che è condivisione e continuazione della prassi di Gesù, per realizzare il progetto di pace del Padre. Ciò significa essere radicali, termine che può tradurre l'appello evangelico ad essere perfetti[27] nel senso che dobbiamo seguire con totale fiducia e con pieno abbandono la logica delle beatitudini e le direttive del discorso missionario[28]. Ciò costituisce il nostro vero specifico (lievito che fermenta la pasta e sale che insaporisce di vangelo i rapporti interumani) e ci fa andare oltre quella che è stata, a ragione, chiamata religione borghese e morale accomodante.

Sono queste le premesse e le condizioni indispensabili per gli ulteriori passaggi successivi a quello della fede intellettualmente professata alla fede globalmente praticata e che chiamavamo passaggi dall'apologetica del miracolismo al narrare Dio con una vita credibile, dalla carità come virtù individuale alla riscoperta dell'amore come dinamismo teologale.

C'è un solo modo per superare il carattere assistenzialistico e privatistico della carità: guardare alle strutture sociali, alla fame e alla sete reale, che è fame e sete di giustizia, oltre che anelito verso un mondo più armonioso. Occorre prendere coscienza che noi apparteniamo a quella parte dell'umanità che ancora commette il peccato sociale. E avendone presa coscienza, occorre scegliere i soggetti e le modalità scelte da Dio e che la sua Parola continuamente ci testimonia.

Che cosa resta da fare ancora? Resta la cosa più difficile, ma anche la più esaltante: socializzare la protesta contro l'ingiustizia, cioè rendere comunitaria l'instaurazione della giustizia, scegliendo l'educazione alla legalità come una delle vie privilegiate attraverso le quali storicizzare la speranza e il riscatto del nostro Sud. Dare carne storica e respiro sociale, restituire valore collettivo a una fede che troppo spesso è stata privatizzata. In definitiva: Deprivatizzare la fede, e condividere una progettualità che assuma i “progetti di pace” come progetti concreti e realistici. Socializzare la speranza, nella convinzione che l'amore di Dio è un fatto personale e pubblico e che la sua salvezza è una realtà individuale e politica nello stesso tempo. Carità personale e pubblica, individuale e politica, esistenziale e storica.

2.5. Parola come profezia e come superamento dell'esistente

Non si ribadirà mai abbastanza che le grandi opzioni di cui stiamo parlando sono scelte evangeliche, risposte storiche alla Parola di Dio, che ha parlato e parla ancora nella storia, e non preconfezioni ideologiche. Sono opzioni che non nascono dall'adesione a un qualche filosofia o concezione teorica della realtà, né si radicano in motivazioni essoteriche, di dubbia provenienza. Al contrario, affondano le radici nella carità di Dio. Perché proprio essa ci urge nel cuore e nella mente e mette impazienza e persino ali ai piedi:

«Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”. Senti? Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore in Sion» (Is 52,7-8).

La comunità cristiana che vive la radicalità del vangelo è per sua natura missionaria: annuncia la lieta notizia di rapporti liberanti e perciò riconciliati. La Parola di Dio è continua protesta verso l'esistente ancora violento ed egoistico ed è proposta continua verso un esistente già iniziato, solidale e fraterno. La Parola mette ali ai piedi, che corrono ad annunciare il vangelo della pace. Fa raccogliere quanti sono mossi non solo da intenti di pace, ma anche dalla volontà di socializzarli, condividendoli con tutti, ma in particolar modo con i più colpiti dalle tante forme in cui si esprime la violenza: con i più poveri ed i più deboli della società in cui viviamo.

Ciò verso cui la comunità cristiana si muove è anche ciò che la smuove: l'aver scoperto che l'uomo è più grande delle sue miserie e che il mondo può essere effettivamente più bello di come ci appare. La comunità cristiana che vive la radicalità del vangelo asseconda la spinta in avanti verso una migliore qualità della vita, perché ama la vita in tutte le sue manifestazioni. Nei suoi tanti colori e nelle infinite forme in cui essa si esprime. Nelle diversità tra singoli e popoli, razze e culture, che lungi dall'essere una deficienza, costituisce una ricchezza e uno stimolo a costruire rapporti e a tessere trame di amicizia.

E ancora: la comunità cristiana che vive la radicalità, alla quale la chiama la Parola di Cristo, progetta e realizza un'effettiva educazione alla pace. Sensibilizza i giovani verso le forme del servizio civile, attraverso cui si servono i più bisognosi e dimenticati, forma le coscienze al superamento nonviolento degli immancabili conflitti, inculca nei giovani il rispetto verso l'ambiente, propone le scelte della sobrietà, della semplicità e del servizio agli altri come nuovi percorsi attraverso i quali passa oggi la testimonianza cristiana e in fin dei conti l'evangelizzazione.

In definitiva, la comunità cristiana che si converte al vangelo, accetta di mobilitarsi per la pace partecipando dell'unico impegno di pace che viene da più lontano di noi e che ci porta anche oltre i nostri progetti più audaci: quello di Dio. Si sente travolta dalla corrente della carità di Dio, trascinata da Dio, che è la stessa Carità sussistente, cioè Colui che per primo si è mosso verso di noi perché per noi si è commosso e sempre si commuove. Egli ci è venuto incontro nella persona di Cristo, per accompagnarci nel cammino e attraverso lo Spirito, mandatoci dal Risorto, ci spinge a scorgere sempre un raggio di luce anche nelle tenebre più fitte, a cogliere ancora il fiotto della vita anche lì dove sembra regnare la morte, a intravedere il germoglio della speranza anche nelle situazioni senza apparenti via d'uscita.

La comunità cristiana che vive la radicalità del vangelo è pertanto cammino, ma è cammino avanzato: non ha altri riferimenti che quelli del suo maestro, di cui porta il nome e che intende seguire fedelmente, anche quando la sequela diventasse faticosa e incompresa. Ma anche in questo caso - e soprattutto in questo caso - l'agire di chi segue Gesù non sarà mai improntato ad arroganza, né alla ricerca di gratificazioni o di potere. Senza presumere di incarnare la profezia (che rimane sempre un dono che Dio elargisce liberamente a chi vuole), la sequela del Signore e l'esempio di coloro che hanno già segnato il cammino della pace, la spingeranno verso quelle posizioni umanamente più scomode, ma evangelicamente più radicali che testimoniano la vita e l'amore preferenziale verso le vittime dell'incomprensione e della violenza. Verso le vittime delle nuove violenze che si chiamano disorientamento giovanile e disoccupazione, droga ed AIDS, immigrazione e odio razziale, individualismo e pansessualismo. Con queste e con le altre vittime di violenze occulte e palesi, strutturali ed istituzionali, noi cristiani ci sentiamo spinti dall'amore di Dio, dall'amore che è Dio, a solidarizzare, per fedeltà a Cristo e alla sua vocazione, perché, in definitiva, la pace è testimonianza della verità e della permanenza dell'amore anche contro ogni altra evidenza. Pace è coraggio di credere veramente all'amore.

3. Narrare Dio attraverso la credibilità dell'amore

3.1. Le opzioni di Dio e le opzioni del suo popolo

(cf Credereoggi 84)

Per l'ecclesiologia del Vaticano II la Parola di Dio che costituisce la chiesa è una con-vocazione alla vita trinitaria di uomini riuniti insieme, che nella sequela di Cristo, e grazie alla spinta propulsiva dello Spirito Santo, camminano verso il regno. La chiesa non cammina da sola: cammina insieme con il genere umano e attraversa la stessa storia. Con la storia umana infatti e con l'intera famiglia degli uomini i discepoli di Cristo sono realmente e intimamente solidali:

«La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia»[29].

Dalla Lumen Gentium sappiamo però che se i destinatari e della solidarietà sono tutti, ci sono tuttavia delle opzioni da compiere:

«Come Cristo ... è stato inviato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore affranto, a cercare e salvare ciò che era perduto (Lc 19,10): così pure la chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dall'umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne l'indigenza, e in loro intende di servire il Cristo»[30].

Il Concilio precisa quindi che la chiesa deve restare fedele alle consegne che il Padre ha fatto al suo Inviato e che Cristo ha trasmesso alla sua comunità. Dovrà pertanto scegliere non solo i destinatari preferenziali dell'azione di Dio, ma dovrà seguire la prassi di Gesù nei loro confronti: dovrà preoccuparsi di loro e premurarsi di “sollevarli” dall'indigenza. Solo così potrà effettivamente servire Cristo in loro. In questa maniera potrà praticare la comunione, cioè quella realtà che è apparsa a molti una delle realtà più specifiche dell'ecclesiologia del Vaticano II[31].

A questo riguardo, il sinodo straordinario dei vescovi sulla valutazione del cammino post-conciliare ha affermato senz'ombra di dubbio:

«L'ecclesiologia di comunione è l'idea centrale e fondamentale dei documenti del Concilio»”[32],

precisando che

«Si tratta fondamentalmente della comunione con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Questa comunione si ha nella Parola di Dio e nei Sacramenti[33].

Ci si può chiedere: si tratta di una comunione unidimensionale di natura spirituale-sacramentale, che vale in eguale maniera e indiscriminatamente per tutti e che ignora quindi le disuguaglianze tra i suoi destinatari e le opzioni stesse di Dio? Non è proprio così. La definizione segue la Lumen Gentium, che descrive la chiesa come

«sacramento ... dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»[34],

ma la vede anche come un effetto dell'azione dello Spirito Santo che

«guida la chiesa per tutta intera la verità (...), la unifica nella comunione e nel ministero, la istruisce e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti»[35].

È una realtà comunque sostanzialmente dinamica e che abbraccia anche la cosiddetta dimensione orizzontale, quella della “unione degli uomini”, una dimensione determinante per la teologia del Vaticano II. È quella della comunione interumana che risponde, come si diceva, alla vocazione a partecipare alla vita di Dio[36], attraverso l'indispensabile mediazione di Cristo, ma che si estende oltre i confini puramente istituzionali della chiesa[37].

Da queste premesse ecclesiologiche il sinodo non poteva che ribadire:

«Ciò è di grande importanza specialmente nei nostri tempi poiché la chiesa, in quanto una ed unica, come sacramento, è cioè segno e strumento di unità e di riconciliazione, di pace fra gli uomini, e le nazioni, le classi e i popoli»[38].

È una comunione che non livella tutti o che, sotto un irenismo di comodo, copre le disuguaglianze e le ingiustizie esistenti tra i popoli e tra gli uomini. Al contrario la chiesa, in nome della comunione, deve contribuire a individuare ed eliminare proprio tali disuguaglianze ed ingiustizie.

Il sinodo, riprendendo il tema della scelta preferenziale affermava, a riguardo:

«Dopo il concilio Vaticano II la chiesa è divenuta più consapevole della sua missione a servizio dei poveri, degli oppressi, degli emarginati. In questa opzione preferenziale, che non va intesa come esclusiva, splende il vero spirito del Vangelo. Gesù Cristo ha dichiarata beati i poveri (Mt 5,3; Lc 6, 20) ed egli stesso ha voluto essere povero per noi (2Cor 8,9). Oltre alla povertà materiale, c'è la mancanza di libertà e dei beni spirituali, che in qualche modo può ritenersi una forma di povertà, ed è particolarmente grave quando la libertà religiosa viene soppressa con la forza»[39].

Chiarita la natura della povertà, che abbraccia un ampio spettro di effettive situazioni di disagio, anzi di oppressione, provocate dalla volontà umana, il Sinodo indica anche il compito che la comunità cristiana deve assumere:

«La chiesa deve denunciare profeticamente ogni forma di povertà e di oppressione, e difendere e promuovere ovunque i diritti fondamentali ed inalienabili della persona umana. Ciò vale soprattutto quando si tratta di difendere la vita umana fin dal suo inizio, di proteggerla in ogni circostanza dagli aggressori e di promuoverla effettivamente sotto ogni aspetto»[40].

Per concludere con una precisazione che riguarda la missione salvifica della stessa chiesa: una missione che riguarda la globalità dell'uomo, la sua dimensione spirituale ma anche, parimenti, la sua dimensione temporale:

«Il sinodo esprime la propria comunione con i fratelli e le sorelle che soffrono persecuzioni a causa della loro fede e che soffrono per la promozione della giustizia; per loro innalza preghiere a Dio. La missione salvifica della chiesa in rapporto al mondo dobbiamo intenderla come integrale. La missione della chiesa, sebbene sia spirituale, implica la promozione anche sotto l'aspetto temporale»[41].

Le precisazioni del Sinodo straordinario sono in linea con tutta l'impostazione dottrinale che, dalla conferenza dell'episcopato latino-americano di Medellin e di Puebla a quella più recente di Santo Domingo, ha chiarito la natura globale della missione salvifica della chiesa, e la natura integrale della liberazione[42]. La comunione non contraddice questa acquisizione, ma impedisce al termine stesso di scadere in una sorta di ambiguità di sapore romantico o spiritualizzante.

Anche i Vescovi Italiani avevano inteso chiarire la portata della “comunione” quando avevano scritto:

«Quando diciamo 'comunione' pensiamo a quel dono dello Spirito per il quale l'uomo non è più solo né lontano da Dio, ma è chiamato ad essere parte della stessa comunione che lega tra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e gode di trovare dovunque, soprattutto nei credenti in Cristo, dei fratelli, con i quali condivide il mistero profondo del suo rapporto con Dio»[43].

Mettendo in rapporto comunione e testimonianza, si può allora concludere, con la nota della CEI:

«L'annuncio che la chiesa è chiamata a fare nella storia si riassume ... in un'affermazione centrale: “Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è Via, Verità, Vita”. Dalla forza e dalla radicalità di questo annuncio scaturiscono l'ardore della vita e dell'impegno dei cristiani, l'incisività e la capacità di rendere contemporanea all'uomo l'espressione con cui il messaggio è annunciato e portato a efficacia di vita, la novità e fecondità dei metodi di cui deve far uso oggi l'evangelizzazione»[44].

Non si tratta di un'efficacia perseguita in quanto tale o in maniera pragmatica, ma di un autentico coinvolgimento spirituale e perciò esistenziale:

«Chi vuole annunciare e dialogare non può non partire dal proprio incontro personale con Cristo e da una vita profondamente innestata nell'esperienza della comunità cristiana. Anche se - parallelamente - deve sempre aver viva la consapevolezza che la verità che annuncia è Gesù Cristo, una verità più grande delle sue parole, della sua comprensione, della sua esperienza e della vita stessa della chiesa. Altrimenti, rischia di non annunciare Cristo ma se stesso, una sua verità»[45].

È il grande presupposto di un concetto di carità non più pietistica, né assistenzialistica, ma come celebrazione ed espressione dell'amore solidale e appassionato di Dio, un amore che se non esclude mai nessuno, predilige i più derelitti. Ciò avviene per la semplice ragione che l'impegno sociale deve coniugare carità e giustizia[46].

È un'ulteriore ragione teologica e una preziosa precisazione dottrinale sull'amore preferenziale per i poveri:

«In questa prospettiva l'amore preferenziale per i poveri si mostra come “un'opzione, o una forma speciale di primato nell'esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la tradizione della chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica ugualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l'uso dei beni»[47].

Il motivo è ancora una volta teologico: la scelta di Dio, attestata dalla Scrittura non può che essere assecondata dalla chiesa:

«Senza questa solidarietà concreta, senza attenzione perseverante ai bisogni spirituali e materiali dei fratelli, non c'è vera e piena fede in Cristo. Anzi, come ci ammonisce l'apostolo Giacomo, senza condivisione con i poveri la religione può trasformarsi in un alibi o ridursi a semplice apparenza (cfr. Giac 1, 27-2, 13). La carità evangelica, poiché si apre alla persona intera e non soltanto ai suoi bisogni, coinvolge la nostra stessa persona ed esige la conversione del cuore»[48].

3.2. L'opzione sempre precisata e sempre confermata

La scelta dei poveri come scelta di Dio, irreversibilmente confermata e portata a compimento da Gesù, è stata senza ombra di dubbio fatta propria anche dalla chiesa conciliare. Ai testi già citati che la confermano, si potrebbero aggiungere tutti quelli del magistero di Giovanni Paolo II, che in più di un'occasione ha ribadito che tale scelta è non solo legittima, ma è necessaria per la chiesa stessa[49].

Non si tratta di una scelta della povertà in quanto tale, ma della scelta fatta da Dio già attraverso la parola profetica, che esprime nello stesso tempo denuncia sociale ed è anche opzione preferenziale per quanti soffrono e gemono a causa della povertà. Se la povertà è assunta da Gesù, come dai suoi seguaci, ciò avviene per una scelta radicale verso Dio e per solidarietà verso i diseredati. Per la chiesa non può essere diversamente. Vale per i “seguaci della via”, la via che è Cristo, quanto è stato formulato a mo' di principio: il povero è il primo dopo l'Unico, perché proprio il povero è il primo (da scegliere, da amare, da servire) dopo Dio, che è l'Unico (da adorare e ascoltare)[50].

È un principio che non viene mai negato, anzi, sebbene con diverse formulazioni, viene confermato quando si affronta l'argomento dei poveri come destinatari privilegiati dell'agire di Dio. Si aggiungono però ogni volta precisazioni riguardo al carattere non esclusivo, né escludente dell'opzione preferenziale dei poveri e riguardo alla natura della povertà, che è vista secondo quell'ampiezza di significati già evidenziata (povertà materiale, morale, privazione della libertà, privazione dei diritti umani, etc.). Così sono stati riconosciuti indiscutibilmente validi i temi teologici centrali dell'ermeneutica della teologia della liberazione collegati al tema della preferenza dei poveri[51], pur con la comprensibile avvertenza a non lasciare mai assorbire il teologico dal dato puramente sociologico[52]. Si tratta infatti di una situazione ancora in fieri, i cui esiti non sono ancora del tutto prevedibili[53], e tuttavia nessuna dichiarazione ufficiale ha mai smentito quanto la Parola di Dio da una parte e il Vaticano II dall'altra hanno affermato riguardo a questa scelta. Non si tratta infatti di una posizione ecclesiale regionale, presa solo da alcuni episcopati, come quello latino-americano, ma di una maturazione ecclesiale, che recepisce in pieno quanto in quella regione del mondo la chiesa intera ha compreso come dimensione impreteribile del vangelo e dell'evangelizzazione.

Lo stretto rapporto tra testimonianza evangelica e servizio solidale dell'amore, che abbiamo visto nel magistero a noi più vicino, si può cogliere agevolmente anche nella riflessione dell'episcopato latino-americano riunito a Medellin (24.8-6.9.1968), schieratosi chiaramente e profeticamente dalla parte dei poveri, nei termini di preferenza e di solidarietà a vantaggio di questi[54].

La scelta dei poveri era, secondo il pensiero dei vescovi raccolti a Medellin, contestuale ad una prassi di testimonianza e di servizio:

«La chiesa dell'America Latina, data le condizioni di povertà e di sottosviluppo del continente, avverte l'urgenza di tradurre questo spirito di povertà (di Cristo) in gesti, atteggiamenti e norme che facciano di essa un segno più luminoso e autentico del suo Signore. La povertà di tanti fratelli invoca giustizia, solidarietà,  testimonianza, impegno, sforzo e superamento perché  si compia pienamente la missione salvifica affidata dal Cristo. (...) La situazione presente esige, poi,  dai vescovi,  sacerdoti,  religiosi e laici,  lo spirito di povertà che, “spezzando i legami del possesso egoistico dei beni temporali, stimola i cristiani a disporre organicamente l'economia e il potere a beneficio della comunità” [Paolo VI,  Allocuzione durante la Messa del giorno dello sviluppo, Bogotà, 23.8.1968]”. La povertà della chiesa e dei suoi membri nell'America Latina dev'essere segno e impegno.  Segno del valore inestimabile del povero agli occhi di Dio, impegno di solidarietà con coloro che soffrono»[55].  

3.3. La socializzazione della fede (cf appunti sul villaggio)

L'analisi finora compiuta e documentata porta ad un'ulteriore conclusione riassumibile sotto il titolo della socializzazione della fede. È un'espressione con cui si vuole intendere il valore comunitario dell'atto di fede e la contestualizzazione del cammino della comunità cristiana nel più vasto cammino della comunità umana in quanto tale.

È vero, i cambiamenti intercorsi tra le dichiarazioni esaminate e l'attuale momento storico sembrano aver portato grandi cambiamenti nella società, fino al punto di aver reso quasi onnipresente e insuperabile l'iniqua biforcazione prodotta dal capitalismo tra ricchi e poveri. Qualcuno vede in ciò una sorta di tappa irreversibile della stessa storia, che ormai costituirebbe persino la fine della storia umana[56]. I teologi, quando non si adattano a una mentalità piuttosto corrente, che con l'avvento del mondo unipolare e il trionfo del capitalismo reale, pensa a ribattezzare il profitto, come si è visto con Novak, ritengono invece che solo la Parola di Dio sia intramontabile e che l'opzione per i poveri sia perennemente attuale. Si interrogano su che cosa resta, nei fatti, della opzione per i poveri[57], ma si deve precisare che altro è l'impossibilità congiunturale di cambiare alcune realtà storiche attuali, altro è l'impossibilità reale, che non può estendersi oltre la congiuntura, altrimenti la si riterrebbe una sorta di legge suprema metafisicamente inviolabile. Si deve condividere che capitalismo e socialismo non sono, né dal punto di vista economico e nemmeno dal punto di vista epistemologico, due realtà uguali e contrarie. Se il capitalismo rimane un sistema rigidamente economico che rinuncia a qualsiasi ulteriore controllo etico ed ideale, in nome del realismo della legge del mercato, il socialismo era ed è un sistema che ubbidisce a una sorta di molla interna ideale (e per questo più fragile) del rinnovamento della società a beneficio dei meno abbienti. Lo si ammette oggi tranquillamente anche in dichiarazioni che si solito, nella lotta per la difesa dei diritti umani individuali, hanno per lo più rimarcato esclusivamente i limiti di questa visione della realtà, identificando il socialismo ideale con quello reale. Oggi, di fronte ai guasti del liberismo reale, anche Giovanni Paolo II, non esista ad affermare:

«Ciò che chiamiamo comunismo ha la sua storia: è la storia della protesta di fronte all'ingiustizia, come ho ricordato nella Enciclica Laborem exercens. Una protesta del grande mondo degli uomini del lavoro, che è divenuta un'ideologia. Ma tale protesta è divenuta anche parte del magistero della chiesa»[58].

Il papa si mostra così vicino a quanti non si sentono di gridare alla completa e definitiva bancarotta delle speranze dei poveri. Una resa incondizionata alla realtà congiunturale finirebbe infatti con il tradire la visione che della realtà ha la Parola di Dio. Se i poveri non sono ancora il soggetto storico che pure si è ascritto al popolo di Dio, non si tratta di un'impossibilità intrinseca. Occorre ancora ripeterlo, ed oggi bisogna testimoniarlo, perché per il popolo di Dio i tempi non sono migliori di quelli dell'esilio babilonese, né di quelli della persecuzione romana o delle tante persecuzioni in cui il realismo del dispotismo ha cercato di piegare l'idealismo della comunità cristiana.

Per tutte queste ragioni, si deve convenire con chi al crollo del socialismo reale non vuole associare il crollo dell'opzione preferenziale per i poveri che Dio ha amato e continua ad amare. Pur chiedendosi «Anche la teologia della liberazione è in crisi»?, è certamente realistico ammettere una certa crisi dovuta a stanchezza e a mutate situazioni generali, ma rimane pur sempre la validità di una teologia tutta ancorata a due fattori, dei quali il primo è intramontabile: la fedeltà alla parola di Dio, il secondo purtroppo non è in crisi: la miseria crescente di interi continenti. Ciò rende ancora più attuali le precisazioni in merito:

«In verità, la questione di base per la teologia della liberazione non è mai stata il marxismo come teoria e il socialismo come proposta, come hanno voluto certe interpretazioni equivoche e maliziose. No, ciò che la teologia della liberazione metteva in questione era la miseria dei miserabili e l'imperativo della loro liberazione. Ecco la sorgente dove ha attinto la teologia della liberazione, unita insieme alla parola della fede (...) La teologia della liberazione deve continuare a richiamare alla coscienza della chiesa e della società che i poveri esistono, che essi gridano di dolore e che essi proclamano la liberazione»[59]. 

3.3.1. Popolo di Dio popolo di comunione e ... comunicazione

Abbiamo già visto come uno dei temi senza dubbio più innovativi in ecclesiologia a partire dal Vaticano II sia quello del popolo di Dio come soggetto storico. Esso è anche in frutto di una visione teologica complessiva che collegata a un modo più profondo di intendere l'indefettibilità della fede. La presenza dello Spirito Santo, artefice della comunione, è “necessariamente sovrana ed immediata” e ciò costituisce il fondamento teologico del “senso di fede”  dei fedeli, ma anche il fondamento dell'unità e diversità dei ministeri e dei carismi[60]. Tutto ciò costituisce insomma la realtà della chiesa, in quanto realtà misterica e quindi in comunione e in quanto realtà storico-sociale e quindi soggetto in cui si attua la  comunicazione. La prima e fondamentale forma di comunicazione è infatti la rivelazione così come la stessa trasmissione della fede, che ad essa sempre si riferisce, è un'ulteriore e determinante forma comunicativa. Eppure sia l'una che l'altra rimandano alla dimensione storica della chiesa, insomma danno ragione e consistenza teologica alla realtà del popolo di Dio in quanto vero soggetto storico e vera grandezza teologica.

3.3.2. Popolo di Dio che organizza la speranza

3.3.3. Laboratori di speranza

«L'organizzare la speranza» nei luoghi e nei contesti storici nei quali c'è bisogno di progettualità e di liberazione è un compito dell'intero popolo di Dio. Affiora oggi con le caratteristiche di una doppia speranza: quella di un effettivo rinnovamento della chiesa e quello di una concretizzazione storica della soterìa cristiana. Ciò può avvenire a patto che si compiano quei passaggi prioritari già evocati e che nell'ascolto della Parola di Dio il suo popolo resti sempre chiesa in continuo stato di conversione e comunione che trasforma la realtà storico-sociale: in una parola, che il popolo di Dio sia laboratorio di speranza e di effettiva liberazione.

Per tutto ciò resta comunque una condizione indispensabile: che tutte le componenti della chiesa e di tutti i membri del popolo di Dio restino in cammino, cioè vivano un itinerario di continua conversione a Cristo. Ciò significa che tutti insieme ci mettiamo in stato di conversione sicché come chiesa pratichiamo l'autoevangelizzazione. A partire da questa autoevangelizzazione si può e si deve correttamente impostare anche l'evangelizzazione degli altri.

3.4. In stato di continua conversione 

La prima condizione è dunque il permanere di tutte le componenti e di tutti i membri del popolo di Dio in un itinerario di continua conversione a Cristo perché, ci si possa convertire nella chiesa e si possa insieme aiutare a convertire la chiesa. Ciò significa che nessuno si arroga il diritto di convertire sempre e solo gli altri, ma che insieme ci si mette in stato di conversione sicché come chiesa viene affrontata e praticata l'autoevangelizzazione. A partire da questa, si può e si deve correttamente impostare l'evangelizzazione degli altri.

In questo contesto l'autoevangelizzazione non può diventare un nuovo slogan accanto ad altri già assunti, perché occorre sempre badare al fatto che il vero problema non è l'evangelizzazione, il vero problema è il vangelo, perché il Vangelo è Cristo. A Lui occorre sempre far riferimento. Un vangelo davvero accolto non si limita a credere astrattamente a Cristo, ma crede anche in ciò che lo stesso Cristo ha creduto: nell'uomo e nel suo futuro, nella fraternità e nella pace.

Questa identità cristiana è l'irrinunciabile presupposto di ogni altra identità.

Infatti:

«Essere cattolico significa confessare la fede cristiana nella fedeltà ai contenuti dell'Antico e del Nuovo Testamento, alla predicazione magisteriale e alle esperienze storiche dei cristiani, uomini e donne»[61],

ma significa parimenti una piena valorizzazione dell'intero popolo di Dio, sì da prendere sul serio il fatto che

«La totalità dei fedeli [...] non può sbagliarsi nel credere» (Costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, 12). «Il riferimento reciproco, in determinati casi anche l'antagonismo tra credenti e magistero, è fissato qui come dato ecclesiologico fondamentale [...]. Non ci può essere predicazione magisteriale valida che non si preoccupi della consapevolezza di fede dei credenti»[62].

L'identità del popolo di Dio è fissata da quell'atto d'amore immeritato e preveniente di Dio che non significa esclusione di altri, anzi valorizza pienamente gli altri, nella loro diversità e nelle loro differenti manifestazioni religiose. Ciò comporta una dimensione ecumenica da vivere sempre e da realizzare da parte di tutti nella chiesa.

Sicché la chiesa dopo il Vaticano II  deve amare gli uomini e saper adoperare la loro lingua, come scrive ancora Greinacher, e tuttavia, occorre aggiungere, il popolo di Dio deve ormai imparare a praticare quell'opzione preferenziale per i poveri e gli infelici che è stata vista come  irreversibile.

 


 

[1]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali per gli anni '90, 26.

[2]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione ..., 26.

[3]Cf G. Mazzillo, «Rinnovamento ecclesiologico e "nuova evangelizzazione"» in Vivarium 1 n.s. (1993) n. 1Completare con pagine verificando la citazione

[4]Dei Filius, cap. 3 (DS 3008).

[5]E. KLINGER, «Der Glaube des Konzils», in E. KLINGER und K. WITTSTADT (Hg.) Glaube im Prozeß. Christsein nach dem II. Vatikanum. Für Karl Rahner, Herder, Freiburg / Basel / Wien 1984, 615.e

[6]GS 1, EV1, 1319.

[7]Il testo infatti prosegue: «e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (ivi).

[8]SC 33, EV 1, 52s.

[9]Sal 33,9; cf Gen 1,3s;Is 48,13; Sal 148,5;Gv 1,3.

[10]Cf Is 62,12; Ger 2,3; Am 3,2; e più in generale Es 19,6; Es 22,30; Es 34,9; Dt 4,20; Dt 14,2; Dt 26,18; Dt 28,9; Dt 32,9; 2Mac 2,17; 2Mac 5,19; 2Mac 6,16; 2Mac 7,16; 2Mac 14,15; Sal 33,12; Sal 148,14; Sal 149,4; Is 26,11; Is 41,8-9; Is 43,4; Is 43,20; Is 51,16; Is 63,8; Ger 51,19; Dn 2,44; Os 1,9; Os 2,1; Os 2,3; Os 2,25; Mi 6,3; At 13,17s.; Rm 9,25; Rm 11,1s.

[11]Cf anche Lv 26,12; Dt 9,29; Dt 27,9; Dt 29,12; 1Re 8,51; Sal 100,3; Is 64,8; Ger 7,23; Ger 24,7; Ger 30,22; Ger 31,1; Ger 31,33; Ger 32,38; Bar 2,35; Ez 11,20; Ez 14,11; Ez 34,30; Ez 36,20; Ez 36,28; Ez 37,23; Ez 37,27; Zc 8,8; Zc 13,9; Eb 8,10; 1Pt 2,9; 1Pt 2,10; Ap 21,3;

[12]Cf Nm 23,21; 2Mac 1,29; 2Mac 2,7; 2Mac 14,34; Sal 14,7; Sal 28,8; Sal 68,8; Sal 79,13; Sal 95,7; Sal 135,14; Sal 136,16; Is 63,14; Mi 7,14.

[13] Sal 50,7; Sal 78,1; Sal 81,9; Sal 81,12; Ger 5,21; Ger 13,10; Bar 4,5. «popolo mio» è una delle varianti di popolo di Jahvè, che come è stato evidenziato nell'AT prevale letterariamente (354 volte) su quella di «popolo di Dio» (2volte). Si rimanda a N. Lohfink, «Il "popolo di Dio". Che cosa dice l'antico Testamento su un'espressione centrale nei fuochi d'artificio verbali del concilio», in Idem, Le nostre grandi parole. L'Antico Testamento su temi di questi anni, Paideia, Brescia 1986, 127-144, citato T. Citrini, «Questioni di metodo dell'ecclesiologia conciliare», in Associazione Teologica Italiana, L'ecclesiologia contemporanea, Messaggero, Padova 1994, 15-41.

[14]Cf Os 10,11.

[15] Cf Sir 24,18; Sir 51,23-30; ; Pr 3,17.

[16]Questa triplice connessione si può evidenziare attraverso non pochi riscontri biblici. E' tuttavia esemplare in alcuni testi paolini come questo: «State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace» (Ef 6,14-15; cf Is 40,3.9).

[17]La "caritas Christi" che "urget nos", è la carità di Cristo che ci preme da dentro, passando dal cuore, alle mani e ai piedi", «Poiché l'amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5,14-15) .

[18]Cf. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, 61-62.

[19]Ivi, 63.

[20]Del resto già intuita da Michea, tra il messia e la pace, quando questi, preannunciandone la venuta, affermava: «e sarà lui la pace» (Mi 5,4). Così come si trova in alcune accurate traduzioni di questo passo, il Messia è la Pace e non piuttosto egli porterà la pace. Cfr. Das Neue Testament, la traduzione adottata dalle conferenze episcopali di lingua tedesca, che traduce: «Und er wird der Friede sein».

[21]«Infatti la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12; Cf anche 1Pt 1,23; Ap 2,12; Ap 19,15; Ef 6,17).

[22]Cf la critica dei profeti, ripresa da Gesù, verso coloro che vedevano il compimento del progetto di Dio nelle attività cultuali di un tempio (Ger 7,4; 8,11), o nell'osservanza formale della legge, e non piuttosto, come sempre deve essere, nell'amore all'alleanza di Dio (Is 48,18) e nell'amore verso il prossimo (Is 58,6 ss).

[23]M. BUBER, Ich und Du, Heidelberg 1983(11.a), 22.

[24]Evangelii Nutiandi, n. 31: Enchiridion Vaticanum 5, n. 1623.

[25] Lo ripropongono i salmi, come tema dominante sebbene con variazioni. Così, ad esempio, il salmo 85: "misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno, la verità germoglierà dalla terra e la giustizia di affaccerà dal cielo" (Sal 85,11-12). Altri associano la giustizia e il diritto della prassi regale di Dio alla grazia e alla fedeltà (Sal 89, 15; Sal 97, 1-2). Con un concetto di giustizia che non condanna, ma si impietosisce e chiama continuamente alla conversione, perché il Dio dell'alleanza resta sempre "misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà", avendo sullo sfondo i termini della stipula dell'alleanza con Mosè (Es 34,6). Fino ad arrivare a Zaccaria, dove la pace è in rapporto con la verità, in un contesto di salvezza messianica (Zc 8,19), anzi la salvezza nasce da un "seme di pace" (Zc 8,7_8.12). Si può dire che il messianismo fiorisce dalla pace perché alleanza e pace sono spesso sinonimi. La pace determina spesso l'alleanza, chiamata alleanza di pace (Nm 25,12; Is 54,10; Ez 34,25), mentre Malachia parla dell'"alleanza di vita e di pace" (Ml 2,5).

[26]Cfr. G. LOHFINK, Per chi vale il discorso della montagna? Contributi per un'etica cristiana, Queriniana, Brescia 1990.

[27]"Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48).

[28]Ivi, 49ss.

[29]GS 1, EV 1, 1319.

[30]LG 8. EV 1 306.

[31]Cf A. Acerbi, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella "Lumen Gentium", Dehoniane, Bologna 1975.

[32]SYNODUS EPISCOPORUM Relatio finalis Ecclesia sub Verdo Dei mysteria Christi celebrans pro saluti mundi, C. 1, EV 9, 1800.

[33]Ivi.

[34]LG 1, EV 1, 284.

[35]LG 4, EV 1, 287.

[36]DV 2, EV 1, 873.

[37]Il testo conciliare infatti afferma: «tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da Lui veniamo, per Lui viviamo, a Lui siamo diretti» (LG 3, EV1, 286).

[38]SYNODUS EPISCOPORUM, Relatio ..., Ev 9, 1801.

[39]Ivi, EV 9, 1815.

[40]Ivi.

[41]Ivi, EV 9, 1816.

[42]«Evangelizzare è fare quel che fece Gesù Cristo... Egli ci sfida a dare una testimonianza autentica di povertà evangelica nel nostro stile di vita e nelle nostre strutture ecclesiali, facendo come egli fece. Questo è il fondamento che ci impegna ad una opzione evangelica e preferenziale per i poveri; un'opzione ferma ed irrevocabile, ma non esclusiva, né escludente...» «IV Conferenza Generale dell'episcopato latinoamericano. Santo Domingo 12-28 ottobre 1992. Nuova evangelizzazione... testo ,integrale del documento finale», n. 178, in Adista XXVI (5 dicembre 1992) 23. 

[43]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Documento pastorale Comunione e comunità: I. Introduzione al piano pastorale, Roma, 1 ottobre 1981, n.14: ECEI 3, 646.

[44]CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza ..., n. 25.

[45]Ivi, n. 32.

[46]Ivi, n. 38.

[47]Ivi, n. 39.

[48]Ivi.

[49] Già il 21. 12. 1984 Giovanni Paolo II nel Discorso ai cardinali e alla curia romana ricordava che la chiesa aveva solennemente proclamato di far sua l'opzione preferenziale per i poveri, la quale non doveva essere considerata, aggiungeva, in senso esclusivo e nemmeno solo nel senso materiale della mancanza dei beni economici. Poveri sono infatti anche quanti sono defraudati della libertà e dei loro diritti civili. La scelta preferenziale per i poveri è successivamente ripresa in molte occasioni, tra cui la Laborem exercens e la Sollicitudo Rei Socialis. Nel suo messaggio  all'Episcopato latinoamericano (9.4.86) Giovanni Paolo II affermò ancora che la teologia della liberazione non  solo è utile, ma anche opportuna e necessaria.

[50]È questo il senso dell'opzione preferenziale per i poveri, ribadita anche dalla che la chiesa italiana, che si appella alle finalità della proprietà e dell'uso dei beni, affermate dalla Sollicitudo rei socialis, [n. 42: EV 10/2672].

[51]Cf Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1993: 58-59:.«La teologia della liberazione comprende elementi il cui valore è indiscusso: il senso profondo della presenza di Dio che salva; l'insistenza sulla dimensione comunitaria della fede; l'urgenza di una prassi liberatrice radicata nella giustizia e nell'amore; una rilettura della Bibbia che cerca di fare della Parola di Dio la luce e il nutrimento del popolo di Dio in mezzo alle sue lotte e alle sue speranze. Viene così sottolineata la piena attualità del testo ispirato».

[52]«Ma una lettura così impegnata della Bibbia comporta certi rischi. Essendo legata a un movimento in piena evoluzione, le osservazioni che seguono non possono che essere provvisorie. Questo tipo di lettura si concentra su testi narrativi e profetici che illuminano situazioni di oppressione e ispirano una prassi che tende a un cambiamento sociale; è possibile che sia, qua ó là, parziale, non prestando altrettanta attenzione ad altri testi della Bibbia. E' esatto che l'esegesi non può essere neutra, ma deve anche guardarsi dall'essere unilaterale. D'altra parte, l'impegno sociale politico non è compito diretto dell'esegeta. Alcuni teologi ed esegeti, volendo inserire il messaggio biblico nel contesto socio-politico, sono stati portati a ricorrere a vari strumenti di analisi della realtà sociale. In questa prospettiva alcune correnti della teologia della liberazione hanno fatto un'analisi ispirata a dottrine materialiste e hanno letto la Bibbia anche in questa cornice, il che non ha mancato di suscitare problemi, specialmente per ciò che concerne il principio marxista della lotta di classe. Sotto la spinta di enormi problemi sociali, l'accento è stato messo di più su un'escatologia terrena, talvolta a detrimento della dimensione escatologica trascendente della Scrittura» Ivi, 59).

[53]«I cambiamenti sociali e politici conducono questo approccio a porsi nuovi interrogativi e a cercare nuovi orientamenti. Per il suo sviluppo ulteriore e la sua fecondità nella Chiesa, un fattore decisivo sarà la precisazione dei suoi presupposti ermeneutici, dei suoi metodi e della sua coerenza con la fede e la Tradizione di tutta Chiesa» (Ivi).

[54]Cf MEDELLIN,  Testi integrali delle conclusioni della seconda Conferenza generale dell'piscopato latino-americano,  Quaderni ASAL 11-12 (1974) Roma, 229-239.

[55]Ivi, 228-229.

[56]Cf F. Fukuyama, «The End of History», in The National Interest 16/1989.

[57]Cf J. M. Vigil, «O que fica da opçao pelos pobres?», in Persp. Teol. 26 (194) 187-212.

[58]Giovanni Paolo II, Varcare, cit., 145.

[59]C. M. BOFF, «Anche la teologia della liberazione è in cri­si?», in: Rocca (1991/8) 48.

[60] Cf P.FRANZEN, «La comunione eccle­siale ...», cit., 179.

 

[61]N. Greinacher, «L'identità cattolica nella terza epoca della storia della chiesa. Il concilio Vaticano II e le sue conseguenze per la teoria e la prassi della chiesa cattolica», in Concilium XXX (1994/5) 756-771, qui  769.

[62]Ivi, è citato O. H. Pesch, Das Zweite Vaticanische Konzil. Vorgeschichte - Verlauf - Ergebnisse - Nachgeschichte, Würzburg 1993, 185.