Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Giubileo e prassi di pace per la speranza

Relazione al convegno organizzato dalla Fondazione Gianfranco Serio di Praia a Mare con il Patrocinio dell'Amministrazione comunale di Tortora sul tema «Giubileo e Educazione alla speranza in Calabria - S. Nicola Arcella (Hotel Bridge 09-06-1999.

Prendiamo l’avvio da alcuni brani biblici che contengono il cuore del messaggio dell’anno giubilare. Essi toccano talora direttamente, talora indirettamente il tema della pace, passando attraverso quei grandi capitoli che la vedono declinata nella storia. Per brevità dobbiamo qui riassumerli nei seguenti 1) la ridistribuzione della terra; 2) la liberazione degli schiavi e la solidarietà; 3) il riposo della natura e il corretto rapporto con essa. Senza forzare gli argomenti in una sorta di letto di Procuste precostituito, diremo che i grandi impegni sul piano interrelazionale provenienti dal giubileo riguardano ciò che il movimento della pace di questi ultimi decenni ha incentrato su tre argomenti cardini. Sono stati espressi in maniera esemplare nell’assemblea ecumenica di Basilea e si riassumono nei seguenti: pace, giustizia e salvaguardia del creato. Non si tratta di tre realtà diverse, ma come vedremo, di tre differenti aspetti della pace, la quale, per essere storicamente efficace, richiede una revisione a fondo del rapporto che l’uomo ha con le cose, con gli altri e con la natura. In ciò manifesta anche la credibilità del suo spesso asserito prioritario rapporto con Dio. Si tratta di tre capitoli diversi della prassi di pace come prassi giubilare.

Sul primo capitolo (il rapporto con le cose), che è quello più facilmente identificabile come causa di conflitti e di guerre, facciamo un primo riferimento al libro del Levitico. C’è un brano in cui si guarda dalla prospettiva di Dio il rapporto con le cose e soprattutto con la proprietà della terra, che ne è all’origine. Il testo collegava al giubileo il grande e ormai tragico tema della proprietà della terra -tragico per la Palestina e per le regioni ancora dissanguate a motivo di essa - e ne regolamentava i passaggi perché chi ne risultasse privato potesse riscattarla. Prescriveva:

«Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia [cioè di Dio che parla] e voi siete presso di me come forestieri e inquilini. Perciò, in tutto il paese che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo. Se il tuo fratello, divenuto povero, vende una parte della sua proprietà, colui che ha il diritto di riscatto, cioè il suo parente più stretto, verrà e riscatterà ciò che il fratello ha venduto. Se uno non ha chi possa fare il riscatto … se non trova da sé la somma sufficiente a rimborsarlo, ciò che ha venduto rimarrà in mano al compratore fino all'anno del giubileo; al giubileo il compratore uscirà e l'altro rientrerà in possesso del suo patrimonio» (Lv 25,23-28).

È una prescrizione precisa, anche se il nostro interesse per essa non nasce dalla sua realizzazione o non realizzazione effettiva che ha avuto luogo nella storia d’Israele. Ciò che ci riguarda è infatti la considerazione teologica di fondo incentrata sull’anno giubilare come l’anno in cui si rivive, da una lato, l'esperienza gioiosa della libertà da ogni condizionamento storico e sociale e, dall’altro, si intravede la prassi di pace come superamento della “giustizia” distributiva umana, per accedere alla superiore giustizia ridistributiva di Dio. Il motivo è duplice. Il primo è che la giustizia umana è sempre ingiusta, nel senso che, se anche ubbidisse alle migliori intenzioni, finisce comunque con il favorire i più forti e danneggiare i più deboli. Il secondo ne è un’ulteriore spiegazione, sì da apparire anche come il suo fondamento. Il giubileo rappresenta il momento in cui si ristabilisce sulla terra l'ordine primordiale, tanto da rimettere ogni cosa al suo posto. La terra è riconosciuta creatura di Dio e gli uomini sono visti come i suoi coloni. Nessuno ne è proprietario, perché essa appartiene a Dio. Dio la dà tuttavia in usufrutto al suo popolo. Si badi, all’intero suo popolo. Nessuno ne può perciò restare escluso. Chi fosse venuto in possesso della porzione che non spetta a lui, ma ad un altro, deve restituirla al fratello, perché questi ne risponde solo a Dio che l’ha donata al secondo, come al primo.

Prassi di pace significa qui riscoprire l’agire di Dio che gratuitamente dona e meravigliosamente dispone che ci sia serenità e benessere per tutti. Egli vuole lo shalom, la pace di tutti, vuole ciò che shalom significa in tutta la sua ricchezza: star bene e voler bene, benessere ed essere bene, nello sforzo di imitare la sua munificenza e la sua gratuità.

La nostra società occidentale ha molto da imparare da questo primo aspetto del giubileo. Deve ancora capire  non solo che l’essere conta molto più dell’avere, ma che l’avere non può attentare alla vita degli altri, né menomarli nella loro dignità e nemmeno privarli del loro futuro e della pienezza della loro vita. Se la lezione fosse stata imparata appena un po’, avremmo meno conflitti, meno tensioni e meno guerre. Non ne avremmo affatto, a partire dal livello micro-sociale dei conflitti e delle reciproche distruzioni di fratelli per motivi di eredità, a quello macro-sociale delle guerre, che - a come dicono gli analisti più attenti - avvengono sempre per interesse, anche quanto si ammantano di grandi idealità. La guerra dei Balcani insegna.

Cosa vuol dire qui educare alla pace e alla speranza per il futuro? Vuol dire educare non solo alla sobrietà, a saper vivere con poche cose ed essenziali, ma educare alla gratuità, al dono, alla provvisorietà. Significa trasmettere un valore oggi difficile da trasmettere, perché anche i padri di oggi, soprattutto loro, non ne sono più forniti. Almeno non sono sufficientemente credibili. È il valore che si riassume con il principio che l’uomo non vale per quello che possiede o esibisce di avere, ma per quello che è. È effettivamente, come essere umano, grazie alle sue doti e al suo valore, alla sua onestà e alla sua saggezza. Ciò fa veramente uomini. Ma i padri, gli educatori, noi, ne siamo veramente convinti? E soprattutto quanto siamo credibili su questo punto, noi che siamo gli eredi e gli artefici della società dell’avere e molto sovente dell’apparire? Una prassi di pace significa credere ancora alla essenzialità, alla sobrietà, alla povertà che relativizza nei fatti l’arrivismo e la bramosia di ottenere sempre di più.

Il secondo grande capitolo del giubileo riguarda i rapporti tra le persone, riguarda quella giustizia, che è innanzi tutto imitazione della giustizia di Dio, della sua zedaqà, cioè santità, in quanto amore e carità che non solo «per l’universo penetra e si espande», ma che esige che chiunque si appelli a un Dio tratti il suo fratello con la Sua benevolenza e la Sua carità. Qui affiora un primo aspetto collegato al tema dei debiti da rimettere e dal perdono da accordare. Nella Bibbia i debiti vengono cancellati, perché tutti gli esseri umani risultano in debito verso Dio, verso la creazione e verso i propri simili. Gli schiavi vengono pertanto liberati e i prigionieri sono scarcerati. Il giubileo rappresenta, per così dire, la festa degli oppressi liberati, perché l'oppressione non appartiene all'ordine di Dio, ma al disordine dell'uomo. Era anche questo il senso della profezia messianica di Isaia (Is 61, 1-3) e che Gesù applica alla sua missione e a tutta la sua prassi, pensando anche all’anno giubilare come anno di salvezza:

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore … Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi"» (Lc 4,18-21)[1].

La liberazione passa ovviamente attraverso la solidarietà, in quanto prassi autentica di pace, al punto che talora risulta un dovere assoluto. Sicché la Bibbia prescrive la restituzione del mantello, preso come pegno dal ricco a quel povero che nella notte non ha altra coperta per riscaldarsi:

«Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l'aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso» (Es 22,25-26; cf. Dt 24,10-13).

Con la solidarietà la Parola di Dio prescrive pertanto un agire concreto di pace e Gesù lo rievoca nel messaggio centrale delle beatitudini «beati i facitori [eirenopoioi] di pace, perché saranno chiamati [cioè saranno realmente] figli di Dio» (Mt 5,9). Nell’Antica e nella Nuova Alleanza la pace ha come destinatari le categorie più deboli (orfani, vedove e stranieri), con la motivazione che anche gli attuali “benestanti” sono stati e sono tutti stranieri ed ospiti. Lo erano gli antichi  in terra d’Egitto, e lo sono gli altri in ogni caso, giacché siamo tutti pellegrini e forestieri sulla terra[2]. Il pellegrinaggio, altro tema del giubileo, va inteso in questo senso. Non ha niente a che fare con il turismo di chi si può permettere viaggi costosi. Esprime il passaggio come dimensione costitutiva della nostra condizione umana.

L’insegnamento e l’agire di Gesù confermano, motivandolo ulteriormente, il principio della responsabilità solidale verso il fratello (ed ogni uomo lo è, aggiunge Gesù, anche il nemico). La base è l’ineguagliabile misericordia di Dio. Lo dimostra anche la sua parabola del servo spietato con il suo simile che gli doveva una cifra irrisoria, mentre a lui era stata condonata una cifra comunque insolvibile (Mt 18,23-35). Con essa Gesù insegna che l’uomo non può pretendere da chi non ha, proprio lui che ha ricevuto e riceve tutto[3].

L’impostazione che ne deriva è certamente di un’eticità particolare: quella dell’amore e della solidarietà e non della fredda e burocratica corresponsione, nei termini della “libertà” ed “uguaglianza” di fronte alla legge. La fraternità riveste qui, a differenza che nell’illuminismo, l’importanza di una vera fonte del diritto e viene prima dell’uguaglianza e della libertà. Non nel senso che queste siano secondarie. Sono infatti termini correlativi e in qualche maniera realtà presupposte a quella, eppure qualora dovessero entrare in alternativa, la fraternità prevale[4]. Ciò ha delle conseguenze notevoli, una delle quali si può ancora paradossalmente formulare in questi termini: Il debito dei creditori verso i debitori. Vediamo di che cosa si tratta.

Per una comunità mondiale, a partire ovviamente da quella cristiana, è doppiamente assurdo il fatto che i rapporti tra i popoli e gli esseri umani non siano nemmeno impostati in quelli della filantropia (che qua e là ancora appare in qualche economista “illuminato”), ma in quella della pura e semplice economia. Questa mostra oggi più che mai la sua maschera d’acciaio. Ha leggi autonome, tanto che, come qualcuno dichiara ormai esplicitamente, il “nostro” paradigma economico impone strutturalmente dei sacrifici: quelli, come sempre, dei più indifesi, il cui destino è essere sacrificati al mercato stesso; traduci: al benessere dei popoli ricchi. Sembra già in atto una tendenza che ci fa prevedere, che, se non interverranno inversioni di rotta, l’economia sacrificherà sempre più il sociale e che la finanza trionferà sulla politica. È una prospettiva agghiacciante, che però non ci deve trovare conniventi. Non dovrà accadere che proprio mentre chiediamo perdono per aver taciuto ai tempi dello sterminio degli Ebrei, continuiamo a tacere sulle nuove e più sottili forme di sterminio che si vanno consumando ai nostri giorni.

La nostra reazione non può essere che frontalmente critica, perché crediamo che l’uomo vale più del cibo che mangia e del vestito che indossa. Recependo la lezione di uno dei testimoni del nostro tempo, padre Ignazio Ellacuría, assassinato in San Salvador per il suo impegno teologico a favore degli oppressi, dobbiamo far sì che la chiesa non sia solo corpo mistico ma anche corpo storico[5]. Di fatto la chiesa è già il popolo dei tanti che sembrano i relitti di una società che nemmeno più li calcola, come se fossero l’inevitabile cascame dell’inarrestabile e immodificabile “avanzamento economico”. Essere chiesa per noi significa essere fautori di una cultura in contro-tendenza, che afferma il valore primario dell’uomo e degli impoveriti dall’avanzamento economico di pochi. Essere chiesa significa contribuire a volere ed effettuare la liberazione degli infelici e degli oppressi della terra.

Il debito estero va affrontato dunque con questi principi e con questo strumentario teologico, perché non si può tacere oltre sul fatto che ogni uomo è “un fratello per il quale Cristo è morto” (1Cor 8,11) e pertanto ciascuno deve sentirsi eticamente impegnato a portare i pesi degli altri (cf. Rm 12,10)[6].

Se queste sono le premesse, ci sono obbligazioni storiche concrete, come - paradossalmente - c’è anche la responsabilità dei creditori verso i debitori, per ciò che riguarda il debito estero. Lo sosteneva già la Pontificia Commissione “Iustitia et pax”, che affermava:

«Di fronte alle situazioni di urgenza nelle quali possono trovarsi i paesi debitori incapaci di assicurare il pagamento del loro debito esterno - e neanche il pagamento degli interessi annuali -, le responsabilità dei diversi creditori sono state precisate nel quadro di una solidarietà della sopravvivenza»[7].

Ciò è in linea con l’obbligo morale di difendere i diritti degli oppressi[8] e di sentire la propria parte di responsabilità verso i popoli affamati, al punto che lo stesso Nuovo Catechismo della Chiesa ribadisce:

«Il dramma della fame nel mondo chiama i cristiani che pregano in verità ad una responsabilità fattiva nei confronti dei loro fratelli, sia nei loro comportamenti personali sia nella loro solidarietà con la famiglia umana»[9].

Con ciò si conferma una tradizione magisteriale che ormai è chiara almeno su un punto: la nostra comune partecipazione allo stesso destino[10]. In questo contesto si può finalmente comprendere l’espressione paolina che, in maniera letterariamente paradossale, esclude ogni debito verso gli altri e riafferma il reciproco debito dell’amore:

«non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge» (Rm 13,8-10).

Questa solidale e vicendevole dipendenza è certamente una leva etica efficace per vincere l’indifferenza verso i “sacrificati” dall’economia e per chiedere chiaramente il condono del debito estero, che succhia ormai il sangue dei più disperati nei paesi del terzo mondo. Sono queste le ragioni che più recentemente hanno fatto condividere anche ad altri l’appello della lettera apostolica Tertio millennio di Giovanni Paolo II, che chiede il condono del debito internazionale. L’ormai famoso numero 51 contestualizza tale richiesta non solo in quella ovvia dell’anno giubilare, ma in quella più vasta dell’opzione preferenziale per i poveri e della dimensione profetica della fede cristiana:

«Si deve anzi dire che l'impegno per la giustizia e per la pace in un mondo come il nostro, segnato da tanti conflitti e da intollerabili disuguaglianze sociali ed economiche, è un aspetto qualificante della preparazione e della celebrazione del Giubileo. Così, nello spirito del Libro del Levitico (25, 8-28), i cristiani dovranno farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l'altro, ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni».

Su questo punto il magistero della chiesa è non solo unanime, ma anche concreto[11], mentre si constata una crescita di coscienza etica in questo senso anche nelle chiede non cattoliche[12].

Il terzo grande capitolo della cultura della pace collegato al giubileo riguarda l’anno giubilare come riposo della terra. L’argomento è complesso, ma è anche affascinante. Si incentra sul fatto che il comandamento del riposo riguarda non solo l’uomo, ma anche gli animali e persino le cose. Se Dio si riposò al settimo giorno, l’uomo e la natura riposeranno dopo sei giorni di fatica. In particolare la terra riposerà ogni settimo anno e dopo quarantanove anni, multiplo di sette. La prescrizione del libro del Levitico è precisa anche a questo riguardo:

«Il Signore disse ancora a Mosè sul monte Sinai: “Parla agli Israeliti e riferisci loro: Quando entrerete nel paese che io vi dò, la terra dovrà avere il suo sabato consacrato al Signore. Per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore; non seminerai il tuo campo e non poterai la tua vigna”» (25,1-4).

Il motivo è ancora una volta teologico, ma di una teologia che guarda con benevolenza quanti erano stati asserviti fino a diventare schiavi e persino gli stessi animali da lavoro:

«Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno farai riposo, perché possano goder quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero» (Es 23,12).

Tutto ciò si congiunge con il più grande tema della coltivazione, della custodia e della salvaguardia della natura. Il compito affidato da Dio all’uomo verso la terra è infatti di questa natura. Se la fatica è subentrata dopo il peccato, nella cronologia del racconto genesiaco, l’affidamento della terra viene prima. L’uomo ha l’incombenza di coltivarla e custodirla:

«Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse». (Gen 2,15)

Ciò dimostra non solo l’importanza del rispetto della terra e quindi, più in generale del creato, ma anche - soprattutto ai nostri giorni - la necessità della salvaguardia del creato. Educarsi al futuro e alla speranza significa anche compiere quest’educazione alla solidarietà verso le future generazioni che abiteranno la terra dopo di noi. Significa anche, ancora una volta, educarsi ed educare al senso del pellegrinaggio sulla stessa terra, sulla quale passiamo. Su di essa tutto ciò che potremo saranno i segni di quell’amore con il quale l’avremo amata insieme alle altre creature, diventati anche noi fratelli e sorelle delle cose, perché figlie dello stesso Padre dell’amore, dello stesso Dio che è amore. Il Giubileo ce lo ricorda. Ci ricorda che se Dio è Padre e vuole la riconciliazione e la pace, noi, che ne siamo i figli, dobbiamo adoperarci, a tutti i livelli, per poterla realizzare.



[1] Anche fuori dell’anno giubilare, i debiti sono collegati al dovere di soccorrere comunque il prossimo con il prestito. Troviamo formulato magistralmente tale dovere e quello corrispondente della restituzione nel libro del Siracide: «Chi pratica la misericordia concede prestiti al prossimo, chi lo soccorre di propria mano osserva i comandamenti. Da’ in prestito al prossimo nel tempo del bisogno, e a tua volta restituisci al prossimo nel momento fissato» (Sir 29, 1-2).

[2] Cf. Dt 27,19; Eb 13,14: «Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura». La lettera agli Ebrei, richiamando, lo stato pellegrinante degli appartenenti al popolo di Dio già nell’Antico Testamento, afferma ancora «nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra» (Eb 11,13). Ma ciò non faceva che attualizzare la stessa coscienza di pellegrinaggio di Abramo: «io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi» (Gn 23,4) e del popolo di Dio in genere. Si tratta di una coscienza ininterrotta che il popolo di Dio non ha mai dimenticato, come dimostrano alcuni salmi, composti in differenti epoche storiche. Cosi, ad esempio, il Sal 39,13 pregava con intensità: «non essere sordo alle mie lacrime, perché io sono un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri». Il Sal 119,19 confessava «io sono straniero sulla terra, non nascondermi i tuoi comandi».

[3] Del resto lo stesso Gesù aveva affermato: «da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo» (Lc 6,30 cf. Mt 5,42; Lc 12,33; Mt 7,12; Tb 4,15).

[4] Siamo dunque all’opposto dei principi della rivoluzione borghese, per la quale prevale sempre la libertà dell’individuo e la sua affermazione. Lì il soccorso dell’altro, che pure è contemplato, è però sempre e solo nell’ottica della filantropia, e quindi al più in quella della consapevolezza che anche lui è un uomo.

[5] Cf. anche I. Ellacuría,“Il popolo crocifisso” in Conversione della Chiesa al Regno di Dio, Queriniana, Brescia 1992, 41-69.

[6] I documenti del magistero ecclesiale cattolico che riprendono quest’idea (cf. Cei, Evangelizzazione e cultura della vita umana, n. 40 ECEI/ 4, 2042) partono spesso dalla critica all’uomo moderno che ha smarrito l’orizzonte trascendente della vita umana, riducendosi ad “una cosa”, e trascurando quel primo impegno di corresponsabilità per gli altri esseri (gli uomini in primo luogo) che deriva dalla stessa vita ricevuta da Dio come dono e realtà “sacra”, affidata alle sue mani.

[7] Cf. Un approccio etico del debito internazionale, III, 3 EV/10, 1099.

[8] Cf. Christifideles laici, n. 39, EV/11, 1776.

[9] CCC n. 2831.

[10] Cf. Octogesima adveniens   n. 21.

[11] L’appello a far presto è presente, ancora in ambito cattolico, nelle parole del Card. Etchegaray, presidente del consiglio pontificio Giustizia e Pace, che invoca una volontà politica autentica dei paesi ricchi per l’applicazione di quel condono invocato da oltre dieci anni: «le istituzioni finanziarie internazionali riconoscono sempre più che il peso del debito sui paesi più poveri ostacola il loro sviluppo economico e provoca conseguenze sociali disastrose. Ci rallegriamo di questa presa di coscienza. Di fronte all’urgenza del problema, si tratta ora di tirare le conseguenze pratiche, in vista di un’applicazione rapida dei nuovi termini della riduzione del debito a un numero più grande possibile di  paesi. Sono i poveri che pagano il prezzo delle indecisioni e dei ritardi» (Nostra traduzione dal testo francese reperibile tramite rete Internet, in
http:// www.vatican.va/news_services/bulletin/news/1265.html).

[12] Così, ad esempio, l’assemblea ecumenica che si tenne a Basilea dal 15 al 21 maggio del 1989 approvò un testo in cui si invitava a superare tanto le barriere confessionali che le frontiere nazionali, almeno per ciò che riguarda la giustizia e della pace, fino a proporre l’eliminazione del debito estero, il superamento dello squilibrio tra Nord­Sud, il rifiuto del razzismo, l’abolizione della guerra in quanto istituzione, l’assunzione di uno stile di vita che favorisca la riduzione dei consumi energetici ed uno sviluppo sostenibile per tutti. L’assemblea ecumenica di Graz, (23-29 giugno 1997) ha ripreso e approfonditi anche questi temi e per ciò che concerne il debito internazionale ha, con maggiore concretezza, proposto anche il suo inserimento nei prossimi incontri internazionali dei cosiddetti G7:  «raccomandiamo alle chiese di farsi promotrici, nello spirito dell'anno giubilare, di un movimento volto a ottenere il condono dei debiti dei paesi più poveri e a fissare per questo come data simbolica particolarmente significativa l'inizio del nuovo millennio.» (Documento finale 3, 6.1-2, in Il Regno-Documenti 42 [1997/15] 485).