Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Commento ai numeri 15-16 della Nota pastorale della CEI, "Educare alla pace" del 1998

La pace offerta di Dio nella storia dell’uomo La pace dono di Dio in Cristo crocifisso e risorto

Il titolo dei due paragrafi indica chiaramente la prospettiva teologica nella quale si muove la nota pastorale. Parla della pace come dono di Dio e contemporaneamente come frutto dell’impegno storico dell’uomo. È un dono affidato alla preghiera e simultaneamente alle mani dell’uomo. Del resto è questa l’impostazione più teologicamente sostenibile, anche a fronte di due orientamenti contrapposti, che, in maniera alquanto grezza, sono stati ricondotti alla concezione teologica orientale e a quella occidentale: la pace come dono di Dio e la pace come risultato degli sforzi umani. In realtà, più che di posizioni nette, spesso si tratta di due modalità differenti, ma trasversali a qualsiasi concezione sul rapporto tra Dio e l’uomo, relativamente all’agire di Dio all’agire dell’uomo. La prevalenza dell’una o dell’altra dà però luogo a impostazioni teologiche certamente non equiparabili, perché capofila di modi contrapposti di intendere la presenza e l’intervento dell’uomo nel mondo. Li terremo presenti al fine di offrire un’ulteriore fondazione alla concezione teologica del documento in oggetto, che opta invece per una loro equilibrata sintesi. In essa apparirà chiaro che la pace è pur sempre un dono di Dio, ma è affidata alla collaborazione dell’uomo.

La pace è un dono possibile?

Per quanto possa suonare paradossale, e persino ereticale, c’è una concezione teologica estrema, che, per intenderci, chiameremo spiritualistica, secondo la quale la pace reale, cioè storica, tra gli uomini è impossibile. I suoi sostenitori diranno ovviamente che «la pace è umanamente impossibile», sottolineando che l’impossibilità è dovuta alle insufficienze e alle deficienze umane. In un cocktail che riprende argomentazioni dal vago sapore pelagiano da un lato e deduzioni di stampo materialistiche ed evoluzioniste dall’altro, essi argomentano che l’uomo è per sua natura portato al conflitto, sicché la guerra ci sarà sempre, così come c’è sempre stata. È inutile adoperarsi in senso contrario. I più acculturati si spingono a  dire che basta guardare la vita degli animali: tra essi esiste non solo il conflitto, ma anche la selezione naturale spontanea, che si realizza attraverso la legge del più forte. Sebbene non sempre abbiano il coraggio di tirare le conseguenze estreme di questo modo di pensare, sembrano avere un convincimento a dir poco raccapricciante: se non ci fossero le guerre (al pari delle calamità naturali, delle carestie e dello sterminio per fame di milioni di esseri umani) non ci sarebbe spazio sufficiente sulla terra per gli uomini (naturalmente per “loro”). In questo contesto, altri, pur non vedendo la guerra come uno processo regolatore della geopolitica o della crescita demografica, la considerano come una fatalità, di fronte alla quale l’unica cosa da fare è la preghiera. Preghiera perché la pace venga da sola e perché, sebbene le guerre continuino ad esserci, provochino meno danni possibili. La pace della quale parla la Bibbia, argomentano, è la “pace del cuore”. È anche - e soprattutto - la pace dell’anima.

A fronte di simili posizioni, oscillanti tra il razzismo e lo spiritualismo, c’è quella recepita dal documento in oggetto, che dovrebbe apparire simmetricamente contraria alle posizioni estreme espresse e che tuttavia tiene conto della natura non solo storica, ma anche teologica della pace. Essa recepisce il fatto che la pace è difficile, perché - come già constatato da Dio dopo il diluvio - «l'istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza» (Gen 8,21). Ritiene che la pace, al pari dell’alleanza di Noè, sia un dono di Dio. Trova conferma proprio in questo racconto del fatto che la gratuità con Dio offre la sua pace all’uomo a lui  devoto è la stessa con la quale Dio la offre a tutti gli uomini. Qui siamo infatti in presenza della nuova umanità rappresentata da Noè e dalla sua famiglia. A questa nuova famiglia umana, seppure in stato ancora embrionale, Dio dice: «del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello» (Gen 9,5). Ciò significa che Dio ritiene realistico che non sia versato sangue umano, al punto di domandare conto della vita soppressa  a colui che ne è responsabile». Il succo di questa concezione è che la pace è difficile e tuttavia è possibile. È possibile e doverosa non solo la pace del cuore (in quanto armonia con Dio e con se stessi), ma - come si trova anche nella nota pastorale - è possibile e doverosa anche la pace secondo le altre componenti che la costituiscono: cioè quella orizzontale (che tocca i rapporti interpersonali quotidiani e immediati) e quella storico-politica (che investe le strutture mediate e progettuali del vivere insieme).

La pace è insomma non soltanto un problema spirituale, oppure esistenziale, ma proprio perché è una realtà spirituale ed esistenziale, è anche un problema sociale e politico. Qualcuno potrebbe obiettare che, stando così le cose, non è più una «continua offerta di Dio», un suo dono, ma il risultato degli sforzi umani. Tutt’altro: proprio perché è un dono reale e non virtuale, concreto e non fittizio, è un’offerta che si concretizza «nella storia dell’uomo» passando dalla mente e dal cuore di Dio ai pensieri e alle mani dell’uomo. È, insomma dono affidato alla corresponsabilità dell’uomo. Del resto, se non fosse così, la pace cesserebbe di essere un dono reale, limitandosi a restare solo un augurio o una chimera irrealizzabile, oppure una sorta di inganno teologico di questo tipo: visto che la pace non può essere conseguita sulla terra, occorre solo dedicarsi ala propria pace interiore, che poi altro non è che un’anticipazione della pace eterna.

Lo spessore concreto e politico dello shalom giudaico-cristiano

Per la verità, la concretezza del linguaggio biblico, le implicanze complessive dell’agire salvifico di Dio, le esigenze reali del corrispondente agire dell’uomo, l’agire stesso di Gesù e le modalità della prassi dei discepoli, alla quale egli fa appello, non lasciano alcuno spazio a una pace monca o virtuale. Rimandano piuttosto a quella realtà pluridimensionale implicita nel concetto di shalom, termine ebraico tradotto generalmente con la nostra parola pace. L’ambiente semitico non le riservava uno spazio estemporaneo, perché non si riduceva a invocare la pace, come succede da noi, solo in particolari circostanze: nel caso della ricomposizione di conflitti e di tensioni e come pura e semplice cessazione della guerra. La pace era, al contrario, il nostro “buon giorno” e il nostro “ti auguro gioia e prosperità”. Corrispondeva a quella dichiarazione, spesso non verbale che, incontrando l’altro, ci fa dire con la nostra mimica e i nostri atteggiamenti: «Ti sono amico e voglio essere solidale con te», fino a fare esclamare i più espansivi, almeno in particolari momenti: «Ti voglio bene», nel senso che «voglio il tuo bene!».

Il senso della creazione, richiamato dal testo in oggetto, sembra confermare questa rivisitazione dello shalom come «pienezza di vita, di bontà, di armonia». Ma perché essa non sia fraintesa come semplice buon augurio, il testo chiarisce immediatamente che una tale pace è anche un compito affidato all’uomo, che per la sua somiglianza con il Creatore, dovrà coltivarlo nei suoi rapporti con gli altri e in genere nella storia, così come coltiverà la terra come un giardino. Ci si domanda: «Fino a che punto è possibile coltivare pensieri e gesti di pace anche a livello sociale in quella che è chiamata “la città dell’uomo?”. Per la verità il libro della Genesi esprime, a riguardo, un pensiero piuttosto complesso, che però non è senza interesse o attualità. La tradizione jahvista, che è sullo sfondo di quella sintesi di tradizioni oggi presenti nella Genesi, pensava alla città come a una fondazione di Caino. In Gen 4,17 leggiamo: «Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio». È la città dove un suo discendente teorizzerà tutta la forza distruttiva della vendetta, mostrando la sinistra dinamica che innesca la spirale delle uccisioni a catena: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette» (Gen 4,23). La maledizione della città appare ancora nel  racconto della torre di Babele (Gen 11,1-9), dopo la narrazione della violenza che cova nella città di Sodoma, emblema della non accoglienza, anzi della violazione dell'ospitalità (cf. Gen cc. 18-19).

Alla nostra conseguente domanda se sia mai possibile avere una città (e una relativa civiltà) non basata sulla violenza, la Bibbia risponderà gradatamente, non senza aver chiarito, come nel caso di Davide, che l’aver «versato troppo  sangue» e l’aver «fatto grandi guerre» impedisce la costruzione del tempio al nome di Dio (1Cr 22, 8-9) e, di conseguenza, l’edificazione della città che corrisponde al suo progetto iniziale. Se Gerusalemme sarà città di pace, ciò avverrà in un continuo processo di purificazione e di obbedienza al Dio della pace, fino alla visione ultima della città escatologica, che scende dal cielo sulla terra per essere il luogo della piena armonia con Dio, con gli altri e con se stessi (Ap 21). Se la torre babilonese era stata l’emblema della mancanza di comunicazione, che spesso è la causa della violenza, già la comunità radunata in Gerusalemme a Pentecoste rappresentava il luogo dove le diversità devono essere ricomposte e i popoli di diversa lingua devono comprendersi reciprocamente (At 2). Tutto ciò riconduce alla visione delle Gerusalemme definitiva, nella quale hanno il primo posto, in piedi accanto all’agnello, le vittime della persecuzione e della violenza (Ap 7,9-10; 15,2). L’essere città santa non aveva impedito propria alla comunità, da essa simboleggiata, di consumare una catena di delitti, e tra questi l’eliminazione dei profeti e degli innocenti, tra i quali lo stesso Gesù, ucciso fuori della cinta delle sue mura, come il figlio della parabola (Mt 21,33-39). La “superiore giustizia” di Dio porta la pace a compimento anche per questo: reintegra gli sconfitti, ristabilendo l’ordine infranto dalla violenza dell’uomo sull’uomo. La scena finale dell’Apocalisse dimostra il valore dato alla pace come realtà che associa indissolubilmente pace e giustizia, fino alla duplice corrispondenza tra di esse espressa nella Bibbia: «effetto della giustizia sarà la pace» (Is 32,17) e «un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace» (Gc 3,18), in una reciprocità completa, che rende valide entrambe le formulazioni «la pace nasce dalla giustizia», «la giustizia è frutto della pace». Si tratta di asserzioni non peregrine, ma scaturenti dalla concezione teologica della presenza di Dio e della sua signoria (il suo regno) sulla storia di Israele e sulla storia umana.

Anche questa considerazione dimostra la concretezza storica dello shalom biblico, che non è mai irenismo che ignora le ingiustizie, ma ristabilimento dell’ordine di Dio. Se così non fosse non si realizzerebbe la pace, ma solo una violenza malcelata, perché come dice la nota pastorale al n. 7, quando il più debole è oppresso allora la pace è solo apparente, anzi è una "maschera iniqua".

Lo shalom ebraico-cristiano rappresenta, in definitiva, la realizzazione dell’opera di Dio in mezzo agli uomini. Incarna più che la città, la civiltà di Dio sulla terra. Nei numeri della nota che stiamo esaminando la pace, offerta continuamente da Dio e da assecondare con l’agire umano, sembra attraversare alcuni momenti fondanti che riconduciamo schematicamente ai tre seguenti: il disegno di pace di Dio, il suo Regno e infine Cristo nostra pace.

I progetti di pace realizzati in Cristo esigono corrispondenza tra gli uomini

Anche se non è sempre citato, c’è un passo della Bibbia che esprime con chiarezza quali sono i progetti che Dio coltiva per il suo popolo e, per estensione, per tutti gli uomini della terra: «Io… conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo - dice il Signore - progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 20,11). Sono progetti che nella storia della salvezza (historia salutis), da rivisitare come historia pacis (storia della pace), conoscono fasi complesse e talora tormentate, delle quali abbiamo già menzionato, dopo il peccato delle origini e il primo omicidio di Caino, l’incomprensione e l’incomunicabilità tra gli uomini. E tuttavia non è da dimenticare il segno dell’arcobaleno apparso nel cielo all’uscita di Noè, dei suoi e degli animali dall’arca (Gen 9,12-17). Quell’arco va ben al di là di quella rappresentanza di nuova umanità e nuova creazione. Si estende, come si diceva, fino alla Gerusalemme celeste e passa attraverso la il filo rosso della promessa messianica prima, della sua realizzazione in Cristo e della sua promulgazione attraverso l’agire della Chiesa e dei cristiani poi.

La promessa di un regno di pace, si trova a coincidere con quella della venuta tra gli uomini del regno di Dio. Sebbene non manchino soprattutto nell’Antico Testamento passi nei quali violenza e guerra sembrano persino giustificati da Dio, evidente retaggio culturale di un certo modo di pensare a lui e al suo agire nel mondo,  non si può negare che tutto il fiume del messianesimo che, talora in superficie, talora come fiume carsico, attraversa la storia della salvezza, è direttamente e inestricabilmente collegato alla pace e al superamento di ogni violenza. È l’idea che non solo gli strumenti di guerra saranno reciclati in attrezzi di pace e gli uomini conviveranno pacificamente tra loro e con le fiere (Is 2,1-5), ma che la pace sarà il nome dello stesso Messia (Mi 5,4: la traduzione migliore recita: «e sarà lui la pace», cf. anche Is 9,5, dove ricorre l’espressione applicato al Messia di «principe della pace»). A partire dal progetto di pace di Dio tutta l’alleanza affiora come patto nel quale Dio stringe a sé un popolo per portarlo a compimento. È il piano messianico, un tempo nascosto, perché misterioso per gli uomini (1 Cor 2,7-8; Rm 16,25), ma che fa spazio a tutti i popoli, anche ai pagani (Rm 16,25-27; Col 1,25-28; Ef 3,1ss). Il suo nucleo centrale è una persona che annuncia quel regno di Dio e quel piano di pace. È Cristo, piano realizzato e annuncio che lo comunica, svelandolo (1 Tm 3,16; Rm 16,25; Col 1,26-27). Cristo ne è il realizzatore storico perché opera riconciliazione tra gli uomini e tra i popoli (Ef 2,14-16; Gal 3,28), fino a riunificare ogni cosa (Ef 1,10). Egli reca agli uomini ed è effettivamente il vangelo della pace, annuncio di salvezza (1 Ts 2,4) e buona notizia da parte di Dio (vangelo di Dio: Rm 1,1; 15,16; 2 Cor 11,7; 1 Ts 2,2.8).

Sebbene debba precisare che la sua pace non è accomodante, ma rivoluzionaria, fino «a portare il fuoco sulla terra», suscitando l’impressione di essere venuto a portare più che la pace la divisione” (Lc 12, 49-51), Gesù riconcilia profondamente gli uomini allorquando diventa vittima della stessa divisione e violenza scatenata da coloro che non hanno accolto la sua proposta di pace. Il suo annuncio di pace (evangelium pacis) diventa così vangelo della croce e della risurrezione recato dagli apostoli e dalla Chiesa (evangelium crucis e resurrectionis). Ciò corrisponde alle sue consegne e realizza la sua pace, certamente diversa da quella del mondo (Gv 14,27): «Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”» (Gv 20,21-23). La sua è la pace messianica, pone nelle pieghe della storia un inarrestabile germe di liberazione cosmica (Rm 8, 19-21). I messaggeri del giorno di pasqua rievocano quelli che alla sua nascita avevano cantato «gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Annunciano che la pace sulla terra è la gloria di Dio, ma anche che l’uomo è chiamato con Cristo a costruirla, perché, come lo stesso Gesù aveva detto, beati sono i suoi costruttori (Mt 5,9). Questa pace si realizza sulla terra, liberando, al pari di Gesù e nella forza del suo Spirito, gli oppressi di ogni genere e recando la lieta notizia ai poveri (Lc 4,16‑18).

Se Gesù appare infine il perfetto “facitore di pace” e la personificazione della pace stessa («egli infatti é la nostra pace»), ciò ha un primo senso storico nel fatto che è stato  «colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo un muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia» (Ef 2,14). Si può però concludere che l’opera della pace è ancora incompleta. Siamo chiamati pertanto come popolo di Dio a fare tutta la nostra parte per diventare anche noi “facitori di pace” (eirenopoioi), seguendo Gesù e facendo scelte coerenti e quotidiane per declinare l’alleanza di Dio (Is 48,18) come alleanza d'amore verso il prossimo e verso l’intera creazione.