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DOMANDE TEOLOGICHE

La teologia si può chiamare scienza? Dio è solo un bisogno per colmare il proprio vuoto esistenziale? Esprimi il tuo parere, intervenendo nel dibattito, che qui registra gli interventi a partire dall’ultimo in ordine di tempo. 

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Intervento di Parblé 18/01/03: Recuperare la nostra profondità 

G. MAZZILLO (20-08-02) in risposta alla lettera di G. Florio (16/07/02) e di M. Pucci (15/08/02)

M. PUCCI RISPONDE ALLA LETTERA DI G. FLORIO

INTERVENTO di PASQUALE DE  FRANCESCO

Intervento di Parblé del 26/07/02

Intervento del Prof. Gianni Florio (Laurea in Fisica e Diploma in Scienze religiose) del 16/07/02

Intervento del Prof. Pucci e  Risposta di G. Mazzillo del 4/07/02

Intervento di Parblè (5/06/2002) e Risposta di G. Mazzillo al Prof. Michelangelo Pucci (02/07/02)

REPLICA del Prof. Michelangelo Pucci  (5/06/2002) 

Si segnala per un approfondimento dell'argomento sulla scienza e su che cosa essa sia anche secondo gli scienziati, lo studio su TEOLOGIA ED EPISTEMOLOGIA (cliccare qui)

DOMENICA 02/06/02 - Interventi di Scozzafava e del Dottor Sergio Maradei sul parlare di Dio e breve risposta

Mercoledi 28/05/02 - REPLICA all’intervento di Paolo - Le perplessità sarebbero più che comprensibili se la teologia pretendesse di dire che Dio è come gli altri oggetti sperimentabili e sperimentali o è dimostrabile alla stessa stregua di un teorema. In realtà nessuno pretende di dirlo. Ciò che mi sembra però sostenibile è che se Dio può essere considerato come un’ipotesi, la più grande ipotesi (anche se non dimostrabile su base meramente razionale), la scientificità riguarda il procedere scientifico della teologia nel verificare la ragionevolezza del credere, la realtà storica di Gesù, la documentazione accurata sulle fonti e tutto ciò che si è detto finora (vedi risposta di Domenica 26-5-02 u.s. a Michelangelo Pucci e Teologia ed epistemologia).

Lunedì 27 maggio 2002 18.56- Intervento di Paolo Scozzafava - Sulla domanda se la teologia si possa chiamare scienza ho delle perplessità, per prima cosa perché ogni scienza alla fine deve basarsi pur sempre su una propria teologia, un proprio credo, ogni studio sull'uomo è basato in fondo sul senso della vita, della propria vita, e cercando questo senso si fa
teologia, che l'uomo cerchi dio o la profondità del suo io, non può sfuggire al richiamo di sapere cosa ci sia in e oltre se stesso. E la teologia potrà mai essere una scienza se il suo punto forte è la fede? Si può ridurre la fede ad una scienza? Si può chiamare scienza l'amore? Cosa rimane della teologia se si toglie l'amore e la fede? Se dio scendesse sul trono papale e dicesse, bene! La teologia è una scienza, ora che è divenuta una scienza si presume che voi sappiate tutto su di me, complimenti.

DOMENICA 26-05-02 – Intervento di Pasquale De Francesco - QUALCHE PICCOLA RIFLESSIONE su PARLARE DI DIO

Non siamo esenti Dal "parlare di Dio" perché abbiamo il dovere di conoscere noi stessi, la nostra vita, il nostro modo di relazionare con i nostri simili; anche in questo consiste l’imperativo del "crescere e moltiplicarsi", come uomini, come destinatari dei doni che Dio ci ha fatto, significa scoprire quale rapporto instauriamo con Dio alla luce dei frutti che suscita in noi lo Spirito Santo.

Se è vero che l’icona, il linguaggio e la parola sono il segno della trascendenza è anche vero però che sono gli unici strumenti che, insieme alla rivelazione (per chi ci crede), abbiamo per portare la trascendenza nella nostra dimensione umana e quotidiana. Questa operazione non va vista solo nel verso UOMO ® DIO ma anche nel verso DIO ® UOMO; Dio si rivela, si incarna, ci adotta quali figli e ci fa toccare con mano quel soffio che genera la nostra esistenza; l’uomo scopre la sua capacità di amare perché a immagine e somiglianza di Dio.

DIO DIVENTA TANGIBILE poiché, se possiamo parlare di Lui, il nostro discorso è formalmente concreto, Dio diventa cioè PERSONA, Ente spirituale e corporale, lo dice il Figlio: "Chi vede me vede il Padre…", "se fate qualcosa ad uno di questi miei piccoli lo fate a me", inoltre è una persona che ha un nome proprio: " IO SONO" (Gen.), "SANTO SANTO SANTO" (Ap.), così come ciascuno di noi ha un nome proprio: "Pasquale, Nicola, Vincenzo…", ed ha anche un ruolo: la SALVEZZA DI TUTTI I SUOI SIMILI.

SE Dio è tangibile, io ho il desiderio di toccarLo?

Ho il desiderio di un incontro faccia a faccia, come in ogni rapporto che c’è tra persone che si vogliono bene, Lui ha il desiderio di toccarmi, visto che si è fatto tangibile e che da secoli mi parla.

Mi rendo conto di quanto sia semplicistico il mio discorso, ma, forse, Dio sta anche in questa semplicità: tanto Dio è tangibile quanto più è ardente il desiderio della sua presenza.

La vicinanza e la lontananza implicano il considerare la FEDELTÀ e non bisogna pensare che Dio sia più o meno fedele nella misura in cui fa uso della sua potenza: Dio è fedele sempre! Non è fedele a Tizio che ha ricevuto un miracolo piuttosto che a Caio che ha ricevuto un tumore; Dio, in entrambi i casi, è fedele nella stessa misura, con lo stesso fine ma con mezzi diversi, qualcuno lo porta in braccio, a qualche altro cammina accanto: sta a noi saper vedere con gli occhi della certezza della fede.

Dio che si nasconde, come per gioco, per lasciarsi trovare, in mezzo all’umanità sofferente, derelitta, Dio silenzioso, Dio che sussurra e che scuote è un mistero così come per il frutto è un mistero l’albero che lo produce, il frutto però non ha rivelazione e sacramenti nei quali Dio diventa palese, presente e fedele. Il Dio nascosto, recesso, nel sepolcro, diventa vicino, palese, presente, risorto. Dio si rivela sul Tabor ma soprattutto con il Discorso della Montagna: il BEATI che si ripete come serie continua di martellate è il traît d’union tra il Sepolcro e la Pasqua, tra Dio Trino, Uno, e Nuovo ai nostri occhi e la nostra miseria umana, che, secondo me, ricompone e calcifica quella frattura tra la parola dell’uomo su Dio e la parola di Dio sull’uomo…TU e IO.

Dio che si rivela esprime la sua libertà correndo un rischio grande: che la sua libertà venga disconosciuta e rigettata dall’umanità, alla libertà di Dio potrebbe rispondere non la libertà dell’uomo ma la sua indifferenza, pensiamo all’agonia del Figlio: "Padre, allontana da me questo calice amaro".

Questo rischio ha degli "ammortizzatori sociali": l’onnipotenza e la misericordia con le quali Dio sradica l’indifferenza, se l’uomo vuole, e pianta la sua grazia. In questo modo la libertà di Dio e la libertà dell’Uomo si sposano, con la conseguenza che il peccato non è più "altro da me" ma è il peso dal quale l’umanità è stata alleggerita per mezzo della sovrabbondanza del perdono.

 

DOMENICA 26-05-02 - Risposta di G. MAZZILLO

Stimat.mo e caro Michelangelo,

grazie della lunga riposta (del 13/05/02) alla mia ultima replica (del 7/5). Non avevo voluto riprendere subito il dibattito, perché speravo tanto che qualcun altro intervenisse ed inoltre perché ho avuto bisogno di un po’ di tempo per me, a causa del mio recente viaggio in Germania e al fine di rivedere ed aggiornare un mio testo, guarda caso, proprio sulla "scientificità" della teologia, che noi qui stiamo discutendo. Sperando che qualcun altro intervenga, magari qualche fisico o matematico, non vorrei lasciare senza replica il tuo intervento, perché mi pare che esso abbia aperto qualche prospettiva in più rispetto al primo e abbia anche allargato l’orizzonte a qualcosa che ai cultori di filosofia e di scienza dovrebbe sempre far piacere continuare a ricercare. Con queste premesse, mi permetto, per praticità e per rispetto verso quanto hai scritto, riportare alcuni passaggi della tua lettera, per discuterne con te di volta per in volta. A ciò aggiungo anche la segnalazione che sto per ho pubblicareto nel solito sito (www.puntopace.net <parliamo di Dio e di teologia>) il testo su Teologia ed epistemologia, perché tu possa leggerlo e con te, come mi auguro, anche qualche altro. È un testo lungo, ma credo utile, che aiuta meglio a capire quegli aspetti del mio pensiero che qui non potrò che esporre in forma molto ridotta. Procedendo, riporto i passaggi della tua lettera con caratteri diversi da quelli da me adoperati.

Tu hai scritto sulle mie riflessioni sulla teologia:

"…. Vi ho trovato considerazioni e argomentazioni che hanno una loro validità in discipline non rigorose e sul piano della fede. Questa però ammette dei presupposti che non discute e non verifica e sui quali costruisce le discipline di cui sopra con la pretesa di conferir loro una rigorosità che non possono avere, perché non hanno carattere scientifico".

Proprio questo incipit costituisce, secondo me, il nocciolo del problema, su cui vorrei dirti subito, che, fatte alcune debite precisazione, anch’io posso essere parzialmente d’accordo. Intanto è vero che, seppure la teologia sia una scienza, essa è diversa dalle altre scienze. Diversa in che cosa e fino a che punto? Intanto diversa perché il suo oggetto è, come dicevo la volta scorsa, del tutto particolare: è un oggetto-soggetto, dal momento che attiene a Dio, cioè a colui che per essere fondamento del reale e radice ultima dell’esistente, sfugge alla sua catturabilità nelle nostre categorie abituali che ne determinano la realtà. Vorrei dire che Dio, in quanto la Realtà della realtà, o il loro suo fondamento,, strano a dirsi, ma logico in sé, non si può cogliere alla stessa stregua di tutte le altre realtà. Per fare un esempio, che se non calza del tutto è però intuitivo, direi che è come se con i nostri occhi volessimo guardare direttamente (non certo attraverso uno specchio), i colori dei nostri stessi occhi).

Hai ragione quando affermi che l’oggetto della teologia ciò si basa sulla fede e la fede è un presupposto non discusso. Mi sembra però che da ciò non ne derivi una non rigorosità del pensare teologicoamente. Perché mai? Intanto perché se è vero che non si può a rigore logico-matematico provare quanto asserito per fede, non è altrettanto vero che non sia da provare quanto ci accosta e ci apre all’atto di fede, tutto ciò che è stato indicato come l’insieme delle condizioni previo previe e indispensabilmente preparatorio preparatorie alla fede, i cosiddetti prolegomena fidei. Voglio dire, per fare un esempio, che se credere che Gesù sia l’inviato e persino il Figlio di Dio è senza dubbio operazione di fede, indagare se Gesù sia scientificamente esistito, quali siano le fonti storiche, quale attendibilità abbiamo gli scritti che parlano di lui, in quali circostanze storico-sociali egli sia vissuto ecc., è materia e metodo rigorosamente scientifico, alla stessa stregua di ogni altra ricerca storica. Lo stesso dicasi delle indagini sulle religioni, sulle patologie religiose, i suoi travisamenti, i suoi fondatori ecc. Ma Inoltre, lo stesso rigore si richiede per la coerenza logica con la quale deve articolarsi il discorso teologico, che dovrà sempre attenersi con scrupolo sia alla coerenza interna di ciascuna sua proposizione, sia a quella delle varie proposizioni nel loro insieme, rispettando il principio di non contraddizione e rispettando i vari e indispensabili passaggi logici e metodologici richiesti da qualsiasi scienza. Sulla stessa linea di scientificità devono camminare il reperimento delle fonti (da quelle bibliche a tutte le altre), la loro valutazione critica e il loro utilizzo.

Tu però aggiungevi:

"Per non cadere in equivoci, prima di tutto vorrei precisare che cosa si intende oggi per scienza. Dewey la definisce "il corpo sempre crescente delle asserzioni giustificate", cioè verificate con il metodo galileiano. La scienza moderna, al contrario della scienza positivistica, non pretende di predicare verità assolute e dogmatiche"

La definizione di Dewey, pur tendendo implicitamente, com’è ovvio, verso il pragmatismo, mi sembra possa essere accettata fino a che non escluda per principio che la scienza è sia fatta anche di salti e di discontinuità. Come, raccogliendo la lezione di coloro che tu citi in seguito (Popper, Heisenberg, Wittgenstein), Kuhn ha dimostrato, anche il processo delle scienze fisico-matematiche, ma includiamoci anche quelle relative alla biologia, all’astrofisica e al mondo atomico e subatomico, non è affatto lineare, né senza problemi. Soprattutto, come scrivi anche tu, essa non pretende più di asserire certezze assolute. A ciò vorrei aggiungere, ma il tutto è meglio espresso nel testo "teologia Teologia ed epistemologia", che lo stessoil Wittgenstein delle "Ricerche filosofiche" è molto diverso da quelle del rigorismo logico del Tractatus logico-philosoficus. Giunge ad ammettere, al pari di altri grandi teorici della scienza, la legittimità della teologia come scienza, basandosi sul fatto che non il suo presupportopresupposto, ma in questo caso la sua ipotesi, quella di Dio, è un’ipotesi vera e propria, anche se la più grande e per questo la meno verificabile possibile. stessa

Sui processi conoscitivi e sui limiti del conoscere sono d’accordo anch’io. Solo che mi pare che nonostante ciò, tu insista particolarmente eccessivamente sulla verificabilità e la ripetibilità dell’esperimento come l’ideale della stessa scienza.

Scrivi infatti:

"L’asserzione della validità della scienza galileiana non è dogmatica, ma è un’asserzione verificata e giustificata sperimentalmente. Il fatto che grandi scienziati hanno prodotto "teorie" non toglie validità alla conoscenza scientifica, poiché le teorie non costituiscono il sapere scientifico, esse non sono il punto di arrivo della scienza, ma ne sono il punto di partenza, sono "ipotesi" da verificare, sono tracciati per la futura ricerca, e solo se provate diventano scienza.

Niente da eccepire, soltanto faccio notare che altro è verificare corpi, onde sonore o elettromagnetiche, stati fluidi e gassosi, altro è verificare ciò che attiene al complesso mondo umano. Questo non può essere trattato come quelli, perché di natura diversa. Non per questo però si potrà dire che sociologia, psicologia, storia e quant’altro non siano scientificheo.. Presenterannoà problemi ulteriori e imprevisti, ma ciò è nell’ordine e nella natura di ciò che si esse osservano. Su questo punto, con tutti i limiti possibili, la distinzione di Dilthey tra "scienze della natura" e "scienze dello spirito" fa luce su modi di procedere diversi, ma che comunque obbediscono (o dovrebbero) ugualmente ubbidire al criterio deldi rigore. Ora a me sembra che proprio nei casi in cui la scienza si occupa di fenomeni più complessivi, come la "relatività" ecc., seppure ci garantisca alcuni principi e leggi ripercorribili sperimentalmente, non ne può garantire altri, che oggettivamente le sfuggono di mano.

A questo punto, mi pare che tu voglia toccare il cuore del problema, quando affermi:

"Se la conoscenza scientifica, per quanto detto più sopra, pur procedendo con i piedi per terra, si dichiara in grado di offrirci poche certezze e molte probabilità, le altre forme di conoscenza (fra cui la teologia), che non camminano sul suolo solido della sperimentazione e che procedono per asserzioni non verificabili, come possono pretendere di offrirci solo certezze? In realtà esse non possono produrre che asserzioni che non godono neppure dello "status" di una qualche probabilità di corrispondenza alla realtà, proprio perché fondate su rappresentazioni mentali indotte da stimoli soggettivi (le immaginazioni, le emozioni, i sentimenti, in particolare la fede e la speranza, ecc.) prodotti, a loro volta, dalle rappresentazioni mentali indotte da stimoli esterni, provocando un circolo, una tautologia come diresti tu".

Per la verità non so a quali altre "forme di conoscenza" tu ti riferisca, quando dici che se quelle secondo il processo scientifico alla Dewey a stento possanouò offrire certezze, a maggior ragione non ne potranno offrire le altre. In ogni caso parli della teologia e dei processi psichici che sarebbero all’origine della religione, tra cui, quello - aggiungo - già ipotizzato da Lucrezio, del timore. In ogni caso tali processi sono non ripetibili e dunque non scientificamente affidabili, perché, come scrivi: "restano a livello di esperienze individuali, comunicabili ma non ripetibili".

È vero, ma non è detto che ciò che non è sperimentalmente ripetibile da un altro nella stessa forma, non sia reale o non abbia riferimenti reali. Qui dobbiamo intenderci. Il processo psichico di per sé non è la religione, ma può condurre l’uomo fino alla sua soglia. Talora può essere deviato e deviante come qualche volta la ragione, ma ciò non significa che non abbiamo mai alcuna facoltà che ci possa, ragionevolmente condurre a intravedere dove la ragione finisca e dove la fede cominci. Ora, a rigore, non è illogico domandare: Ci può essere un’eventuale scienza che consideri tali processi, la loro correttezza e il loro andare fino alla "soglia" della fede, pur senza pronunciarsi razionalmente sui contenuti della fede stessa, che si sa, appartengono a un altro ordine di certezza? Senza ancora compiere particolari atti di fede, mi sembra si possa, rispondere che tale scienza esiste ed è appunto la teologia, almeno quella parte di essa che è chiamata "teologia fondamentale". Essa prende sul serio la pretesa dell’uomo di andare oltre se stesso e la stessa possibilità che ci sia una trascendenza reale e non mera rappresentazione simbolica. Ma resta saldamente ancorata al procedere logico, almeno per ciò che riguarda i presupporti della fede stessa. Insomma prende sul serio che ci sia un "Possibile Dio", come si esprime il filosofo dell’Università di Napoli Vincenzo Vitiello [ V. VITIELLO, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002], che partito dal nichilismo, approda, nel suo più recente volume, a qualcosa di più che a un’ipotetica possibilità, in direzione di ciò che altri hanno detto della fede: "un affidamento esistenziale".

Prendo allora sul serio anche l’obiezione che segue nel tuo testo e che è così espressa:

"Neppure la considerazione che l’uomo ha sempre avuto l’idea di Dio e che la religione ha fatto sempre parte della sua cultura può porsi a fondamento della teologia.

L’idea di Dio si è formata nell’uomo attraverso i meccanismi illustrati nel XIX secolo da Feurbach, attraverso un’analisi ineccepibile, anche se poi è andato oltre concludendo senza alcun fondamento logico che Dio non esiste. Se l’esistenza di Dio fosse una realtà, essa sarebbe indipendente da qualsiasi meccanismo mentale umano (il fatto che l’uomo sia giunto all’idea di Dio attraverso dei processi teogonici emotivi non giustifica sul piano logico né la negazione né l’affermazione della sua esistenza)".

La mia risposta a questa obiezione è la seguente: Che il processo dell’uomo verso il proprio autosuperamento possa almeno implicitamente segnalare un dato reale e non essere il frutto di un’insanabile illusione, non si può escludere in linea di principio. Che esso ci sia e non si estingua mai, nemmeno con l’avanzare della scienza che demitizza fulmini, paure e angoscia del vuoto, appare un forte indizio in direzione di una possibile trascendenza. Non si tratta di processi ingannevoli ribattezzati "teogonici", ma di tensioni esistenziali che esigono un perché. A chi oggi come Feuerbach, sebbene in forme differenti, ripropone che Dio è frutto delle nostre proiezioni oltre il nostro riconosciuto e accettato limite, si può sempre rispondere: Ma da dove nasce questa indomita tendenza a superarlo, visto che ormai sappiamo di essere finiti e dunque dimoranti più o meno felici, o almeno contenti, nell’isola della nostra immanenza? Ci sarebbe per il marinaio il bisogno di navigare se non ci fosse il mare? Ci sarebbe soprattutto l’isola se non ci fosse acqua intorno? Quand’anche tale mare fosse invisibile, per una sopraggiunta cecità del marinaio o per un invincibile oscuramento cosmico, nel marinaio non si estinguerebbe il desiderio di navigare. Ma proprio questo attesta che il mare è non solo possibile, ma reale.

Il desiderio di andare oltre se stessi attesta in noi che esiste questa possibilità. Diversamente non lo avremmo. Alla stessa maniera, si potrebbe aggiungere, la sete e il bisogno di bagnarsi, attestano, anche per uno che, per ipotesi, non avesse mai visto un ruscello o una fonte, ma avesse solo mangiato frutta e verdura, che l’acqua esiste. E perché mai? Perché non ci sarebbe la sete, né il bisogno dell’acqua, se l’uomo non fosse principalmente costituito proprio di acqua, anche qualora lo fosse a sua insaputa.

Tu ammetti che va al di là del seminato chi esclude Dio in nome della scienza. È già un passo importante. A me sembra si possa però ragionevolmente aggiungerne uno successivo: quello della plausibilità della sua esistenza (vedi le riflessioni di Berger che riporto nel mio contributo su Teologia ed epistemologia) e per ciò che riguarda la teologia si possa ammettere la sua "scientificità" non solo per i motivi espressi precedentemente, ma anche per l’esplicita ammissione di affermati studiosi su quell’intricato campo che è la filosofia e la definizione della scienza. Mi riferisco a Michael Dummet [Cf. la sua La base logica della metafisica, Edizioni del Mulino, Bologna], ritenuto uno dei massimi filosofi viventi e analitici del pensiero umano, come della scienza.

In un illuminante passaggio, egli ha scritto:

"(Per il credente) Dio deve esistere perché esistono sue rivelazioni, ma perché queste siano credute con la fede, così come l’abbiamo definita, l’esistenza di Dio deve essere accessibile con la pura riflessione razionale e non essere in sé il contenuto della fede … Per quanto riguarda la fede quindi, la razionalità della credenza religiosa dipende da due fattori: se è ragionevole supporre che Dio riveli certe verità agli esseri umani e, in questo caso, se tale rivelazione è stata correttamente identificata; e se è ragionevole dare a ciò che non si conosce lo stesso grado di adesione appropriato per ciò che si conosce" [M. DUMMET, "Dio, tra fede e ragione. Credere alla "rivelazione" non implica la rinuncia ai principi di ragionevolezza e anzi richiede di utilizzarli", in Duemila. Supplemento (straordinario) di Dicembre 1999 al Sole 24-ore, qui pag.1].

In definitiva, se credere a un Dio e alla "rivelazione" "non implica la rinuncia ai principi di ragionevolezza, anzi richiede di utilizzarli", non mi sembra del tutto soddisfacente la tua conclusione:

"In conclusione, sul Dio descritto nella teologia tradizionale non possiamo fare alcun discorso razionale e scientifico, possiamo solo parlarne nell’ambito della fede, con i limiti di cui più sopra.

Se invece vogliamo impostare un discorso razionale e scientifico su Dio, questo discorso ci porta a conclusioni diverse da quelle della teologia tradizionale (faccio di nuovo riferimento al mio primo intervento)".

La ritengo non espressiva della complessità e della ricchezza che sia in campo teologico, sia in campo scientifico sono emerse dai tempi di Feuerbach e delle formulazioni riduzioniste di chi ha pensato che Dio non sia altro che un prodotto della nostra mente. Rispetto a formulazioni così estreme, tu mi sembra sia più cauto e, soprattutto nella prima lettera, colleghi la fede alla prassi della solidarietà. Proprio qui però si aprirebbe un altro lungo discorso, forse quello dirimente, a partire dalla controdomanda: Ma perché l’uomo deve amare e non piuttosto odiare? Perché fare del bene ed aiutare gli altri è per noi tutti preferibile al fare del male? Solo per salvaguardare la specie, come sembra suggerire qualcuno (cf. E. Scalfari)? Mi sembra effettivamente troppo poco e ci condurrebbe di nuovo a un riduzionismo senza sbocchi oltre che senza speranza.

Con la stima di sempre, Giovanni Mazzillo

lunedì 13 maggio 2002 12.47 - REPLICA del PROF. MICHELANGELO PUCCI (alla risposta di Mazzillo del 7-05-02)

St.mo don Giovanni,

ho letto e riletto attentamente la tua risposta alle mie riflessioni sulla teologia. Vi ho trovato considerazioni e argomentazioni che hanno una loro validità in discipline non rigorose e sul piano della fede. Questa però ammette dei presupposti che non discute e non verifica e sui quali costruisce le discipline di cui sopra con la pretesa di conferir loro una rigorosità che non possono avere, perché non hanno carattere scientifico.

Per non cadere in equivoci, prima di tutto vorrei precisare che cosa si intende oggi per scienza. Dewey la definisce "il corpo sempre crescente delle asserzioni giustificate", cioè verificate con il metodo galileiano. La scienza moderna, al contrario della scienza positivistica, non pretende di predicare verità assolute e dogmatiche. Essa ha fatto tesoro della lezione

a) di Popper (principio di falsificabilità): ogni asserzione, anche giustificata, è ritenuta valida fin tanto che non sia falsificata da un’altra asserzione, a sua volta giustificata;

b) di Heisenberg (principio di indeterminazione): al principio di certezza di un effetto prodotto da una causa subentra quello di probabilità;

c) di Wittgenstein e dei filosofi del Circolo di Vienna, che hanno posto le basi di una nuova gnoseologia;

d) delle acquisizioni della psicologia scientifica che hanno fatto luce sui processi conoscitivi.

Gli scienziati moderni sono perfettamente al corrente che la conoscenza non è lo specchio fedele della realtà. Le conoscenze sono "rappresentazioni mentali" indotte da stimoli che possono provenire dall’esterno (fisica e scienze affini) o dall’interno (etica e discipline affini, tra le quali la teologia). L’atto stesso del conoscere (vedi principio di indeterminazione) modifica lo stesso oggetto fisico, poiché perturbato dall’energia impiegata (luce o radiazioni) per rilevarlo. Noi non conosciamo l’oggetto come è veramente, ma lo conosciamo mediatamente attraverso l’energia che emana (stimoli: radiazioni, vibrazioni, particelle, ecc). Così possiamo sapere con sicurezza solo che c’è, e, con probabilità più o meno alta, cos’è e com’è fatto.

Con tutti questi limiti, tuttavia, la conoscenza scientifica è l’unica verificabile sperimentalmente e ripetibile come esperienza da parte di tutti ed è l’unica cui poterci affidare, con una certa garanzia di oggettività e universalità, sia nel pensare sia nell’agire.

L’asserzione della validità della scienza galileiana non è dogmatica, ma è un’asserzione verificata e giustificata sperimentalmente.

Il fatto che grandi scienziati hanno prodotto "teorie" non toglie validità alla conoscenza scientifica, poiché le teorie non costituiscono il sapere scientifico, esse non sono il punto di arrivo della scienza, ma ne sono il punto di partenza, sono "ipotesi" da verificare, sono tracciati per la futura ricerca, e solo se provate diventano scienza.

La teoria della relatività, ad esempio, non poteva essere dimostrata vera ai tempi di Einstein, ma si va dimostrando vera da qualche decennio a questa parte. Quando Einstein prevedeva che la velocità dilata il tempo rallentandone lo scorrere non poteva provarlo. La prova è stata possibile con lo sviluppo della tecnologia solo in questi ultimi decenni: una particella fortemente accelerata nel sincrotrone decade dopo molto più tempo della stessa particella non accelerata; un orologio atomico sincronizzato a terra con un altro orologio gemello, lanciato nello spazio, dopo un viaggio percorso a velocità elevata, al ritorno a terra risulta andare indietro rispetto al gemello, perché il tempo per esso è scorso più lentamente.

Se la conoscenza scientifica, per quanto detto più sopra, pur procedendo con i piedi per terra, si dichiara in grado di offrirci poche certezze e molte probabilità, le altre forme di conoscenza (fra cui la teologia), che non camminano sul suolo solido della sperimentazione e che procedono per asserzioni non verificabili, come possono pretendere di offrirci solo certezze? In realtà esse non possono produrre che asserzioni che non godono neppure dello "status" di una qualche probabilità di corrispondenza alla realtà, proprio perché fondate su rappresentazioni mentali indotte da stimoli soggettivi (le immaginazioni, le emozioni, i sentimenti, in particolare la fede e la speranza, ecc.) prodotti, a loro volta, dalle rappresentazioni mentali indotte da stimoli esterni, provocando un circolo, una tautologia come diresti tu.

Da queste fonti interne non si può indurre l’esistenza di realtà esterne: il timore dell’uomo del dopo la morte, la sua speranza di una vita migliore, il suo bisogno di infinità, il bisogno di appoggiarsi a qualcuno superiore a lui, onnipotente, onnisciente, il bisogno di un fondamento, ecc, non attestano scientificamente l’esistenza dell’aldilà, né l’esistenza di un ente trascendente, ma possono dare fondamento ad una fede e darle dignità, ma restano a livello di esperienze individuali, comunicabili ma non ripetibili.

Irripetibili nel senso che mentre nella conoscenza scientifica io posso ripetere l’esperienza con lo stesso oggetto, nello stesso contesto e con le stesse modalità, nelle altre forme di conoscenza io non posso fare la stessa esperienza dell’altro ma una analoga con un altro oggetto (io stesso, diverso dall’altro), in un altro contesto (la mia interiorità, la mia vita, diverse da quelle dell’altro), con le modalità proprie della mia personalità, diversa da quella dell’altro. Ad esempio, l’esperienza interiore di una Teresa d’Avila, che ha portato la stessa a certe persuasioni per lei certe, io non posso riprodurla in me e quindi non posso pervenire alle sue stesse persuasioni che per me saranno solo fantasiose.

Tutto questo impedisce di fondare come scienza una teologia fideistica, che cioè pretenda di dimostrare razionalmente i dogmi di una fede religiosa. È tuttavia possibile fondare scientificamente una nuova teologia che prescinda da qualsiasi presupposto fideistico. Per farlo però bisogna percorrere un’altra strada, diversa da quella del passato, bisogna partire dai fatti e procedere sperimentalmente, ma questo ci porta a conclusioni diverse da quelle della teologia tradizionale (mi riferisco, senza ripeterlo, al mio precedente intervento).

Il bisogno del "fondamento" non ci porta univocamente ad un’ "ulteriorità" e ad una "trascendenza", perché il fondamento posso trovarlo legittimamente e più rafforzato nell’ "anteriorità" e nell’ "immanenza". L’uomo è grande perché, al vertice dell’evoluzione della natura, è cosciente e pensa. Se questa sua grandezza fosse fondata su un altro, non sarebbe grande lui stesso, ma sarebbe grande l’altro.

Così come quella che le fedi ebraica, cristiana, islamica, buddista, ecc. chiamano "rivelazione" non solo non può fondare alcuna conoscenza scientifica di Dio, ma non fonda neppure una conoscenza fideistica univoca di Dio. Ogni fede pretende che la sua "rivelazione" sia la parola di Dio, ma le diversità di queste "rivelazioni" ci attestano che esse sono solo espressioni di uomini particolari.

Neppure la considerazione che l’uomo ha sempre avuto l’idea di Dio e che la religione ha fatto sempre parte della sua cultura può porsi a fondamento della teologia.

L’idea di Dio si è formata nell’uomo attraverso i meccanismi illustrati nel XIX secolo da Feurbach, attraverso un’analisi ineccepibile, anche se poi è andato oltre concludendo senza alcun fondamento logico che Dio non esiste. Se l’esistenza di Dio fosse una realtà, essa sarebbe indipendente da qualsiasi meccanismo mentale umano (il fatto che l’uomo sia giunto all’idea di Dio attraverso dei processi teogonici emotivi non giustifica sul piano logico né la negazione né l’affermazione della sua esistenza).

La nascita della religione nella società umana è spiegata da meccanismi psicologici molto semplici.

a) l’uomo nella sua infanzia non è autonomo, ha bisogno di attaccarsi per la soddisfazione dei bisogni più elementari alla madre per un tempo molto più lungo di quello necessario agli animali per diventare adulti e autonomi, per cui egli si sente un tutt’uno con la madre e su questo rapporto si fonda il sentimento di unità interpersonale che lo accompagnerà per tutta la vita.

c) l’uomo nella sua infanzia, non solo biologica ma anche storica, non possiede le tecniche per la soddisfazione dei suoi bisogni più elementari, egli ha bisogno di impararle da un adulto da cui si avverte dipendente, egli avverte il bisogno di un capo (il padre, il patriarca, il capo tribù, il re), la cui figura, il cui valore viene ipostatizzato come l’onnipotente, come divinità che non solo dà la vita ma regola l’esistenza in ogni momento e in ogni aspetto (si radica così il sentimento di dipendenza). Non a caso il padre e il re sono simbolizzati dal sole divinizzato nelle religioni naturalistiche e non a caso il sapere era un geloso segreto amministrato dallo stregone, portavoce della divinità nelle società più primitive, e dalla classe sacerdotale nelle società più organizzate come quella babilonese e quella egiziana.

La religione è sentimento di unità e di dipendenza. A me piace più calcare l’accento sul sentimento di unità che si estrinseca attraverso l’amore (la "caritas" cristiana), in virtù del quale le organizzazioni religiose cattoliche diventano poli di aggregazione, da me profondamente stimate e in favore delle quali devolvo volentieri l’otto per mille dell’IRPEF.

La teologia tradizionale, dunque, non può essere fondata sulla presenza del sentimento religioso in tutte le comunità umane, potendosi questo spiegare attraverso i meccanismi psicologici suddetti.

Questa spiegazione, tuttavia, non esclude logicamente l’esistenza di Dio, la cui eventuale realtà sarebbe comunque indipendente da ogni stato emotivo dell’uomo.

In conclusione, sul Dio descritto nella teologia tradizionale non possiamo fare alcun discorso razionale e scientifico, possiamo solo parlarne nell’ambito della fede, con i limiti di cui più sopra.

Se invece vogliamo impostare un discorso razionale e scientifico su Dio, questo discorso ci porta a conclusioni diverse da quelle della teologia tradizionale (faccio di nuovo riferimento al mio primo intervento). Ho aperto il sito www.puntopace.net e l’ho visitato in ogni sua parte, mi è piaciuto l’inserimento in esso del nostro dibattito, sono sicuro che servirà a chiarirci le idee e ad arricchirci.

Cordiali saluti. Michelangelo Pucci

1^ Risposta di G. Mazzillo

 

RISPOSTA alla prima lettera (vedi sotto)
Caro Michelangelo,
grazie intanto per l'interesse verso il libro "Parlare di Dio" e per le tue riflessioni in merito alla teologia. Mi permetto l'uso familiare del tu, pregandoti di fare altrettanto nei miei confronti. Quanto da te espresso è una riprova della strutturale difficoltà di una "disciplina" (chiamiamola per adesso grossolanamente così) che pur essendo assimilata agli altri "saperi" e pertanto alla scienza (non nel senso galileiano, ma in quello più originario, vicino all'etimo latino "scire", conoscere o almeno sforzo di conoscere), presenta una sua fondamentale e particolare problematicità già in partenza. S'interessa di ciò che l'umanità ha chiamato "Dio", la cui nozione contiene un riferimento a ciò che trascende, e dunque è oltre, le possibilità umane, ma nello stesso tempo è un riferimento universalmente ritenuto importante per l'uomo, come attestano le culture di ogni tempo. Se è vero che l'uomo, parlandone, rischia sempre l'antropomorfismo, non mi sembra altrettanto vero che l'uomo non ne possa parlare, per non estenuarne il valore a un livello meramente antropologico. Sta di fatto che tale riferimento è per lui anche un referente: referente per la sua vita e la sua morte, il suo essere nel mondo e nella storia, il suo relazionarsi agli altri. Quanto tu esprimi nella seconda parte delle tue considerazioni non "dimostra" ancora, è vero, il fondamento di ciò che tu consideri, pur senza chiamarlo così, un "fenomeno" importante caratterizzante il nostro essere uomini: il prendersi cura del prossimo, il servizio verso i più bisognosi, l'amore nelle sue varie forme, ecc. Tuttavia mi sono domandato: "Registrare questo fenomeno o questa costellazioni di fenomeni umani (e dunque di natura antropologica), sebbene non ne dimostri ancora il fondamento, non ne attesta una sorta di insopprimibile bisogno?".
Riguardo al bisogno di tale fondamento, la prima cosa che mi sento di dire è che chiedersi se ciò che ci succede come uomini abbia un senso e con ciò un fondamento, mi sembra ugualmente importante. È un atto doveroso verso la nostra umanità (ciò che tu indichi come "spirito") più che verso la nostra curiosità, perciò è importante, oltre che interessante. Ma per procedere in questa fase del discorso, dobbiamo ridurlo all'essenziale, anche a costo di prescindere provvisoriamente da ogni altra considerazione tanto sull'approccio metafisico, che su quello relativo alla scienza. Del resto, l'epistemologia, in quanto "discorso sulla scienza" o "scienza della scienza" (che più opportunamente in tedesco è chiamata "teoria della scienza", Wissenschaftstheorie), non ha potuto anch'essa fare di meglio che avanzare una serie di ipotesi e di teorie sulla scienza medesima, né basta a vanificare il suo pur sempre rispettabile impegno, un'eventuale asserzione (di natura evidentemente "dogmatica") che solo la scienza galileiana è valida. Quest'ultima vale per l'ordine delle grandezze fisiche misurabili e verificabili, ma non vale per altre, che tu stesso alla fine indichi come "spirito" e che io più semplicemente direi di natura spirituale. Inoltre i più grandi scienziati di fisica non hanno potuto fare altro che indicare il risultato di tutti i loro sforzi come "teorie". Una per tutte, la teoria della relatività di Einstein (sia quella ristretta che quella generale). Ora, a fronte delle grandezze di ordine fisico, che pur danno luogo a teorie, dicevamo che esistono e sono importanti per l'uomo quelle di ordine spirituale: Lo sono come e più di quanto non lo siano il numero, la termodinamica, l'aria, il movimento, l'elettricità, le particelle atomiche e subatomiche, l'astrofisica. Sono, come ammetti anche tu, le questioni legate all'amore e all'impegno per l'altro, ma aggiungerei anche, le questioni legate al suo rifiuto e pertanto all'egoismo, alla possibilità di scegliere e di compiere ciò che noi non solo chiamiamo, ma avvertiamo come "male" e come minaccia, come sconfitta e naufragio, nel senso che lo sentiamo ostile e nocivo all'uomo in quanto tale. A questo punto non possiamo evitare di notare che sul piano fenomenologico le grandezze "spirituali", al pari di quelle "morali", qui affiorate con il problema della libertà e della capacità di scegliere, sono ugualmente presenti nel dispiegamento della storia dell'uomo. Sono alla fine quelle più rilevanti, perché esse decidono della vita e della morte, della pace e delle guerre, della costruzione o della distruzione del mondo, dell'amare (gli altri, una donna, i figli, gli amici) o del non amare. Così come appaiono anche importanti i fenomeni ad essi collegati e ad essi anche paralleli: la sensibilità artistica ed estetica, con tutto il complesso e affascinante mondo dell'artigianato e dell'arte e, più in generale, della letteratura e della cultura, del pensiero e dunque della religione.
La religione nasce come intercettazione del bisogno di questo fondamento e come apertura di credito a un'Ulteriorità (chiamiamola semplicemente così) che è ciò di cui l'uomo stesso non dispone (nel senso che essa supera la sua immaginazione), ma che tuttavia è importante, perché riferimento e referente per la vicenda umana sulla terra e suo senso complessivo. Dicendo "apertura di credito", so bene di essere ancora lontano da dimostrazioni razionali apodittiche. Si tratta di una via o di più vie che partendo dai "sentieri interrotti" (quelli di cui parlava Heidegger) ci portano però a chiederci se non possiamo e non dobbiamo ancora camminare, come facevamo da ragazzi andando verso le colline oltre Tortora, anche al di là dei sentieri tracciati dai pastori e dalle capre tra i ciuffi di tagliamano e quelle delle eriche fiorite. Insomma il succo del discorso - e concludo - è che se a Dio non possiamo accedere con un procedimento galileiano (ipotesi, sperimentazione, verifica) non è da escludere apriori che vi possiamo accedere meditando sul fondamento di ciò che ci fa grandi e pensosi sulla terra. È un procedimento che non è ancora teologia, ma è il suo presupposto e la sua corrispondenza speculare. La teologia nasce invece quando, incoraggiata da questo processo, ne vede la non contraddittorietà di principio, ma semmai le corrispondenze da un'altra prospettiva: quella di un sapere (come conoscenza o sforzo di conoscenza) che si basa su un principio ad essa interno, il principio della fede. Grazie ad essa, si può accogliere come parola di Dio il complesso di ciò che è chiamata "rivelazione" e che meriterebbe una trattazione a parte. So bene, e lo ribadisco nei miei scritti, che senza la fede non ci sarebbe teologia, ma sono ugualmente rispettoso della ragione umana, per dover riconoscere e cercare di evidenziare come essa non sia né soppressa, né umiliata dalla fede. Insomma, alla fine, se sul piano razionale posso guardare alla ricerca umana come un andare verso la sua Ulteriorità (che è sulla linea di ciò che tu chiami "sovraindividuale"), posso e devo guardare alla "rivelazione" come un andare dell'Ulteriorità verso l'uomo. È una corrispondenza che non deduce un elemento dall'altro, ma che mi lascia ogni volta stupefatto, perché mi mostra un inatteso e reciproco riferimento. L'alternativa, che vorrebbe ridurre il valore trascendente dell'uomo a una pura e semplice immanenza di carattere antropologico, non mi sembra una soluzione, perché non ne offre un fondamento, bensì è alla fine solo una tautologia. Alla domanda perché l'uomo sia un valore assoluto (tanto assoluto che non si può sopprimere, ma occorre curare, accudire e amare, e talora - come hanno fatto e fanno alcuni - anche a di sopra di se stessi), la risposta immanente può solo recitare: "L'uomo è tanto grande perché è grande". Il che non è una risposta. La risposta che si evince dalla corrispondenza tra l'andare dell'uomo verso Dio e il venire di Dio verso l'uomo è invece: "L'uomo è tanto grande perché viene da Dio e va verso di lui". È ciò fornisce un'ultima corrispondenza al nostro assunto umano da parte della Bibbia, quando essa dice che l'uomo è grande perché è a immagine e secondo la somiglianza di Dio.

 

TEOLOGIA COME RICERCA
(Parlare di Dio è chiedersi il perché della grandezza dell'uomo )
A proposito del libro Parlare di Dio (a cura di G. Mazzillo, Ed. San Paolo, 2002)
I^ Lettera del Prof. Michelangelo Pucci [07-05-02]


St.mo don Giovanni, qui di seguito ti riporto in sintesi le mie riflessioni in materia di teologia. La teologia intesa come "sapere" ha dato luogo sempre a discussioni, a volte aspre, spesso ha incontrato opposizioni e negazioni. Il perché sta nell'approccio e nel metodo di studio. L'approccio metafisico e il metodo dogmatico ha condotto a costruzioni astratte e verbali, niente affatto convincenti, ed a grossolane immagini antropologiche, quando non antropomorfiche, della divinità. Gli attributi di onnipotente, onnisciente, onnipresente , ecc. e la stessa qualifica di persona dotata di intelligenza e volontà riducono Dio nell'ambito antropologico se non antropomorfico in senso lato. L'unico approccio, l'unico metodo accettabile per la teologia come "sapere" è quello scientifico. Il procedimento scientifico galileiano procede
a) muovendo dall'osservazione dei fatti
b) da cui si formula l'ipotesi
c) che viene verificata
1) analizzando i fatti
2) sperimentandoli in modo che siano ripetibili
3) individuando in essi delle costanti
4) che vengono interpretate
d) infine si tirano le conclusioni sull'ammissibilità o non dell'ipotesi.
Anzitutto bisogna procedere a selezionare i fatti da osservare.
Non saranno oggetto di osservazione i fatti naturali che sono contraddittori ai fini di affermazioni teologiche (vedi la critica alla metafisica razionale di Kant). Prenderemo invece in esame i fatti umani. Tra i fatti umani non prenderemo in considerazione quelli istintuali, che lo accomunano agli altri esseri viventi, essi entrano nella categoria dei fatti naturali, da escludersi per le ragioni predette. Faremo oggetto di osservazione, invece, tutti quei fatti umani la cui norma ispiratrice non sia l'egoismo e il particolarismo, quelli che mirano all'aggregazione, ricercata non per fini utilitaristici. Per esempio osserveremo le azioni di Gesù, di Francesco d'Assisi, di Vincenzo de Paoli, di P. Pio, di tutti quelli che fanno volontariato al servizio dei bisognosi, di coloro che difendono e proteggono gli animali, anche di coloro che difendono e proteggono la natura. Dall'analisi di questi fatti emerge una costante: l'atteggiamento del prendersi cura gratuitamente di qualcuno o di qualcosa, l'atteggiamento del provvedere gratuitamente a qualcuno o a qualcosa. Questo atteggiamento ubbidisce ad una tendenza umana a fare il bene, a questa tendenza daremo il nome di "spirito". Vogliamo, per ipotesi, chiamare Dio questo spirito? È l'idea che troviamo nel Vangelo. È lo spirito del padre, non quello che si limita solamente a generare, ma della persona (che può essere anche chi non ha generato) che si prende cura degli altri, che provvede agli altri. È lo spirito del padre del figliol prodigo che accoglie e provvede al figlio ingrato nonostante la ribellione. È lo spirito del buon pastore, che va in cerca della pecorella smarrita (metafora dell'uomo che si è allontanato e che si trova in uno stato di bisogno). È lo spirito del buon samaritano, che soccorre l'estraneo, lo straniero, solo per il fatto che è un essere umano, non perché parente, amico, conterraneo, compatriota. È lo spirito di chiunque si pone al servizio gratuito e disinteressato di chi si trova in uno stato di bisogno materiale (povero, malato) e morale (ignorante, emarginato). È lo spirito di chi si prende cura degli esseri viventi (animali) e provvede alla loro sopravvivenza. È lo spirito chi si prende cura della natura, della sua salute e del suo equilibrio. È un Dio che è la natura buona dell'uomo che vive nell'uomo che si sostanzia nell'umanità che si manifesta nell'uomo È un Dio immortale non eterno.
Di lui, se non possiamo dire con precisione chi è (il termine "spirito" rimane un po' vago), possiamo dire come è (buono, provvido, sovraindividuale).Questa teologia non ci autorizza a parlare di Dio come Ente supremo, come creatore, come persona, come colui che premia o punisce le azioni dell'uomo. Se esistesse un Dio così inteso, non potremmo mai dimostrarne razionalmente l'esistenza, né potremmo dire di lui alcunché.
 

Traduzione delle beatitudini con "In piedi voi"

Carla da Cuneo ha scritto: "Piero ha riconosciuto nella trascrizione delle Beatitudini sulla locandina la traduzione di un autore francese. Chi è? Effettivamente è estremamente poetico ed incisivo. A presto, buon lavoro!".

RISPOSTA

La traduzione per la verità è mia, ma ha dei precedenti nelle comunità di base dell'America Latina e in alcuni passaggi di don Tonino Bello. Forse Piero si riferiva a Lapide, che pure avevo letto quando studiavo il Germania. Per la verità, studiando a fondo il genere letterario delle Beatitudini per la mia ecclesiologia "Chiesa di Dio, popolo delle beatitudini", che cerco di trasmettere agli studenti, ho scoperto che il sottofondo ebraico della traduzione greca "beati i" è invece "felicità di!" come annuncio profetico di una felicità che Dio conferisce, con la stessa efficacia con la quale la sua Parola ha potuto accendere le galassie. Si può trovare qualcosa di più sull'argomento nella mia ultima relazione alla Caritas, al punto 2) Reazioni-azioni e finalità dell'agire solidale, come realizzazione dell'amore. [Cliccare il rimando sottolineato, per andare al testo indicato].

L'uomo ad immagine di Dio ...
Paolo Scozzafava (a noi noto come Parblé, vedi Dipinto in immagini dall'eremo) ha mandato le seguenti domande:
1) La prima è quella del perché nella Bibbia Genesi 1,26 recita: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza"; perché è scritto "a NOSTRA immagine", ed invece alcuni versi dopo è scritto: "a SUA immagine"? NOSTRA immagine: di chi? In nome di chi parlava anche Dio visto, che è utilizzato il plurale e perché poi vieni utilizzato il singolare? Io ho attualmente la bibbia della Tob.
2) Riferendoci alla Bibbia volevo sapere il primo passo biblico o il passo più importante ove si può fondare la dignità dell'uomo. Dimmi fra le seguenti situazioni quale è quella giusta o dimmene un altra che non rientri fra le mie:
a) La dignità dell'uomo nasce da quando Dio ebbe il pensiero di creare la terra.
b) Quando in Genesi è scritto che Dio lo creò a sua immagine e somiglianza.
c) O quando Gesù salva l'umanità con la resurrezione?
Risposta
Ringraziando intanto per le domande poste e per altre che vorrete porre (cosa sempre lodevole, perché senza domande non solo non c'è comunicazione, ma nemmeno crescita), cerco di rispondere intanto alla prima sul singolare-plurale adoperato nella Genesi su Dio nella creazione dell'uomo a sua immagine.
La prima annotazione da fare è che in tale brano, come in molti altri, la parola originale tradotta di solito con Dio è in realtà Elohim, che grammaticalmente è una forma plurale ed è imparentata con quei termini che in tutto l'ambiente mediorientale indicavano la divinità. Ad esempio, il punico 'elim, o le diverse forme semite, che vanno da 'El, 'ilu, 'elah, 'allah. Nel mondo biblico la formula Elohim è privata decisamente di ogni indicazione politeista ed esprime solitamente Dio e la sua corte celeste, e pertanto conserva il plurale, pur indicando che solo Dio è Dio, mentre altre forme celesti accanto a lui sono solo coloro che compongono la sua corte e sono pertanto i suoi angeli.
La forma verbale plurale precedente la creazione dell'uomo sembra pertanto indicare una deliberazione importante, partecipata a questa corte. Non è un plurale maiestatico (o maiestatis) allora sconosciuto, ma una forma ottativa (di desiderio finalmente realizzato), più che iussiva (da ius, comando), partecipata anche alla corte celeste, per indicare la solennità dell'atto, del tipo: "Orsù, ora finalmente, dopo la creazione di tutto l'ambiente circostante a lui, facciamo l'uomo, che è il personaggio più importante e il nostro rappresentante tra tutte le creature". Le forme linguistiche sulla immagine e sulla somiglianza di Dio, in genere considerati un parallelismo (la stessa idea affermata in espressioni linguistiche differenti) indicano per l'appunto la particolare dignità dell'uomo, che deriva dall'essere imparentato più strettamente di ogni altro essere con Dio stesso. In ogni caso non si tratta della deliberazione di creare il maschio solo, ma l'essere umano completo, maschile e femminile. Pertanto mi sembra buona questa traduzione:
"Finalmente Elohim disse "Facciamo l'umanità a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e fin su tutti i rettili che strisciano sulla terra". Ed Elohim creò gli uomini a norma della sua immagine; a norma dell'immagine di Elohim li creò, maschio e femmina li creò" (Gen 1,26-27) traduzione di E. Testa (La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali, I Antico Testamento, Paoline, Cinisello Balsamo [Mi] 1991). Oggi non è più un'edizione "nuovissima" come dieci anni fa, ma mi sembra sostanzialmente valida. Prego i miei amici biblisti, di correggermi se sbaglio.

La seconda domanda, con le sue tre ipotesi, ritengo che sostanzialmente contenga la risposta. Intanto ciò che si è visto sull'immagine e somiglianza di Dio si può capire meglio dal salmo 8, dove tale dignità è ribadita in questi termini "Quando contemplo i cieli, opera delle tue mani, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cos'è l'uomo che ti ricordi di lui? Che cos'è il figlio d'uomo che di lui ti prendi cura? Sì, di poco l'hai fatto inferiore ai celesti e di gloria e di onore tu lo circondi; qual signore l'hai posto sulle opere delle tue mani; tutto hai posto sotto i suoi piedi: pecore e buoi…." (vv. 4-8). Il salmo conferma l'interpretazione della dignità dell'uomo nei termini della Genesi e con un grande volo poetico anticipa lo stupore di tanti grandi, non escluso il Leopardi, Pascoli, ecc. quando contemplavano il cielo stellato.
Ritengo pertanto giusto dire che la dignità dell'uomo, singolare e unica, è stata già pensata da Dio, è stata realizzata con la creazione ed è stata ulteriormente confermata dalla risurrezione di Gesù, che ha ristabilito sul piano della salvezza e degli effetti ultimi (vittoria sulla morte e sul peccato) ciò che l'uomo con la sua colpa aveva perso. Sebbene la sua dignità permanesse anche dopo la colpa, gli effetti di essa erano stati però devastanti per lui e per le altre opere di Dio. Cristo ha appunto salvato da tale devastazione.

NON SONO GIA' LE CREATURE ANGELICHE A IMMAGINE E SOMIGLIANZA DI DIO?
Se Dio nel momento che crea l'uomo lo crea a sua immagine e secondo la sua somiglianza e di quella dei soggetti della corte celeste, ciò sembra in contraddizione con un'altra immagine, quella del Dio che ha creato l'uomo per un atto d'amore, per rendere l'uomo partecipe della sua grandezza, dotandolo delle sue caratteristiche, come l'amore e la procreazione. La contraddizione sta in ciò: Se c'erano già i cori celesti, Dio aveva già compartecipato la sua gloria, la sua grandezza con i gli angeli, duque Dio non elargisce il suo dono per prima all'uomo.
RISPOSTA
In effetti, il racconto genesiaco è complesso, perché arcaico e perché comprende motivi che sono distanti da noi e dalla nostra sensibilità e razionalità. Si può capire però la logica del racconto, diversa dalla nostra, pensando che Dio vuole dare all'uomo un posto d'onore superiore a ogni altra creatura. La corte celeste (residuo di credenze ancestrali) è solo spettatrice di questo. L'uomo, invece è una sorta di suo vicerè nel mondo, rappresentante di Dio e perciò a sua immagine, perché superiore alle cose terrene, come egli è rispetto a ogni altra cosa creata, anche agli stessi angeli.

AUT - AUT
Non ho mai capito che significa Aut-Aut come parola in se stessa e come significato attribuito da Soren Kierkegaard
RISPOSTA: aut aut è un'espressione latina significa o... o... del tipo "o fai questo o fai quell'altra cosa, non si possono fare tutte e due insieme". Introduce, a come si dice, una frase disgiuntiva, nel senso che le due possibilità sono disgiunte e non sono congiungili. Per il filosofo-teologo citato Aut Aut significa una scelta definitiva che esclude altre alternative. E' la scelta di una fede come atto di fiducia radicale e pertanto salto nel vuoto...
INFALLIBILITA' IN MATERIA DI FEDE: CHE COS'è?
Che cosa vuol dire che l'infallibilità del papa in materia di fede?
la seconda domanda, è di ordine teologico. Non ho mai capito che significhi infallibilità del papa in materia di fede, cosa significa in materia di fede, quali sono le materie di fede?
RISPOSTA: L'infallibilità riguarda una caratteristica della comunità cristiana salvata da Dio, alla quale è garantita un'assistenza dello Spirito di Dio perché non si inganni né inganni gli uomini su ciò che riguarda la stessa salvezza e dunque la verità della fede. Tale garanzia deriva dal fatto che se Dio vuole comunicare la sua verità, assiste anche la chiesa e da essa il papa e non viceversa, affinché ciò che riguarda la dottrina della fede rivelata (chi è Dio, chi è Gesù, che cos'è la Chiesa ecc.) sia sicuro e non resti affidato all'inventiva di questo e di quello.

DOVE SONO LE VERITA' DI FEDE?
Quali documenti della chiesa sono considerati verità di fede, per esempio le encicliche, che scrivono i papi di tanto in tanto, sono verità di fede?
I documenti della Chiesa che "contengono" o esprimono "verità di fede" sono in genere quelli che hanno questa qualifica e sono stati prodotti con l'intenzione di essere tali, cioè pronunciamenti relativi alla fede. Non volendo scendere in dettagli troppo tecnici, sono, ad esempio, i documenti dei concilii, come pure i documenti che dichiarano delle verità di fede obbliganti per tutti (come i dogmi), ecc. Le encicliche lo sono nella misura in cui hanno l'intenzione di promulgare delle verità di fede vere e proprie. Altrimenti rientrano nel cosiddetto "magistero ordinario", che fa parte del servizio dell'insegnamento: un insegnamento autorevole, da rispettare e da accogliere, ma non necessariamente "infallibile" e quindi obbligante per la fede del cristiano.