Proposta di
titolo
Giovanni Mazzillo <info autore> | home page: www.puntopace.net
Solo
la Dialogo e ascolto come
elementi di congiunzione e di disgiunzione tra chiese e
culture.Chiesa
che dialoga
testimonia
credibilmente
l'amore
[pubblicato come
(Giovanni Mazzillo)
In una chiesa, che
vuole essere fedele al messaggio ricevuto da Cristo e vuole trasmetterlo senza
deformazioni, ma in modo adeguato alla cultura dei recettori, quali sono le
regole per una corretta comunicazione? Oggi la chiesa riesce a comunicare
con/nella cultura?
A partire dal Vaticano II, iIl dialogo è certamente uno dei termini
più
significativamente espressivi del mutato atteggiamento tra chiesa e
mondo a partire dal Vaticano II. Esso implica
l'ascolto
vicendevole, in quanto rispetto reciproco e disposizione
fondamentale ad accettare sia la dignità della persona dell'altro, che il valore di quanto
ha da dire
l'altro e
dal quale si può e si deve imparare. Parlare del dialogo in questi
termini ne implica per noi due
livelli di considerazione: quello tematico, relativamente a come esso emerge dai
documenti e dai testi ecclesialmente autorevoli, nei quali
compare e quello pratico,
che altro non è che una verifica del primo, relativamente alle modalità
storiche con le quali è (o non è)
realizzato sul piano storico ed effettuale. Sul piano teologico, tuttavia, il tema
del dialogo tira in gioco qualcosa di più. Giacché esso ha a
che fare con un agire particolare che il popolo di Dio non può che apprendere
dall'agire quello di Dio
e del suo Figlio Gesù, chi affronta il tema del dialogo si trova ben presto a
navigare nei pressi di ciò che che gli
dà origine e cosistenzaconsistenza. Si
sente come trascinato verso dalla sua corrente verso la sua
foce, che ne è anche paradossalemente la
sorgente: l'amore, che
del dialogo è appunto causa prima e finalità fondamentale.
Non è questa
la sede per approfondire adeguatamente - per come l'argomento meriterebbe -
l'intimo, inscindibile rapporto tra dialogo e amore. Converrà tuttavia farvi almeno un breve
riferimentoesaminarne, come si dire, qualche area di saggio,
perché dall'allentamento o intensificazione di questo rapporto dipende anche la
validità della stessa prassi del dialogo. Proprio il dialogo non è
oppure è è teologicamente tale oppure è vero dialogo, a seconda che strumentalmente
venga considerato una sorta di mezzo cosmetico con il quale la chiesa voglia
rendersi più presentabile oppure è sia ritenuto l'unico
vero linguaggio che esso continuamente impara dal suo Dio e suo Signore, che è
anche il suo Amico e il suo Sposo. In questo senso il dialogo, come ascolto e come
proposta, che interagisce con la disponibilità dell'altro,
è: il linguaggio dell'amore. Insomma, se
il dialogo è veramente tale non solo nasce dall'amore e tende continuamente ad
esso, ma si esprime anche nel
linguaggio dell'amore: un linguaggio che esprime interessamento, solidarietà,
comprensione, umiltà, vicinanza, compagnia, responsabilità. Se, per dirla con M.
Buber «Amore è responsabilità di un io per un Tu»[1],
il dialogo esprime questa coinvolgente responsabilità, che non tarda a
manifestare i suoi frutti. Essi non sono
solo
quelli che nascono dall’esperienza dell’incontro e che lo
stesso teologo del dialogo, riprendendoli dall'agire di Gesù, indica nell'«aiutare; educare; guarire;
elevare; redimere». Ma non si tratta solo
di ciò. Questi stessi Essi frutti stessi nascono e vivono in
quell'esperienza dell'amore di Dio che coinvolge e trascina. In sintesi: chi ama
veramente Dio non può non amare anche gli altri e quindi non dialogare con loro;
ma anche - e soprattutto - chi si
sente veramente amato da lui e sperimenta il Suo agire amorevole verso tutte le
creature e verso ogni uomo, non può non
assecondare il dialogo come linguaggio dell'amore e dell'incontro, come della
scoperta e della valorizzazione di quanto di buono
c'è nell'altro. In questa maniera, l'agire di Dio diventa criterio e norma
dell'agire del
credente e, per ciò che riguarda la Chiesa, è anche criterio
della sua Comunità che è la Chiesa in un duplice senso:
nel senso primario di una doverosa conformazione di questa all'agire di Dio
quella
e nel senso che la mancanza di una coerente prassi di dialogo come
prassi di amore della chiesa Chiesa denota il
suo effettivo
allontanamento dall'autentica esperienza di Dio. Anche la Chiesa può
essere allettata più dall'efficienza di un uniformismo
formale che dalla fertilità di uno scambio pluralista e più faticoso; può subire il fascino
della concetrazione del carisma in uno o pochissimi soggetti, sì da
perdere di vista la compresenza molteplice e variegata dello Spirito del Risorto in tutto
il popolo di
Dio. Peggio ancora, può assecondare la tentazione del
clericalismo, ricorrente in ogni forma religiosa che si
conosca. Individuare queste dinamiche, saperle superare con
l'umiltà di chi sa che, oltre ad annunciare il Vangelo agli altri, deve rimettere
continuamente in discussione se stesso, riprendere a
praticare un dialogo sereno, che persegua "la Verità tutta intera"
senza la
pretesa di possederla in anticipo e di doverla imporre agli
altri, tutto questo non è solo l'auspicio di ogni uomo amante del dialogo, ma
anche la concreta possibilità che lo Spirito di Dio offre oggi, come
sempre, alla sua Chiesa.
In queste brevi note introduttive sono apparsi già i punti
principali toccati dal presente
contributo. Dopo un doveroso accenno a coloro che, nel campo della
si sono occupati in
maniera più specifica del dialogo e
delle sue radici, tenteremo un piccolo, ma speriamo sufficientemente profondo,
scavo teologico nella dimensione ecclesiale, fino a quella unitrinitaria che sorregge
i del dialogo stessodella Chiesa, per
considerare, in un passo successivo, la conseguente ortoprassi o l'eteroprassi
ecclesiale, in rapporto ai suoi modelli teologici ispiratori e nel tentativo di
offrire qualche
criterio che consentano l'individuazione e il superamento
di modelli sempre risorgenti, di carattere paternalistico-sacrale, per una prassi di dialogo basato
sull'agire e l'esprimersi di Gesù.
La corrente di pensiero che intorno alla metà del secolo
scorso si è occupata esplicitamente del dialogo è ad un tempo
un coacervo di riflessione ed esperienza. Esprime modalità
riflessive filosofiche e teologiche, ma coinvolge anche la sociologia e la
psicologia. Spesso è indicata con il nome di personalismo dialogico, data
l’importanza che essa attribuisce della persona come
incrocio continuo e insopprimibile di relazioni e di rapporti comunicativi.
Sebbene secondo alcuni commentatori, il personalismo debba riferirsi
esclusivamente a particolari pensatori che si sono occupati desul valore della persona come valore
assoluto e imprescindibile[2],
noi riteniamo che proprio la persona non possa sussistere senza il
suo imprescindibilel'insopprimibile valore della relazione. Di
conseguenza,
non ci può essere un personalismo che non sia anche relazionale, comunicativo e
quindi dialogico. Quanti parlano di personalismo dialogico ne individuano
sovente l'originario bacino di riflessione in Francia, da dove esso si sarebbe
diffuso altrove. Altri invece, ci sembra più opportunamente, vi includono fin
dall'inizio coloro che, con Buber in testa, attribuiscono all’elemento dialogico, come primaria e
costitutiva relazione di un io con un
tu, l’elemento determinante
dell’essere umano[3].
Il personalismo dialogico si connota, in questa seconda ricostruzione storica,
come affermazione del rapporto originario e strutturante io-tu, per il rapporto tra le persone,
ed io-esso per il rapporto tra la
persona e la cosa. Muove da M. Buber, che, in Germania, supera l’antropologia di
M. Heidegger
e di M.
Scheler, diventando capofila di un modo nuovo di pensare. Questa tipologia
ricostruttiva del valore della persona in relazione,, considerata per
altrida altri vista comeuna sottocorrente
del personalismo, è anche indicata come dialogismo[4].
Difendendo l'unitarietà di queste due ramificazioni nei termini del personalismo dialogico, riteniamo
giudichiamo le loro interconnessioni sistemiche. Del resto,
, segnalando ancora la novità di questa
tendenza culturale complessiva apparve fu così dirompentenotevole, che nella stessa Germania
venne salutata come «nuovo pensiero» (das
neue Denken)[5].
A giustificazione si aggiungeva adduceva la sua
opposizione alla filosofia tradizionale occidentale, chiamata pensiero di principi (prinzipielles
Denken) e si lo si
caratterizzava il
nuovo come pensiero dialogico o
pensiero che parte dal principio
dialogico[6].
Il seguito di quest'orientamento culturale non si può seguire
altrettanto agevolmente. Essendo una corrente generale, in quanto visione nuova
della realtà (vera e propria Weltanschauung), essa finisce con
l'influire su molti campi del più ampio sapere teorico;, a partire, ovviamente, da quelle
discipline che si occupano principalmente dell'uomo.
Per quel che ci interessa più da vicino, il "nuovo pensiero" ha
certamente ha influenzato i teologi
che hanno preparato e accompagnato il Vaticano II. Non potendo entrare
nel merito di una materia così complessa, non possiamo che
rimandiamore alle ricostruzioni
storiche della teologia del novecento, con la recensione dei suoi numerosi
rappresentanti[7].
Sebbene il dialogo non appaia sempre trattato in modo esplicito, è senza dubbio
uno degli elementi che costituiscono una grande novità tematica che asseconda e
accompagna una nuovo modo di rapportarsi tra teologi e cultura moderna.
Nel magistero ecclesiastico cattolico, il dialogo appare, al
tempo del Concilio, nella sua duplice
modalità teologica di categoria della rivelazione di Dio all'umanità e
del mutato atteggiamento della componente magisteriale della Chiesa. Viene a
chiudere una non certamente entusiasmante stagione ecclesiale di sospetti,
incomprensioni e paure. Certamente Senza dubbio, segna un
capovolgimento di prospettiva rispetto a quell'epoca su cui gravava l'intimazione
del non expedit, che da Pio IX in poi
gravava inglobavasu non pochi aspetti della vita, oscillando tra i rapporti dei cattolici
con la vita civile italiana, fino alle reiterate ammonizioni a non lasciarsi
coinvolgere in innovazioni culturali ed in genere di pensiero, giungendo, con
Pio X, ai
noti provvedimenti antimodernisti.
Rispetto a questo clima di sospetto generalizzatoo, non si
sottolineerà mai abbastanza il merito di Giovanni XXIII nell'aver voluto e
provocato una radicale inversione di tendenza nel suo rivolgersi agli uomini e
al mondo contemporaneo con una atteggiamento di solidale simpatia, con un
comportamento che era di dialogo in actu
exercito, prima ancora che una sua teorizzazione. L'aggiornamento, termine che, quando nelle
altre lingue non viene lasciato come giace, viene tradotto con qualcosa che ha a
che fare con l'attualizzazione,
indica la nuova coscienza che la chiesa intende avere sul suo rapporto con ciò
che è contemporaneo, cioè con quel "moderno" verso cui finora aveva nutrito una
pressoché insuperabile diffidenza.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II nasce, nell'intenzione del Papa che lo
convoca,
come atto coraggioso e complessivo di dialogo. È un dialogo che la Chiesa
intende condurre al suo interno, convocando per la prima volta tutto
l'episcopato del mondo, ma che non si arresta
ferma
ai suoi problemi interni. La Chiesa vVuole, al
contrario,
considerare i suo rapporto con il "mondo", mondo inteso come storia e come
cultura, come società civile e come ricerca di senso da parte dell'uomo. A
questo riguardo, per la prima volta, insieme con gli enunciamenti dottrinali che
indicano questo nuovo approccio e che sono anch'essi indispensabili per la vita della Chiesa, fanno ingresso nei
suoi documenti ufficiali le gioie e le speranze degli uomini, insieme con le
loro tristezze e le loro angosce. La conseguenza è che non potrà mai capire il
Concilio nella sua interezza e in questo suo afflato verso l'umano chi ha il
cuore lontano da quei problemi e da quegli aneliti di speranza. Se, ricordando
l'insegnamento di Agostino, diremo che solo attraverso l’amore si può
conoscere veramente, sarà anche evidente che non potrà mai capire il Concilio
non solo chi di
fatto non lo
ama o non lo ha mai amato
veramente, ma neanche chi non ama l’uomo, gli uomini e il loro
futuro. In tale amore per gli uomini la costituzione pastorale Gaudium et spes mette al primo posto la
predilezione dei per i poveri e di per coloro che
soffrono[8].
Il dialogo non è che l'espressione in termini dottrinali di
questo approccio complessivamente evangelico e fondato nello stesso
Vangelo, con l'utilizzo di un vocabolo, quello appunto del dia-logo (parola
attraverso), non certo molto adoperato
nel linguaggio tradizionale secolare del Magistero, anche perché
rimanda a una sorta di parità
originaria, senz'altro ostica a chi si pone già in partenza in atteggiamento
"magisteriale" in quanto tale. Il Vaticano II lo menziona il dialogo
esplicitamente, collegandolo ai gra
ndi temi della dignità dell'uomo, del lavoro e della stessa
comunità civile[9].
In seno alla società, dice ancora il concilio, il dialogo dovrà
essere rispettoso non solo dell'opinione altrui, ma anche di quella parte di
verità che si può trovare dappertutto anche nei non cristiani[10].
Il dialogo è di conseguenza applicato ai diversi ambiti della vita, da quella
quello culturale, a quella quello lavorativa, da quello nazionale
fino ad arrivare ai rapporti internazionali. In questo contesto, si parla di una
formazione tale da «istillare quel senso universale che tanto conviene ai
cattolici, e a formare la coscienza di una veramente universale solidarietà e
responsabilità»[11].
All'interno della Chiesa si esige ugualmente rispetto e ricerca della concordia,
«riconoscendo ogni legittima diversità per stabilire un dialogo sempre più
profondo fra tutti coloro che formano l'unico popolo di Dio, cioè tra i pastori
e gli altri fedeli cristiani»[12].
Il motivo è menzionato nel principio che asserisce: «Sono più forti infatti le cose
che uniscono i fedeli che quelle che li dividono» (ivi); con la ripresa di una
formulazione che non ha perso affatto la sua validità e che recita: «Ci sia
unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità». A
rifletterci bene, se queste direttive di principio
fossero state coerentemente applicate, avrebbero certamente evitato
casi spiacevoli di allontanamenti, censure e punizioni verso alcuni
"dissidenti". Si tratta di casi non infrequenti dalla chiusura del concilio ad
oggi e che sono stati giustificati talora con la motivazione una valutazione
affrettata del mantenimento dell'i unità in
cose necessarie, quando a molti è sembrato che si trattasse piuttosto di cose dubbie. Quanto alla carità, che
comunque avrebbe dovuto essere in tutto, la stessa carità obbliga a dire che in
non pochi casi così non è stato.
Accennando a questa verifica di ordine storico e che
noi, per ragioni di tempo e di taglio, non possiamo documentare, anche perché
ciò è previsto per altri contributi, si solleva la domanda sul perché di tale prassi elusiva dell'afflato e del
dettato del Vaticano II. A noi sembra che spesso il motivo sia talora da
ricercare in una eccessivamente enfatizzata custodia della Verità e della
disciplina ecclesiastica, tal altra - come vedremo - a motivo dello scivolamento
dal piano del servizio dell'unità all'esercizio di un vero e proprio potere
mondano, che più che dialogare con il dissidente, trova più efficace e rapido il
metodo di metterlo definitivamente a tacere.
Intanto, per restare nel tema specifico del
dialogo tematizzato dalla Gaudium et
Spes, ma che assume il ruolo di una presentazione abbastanza
rappresentativa dell'intero concilio, troviamo quella prima indicazione di un
dialogo strutturato per cerchi concentrici, tipica dell'Ecclesiam suam di Paolo VI. È scritto ancora nella Gaudium et
spes(Ecclesiam
suam): «Il desiderio di stabilire un
dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con l'opportuna
prudenza da parte nostra, non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di
alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora la sorgente, né coloro che
si oppongono alla chiesa e la perseguitano in diverse maniere. Essendo Dio Padre
principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. E perciò,
chiamati a questa stessa vocazione umana e divina, senza violenza e senza
inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella
vera pace»[13].
Proprio Ll'Ecclesiam
suam presenta sul dialogo un’impostazione teologica che
valorizza l’interlocutore e il suo contesto, invogliando a un linguaggio
comprensibile e appropriato, per dare buona testimonianza di Cristo. Nulla è
precluso sicché l’enciclica disegna cerchi concentrici, di dialogo, «da tutto
ciò che è umano», ai «credenti in Dio», ai «cristiani fratelli separati«, fino
ad arrivare all’«interno della chiesa cattolica». Gli ambiti toccati sono
molteplici, corrispondono ai cerchi concentrici di diversa appartenenza alla
Chiesa , come
sono rriportati nella costituzione sulla Chiesa Lumen gentium[14].
Certamente una presentazione simile
sarebbe da considerare nei suoi vari passaggi, contestualmente ai diversi modelli
ecclesiologi, che ne restano interessati e dai quali la
sua interpretazione viene ad essere interpretatainfluenzata[15].
I grandi cerchi concentrici dei soggetti del dialogo (non credenti - non
cristiani - non cattolici) e che tuttavia sollecitano
la Chiesa al dialogo sono rinvenibili in quei tre segretariati
(oggi pontifici consigli)
appositamente istituiti a tale scopo. Anch'essi testimoniano la percezione di un unico
dinamismo costituito dal binomio fondamentale parola-ascolto,
ma che diventa ben presto più complesso, del tipo proposta-risposta-nuova
proposta-nuova
risposta.
Possiamo asserire che si tratta in definitiva del dinamismo
salvifico
che innerva la storia umana, ma che nella sua struttura originaria di parola
condivisa, richiama alla stessa realtà unitrinitaria di
Dio.
In Dio, infatti, la Parola, il Logos, è fin dalle origini, cioè da quelle
origini eterne che non sono un dato cronologico, ma piuttosto una realtà
sempre originaria e sempre sorgiva. In Dio, unità di vita piena e
di amore inarrestabile, l'amore racconta da sempre se stesso: è sempre
nuovo è sempre il medesimo. Sempre il medesimo, quanto alla sua intensità
insuperabile; sempre nuovo, quanto alla freschezza con la quale si perpetua. Essendo la
relazione costitutiva della realtà
divina unitrinitaria, non si può fare altro che confessare con Giovanni l'evangelista
che la Parola primordiale era eternamente, sicché «Non spetta a noi
giudicare il lavoro da essi svolto in questi anni. Del resto, almeno a livello
ufficiale, convegni, simposi, produzioni di documenti comuni sono segni concreti
di un impegno che nessuno può negare. Non sfugge però a molti che il dialogo
talora va avanti a fatica e in certi punti segna anche il passo. Non sarebbe
giusto ritenere che le lacune stiano tutte da una sola parte. Dialogo è anche e
soprattutto ricerca della verità, a comuciaren dalle condizioni Chiedendoci con intento costruttivo
perché ciò accada, converrà
In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il
Logos era Dio. Egli era in
principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui
niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,1-3). Ma considerando proprio tale Logos
come Logos
attraverso (dia) cui ogni cosa è fatta e attraverso il
quale la stessa vita divina eternamente germoglia e si esprime, non ci sembra azzardato concludere
che in principio era appunto il Dia-Logos.
Questo
stesso Dialogo originario e permanente, che pure ha conosciuto il dramma
dell'incarnazione, del rifiuto umano e della glorificazione, è origine, ambiente
vitale e meta del popolo di Dio. È pertanto fondamento di un dialogo
che la
Chiesa ha da condurre come annuncio ed ascolto, proposta e risposta,
come incarnazione tra gli uomini e loro liberazione. Si sollevano qui due
interrogativi fondamentali. Il primo interessa principalmente la nostra fede
cristiana:
se la Chiesa nasce e vive in questa realtà di dialogo teologale come mai il dialogo è difficile,
arduo e
talora addirittura
manchevole?
Il secondo è più generale, ma - come vedremo - è collegato al
primo: se tutte le religioni adorano, contemplano e
ascoltano la
realtà sempre dialogante di Dio, come mai talora diventano assolutiste, oppressive, fino ad
esigere (cf.
il fondamentalismo) la soppressione del diverso?
Le due domande sono più
intrecciate di quanto non sembri a prima vista. In sintesi e in forma di tesi,
con una formulazione che vuole stimolare la riflessione più che provocare
gratuitamente, diremo che se la religione rischia talora di diventare oppressione per l'uomo, la Chiesa
rischia
talvolta di diventare luogo del monologo e del conformismo.
Ma
cominciamo dalla religione. Se la religione è l'apertura dell'uomo alla sua
Trascendenza[16], non è detto che
l'uomo, e soprattutto l'istituzione che media tale
rapporto, si mantengano sempre sufficientemente aperti e recettivi verso la Trascendenza stessa. Giacché
è costituita da uomini, la
religione può ancora riferirsi alla
Trascendenza, anche senza ascoltare le ragioni della Trascendenza. Può inquinare
il suo senso dell'Assoluto con interessi materiali di vario genere e, se
conferisce
un potere, può
giustificarlo attraverso l'Assoluto, fino a farne un potere
assoluto. Si rende pertanto
indispensabile per la religione purificarsi continuamente. Facendo così, metterà
in discussione le sue interpretazioni dell'Assoluto, diventerà più umile e sarà
anche più amica dell'uomo.
3.
Dimensione unitrinitaria del dialogo
2.1.
Solo la religione che purifica continuamente se stessa resta amica
dell'uomo
In sintesi, lLa
religione nasce,
per sua stessa natura, costitutivamente tendente alla
Trascendenza, con una tendenza ad autosuperarsi, eppure si dimostra ben
prestospesso ammalata. Ciò significa per noi non
un'ideologica credenza in una bontà innata o in una primordiale "età dell'oro",
ma la
constatazione di una religiosità che si manifesta ambiguamente, per come è
ambiguo l'uomo stesso. Infatti i s
Sacrifici, il sacerdozio,
il servizio
a Dio, quando non tendono a (re)inserire l'uomo in un processo armonioso di vita
relazionale sul
piano orizzontale e di vita relazionale e dialogante con
l'Assoluto, risentono di strutture sociali compromesse. Sono proprio
Qqueste a compromettereono la
religione e non viceversa. L'Assoluto è preso a pretesto per l'assolutismo. Il
sacrificio diventa pretendere la libertà altrui e la vita altrui, senza
motivazioni reali, ma ideologiche. L'oOppressione e la divisione
diventano così i
frutti amari
e snaturati o di una distorta
concezione religiosa che è distorta.
Le stesse norme stesse
etiche possono (e devono) restare nell'ambito dell'atteggiamento
amichevole e
dialogante di Dio per l'uomo, altrimenti diventano fardelli che se gli interpreti
stessi delle religioni non vogliono muovere nemmeno con un dito[18],
anzi sono caricate sulle spalle degli altri. In questa
maniera si sovverteono la volontà salvifica di Dio,
rendendo l'uomo schiavo della legge di Dio e non piuttosto suo partner ed alleato per
conseguire la
propria felicità. Allora succede che l'uomo è pensato
ritenutocome fatto
per la legge e non piuttosto il contrario: per cui la legge è fatta per l'uomo[19].
Le conseguenze sono che d2.2. L'equivoco
religioso che porta alla divisione e all'eliminazione del
diverso
Da una religione oppressiva si arriva
facilmente/fatalmente alla divisione tra gli
uomini e tra
le
stesse religioni. Dal "Dio violento", che si ritiene voglia
l'annientamento dell'uomo, si passa alla
società violenta e conflittuale. Sul livello dei rapporti sociali, abolito il dialogo
come valore ultimo di riferimento e di ricerca di una verità sempre più alta, si
arriva
attr
averso Il Dio assolutista -
ideologicamente strumentale - porta a vedere il nemico non solo in chi non si
assoggetta servilmente alla legge, ma anche in chi è diverso da
sé.
l'ideologia del Dio assolutista a vedere il nemico non solo in chi non si
assoggetta servilmente alla legge, ma anche in chi è diverso da sé. Ne può seguire una
Si arriva alla triplice
esemplificazione,
- spaventosa per i suoi
effetti: a) «il nemico del rappresentante di Dio
(clero, casta sacrale, casta magisteriale ecc.) è nemico di Dio»; b) il nemico di Dio è nemico del
popolo (deve essere eliminato dalla comunità); c) i nemici del proprio popolo
sono nemici di Dio (devono essere ugualmente eliminati).
Se questo può
succedere e talora è avvenuto nelle religioni in genere, come nella storia del
cristianesimo, non si può però dimenticare la risorsa che le
religioni hanno per ripristinare il richiamo autentico della Trascendenza e
della conseguente conversione dell'uomo. Si tratta della profezia e di
tutto ciò che si esprime come critica religiosa non distruttiva, ma protettiva della stessa Trascendenza. Proprio la profezia e la
critica religiosa in genere sono da valorizzare da parte delle religioni per
preservare la loro purezza e il loro più intimo richiamo all'Assoluto.
Certamente ci possono essere anche richiami pseudo-profetici al fondamentalismo.
Come si fa a
distinguerli da quelli autentici
dei quali si serve lo Spirito di Dio per richiamare gli uomini con l'azione
misteriosa della sua Grazia? Si può
rispondere che proprio per questo pericolo di fanatismo, la critica religiosa
non deve mai mancare, una critica che sia rispettosa della Trascendenza, ma
anche dell'uomo. In questa maniera però si evince
l'importanza di un dialogo che, condotto da più parti, e badando a queste
priorità, può effettivamente ricondurre ogni forma
religiosa a ciò che originariamente essa è non solo tra gli uomini (parola dialogata oltre che
pregata) ma anche tra l'uomo e Dio (dialogo, come offerta di salvezza e
risposta di amore da parte
dell'uomo).
Che
centra la Chiesa in tutto questo? Centra nella misura in cui anch'essa, pur
appartenendo, secondo la fede di noi cattolici,
a una particolare forma storica di rivelazione, non è aliena dai meccanismi religiosi di
impossessamento del sacro, dalle tentazioni di forme molteplici
di
centralismo, assolutismo e di ricadute nel
monologo.
La presenza
dello Spirito del Risorto in essa, garantita tutti i giorni fino alla fine del mondo (Mt 28,20), assicura la parte svolta da Dio, ma non
garantisce (né può farlo) la conversione e la fede degli uomini che vi
appartengono. Al punto che Gesù stesso si è chiesto: «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla
terra?» (Lc
18,8b).
Lasciando agli altri
contributi, pensati specificamente a questo, la verifica di ordine
storico sulla pratica del dialogo della Chiesa con il mondo
moderno, dal Vaticano II ad oggi,
a noi sembra di poter indicare
soprattutto qualche causa che ha fatto indietreggiare o almeno arrestare il
dialogo in alcuni campi. Una di esse è una eccessivamente enfatizzata custodia della Verità
e della disciplina ecclesiastica, scivolando dal piano del servizio dell'unità all'esercizio di
un vero e proprio potere centralista, che più che dialogare con il dissidente, ha trovato più efficace e rapido
il metodo di metterlo definitivamente a tacere.
Come dicevano, anche la Chiesa non sfugge
alla tentazione di badare più all'efficienza che al dialogo, più al mantenimento
dello status quo,
che
all'esplorazione di vie nuove ed
inedite, che la facciano confrontare con i bisogni e le
speranze dell'umanità. Sia con gli uomini in genere che con i
rappresentanti delle altre religioni
è più
facile riaffermare le proprie convinzioni (che del resto non devono essere
azzerate) che cercare di cogliere gli aspetti problematici emergenti dalle tante e
sempre più acceleratamente mutevoli situazioni storiche-sociali. Nei casi dubbi o
comunque complessi e non sufficientemente lumeggiati, la serena confessione di una non
raggiunta maturazione dottrinale e disciplinare sarebbe di gran lunga
preferibile e certamente più proficua dell'affermazione ossessiva di alcuni principi. Non che essi non
valgano più o siano da relativizzare. Non sempre però si può
essere certi fino a che punto e con quale dovere di obbligatorietà essi tocchino
la realtà storica delle cose. Solo per portare un esempio: se fino a un decennio fa non
pochi ecclesiastici ricavano da insindacabili principi etici una conseguenza
obbligante anche in coscienza per un voto partitico
specifico,
oggi finalmente si è capito (ma con quali costi?) che se i principi erano giusti, non
erano così automatiche le applicazioni storiche, il cui giudizio passa per
diversi gradi di opinabilità. Lo stesso è avvenuto in non pochi campi delle
scienze, dove dall'affermazione sempre valida
della
veridicità della Parola di Dio si è passati alla condanna di teorie
scientifiche, letterarie ed ermeneutiche che si riteneva la
contraddicessero nella forma o nella sostanza.
Se la storia ci insegna
qualcosa e se davvero non si vuole già adesso accumulare materia per chiedere
perdono delle colpe della Chiesa in un futuro più o meno prossimo, certamente
costituirebbero un gran guadagno sul piano del dialogo maggiore cautela, più simpatia per gli
uomini, inclusi quelli che sbagliano, meno centralismo e
soprattutto il ridimensionamento di quella certezza che la Chiesa possieda fin da ora non solo la verità, ma
anche la risposta a tutte le domande. Occorre ribaltare più correttamente la posizione da quella di chi
pensa di
possedere la verità (del resto impossedibile da parte di
uomini, perché confina con
Dio stesso) a quella di chi è posseduto, nel senso che è sempre
illuminato e guidato, dalla verità stessa.
È vero, non sarebbe giusto ritenere che le lacune stiano
tutte da una sola parte, né solo dalla parte della Chiesa, non dobbiamo
però dimenticare che essendo il dialogo il frutto e l'espressione dell'amore,
quanto più impareremo a praticarlo, tanto più ne saremo i suoi testimoni credibili.
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come
ecumene. Il significato antropologico e teologico
dell'etica comunicativa, Queriniana, Brescia 1991;
L. Sartori, L'unità della chiesa - Un dibattito e un
progetto. Queriniana, Brescia 1989;
G. MAZZILLO, La teologia come prassi di pace, La
Meridiana, Molfetta (BA) 1988;
L. BOFF, Chiesa: carisma e potere. Saggio di
ecclesiologia militante, Borla, Roma 1983;
L. SARTORI, «Il
dialogo, metodo della Chiesa del Vaticano II », in Credereoggi
3 (1983/1) 59-72.
Per
costruire la pace all'interno della singola religione e tra persone diverse,
occorre superare la situazione di concorrenza e di lotta tra le religioni
mettendo al centro non più la propria religione ma Dio, anche colto come
Trascendenza o in qualsiasi altra forma[20]. In
ogni caso, come fonte di amicizia e non di inimicizia tra gli esseri umani. Si può (si deve) superare l'assolutismo
e il clericalismo come autoreferenti recuperando la Trascendenza come valore
unico e che li possa mettere in crisi e quindi ricondurli al loro valore di
servizio e di mediazione.
La
Pax
Christi muove dalla pace come valore universale e
fondamentale. L'appartenenza a Cristo non è campanilistica, ma motivazione
ulteriore nel perseguimento della pace come obiettivo comune a tutte le
religioni, anzi a tutti gli uomini e popoli.
C'è
un valore primario dell'Assoluto anche nella pax
Christi. Si tratta di quell'Assoluto creduto cristianamente come Dio in
quanto Comunione di Diversi e
rivelato nelle Scritture, nella storia e nell'esperienza degli Ebrei fino a
Cristo e ai suoi apostoli. Il suo valore primario fa superare gli schieramenti
anche ecclesiali/ecclesiastici, mettendo al primo posto la ricerca della pace
come valore superiore ed irrinunciabile. È testimoniato dalle origini di un
movimento che nasce come richiesta di preghiera (per la pace nel mondo) e di
perdono (per la guerra in atto)[21]. La
preghiera è una delle componenti strutturali (insieme allo studio e all'azione
per la pace) della Pax
Christi. Non dovrà mai venir meno, perché davanti al Dio
"Comunione e Pace" non c'è altro modo di testimoniarlo se non con la preghiera
che è adorazione - ascolto - risposta. La contemplazione può essere anche
contemplazione dell'Assoluto della Pace (assumendo così denominazioni meno
confessionali e più fluide, ma non vagamente generiche). Certamente sottolinea
la pace come valore primario,
superiore quindi ad ogni altro, nel senso che non può essere ignorato o posposto
(almeno come intento reale e non strumentale) ad ogni altro, tanto di natura
civile (territorio, cultura, patria e simili) che di natura religiosa ed
ecclesiastica (propria appartenenza religiosa, propria confessione, prestigio della
propria Chiesa).
La
contemplazione del Dio della Pace o dell'Assoluto della pace è affiancata dal
lavoro di informazione, documentazione, ideazione per realizzarla. Porta
all'impegno ed è sorretto da questo. Tale impegno nasce dalla convinzione che
Dio ha agito e agisce oggi nella storia per la pace di tutto l'uomo (l'uomo
nelle sue varie dimensioni), per la pace degli esseri umani a vari livelli
(sessuale, familiare, politico), per la pace tra le religioni e le Chiese.
Proprio queste se sono fedeli all'Assoluto (dal quale discendono e sempre
dipendono) non possono non
perseguirla nei vari livelli accennati.
L'ecumenismo è nato originariamente come movimento
di riconciliazione tra le Chiese. Riguarda il dialogo tra le confessioni
cristiane (cattolici, protestanti di varie denominazioni, ortodossi ecc.).
Ha
dietro di sé una storia complessa, con nomi, associazioni ed istituzioni varie.
Sorto
tra le Chiese riformate (cf. Conferenza delle Società missionarie di
Edimburgo - 1910) coinvolge prima
le Chiese ortodosse e poi quella cattolica. Di riferimento basilare sono il
Consiglio ecumenico delle Chiese (cf. Assemblea generale di Amsterdam del
1948) e il concilio ecumenico
Vaticano Il (1962 al 1965), in particolare il decreto sull’ecumenismo
Unitatis redintegratio
e Nostra
aetate, la dichiarazione sulle religioni non cristiane).
Sono tappe di un movimento di autocomprensione, e pertanto di conversione,
riconoscendo come un danno e una colpa per tutti l'essere divisi
(seiuncti)[22].
Il
movimento contrario alla divisione è quello verso la riconciliazione, alla luce
del vangelo e nell'ottica del bisogno continuo a rivedere ciascuno le proprie
posizioni.
Se il
dialogo interreligioso, cui abbiamo accennato, ha prodotto molteplici incontri,
(da Assisi 1986), l'ecumenismo ha tra le sue ultime tappe fondamentali
l’assemblea di Basilea (maggio 1989) sull'ormai famoso "processo conciliare"
Pace giustizia e
salvaguardia del creato; l’Assemblea di Graz
sul tema Riconciliazione dono di Dio e sorgente di vita nuova
(giugno 1997) e l’Assemblea ecumenica mondiale, che
riprendeva il tema del processo
«giustizia, pace, creato» (Seoul, marzo 1990).
Tra
le assemblee generali del Consiglio ecumenico delle Chiese, ricordiamo la VI di
Vancouver (1983) e la VII di Canberra (1991), dove - tra l'altro - è emersa la
volontà e la fatica di ritrovare l'unità partendo dalla considerazione che se
talora religioni e Chiese sono state più strumenti di dominio che di dialogo e
di pace, occorre ritornare alla pace come punto finale ed iniziale
dell'ecumenismo.
In
quest'ottica sono da ricordare le encicliche L'Ut Unum
sint, di Giovanni Paolo II, del 1995, che solleva anche il problema
di come realizzare una forma di
unità anche istituzionale tra le Chiese e i due più recenti testi, che, più che
dottrinali, sono eventi di effettivo cammino in avanti: la Dichiarazione
congiunta sulla dottrina della
giustificazione tra la federazione luterana
mondiale e la Chiesa cattolica¸dell'ottobre 1999 e il
più recente documento
"La Chiesa e le colpe
del passato" della Commissione Teologica Internazionale, che pur con i suoi
distinquo su giudizio teologico e giudizio storico, asseconda la prassi
dell'attuale Papa di rivedere comportamenti e atti storici, quelli che
certamente non hanno visto la Chiesa essere dalla parte della tolleranza e del
rispetto del diverso e della pace evangelica.
Su
questi ultimi punti, occorre ricordare che essi sono parte integrante della
formazione all'ecumenismo, come rispetto innanzi tutto della verità. Proprio la
verità, anche se scomoda, è sempre da preferire alla reticenza e alle
autogiustificazioni apologetiche.
Insieme con il rispetto dell'Assoluto in quanto
tale, l'ecumenismo non significa una sorta di azzeramento delle diversità, ma
piuttosto un riandare a ciò che è l'essenza di ogni fede ecclesiale e persino
religiosa in senso più generale.
Ciò
significa anche educare al riconoscimento di Dio e all'azione del suo Spirito in
ogni parte del mondo, sapendo che egli «non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e
pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10,
33-34).
Si
parla anche di "educare alla complessità", anche se in controtendenza
verso messaggi che sono
parziali, superficiali e schematici in una società che offre tanto e appiattisce
le coscienze, livellandole al punto più basso.
[1] M. BUBER, Ich und Du, Heidelberg 198311, 22.
[2]
La voce «personalismo», che si fa risalire a Schleiermacher e fu usata
successivamente in funzione polemica contro il monismo idealista, fu consacrata
dall’opera del francese C. Renouvier espressamente sul personalismo, nel 1903. La stessa voce
fa riferimento ai filosofi francesi e a P. Freire in Dizionario di filosofia contemporanea,
Cittadella, Assisi 1979, 420-422. Qui si tTralascia, però, quasi del tutto
la filosofia del dialogo di lingua tedesca.
[3] Cf., ad esempio, «Personalismo», in A. DARLAP - K. RAHNER (edd.) Sacramentum Mundi . Dizionario di teologia, Morcelliana, Brescia 1974, 357-366. Tra gli autori sono spesso menzionati M. Buber, F. Ebner, F. Rosenzweig in Germania e G. Marcel in Francia. Quest’ultimo scopre e sviluppa il principio dialogico nel suo Journal métaphisique (1918), mentre la riflessione tedesca si caratterizza prevalentemente come reazione all’idealismo. In campo più teologico, il personalismo si affermò, in ambito cattolico, grazie ad autori come T. Steinbüchel e R. Guardini e, in ambito protestante, per merito di teologi come E. Brunner e F. Gogarten.
[4] Buber indicava il suo modo di pensare, la nuova logica, e quindi anche il suo pensiero, con il termine dialogica. Così informa Theunissen che, per altro, presenta gli autori tedeschi che accettano il principio dialogico sotto il nome di dialogismo (Cf. M. THEUNISSEN, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, Walter de Gruyter & C., Berlin 1965, 243-244).
[5] Das neue Denken è il titolo di un testo di H. Herringel (1928) e di un saggio di F. Rosenzweig.
[6] Con questo titolo sono stati anche pubblicati in Italia alcuni testi di M. Buber, che del personalismo tedesco è uno dei maggiori rappresentanti: M. BUBER, Il principio dialogico, Comunità, Milano 1959. Nel 1954 lo stesso Buber aveva pubblicato in Germania Schriften über das dialogische Prinzip.
[7]
Cf., ad esempio,
R. GIBELLINI, La teologia del xx secolo, Queriniana,
Brescia 1992; ma anche P. VANZAN - J. SCHULTZ (a cura di),
Mysterium Salutis 12. Lessico dei teologi del secolo XX, Queriniana,
Brescia 1978.
[8] L'apertura di questo testo fondamentale non lascia adito a dubbi: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (Gaudium et spes, [abbr. GS] 1: EV 1/1319). Si tratta di una solidarietà che fa avvertire alla Chiesa la corresponsabilità verso l'umano: ciò che è autenticamente umano sta a cuore anche ai discepoli del Signore, sicché «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (ivi).
[9] GS, n. 40 sulla "Mutua relazione tra chiesa e mondo": «Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo dell'attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro» (EV 1/1442).
[10] «Tuttavia altri fedeli, altrettanto sinceramente, come succede abbastanza spesso e legittimamente, potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione. E se le soluzioni proposte da un lato o dall'altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della chiesa. Invece cerchino sempre di illuminarsi vicendevolmente attraverso il dialogo sincero, mantenendo sempre la mutua carità e avendo cura in primo luogo del bene comune» (GS, 43: EV 1/1456 ).
[11] GS, 90: EV 1/1633.
[12] GS, 92: EV 1/1639.
[13] GS, 92: EV 1/1642.
[14] Cf. i numeri
che vanno
dal n.
13 (EV
1/318) al n. 16 (EV
1/326).
[15] Non potendo sviluppare
quest'aspetto, pur importante, del tema, ci permettiamo di
rimandare a
G.
MAZZILLO, «Modelli
ecclesiologici dal contesto», in Vivarium [Rivista teologica
dell'Istituto Teologico Calabro di Catanzaro] 2 ns (1994)
195-214.
[16] Per un approfondimento e una discussione previa sul valore della religione, rimandiamo oltre che a G. MAZZILLO, «Sulla definibilità delle religione», in Rassegna di Teologia 38 (1997) pp. 347-362, ad ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Cristianesimo, religione, religioni. Unità e pluralismo dell'esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, (a cura di M. Aliotta), San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 259-265.
[17] Sono i
momenti densi della presenza della grazia, le occasioni nelle quali occorre
intercettare il passaggio di Dio. A. Rizzi ne parla nella seconda parte del suo
libro L’Europa...,
cit.
[18] Cf. Lc 11, 45-48:
<<Uno dei dottori della legge intervenne: «Maestro, dicendo questo,
offendi anche noi». Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della legge, che
caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate
nemmeno con un dito! Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i
vostri padri li hanno uccisi. Così voi date testimonianza e approvazione alle
opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite loro i
sepolcri>>.
[19] Cf. Mc 2,27: <<E
(Gesù) diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il
sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del
sabato»>>.
[20] C'è da fare
un'annotazione sul concetto/non-concetto di Dio nel Buddhismo. A riguardo, cf.
quanto scritto in H. Bechert,
«Prospettive buddhistiche», in H. Küng - J,
van Ess - H. Von Stietencron - H. Bechert, Cristianesimo e
religioni universali, Mondadori 1986,
345-361. Vi si trova tra l’altro l’affermazione che il problema di Dio non è per
il buddhista un tema su cui discutere. Costretti ad esprimersi sull’argomento
dal governo islamico indonesiano, i buddhisti di quella nazione diedero risposte
diversificate, dicendo che Dio per alcuni è il Nirvana, ciò che non si può
descrivere se non dicendo che cosa non è, oppure il totalmente Altro o il
Trascendente. Altri, riprendendo l’idea dell’Adibuddha, ritennero di poter
parlare di Dio come Buddha originario, dal quale
tutti gli altri sarebbero derivati, o anche come Shunyata, cioè «Vuoto» (cf.
ivi, 360).
[21] Si veda a riguardo la
storia delle origini del movimento ecclesiale Pax
Christi, sorto come preghiera pensata e organizzata per la
pace da parte della Signora Dortel Claudot e come nuovo orientamento spirituale
ed ecclesiale da parte di Mons. Théas, maturato nel suo internamento in un lager
tedesco, per la sua presa di posizione a fravore degli Ebrei. Cf. A.
Dell'olio,
«Pax Chisti»,
in L.
Lorenzetti (a cura di)
Dizionario di teologia
della pace, Dehoniane, Bologna 1997,
503-504.
[22] Cf. Y. Congar,
Chrétiens
désunis.