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Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Solo la Dialogo e ascolto come elementi di congiunzione e di disgiunzione tra chiese e culture.Chiesa che dialoga testimonia credibilmente l'amore    
[pubblicato come
"Solo la chiesa che dialoga testimonia credibilmente l'amore", in CredereOggi 20 (2000) 69-82]

            (Giovanni  Mazzillo)

 

In una chiesa, che vuole essere fedele al messaggio ricevuto da Cristo e vuole trasmetterlo senza deformazioni, ma in modo adeguato alla cultura dei recettori, quali sono le regole per una corretta comunicazione? Oggi la chiesa riesce a comunicare con/nella cultura?

1.      Note introduttive sul dialogo

A partire dal Vaticano II, iIl dialogo è certamente uno dei termini più significativamente espressivi del mutato atteggiamento tra chiesa e mondo a partire dal Vaticano II. Esso implica l'ascolto vicendevole, in quanto rispetto reciproco e disposizione fondamentale ad accettare sia la dignità della persona dell'altro, che il valore di quanto ha da dire l'altro e dal quale si può e si deve imparare. Parlare del dialogo in questi termini ne implica per noi due livelli di considerazione: quello tematico, relativamente a come esso emerge dai documenti e dai testi ecclesialmente autorevoli, nei quali compare e quello pratico,  che altro non è che una verifica del primo, relativamente alle modalità storiche con le quali è (o non è)  realizzato sul piano storico ed effettuale.  Sul piano teologico, tuttavia, il tema del dialogo tira in gioco qualcosa di più. Giacché esso ha a che fare con un agire particolare che il popolo di Dio non può che apprendere dall'agire quello di Dio e del suo Figlio Gesù, chi affronta il tema del dialogo si trova ben presto a navigare nei pressi di ciò che che gli dà origine e cosistenzaconsistenza. Si sente come trascinato verso dalla sua corrente verso la sua foce, che ne è anche paradossalemente la sorgente: l'amore, che  del dialogo è appunto causa prima e finalità fondamentale.

Non è questa la sede per approfondire adeguatamente - per come l'argomento meriterebbe - l'intimo, inscindibile rapporto tra dialogo e amore. Converrà tuttavia farvi almeno un breve riferimentoesaminarne, come si dire,  qualche area di saggio, perché dall'allentamento o intensificazione di questo rapporto dipende anche la validità della stessa prassi del dialogo. Proprio il dialogo non è oppure è è teologicamente  tale oppure è vero dialogo, a seconda che strumentalmente venga considerato una sorta di mezzo cosmetico con il quale la chiesa voglia rendersi più presentabile oppure è sia ritenuto l'unico vero linguaggio che esso continuamente impara dal suo Dio e suo Signore, che è anche il suo Amico e il suo Sposo. In questo senso il dialogo, come ascolto e come proposta, che interagisce con la disponibilità dell'altro, è: il linguaggio dell'amore. Insomma, se il dialogo è veramente tale non solo nasce dall'amore e tende continuamente ad esso, ma si esprime anche  nel linguaggio dell'amore: un linguaggio che esprime interessamento, solidarietà, comprensione, umiltà, vicinanza, compagnia, responsabilità. Se, per dirla con M. Buber «Amore è responsabilità di un io per un Tu»[1], il dialogo esprime questa coinvolgente responsabilità, che non tarda a manifestare i suoi frutti. Essi non sono solo  quelli che nascono dall’esperienza dell’incontro e che lo stesso teologo del dialogo, riprendendoli dall'agire di Gesù,  indica nell'«aiutare; educare; guarire; elevare; redimere».  Ma non si tratta solo di ciò. Questi stessi Essi frutti stessi nascono e vivono in quell'esperienza dell'amore di Dio che coinvolge e trascina. In sintesi: chi ama veramente Dio non può non amare anche gli altri e quindi non dialogare con loro; ma  anche - e soprattutto - chi si sente veramente amato da lui e sperimenta il Suo agire amorevole verso tutte le creature e verso ogni uomo, non può non assecondare il dialogo come linguaggio dell'amore e dell'incontro, come della scoperta e della valorizzazione di quanto di buono c'è nell'altro. In questa maniera, l'agire di Dio diventa criterio e norma dell'agire del credente e, per ciò che riguarda la Chiesa, è anche criterio della sua Comunità che è la Chiesa in un duplice senso: nel senso primario di una doverosa conformazione di questa all'agire di Dio  quella e nel senso che la mancanza di una coerente prassi di dialogo come prassi di amore della chiesa Chiesa denota il suo effettivo allontanamento dall'autentica esperienza di Dio. Anche la Chiesa può essere allettata più dall'efficienza di un uniformismo formale che dalla fertilità di uno scambio pluralista  e più faticoso; può subire il fascino della concetrazione del carisma in uno o  pochissimi soggetti, sì da perdere di vista la compresenza molteplice e variegata dello Spirito del Risorto in tutto il popolo di Dio. Peggio ancora, può assecondare la tentazione del clericalismo, ricorrente in ogni forma religiosa che si conosca. Individuare queste dinamiche, saperle superare con l'umiltà di chi sa che, oltre ad annunciare il Vangelo agli altri, deve rimettere continuamente in discussione se stesso, riprendere a praticare un dialogo sereno, che persegua "la Verità tutta intera" senza la pretesa di  possederla in anticipo e di doverla imporre agli altri, tutto questo non è solo l'auspicio di ogni uomo amante del dialogo, ma anche la concreta possibilità che lo Spirito di Dio offre oggi, come sempre, alla sua Chiesa.

 

In queste brevi note introduttive sono apparsi già i punti principali toccati dal presente  contributo. Dopo un doveroso accenno a coloro che, nel campo della  si sono occupati in maniera più specifica del dialogo  e delle sue radici, tenteremo un piccolo, ma speriamo sufficientemente profondo, scavo teologico nella dimensione ecclesiale, fino a quella unitrinitaria che sorregge i del dialogo stessodella Chiesa, per considerare, in un passo successivo, la conseguente ortoprassi o l'eteroprassi ecclesiale, in rapporto ai suoi modelli teologici ispiratori e nel tentativo di offrire qualche criterio che consentano  l'individuazione e il superamento di modelli sempre risorgenti, di carattere paternalistico-sacrale,  per una prassi di dialogo basato sull'agire e l'esprimersi di Gesù.

2. Persona, personalismo  e dialogo

La corrente di pensiero che intorno alla metà del secolo scorso si è occupata esplicitamente del dialogo è ad un tempo un coacervo di riflessione ed esperienza. Esprime modalità riflessive filosofiche e teologiche, ma coinvolge anche la sociologia e la psicologia. Spesso è indicata con il nome di personalismo dialogico, data l’importanza che essa attribuisce della persona come incrocio continuo e insopprimibile di relazioni e di rapporti comunicativi. Sebbene secondo alcuni commentatori, il personalismo debba riferirsi esclusivamente a particolari pensatori che si sono occupati desul valore della persona come valore assoluto e imprescindibile[2], noi riteniamo che proprio la persona non possa sussistere senza il suo imprescindibilel'insopprimibile valore della relazione. Di conseguenza, non ci può essere un personalismo che non sia anche relazionale, comunicativo e quindi dialogico. Quanti parlano di personalismo dialogico ne individuano sovente l'originario bacino di riflessione in Francia, da dove esso si sarebbe diffuso altrove. Altri invece, ci sembra più opportunamente, vi includono fin dall'inizio coloro che, con Buber in testa, attribuiscono  all’elemento dialogico, come primaria e costitutiva relazione di un io con un tu, l’elemento determinante dell’essere umano[3]. Il personalismo dialogico si connota, in questa seconda ricostruzione storica, come affermazione del rapporto originario e strutturante io-tu, per il rapporto tra le persone, ed io-esso per il rapporto tra la persona e la cosa. Muove da M. Buber, che, in Germania, supera l’antropologia di M. Heidegger e di M. Scheler, diventando capofila di un modo nuovo di pensare. Questa tipologia ricostruttiva del valore della persona in relazione,, considerata per altrida altri  vista comeuna sottocorrente del personalismo, è anche indicata come dialogismo[4]. Difendendo l'unitarietà di queste due ramificazioni nei termini del personalismo dialogico, riteniamo giudichiamo le loro interconnessioni sistemiche. Del resto, , segnalando ancora la novità di questa tendenza culturale complessiva apparve fu così dirompentenotevole, che nella stessa Germania venne salutata come «nuovo pensiero» (das neue Denken)[5]. A giustificazione si aggiungeva adduceva la sua opposizione alla filosofia tradizionale occidentale, chiamata pensiero di principi (prinzipielles Denken) e si lo si caratterizzava il nuovo come pensiero dialogico o pensiero che parte dal principio dialogico[6].

Il seguito di quest'orientamento culturale non si può seguire altrettanto agevolmente. Essendo una corrente generale, in quanto visione nuova della realtà (vera e propria Weltanschauung), essa finisce con l'influire su molti campi del più ampio sapere teorico;, a partire, ovviamente, da quelle discipline che si occupano principalmente dell'uomo.

3. La riscoperta del dialogo nella Chiesa cattolica

Per quel che ci interessa più da vicino, il "nuovo pensiero" ha certamente ha influenzato i teologi  che hanno preparato e accompagnato il Vaticano II. Non potendo entrare nel merito di una materia così complessa,  non possiamo che rimandiamore alle ricostruzioni storiche della teologia del novecento, con la recensione dei suoi numerosi rappresentanti[7]. Sebbene il dialogo non appaia sempre trattato in modo esplicito, è senza dubbio uno degli elementi che costituiscono una grande  novità tematica che asseconda e accompagna una nuovo modo di rapportarsi tra teologi e cultura moderna. 

Nel magistero ecclesiastico cattolico, il dialogo appare, al tempo del Concilio, nella sua duplice  modalità teologica di categoria della rivelazione di Dio all'umanità e del mutato atteggiamento della componente magisteriale della Chiesa. Viene a chiudere una non certamente entusiasmante stagione ecclesiale di sospetti, incomprensioni e paure. Certamente Senza dubbio, segna un capovolgimento di prospettiva rispetto a quell'epoca su cui gravava l'intimazione del non expedit, che da Pio IX in poi gravava inglobavasu non pochi aspetti della vita,  oscillando tra i rapporti dei cattolici con la vita civile italiana, fino alle reiterate ammonizioni a non lasciarsi coinvolgere in innovazioni culturali ed in genere di pensiero, giungendo, con Pio X, ai noti provvedimenti antimodernisti.

Rispetto a questo clima di sospetto generalizzatoo, non si sottolineerà mai abbastanza il merito di Giovanni XXIII nell'aver voluto e provocato una radicale inversione di tendenza nel suo rivolgersi agli uomini e al mondo contemporaneo con una atteggiamento di solidale simpatia, con un comportamento che era di dialogo in actu exercito, prima ancora che una sua teorizzazione. L'aggiornamento, termine che, quando nelle altre lingue non viene lasciato come giace, viene tradotto con qualcosa che ha a che fare con l'attualizzazione, indica la nuova coscienza che la chiesa intende avere sul suo rapporto con ciò che è contemporaneo, cioè con quel "moderno" verso cui finora aveva nutrito una pressoché insuperabile diffidenza.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II  nasce, nell'intenzione del Papa che lo convoca, come atto coraggioso e complessivo di dialogo. È un dialogo che la Chiesa intende condurre al suo interno, convocando per la prima volta tutto l'episcopato del mondo, ma che non si arresta ferma ai suoi problemi interni. La Chiesa vVuole, al contrario, considerare i suo rapporto con il "mondo", mondo inteso come storia e come cultura, come società civile e come ricerca di senso da parte dell'uomo. A questo riguardo, per la prima volta, insieme con gli enunciamenti dottrinali che indicano questo nuovo approccio e che sono anch'essi indispensabili per  la vita della Chiesa, fanno ingresso nei suoi documenti ufficiali le gioie e le speranze degli uomini, insieme con le loro tristezze e le loro angosce. La conseguenza è che non potrà mai capire il Concilio nella sua interezza e in questo suo afflato verso l'umano chi ha il cuore lontano da quei problemi e da quegli aneliti di speranza. Se, ricordando l'insegnamento di Agostino, diremo che solo attraverso l’amore si può conoscere veramente, sarà anche evidente che non potrà mai capire il Concilio non solo chi di fatto non lo ama o non lo ha mai amato veramente, ma neanche chi non ama l’uomo, gli uomini e il loro futuro. In tale amore per gli uomini la costituzione pastorale Gaudium et spes mette al primo posto la predilezione dei per i poveri e di per coloro che soffrono[8].

 

Il dialogo non è che l'espressione in termini dottrinali di questo approccio complessivamente evangelico e fondato nello stesso Vangelo, con l'utilizzo di un vocabolo, quello appunto del dia-logo (parola attraverso),  non certo molto adoperato nel linguaggio tradizionale secolare  del Magistero, anche perché rimanda a una  sorta di parità originaria, senz'altro ostica a chi si pone già in partenza in atteggiamento "magisteriale" in quanto tale. Il Vaticano II  lo menziona il dialogo esplicitamente, collegandolo ai gra

 

 

 

ndi temi della dignità dell'uomo, del lavoro e della stessa comunità civile[9]. In seno alla società, dice ancora il concilio, il dialogo dovrà essere rispettoso non solo dell'opinione altrui, ma anche di quella parte di verità che si può trovare dappertutto anche nei non cristiani[10]. Il dialogo è di conseguenza applicato ai diversi ambiti della vita, da quella quello culturale, a quella quello lavorativa, da quello nazionale fino ad arrivare ai rapporti internazionali. In questo contesto, si parla di una formazione tale da «istillare quel senso universale che tanto conviene ai cattolici, e a formare la coscienza di una veramente universale solidarietà e responsabilità»[11]. All'interno della Chiesa si esige ugualmente rispetto e ricerca della concordia, «riconoscendo ogni legittima diversità per stabilire un dialogo sempre più profondo fra tutti coloro che formano l'unico popolo di Dio, cioè tra i pastori e gli altri fedeli cristiani»[12]. Il motivo è menzionato nel principio che asserisce:   «Sono più forti infatti le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono» (ivi); con la ripresa di una formulazione che non ha perso affatto la sua validità e che recita: «Ci sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità». A rifletterci bene, se queste direttive di principio fossero state coerentemente applicate, avrebbero certamente evitato casi spiacevoli di allontanamenti, censure e punizioni verso alcuni "dissidenti". Si tratta di casi non infrequenti dalla chiusura del concilio ad oggi e che sono stati giustificati talora con la motivazione una valutazione affrettata del mantenimento dell'i unità in cose necessarie, quando a molti è sembrato che si trattasse piuttosto di  cose dubbie. Quanto alla carità, che comunque avrebbe dovuto essere in tutto, la stessa carità obbliga a dire che in non pochi casi così non è stato.

Accennando a questa verifica di ordine storico e che noi, per ragioni di tempo e di taglio, non possiamo documentare, anche perché ciò è previsto per altri contributi, si solleva la domanda sul perché di  tale prassi elusiva dell'afflato e del dettato del Vaticano II. A noi sembra che spesso il motivo sia talora da ricercare in una eccessivamente enfatizzata custodia della Verità e della disciplina ecclesiastica, tal altra - come vedremo - a motivo dello scivolamento dal piano del servizio dell'unità all'esercizio di un vero e proprio potere mondano, che più che dialogare con il dissidente, trova più efficace e rapido il metodo di metterlo definitivamente a tacere.

Intanto, per restare nel tema specifico del dialogo tematizzato dalla Gaudium et Spes, ma che assume il ruolo di una presentazione abbastanza rappresentativa dell'intero concilio, troviamo quella prima indicazione di un dialogo strutturato per cerchi concentrici, tipica dell'Ecclesiam suam di Paolo VI.  È scritto ancora nella Gaudium et spes(Ecclesiam suam): «Il desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con l'opportuna prudenza da parte nostra, non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora la sorgente, né coloro che si oppongono alla chiesa e la perseguitano in diverse maniere. Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati a questa stessa vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace»[13].

Proprio Ll'Ecclesiam suam presenta sul dialogo un’impostazione teologica che valorizza l’interlocutore e il suo contesto, invogliando a un linguaggio comprensibile e appropriato, per dare buona testimonianza di Cristo. Nulla è precluso sicché l’enciclica disegna cerchi concentrici, di dialogo, «da tutto ciò che è umano», ai «credenti in Dio», ai «cristiani fratelli separati«, fino ad arrivare all’«interno della chiesa cattolica». Gli ambiti toccati sono molteplici, corrispondono ai cerchi concentrici di diversa appartenenza alla Chiesa ,  come sono rriportati nella costituzione sulla Chiesa Lumen gentium[14]. Certamente  una presentazione simile sarebbe da considerare nei suoi vari passaggi, contestualmente ai diversi modelli ecclesiologi, che ne restano interessati e dai quali la sua interpretazione viene ad essere interpretatainfluenzata[15]. I grandi cerchi concentrici dei soggetti del dialogo (non credenti - non cristiani - non cattolici) e che tuttavia sollecitano la Chiesa al dialogo sono rinvenibili in quei tre segretariati (oggi pontifici consigli) appositamente istituiti a tale scopo. Anch'essi testimoniano la percezione di un unico dinamismo costituito dal binomio fondamentale parola-ascolto, ma che diventa ben presto più complesso, del tipo proposta-risposta-nuova proposta-nuova risposta.  Possiamo asserire che si tratta in definitiva del dinamismo salvifico che innerva la storia umana, ma che nella sua struttura originaria di parola condivisa, richiama alla stessa realtà unitrinitaria di Dio.

In Dio, infatti, la Parola, il Logos,  è fin dalle origini, cioè da quelle origini eterne che non sono un dato cronologico, ma piuttosto una realtà sempre originaria e sempre sorgiva. In Dio, unità di vita piena e di amore inarrestabile, l'amore racconta da sempre se stesso: è sempre nuovo è sempre il medesimo. Sempre il medesimo, quanto alla sua intensità insuperabile;  sempre nuovo, quanto  alla freschezza con la quale si perpetua. Essendo la relazione  costitutiva della realtà divina unitrinitaria, non si pfare altro che confessare con Giovanni l'evangelista che la Parola primordiale era eternamente, sicché «Non spetta a noi giudicare il lavoro da essi svolto in questi anni. Del resto, almeno a livello ufficiale, convegni, simposi, produzioni di documenti comuni sono segni concreti di un impegno che nessuno può negare. Non sfugge però a molti che il dialogo talora va avanti a fatica e in certi punti segna anche il passo. Non sarebbe giusto ritenere che le lacune stiano tutte da una sola parte. Dialogo è anche e soprattutto ricerca della verità, a comuciaren dalle condizioni  Chiedendoci con intento costruttivo perché ciò accada, converrà

In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Logos era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò  che esiste» (Gv 1,1-3). Ma considerando proprio tale Logos come Logos attraverso (dia)  cui ogni cosa è fatta e attraverso il quale la stessa vita divina eternamente germoglia e si esprime, non ci sembra azzardato concludere che in principio era appunto il Dia-Logos. Questo stesso Dialogo originario e permanente, che pure ha conosciuto il dramma dell'incarnazione, del rifiuto umano e della glorificazione, è origine, ambiente vitale e meta del popolo di Dio. È pertanto fondamento di un dialogo che la Chiesa ha da condurre come annuncio ed ascolto, proposta e risposta, come incarnazione tra gli uomini e loro liberazione. Si sollevano qui due interrogativi fondamentali. Il primo interessa principalmente la nostra fede cristiana: se la Chiesa nasce e vive in questa realtà di dialogo teologale come mai il dialogo è difficile, arduo e talora addirittura manchevole?  Il secondo è più generale, ma - come vedremo - è collegato al primo: se tutte le religioni adorano, contemplano e ascoltano la realtà sempre dialogante di Dio, come mai  talora diventano assolutiste, oppressive, fino ad esigere (cf. il fondamentalismo) la soppressione del diverso?

4. Vincere la tentazione del monologo nella Chiesa

Le due domande sono più intrecciate di quanto non sembri a prima vista. In sintesi e in forma di tesi, con una formulazione che vuole stimolare la riflessione più che provocare gratuitamente, diremo che se la religione rischia talora di diventare oppressione per l'uomo, la Chiesa rischia talvolta di diventare luogo del monologo e del conformismo.

Ma cominciamo dalla religione. Se la religione è l'apertura dell'uomo alla sua Trascendenza[16], non è detto che l'uomo, e soprattutto l'istituzione che media tale rapporto, si mantengano sempre sufficientemente aperti e recettivi verso la Trascendenza stessa. Giacché è costituita da uomini,  la religione  può ancora riferirsi alla Trascendenza, anche senza ascoltare le ragioni della Trascendenza. Può inquinare il suo senso dell'Assoluto con interessi materiali di vario genere e, se conferisce un potere, può giustificarlo attraverso l'Assoluto, fino a farne un potere assoluto.  Si rende pertanto indispensabile per la religione purificarsi continuamente. Facendo così, metterà in discussione le sue interpretazioni dell'Assoluto, diventerà più umile e sarà anche più amica dell'uomo.

3. Dimensione unitrinitaria del dialogo

La responsabilità per l’altro, il prendersi cura di lui, è l’ambiente dove la relazione si manifesta e vive: l’albero buono che porterà i frutti descritti. Per noi diventa di vitale importanza prendere visione di ciò che affermano non solo la Bibbia, e di conseguenza la teologia, ma anche la stessa riflessione più attenta, e meno incline alle mode, sul tema dell’amore come vocazione alla corresponsabilità per l’altro e per il mondo. È in gioco la credibilità dell’agire tanto del cristiano che del credente nell’amore: insomma, la nostra stessa credibilità. Ma in questo modo le domande si vanno focalizzando sul principio della responsabilità per l’altro come cura effettiva che noi abbiamo per i «diversi», gli altri popoli, quelli che, con fretta e ridicole precomprensioni, chiamiamo, ad esempio, gli «extra-comunitari». Se l’altro in quanto tale mi interpella e rappresenta persino uno dei kairovi[17] di questa nostra epoca, non meno urgente è raccogliere l’appello che sale dall’altro in quanto mondo “ecologico” che accusa le nostre responsabilità passate e presenti e sfida la nostra coscienza etica per ciò che riguarda il futuro.

Lo stesso principio dell’amore diventa principio di «responsabilità» nei confronti del cosmo. Se siamo stati chiamati da Dio a collaborare con Lui nel completamento della creazione e nell’abbellimento del mondo creato (mondo infra-umano e mondo umano: ma sono veramente separabili?) o se, più in generale, siamo responsabili del patrimonio naturale-umano che la sorte ci ha affidato, quali sono le nostre responsabilità verso un mancato miglioramento, anzi un peggioramento delle condizioni ambientali? Che cosa dire poi dei cambiamenti del mondo inter-umano? Cosa cambiare per essere fedeli alla nostra vocazione creaturale? A queste domande è ovviamente collegato un ulteriore principio, che la teologia contemporanea comincia finalmente a esplicitare: il principio solidarietà. Se infatti nessuno vive per se stesso, né muore per se stesso, la solidarietà non può essere solo il legame organico con il tutto, dal quale, anche se volessimo, non riusciremmo mai a separarci, ma il dato stesso che ciascuno vive per l’altro. In un doppio significato: veniamo dall’altro; tendiamo all’altro. La solidarietà è la nuova espressione etica di un modo di vivere che passa dalle lacrime del capriccio a quelle di chi vede morire le persone intorno a sé. La stessa speranza è un fiore che non fiorisce mai soltanto per una singola persona, perché anche la speranza, come la gioia e la sofferenza, è impastata costitutivamente di solidarietà.

 

 

Un Dio che ama gli uomini o li opprime?
(Il problema fondamentale della religione)

2.1. Solo la religione che purifica continuamente se stessa resta amica dell'uomo

In sintesi, lLa religione nasce, per sua stessa natura, costitutivamente tendente alla Trascendenza, con una tendenza ad autosuperarsi, eppure si dimostra ben prestospesso ammalata. Ciò significa per noi non un'ideologica credenza in una bontà innata o in una primordiale "età dell'oro", ma la constatazione di una religiosità che si manifesta ambiguamente, per come è ambiguo l'uomo stesso.  Infatti i s

Sacrifici, il sacerdozio, il servizio a Dio, quando non tendono a (re)inserire l'uomo in un processo armonioso di vita relazionale sul piano orizzontale e di vita relazionale e dialogante con l'Assoluto, risentono di strutture sociali compromesse. Sono proprio

Qqueste a compromettereono la religione e non viceversa. L'Assoluto è preso a pretesto per l'assolutismo. Il sacrificio diventa pretendere la libertà altrui e la vita altrui, senza motivazioni reali, ma ideologiche. L'oOppressione e la divisione diventano così i frutti amari e snaturati o di una distorta concezione religiosa che è distorta.

Le stesse norme stesse etiche possono (e devono) restare nell'ambito dell'atteggiamento amichevole e dialogante di Dio per l'uomo, altrimenti diventano fardelli che se gli interpreti stessi delle religioni non vogliono muovere nemmeno con un dito[18], anzi sono caricate sulle spalle degli altri. In questa maniera si sovverteono  la volontà salvifica di Dio, rendendo l'uomo schiavo della legge di Dio e non piuttosto suo partner ed alleato per conseguire la propria felicità. Allora succede che l'uomo è pensato ritenutocome fatto per la legge e non piuttosto il contrario: per cui la legge è fatta per l'uomo[19].

Le conseguenze sono che d2.2. L'equivoco religioso che porta alla divisione e all'eliminazione del diverso

Da una religione oppressiva si arriva facilmente/fatalmente alla divisione tra gli uomini e tra le stesse religioni. Dal "Dio violento",  che si ritiene voglia l'annientamento dell'uomo, si passa alla società violenta e conflittuale. Sul livello dei rapporti sociali, abolito il dialogo come valore ultimo di riferimento e di ricerca di una verità sempre più alta, si arriva attr

averso Il Dio assolutista - ideologicamente strumentale - porta a vedere il nemico non solo in chi non si assoggetta servilmente alla legge, ma anche in chi è diverso da sé. l'ideologia del Dio assolutista a vedere il nemico non solo in chi non si assoggetta servilmente alla legge, ma anche in chi è diverso da sé.  Ne può seguire una

Si arriva alla triplice esemplificazione,  - spaventosa per i suoi effetti: a) «il nemico del rappresentante di Dio (clero, casta sacrale, casta magisteriale ecc.) è nemico di Dio»; b) il nemico di Dio è nemico del popolo (deve essere eliminato dalla comunità); c) i nemici del proprio popolo sono nemici di Dio (devono essere ugualmente eliminati). 

Se questo può succedere e talora è avvenuto nelle religioni in genere, come nella storia del cristianesimo, non si può però dimenticare la risorsa che le religioni hanno per ripristinare il richiamo autentico della Trascendenza e della conseguente conversione dell'uomo. Si tratta della profezia e di tutto ciò che si esprime come critica religiosa non distruttiva, ma  protettiva della stessa Trascendenza. Proprio la profezia e la critica religiosa in genere sono da valorizzare da parte delle religioni per preservare la loro purezza e il loro più intimo richiamo all'Assoluto. Certamente ci possono essere anche richiami pseudo-profetici al fondamentalismo. Come si fa a distinguerli  da quelli autentici dei quali si serve lo Spirito di Dio per richiamare gli uomini con l'azione misteriosa della sua Grazia?  Si può rispondere che proprio per questo pericolo di fanatismo, la critica religiosa non deve mai mancare, una critica che sia rispettosa della Trascendenza, ma anche dell'uomo. In questa maniera però si evince l'importanza di un dialogo che, condotto da più parti, e badando a queste priorità, può  effettivamente ricondurre ogni forma religiosa a ciò che originariamente essa è  non solo tra gli uomini (parola dialogata oltre che pregata) ma anche tra l'uomo e Dio (dialogo, come offerta di salvezza e risposta di amore da parte  dell'uomo).

   Che centra la Chiesa in tutto questo? Centra nella misura in cui anch'essa, pur appartenendo, secondo la fede di noi cattolici,  a una particolare forma storica di rivelazione,  non è aliena dai meccanismi religiosi di impossessamento del sacro, dalle tentazioni di forme molteplici di centralismo, assolutismo e di ricadute nel monologo. La presenza dello Spirito del Risorto in essa, garantita tutti i giorni fino  alla fine del mondo (Mt 28,20),  assicura la parte svolta da Dio, ma non garantisce (né può farlo) la conversione e la fede degli uomini che vi appartengono. Al punto che Gesù stesso si è chiesto: «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8b).

Lasciando agli altri contributi, pensati specificamente a questo, la verifica di ordine storico sulla pratica del dialogo della Chiesa con il mondo moderno, dal Vaticano II  ad oggi, a noi sembra di poter indicare soprattutto qualche causa che ha fatto indietreggiare o almeno arrestare il dialogo in alcuni campi. Una di esse è una eccessivamente enfatizzata custodia della Verità e della disciplina ecclesiastica, scivolando dal piano del servizio dell'unità all'esercizio di un vero e proprio potere centralista, che più che dialogare con il dissidente, ha trovato più efficace e rapido il metodo di metterlo definitivamente a tacere.

Come dicevano, anche la Chiesa non sfugge alla tentazione di badare più all'efficienza che al dialogo, più al mantenimento dello status quo, che  all'esplorazione di vie nuove ed inedite, che la facciano confrontare con i bisogni e le speranze dell'umanità. Sia con gli uomini in genere che con i rappresentanti delle altre religioni è più facile riaffermare le proprie convinzioni (che del resto non devono essere azzerate) che cercare di cogliere gli aspetti problematici emergenti dalle tante e sempre più acceleratamente mutevoli situazioni storiche-sociali. Nei casi dubbi o comunque complessi e non sufficientemente lumeggiati, la serena confessione di una non raggiunta maturazione dottrinale e disciplinare sarebbe di gran lunga preferibile e certamente più proficua dell'affermazione ossessiva di alcuni principi. Non che essi non valgano più o siano da relativizzare. Non sempre però si può essere certi fino a che punto e con quale dovere di obbligatorietà essi tocchino la realtà storica delle cose. Solo per portare un esempio: se fino a un decennio fa non pochi ecclesiastici ricavano da insindacabili principi etici una conseguenza obbligante anche in coscienza per un voto partitico specifico, oggi finalmente si è capito (ma con quali costi?) che se i principi erano giusti, non erano così automatiche le applicazioni storiche, il cui giudizio passa per diversi gradi di opinabilità. Lo stesso è avvenuto in non pochi campi delle scienze, dove dall'affermazione sempre valida della veridicità della  Parola di Dio si è passati alla condanna di teorie scientifiche, letterarie ed ermeneutiche che si riteneva la contraddicessero nella forma o nella sostanza.

Se la storia ci insegna qualcosa e se davvero non si vuole già adesso accumulare materia per chiedere perdono delle colpe della Chiesa in un futuro più o meno prossimo, certamente costituirebbero un gran guadagno sul piano del dialogo maggiore cautela, più simpatia per gli uomini,  inclusi quelli che sbagliano, meno centralismo e soprattutto il ridimensionamento di quella certezza che la Chiesa possieda fin da ora non solo la verità, ma anche la risposta a tutte le domande. Occorre ribaltare più correttamente la posizione da quella di chi pensa di possedere la verità (del resto impossedibile da parte di uomini, perché confina con  Dio stesso) a quella di chi è posseduto, nel senso che è sempre illuminato e guidato, dalla verità stessa.  È vero, non sarebbe giusto ritenere che le lacune stiano tutte da una sola parte, né solo dalla parte della Chiesa, non dobbiamo però dimenticare che essendo il dialogo il frutto e l'espressione dell'amore, quanto più impareremo a praticarlo, tanto più ne saremo i suoi testimoni credibili.

 

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2.La pace,  non solo possibile alleata, ma motore dell'autentica religione
(Le radici religiose della pace)

Per costruire la pace all'interno della singola religione e tra persone diverse, occorre superare la situazione di concorrenza e di lotta tra le religioni mettendo al centro non più la propria religione ma Dio, anche colto come Trascendenza o in qualsiasi altra forma[20].  In ogni caso, come fonte di amicizia e non di inimicizia tra gli esseri umani.  Si può (si deve) superare l'assolutismo e il clericalismo come autoreferenti recuperando la Trascendenza come valore unico e che li possa mettere in crisi e quindi ricondurli al loro valore di servizio e di mediazione.

La Pax Christi muove dalla pace come valore universale e fondamentale. L'appartenenza a Cristo non è campanilistica, ma motivazione ulteriore nel perseguimento della pace come obiettivo comune a tutte le religioni, anzi a tutti gli uomini e popoli.

C'è un valore primario dell'Assoluto anche nella pax Christi. Si tratta di quell'Assoluto  creduto cristianamente come Dio in quanto Comunione di Diversi e rivelato nelle Scritture, nella storia e nell'esperienza degli Ebrei fino a Cristo e ai suoi apostoli. Il suo valore primario fa superare gli schieramenti anche ecclesiali/ecclesiastici, mettendo al primo posto la ricerca della pace come valore superiore ed irrinunciabile. È testimoniato dalle origini di un movimento che nasce come richiesta di preghiera (per la pace nel mondo) e di perdono (per la guerra in atto)[21]. La preghiera è una delle componenti strutturali (insieme allo studio e all'azione per la pace) della Pax Christi. Non dovrà mai venir meno, perché davanti al Dio "Comunione e Pace" non c'è altro modo di testimoniarlo se non con la preghiera che è adorazione - ascolto - risposta. La contemplazione può essere anche contemplazione dell'Assoluto della Pace (assumendo così denominazioni meno confessionali e più fluide, ma non vagamente generiche). Certamente sottolinea la pace come  valore primario, superiore quindi ad ogni altro, nel senso che non può essere ignorato o posposto (almeno come intento reale e non strumentale) ad ogni altro, tanto di natura civile (territorio, cultura, patria e simili) che di natura religiosa ed ecclesiastica (propria appartenenza religiosa,  propria confessione, prestigio della propria Chiesa). 

La contemplazione del Dio della Pace o dell'Assoluto della pace è affiancata dal lavoro di informazione, documentazione, ideazione per realizzarla. Porta all'impegno ed è sorretto da questo. Tale impegno nasce dalla convinzione che Dio ha agito e agisce oggi nella storia per la pace di tutto l'uomo (l'uomo nelle sue varie dimensioni), per la pace degli esseri umani a vari livelli (sessuale, familiare, politico), per la pace tra le religioni e le Chiese. Proprio queste se sono fedeli all'Assoluto (dal quale discendono e sempre dipendono)  non possono non perseguirla nei vari livelli accennati.

2.L'ecumenismo come ricerca non solo dell'unità originaria, ma della sua eterna sorgente (Educarsi all'ecumenismo)

L'ecumenismo è nato originariamente come movimento di riconciliazione tra le Chiese. Riguarda il dialogo tra le confessioni cristiane (cattolici, protestanti di varie denominazioni, ortodossi ecc.). 

Ha dietro di sé una storia complessa, con nomi, associazioni ed istituzioni varie.

Sorto tra le Chiese riformate (cf. Conferenza delle Società mis­sionarie di Edimburgo -  1910) coinvolge prima le Chiese ortodosse e poi quella cattolica. Di riferimento basilare sono il Consiglio ecumenico delle Chiese (cf. Assemblea gene­rale di Amsterdam del 1948) e il  concilio ecu­menico Vaticano Il (1962 al 1965), in particolare il de­creto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio e Nostra aetate, la dichiarazione sulle religioni non cristiane). Sono tappe di un movimento di autocomprensione, e pertanto di conversione, riconoscendo come un danno e una colpa per tutti l'essere divisi (seiuncti)[22].  

Il movimento contrario alla divisione è quello verso la riconciliazione, alla luce del vangelo e nell'ottica del bisogno continuo a rivedere ciascuno le proprie posizioni.

Se il dialogo interreligioso, cui abbiamo accennato, ha prodotto molteplici incontri, (da As­sisi 1986), l'ecumenismo ha tra le sue ultime tappe fondamentali l’assemblea di Basilea (maggio 1989) sull'ormai famoso "processo conciliare" Pace giustizia e salvaguardia del creato; l’Assemblea di Graz sul tema Riconciliazione dono di Dio e sorgente di vita nuova (giugno 1997) e  l’Assemblea ecumenica mondiale, che riprendeva il tema del processo  «giustizia, pace, creato» (Seoul, marzo 1990).

Tra le assemblee generali del Consiglio ecumenico delle Chiese, ricordiamo la VI di Vancouver (1983) e la VII di Canberra (1991), dove - tra l'altro - è emersa la volontà e la fatica di ritrovare l'unità partendo dalla considerazione che se talora religioni e Chiese sono state più strumenti di dominio che di dialogo e di pace, occorre ritornare alla pace come punto finale ed iniziale dell'ecumenismo.

In quest'ottica sono da ricordare le encicliche L'Ut Unum sint, di Giovanni Paolo II,  del 1995, che solleva anche il problema di  come realizzare una forma di unità anche istituzionale tra le Chiese e i due più recenti testi, che, più che dottrinali, sono eventi di effettivo cammino in avanti: la Dichiarazione congiunta  sulla dottrina della giustificazione  tra la federazione luterana mondiale e la Chiesa cattolica¸dell'ottobre 1999 e il più recente documento  "La Chiesa e le colpe del passato" della Commissione Teologica Internazionale, che pur con i suoi distinquo su giudizio teologico e giudizio storico, asseconda la prassi dell'attuale Papa di rivedere comportamenti e atti storici, quelli che certamente non hanno visto la Chiesa essere dalla parte della tolleranza e del rispetto del diverso e della pace evangelica.

Su questi ultimi punti, occorre ricordare che essi sono parte integrante della formazione all'ecumenismo, come rispetto innanzi tutto della verità. Proprio la verità, anche se scomoda, è sempre da preferire alla reticenza e alle autogiustificazioni apologetiche.

Insieme con il rispetto dell'Assoluto in quanto tale, l'ecumenismo non significa una sorta di azzeramento delle diversità, ma piuttosto un riandare a ciò che è l'essenza di ogni fede ecclesiale e persino religiosa in senso più generale.

Ciò significa anche educare al riconoscimento di Dio e all'azione del suo Spirito in ogni parte del mondo, sapendo che egli «non   fa  preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10, 33-34).

Si parla anche di "educare alla complessi­tà", anche se in controtendenza verso  mes­saggi che sono parziali, superficiali e schematici in una società che offre tanto e appiattisce le coscienze, livellandole al punto più basso.

 

 



[1] M. BUBER, Ich und Du, Heidelberg 198311, 22.

[2] La voce «personalismo», che si fa risalire a Schleiermacher e fu usata successivamente in funzione polemica contro il monismo idealista, fu consacrata dall’opera del francese C. Renouvier espressamente sul personalismo, nel 1903. La stessa voce fa riferimento ai filosofi francesi e a P. Freire in Dizionario di filosofia contemporanea, Cittadella, Assisi 1979, 420-422. Qui si tTralascia, però, quasi del tutto la filosofia del dialogo di lingua tedesca.

[3] Cf., ad esempio, «Personalismo», in A. DARLAP - K. RAHNER (edd.) Sacramentum Mundi . Dizionario di teologia, Morcelliana, Brescia 1974, 357-366. Tra gli autori sono spesso menzionati M. Buber, F. Ebner, F. Rosenzweig in Germania e G. Marcel in Francia. Quest’ultimo scopre e sviluppa il principio dialogico nel suo Journal métaphisique (1918), mentre la riflessione tedesca si caratterizza prevalentemente come reazione all’idealismo. In campo più teologico, il personalismo si affermò, in ambito cattolico, grazie ad autori come T. Steinbüchel e R. Guardini e, in ambito protestante, per merito di teologi come E. Brunner e F. Gogarten.

[4] Buber indicava il suo modo di pensare, la nuova logica, e quindi anche il suo pensiero, con il termine dialogica. Così informa Theunissen che, per altro, presenta gli autori tedeschi che accettano il principio dialogico sotto il nome di dialogismo (Cf. M. THEUNISSEN, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, Walter de Gruyter & C., Berlin 1965, 243-244).

[5] Das neue Denken è il titolo di un testo di H. Herringel (1928) e di un saggio di F. Rosenzweig.

[6] Con questo titolo sono stati anche pubblicati in Italia alcuni testi di M. Buber, che del personalismo tedesco è uno dei maggiori rappresentanti: M. BUBER, Il principio dialogico, Comunità, Milano 1959. Nel 1954 lo stesso Buber aveva pubblicato in Germania Schriften über das dialogische Prinzip.

[7] Cf., ad esempio, R. GIBELLINI, La teologia del xx secolo, Queriniana, Brescia 1992; ma anche P. VANZAN - J. SCHULTZ (a cura di), Mysterium Salutis 12. Lessico dei teologi del secolo XX, Queriniana, Brescia 1978.

[8] L'apertura di questo testo fondamentale non lascia adito a dubbi: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (Gaudium et spes,  [abbr. GS] 1: EV 1/1319).  Si tratta di una solidarietà che fa avvertire alla Chiesa la corresponsabilità verso l'umano: ciò che è autenticamente umano sta a cuore anche ai discepoli del Signore, sicché «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (ivi).

[9] GS, n. 40 sulla "Mutua relazione tra chiesa e mondo": «Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo dell'attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro» (EV 1/1442).

[10] «Tuttavia altri fedeli, altrettanto sinceramente, come succede abbastanza spesso e legittimamente, potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione. E se le soluzioni proposte da un lato o dall'altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della chiesa. Invece cerchino sempre di illuminarsi vicendevolmente attraverso il dialogo sincero, mantenendo sempre la mutua carità e avendo cura in primo luogo del bene comune» (GS, 43:  EV 1/1456 ).

[11] GS, 90: EV 1/1633.

[12] GS, 92: EV 1/1639.

[13] GS, 92: EV 1/1642.

[14] Cf. i numeri che vanno dal n. 13 (EV 1/318) al n. 16 (EV 1/326).

[15] Non potendo sviluppare quest'aspetto, pur importante, del tema, ci permettiamo di rimandare a G. MAZZILLO, «Modelli ecclesiologici dal contesto», in Vivarium [Rivista teologica dell'Istituto Teologico Calabro di Catanzaro] 2 ns (1994) 195-214.

[16] Per un approfondimento e una discussione previa sul valore della religione, rimandiamo oltre che a G. MAZZILLO, «Sulla definibilità delle religion, in Rassegna di Teologia 38 (1997) pp. 347-362, ad ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Cristianesimo, religione, religioni. Unità e pluralismo dell'esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, (a cura di M. Aliotta), San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 259-265.

[17] Sono i momenti densi della presenza della grazia, le occasioni nelle quali occorre intercettare il passaggio di Dio. A. Rizzi ne parla nella seconda parte del suo libro L’Europa..., cit.

[18] Cf. Lc 11, 45-48: <<Uno dei dottori della legge intervenne: «Maestro, dicendo questo, offendi anche noi». Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi date testimonianza e approvazione alle opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite loro i sepolcri>>.

[19] Cf. Mc 2,27: <<E (Gesù) diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato»>>.

[20] C'è da fare un'annotazione sul concetto/non-concetto di Dio nel Buddhismo. A riguardo, cf. quanto scritto in H. Bechert, «Prospettive buddhistiche», in H. Küng - J, van Ess - H. Von Stietencron - H. Bechert, Cristianesimo e religioni universali, Mondadori 1986, 345-361. Vi si trova tra l’altro l’affermazione che il problema di Dio non è per il buddhista un tema su cui discutere. Costretti ad esprimersi sull’argomento dal governo islamico indonesiano, i buddhisti di quella nazione diedero risposte diversificate, dicendo che Dio per alcuni è il Nirvana, ciò che non si può descrivere se non dicendo che cosa non è, oppure il totalmente Altro o il Trascendente. Altri, riprendendo l’idea dell’Adibuddha, ritennero di poter parlare di Dio come Buddha originario, dal quale tutti gli altri sarebbero derivati, o anche come Shunyata, cioè «Vuoto» (cf. ivi, 360).

[21] Si veda a riguardo la storia delle origini del movimento ecclesiale Pax Christi, sorto come preghiera pensata e organizzata per la pace da parte della Signora Dortel Claudot e come nuovo orientamento spirituale ed ecclesiale da parte di Mons. Théas, maturato nel suo internamento in un lager tedesco, per la sua presa di posizione a fravore degli Ebrei. Cf. A. Dell'olio, «Pax  Chisti», in L. Lorenzetti (a cura di) Dizionario di teologia della pace, Dehoniane, Bologna 1997, 503-504.

[22] Cf. Y. Congar, Chrétiens désunis.