TESTI di G. MAZZILLO

Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

La centralità della pace nell’evangelizzazione e la parrocchia

Relazione all'incontro degli ex-alunni del Seminario Campano. Posillipo 08/07/2018

- «Per il cristiano … annunciare la pace è annunziare il Vangelo»
- «È innanzi tutto la parrocchia a far esistere concretamente la Chiesa»
[1] (Giovanni Paolo II)

 Premessa

Il tema, ovviamente concordato, risente di due esigenze: una del “committente”; l’altra del relatore. L’amabile richiesta da parte dell’attuale Rettore, P. Vittorio Liberti, il committente,  era di trattare l’argomento, oggi discusso  e ridiscusso, della parrocchia. Al che ho fatto presente la mia scarsa competenza specifica in materia, salvo il fatto di essere stato parroco a due lunghe riprese. Sono stato parroco, una prima volta, dal 1972 al 1980, a Orsomarso. Fui nominato tale, a 24 anni, appena uscito da questo Seminario, a noi tanto caro, e andai a vivere, da solo,  in questo paesino della provincia di Cosenza, tra le montagne dietro Scalea. Sono stato parroco, una seconda volta, in una piccola periferia di Catanzaro, a Piterà, dal 1989 al 1998, permanente la docenza di teologia fondamentale, iniziata il 1982 e tuttora attuale, all’Istituto teologico Calabro. Attualmente il mio incarico principale è la docenza (dovrei dire la ricerca teologica) a Catanzaro, anche se il fine settimana curo la formazione spirituale dei tossicodipendenti del Centro d'accoglienza “l'Ulivo” di Tortora, che è il mio paese natale. Qui, a motivo della repentina perdita del parroco, sono stato incaricato come amministratore parrocchiale (di fatto solo per il fine-settimana) fino a Giugno.

Tanto forse è  bastato perché fossi io a parlarvi di “parrocchia”, argomento che ho potuto affrontare solo di striscio e per il cui approfondimento rimando almeno a qualcosa di recente che ho letto io e che mi sembra di buon livello:

A. Fallico, Parrocchia diventa ciò che sei. Riflessione teologico-pastorale sulla centralità della parrocchia, Edizione Chiesa-mondo, Catania 2003;

M. Semeraro, «Parrocchia e territorio», in Rivista di Scienze Religiose, 17 (2003/2) 241-258.

A ciò sono da aggiungere, ovviamente i documenti già pubblicati sui lavori della CEI relativi alla parrocchia.

In particolare: LA PARROCCHIA: CHIESA CHE VIVE TRA LE CASE DEGLI UOMINI Messaggio dell’Assemblea Generale dei Vescovi italiani, Assisi, 20 novembre 2003;  cui si può accedere attraverso il link  www.chiesacattolica.it/cci_new/cei

Qui troviamo un esordio che suona interessante, perché la pur felice espressione «parrocchia che vive tra le case degli uomini» suscita direttamente l’interrogativo «Queste parole esprimono un sogno o una realtà? Possono dirsi veramente il volto delle nostre parrocchie o manifestano, al massimo, un buon desiderio?». Una domanda seria, alla quale, i Vescovi replicano che la risposta deve tenere in considerazione le trasformazioni della società che

«costringono la parrocchia a ripensarsi, a trovare occasioni, stile, linguaggio idonei ad esprimere il suo sforzo di venire incontro alle attese dell’ora presente»,

tra le quali

«emerge il bisogno del sacro e di sentiti legami affettivi nel contesto di esperienze molto frammentate» ,

«cercando anzitutto di capire, per indicare poi possibili percorsi di crescita umana e nella fede, soprattutto per i giovani e per le famiglie».

Non ci si nasconde che questo non è facile; e, tuttavia, si scrive:

«C’è un segreto dal quale può sprigionarsi questo impegno della parrocchia, e anzitutto di chi ne porta la prima responsabilità: è la passione di favorire il cammino delle persone, così che il sentimento religioso e il bisogno di vicinanza prendano la forma di una relazione personale viva e forte con Gesù Cristo e di un’autentica esperienza di comunione fraterna».

La parrocchia si ri-progetta insomma in un farsi presenza, accompagnamento e continuo itinerario di relazioni sempre da cercare, da salvaguardare, da privilegiare. Non in forza di nuovi espedienti che la rendano più appetibile, ma perché muove dalla grande e insuperabile ottica dell’incarnazione, sicché se di un sogno si tratta, questo sogno,

«prima di essere nostro, è di Dio: è Lui che ha pensato di prendere dimora tra gli uomini. E non solo l’ha desiderato: l’ha fatto. Gesù Cristo non è altro che questo: Dio che ha posto la sua tenda fra noi. Non casualmente Gesù Cristo viene chiamato anche “Emmanuele”, che vuol dire “Dio con noi”».

Per essere memoria e attualizzazione di ciò

«la parrocchia, sempre bisognosa di cercare tutte le possibili collaborazioni, soprattutto per quanto riguarda la presenza missionaria negli ambienti, mantiene la sua importante singolarità sia per il rapporto con il territorio, e in particolare con le famiglie, sia per la relazione stretta che realizza con la diocesi, e dunque con il Vescovo, riconoscendo se stessa come “cellula viva” di una Chiesa più grande che, in definitiva, è l’unica Chiesa cattolica. È in questo modo che la parrocchia trova la propria identità, il fondamento della propria ecclesialità e allo stesso tempo le condizioni che le permettono di dare origine, come di fatto avviene, a figure concrete anche molto diverse tra loro».  

   Intendo partire proprio da queste linee teologiche di fondo, che ruotano intorno al prendere dimora di Dio tra gli uomini, per spostare l’accento su ciò che a me sta maggiormente a cuore. Vale a dire verso una particolare declinazione del compito primario della parrocchia  e che qui riassumo come annuncio-memoria-profezia. Tale declinazione è sulla pace e muove dalla  convinzione che, essendo proprio essa il cuore del Vangelo, la parrocchia può e deve diventare luogo e  strumento di pace: una pace da annunciare, una pace da realizzare, una pace da anticipare. Procederò per punti, cercando di rispondere ad alcune domande. Sono: 1) Perché il binomio evangelizzazione e pace?; 2) Perché la parrocchia deve costruire la pace?; 3) Quali sono le urgenze da registrare e i passaggi da compiere?

 

1) Perché il binomio evangelizzazione e pace?

In forza di quali motivi sono arrivato alle mie conclusioni sull’inestricabilità tra parrocchia, evangelizzazione e pace? Perché vi ho dedicato e continuo a dedicarvi buona parte del mio impegno teologico-teorico, oltre che pratico? I motivi sono tanti e ad alcuni di essi farò immediato riferimento. Ma vorrei dire che essi sono principalmente di tre ordini: di ordine teologico, di ordine storico, e di ordine magisteriale.

Se è vero che mai come adesso il futuro del mondo richiede un impegno costante, coerente e coraggioso per la pace, è altrettanto  vero che mai come all’inizio di questo nuovo millennio, tale impegno è diventato chiaro per la coscienza stessa della Chiesa. Voglio dire che di ciò sono coscienti molti cristiani e soprattutto ne è diventata cosciente e ne diventa cosciente ogni giorno di più quella componente del popolo di Dio che è la componente “magisteriale”, a cominciare dai testi del Vaticano II   e da quanto sulla pace ha prodotto anche il più recente magistero pontificio.   

Il primo e più immediato riferimento può essere il messaggio di Giovanni Paolo II in occasione della Giornata Mondiale della Pace del 2004. Parlando di «Un impegno sempre attuale: educare alla pace», proprio il Papa ha indicato un inscindibile rapporto tra annuncio del vangelo e annuncio della pace:

«I vari aspetti del prisma della pace sono stati ormai abbondantemente illustrati. Ora non rimane che operare, affinché l'ideale della pacifica convivenza, con le sue precise esigenze, entri nella coscienza degli individui e dei popoli. Noi cristiani, l'impegno di educare noi stessi e gli altri alla pace lo sentiamo come appartenente al genio stesso della nostra religione. Per il cristiano, infatti, proclamare la pace è annunziare Cristo che è « la nostra pace » (Ef 2,14), è annunziare il suo Vangelo, che è «Vangelo della pace» (Ef 6,15), è chiamare tutti alla beatitudine di essere « artefici di pace» (cfr Mt 5,9)» [2].

Le affermazioni sul «proclamare la pace» come «annunziare Cristo che è “la nostra pace”» sono inequivocabili, così come era inequivocabile già in Paolo nella lettera agli Efesini lo stretto rapporto tra vangelo e pace nell’espressione «lieta notizia della pace» (euangelion tēs eirēnēs). Non sono dichiarazioni generiche, perché il messaggio, oltre ad essere rivolto a tutti, ha come destinatari persone con ruoli non solo formativi, ma anche sociali e politici, cioè “storici”: «capi delle Nazioni» (per il loro «dovere di promuovere la pace!»), «giuristi, impegnati a tracciare cammini di pacifica intesa»; «educatori della gioventù … per formare le coscienze nel cammino della comprensione e del dialogo» e persino «uomini e donne … tentati di ricorrere all'inaccettabile strumento del terrorismo».              

  Del resto, come riconosce Giovanni Paolo II, da Paolo VI in poi, il magistero autorevole della pace si è arricchito, di “vari capitoli di una vera e propria «scienza della pace »”. I suoi titoli più importanti sono «La promozione dei diritti dell'uomo, cammino verso la pace» (1969);  «Educarsi alla pace attraverso la riconciliazione» (1970);  «Ogni uomo è mio fratello» (1971); «Se vuoi la pace, lavora per la giustizia» (1972); «La pace è possibile» (1973);  «La pace dipende anche da te» (1974). Si tratta di un magistero che coinvolge tutti e singoli, con appelli successivi relativi a «La riconciliazione, via alla pace» (1975); «Le vere armi della pace» (1976); «Se vuoi la pace, difendi la vita» (1977), per concludere con un messaggio che in  Paolo VI sembra riassumere il suo magistero in merito: «No alla violenza, Sì alla pace»  (1978).

Giovanni Paolo II  si muove in questo contesto, ereditando, come egli dice, una «scienza della pace» e racchiudendo, a sua volta, i venticinque anni del suo magistero di pace in una sorta di inclusione letteraria: Gennaio del 1979, con il messaggio: «Per giungere alla pace, educare alla pace»; Gennaio 2004, con il messaggio: «Un impegno sempre attuale: educare alla pace».  In 25 anni i temi toccati sono stati molteplici e si può dire che fanno parte integrante ormai tanto del patrimonio comune della riflessione teologica che dell’esperienza storica maturata in questi anni, parallelamente alla crescita del magistero in materia[3]. Quasi a voler rispondere a un’obiezione spiritualistica, che rinfaccia come inutile l’impegno per la pace, perché essa è dono di Dio, il tema del 1982 recita «La pace, dono di Dio affidato agli uomini»; con un collegamento tra pace e aspetti fondamentali dell’agire umano nella storia: «Sviluppo e solidarietà, chiavi della pace». Un collegamento che ne richiama un altro, espresso chiaramente nel 1993 e  mutuato dalla teologia della liberazione e di uso comune nella Chiesa universale: «l’opzione preferenziale per i poveri». Ecco la formulazione: «Se cerchi la pace, va' incontro ai poveri». Tra questi poveri ci sono ovviamente non solo gli svantaggiati economicamente, ma gli indifesi, gli oppressi e gli emarginati. Sicché nel 1996 il messaggio è: «Diamo ai bambini un futuro di pace»; nel 1998: «Dalla giustizia di ciascuno nasce la pace per tutti» e nel 2000: «Pace in terra agli uomini, che Dio ama!». Infine, a fronte dell’imporsi del problema del confronto tra mondi culturali diversi, nel 2001 il tema diventa: «Dialogo tra le culture per una civiltà dell'amore e della pace», con l’apertura al perdono nel 2002 e il riferimento all’enciclica di Giovanni XXIII «Pacem in terris» nel 2003, per chiudere nuovamente per la formazione alla pace come impegno permanente.

Detto tutto ciò sui capisaldi della «scienza della pace» acquisita dal magistero pontificio, occorre aggiungere che l’evangelizzazione e la pace sono indissolubilmente unite anche per ragioni storiche. Parafrasando un’espressione dell’indimenticabile don Tonino Bello: «La pace una scommessa per l’uomo d’oggi»[4], si potrebbe dire: «La pace una scommessa per la Chiesa di oggi e del futuro». È una  “scommessa” che ci tocca in maniera determinante per varie ragioni, ma soprattutto in riferimento all’annuncio  del Regno di Dio e all’annuncio di un futuro vivibile, in riferimento alla pace come cuore del Vangelo e alla stessa missione della Chiesa come formazione ed autoformazione continua alla pace.            

La parrocchia vive tale scommessa non solo sulla sua pelle, ma nella sua carne, intanto perché raccoglie uomini e donne che la vivono nella loro quotidianità come insicurezza sul futuro e come serie di problemi che investe il presente, ma soprattutto perché intercetta e ripropone la speranza come promessa di Dio per un mondo rinnovato a misura del Regno. In quest’ottica l’annuncio  del Regno di Dio è l’annuncio di un futuro vivibile.

2) Perché la parrocchia deve costruire la pace?

Perché le sue coordinate principali sono l’eucaristia e l’impegno storico: entrambi appartengono al cuore del Vangelo, in quanto la sinassi eucaristica è grembo e germinazione di storia e la fedeltà di Dio e il suo appello al nostro impegno per il futuro dell’uomo e del mondo appartengono al nocciolo della buona novella.

Del resto, l’annuncio del Regno è costitutivo sia per l’identità sia per la missione della Chiesa. Dalla fonte primaria della rivelazione, la parrocchia riceve e trasmette il messaggio che la realizzazione e la felicità di tutto l’uomo e di tutti gli uomini non si ottengono per forme di sudditanza, né di immolazione a Dio. Al contrario, annunciando la riconciliazione con Dio propone nel suo kerygma e vive nel memoriale eucaristico l’evento che l’unico Dio esistente, il Dio d’amore, Dio che è l’amore stesso, nella persona del Figlio si è dato per l’uomo e per la felicità di costui. La parrocchia è il luogo dove devono prendere corpo i progetti di Dio sul suo popolo (leggi qui l’intera umanità): «Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).

Non può fare diversamente, giacché ne ha ricevuto le consegne da Gesù, quel Gesù che per essa è il cuore del mistero e la ragione dell’esistere, quel Gesù che ha realizzato pienamente quei «progetti di pace per un futuro pieno di speranza» e che cogliamo nel vangelo[5], nonostante le cautele della critica storica e testuale[6]!  

La parrocchia in quanto «non è principalmente una struttura… ma è piuttosto la “famiglia di Dio”» ed «è fondata su di una realtà teologica, perché essa è una comunità eucaristica»[7] è realizzazione di una Chiesa che prende coscienza di un compito messianico, che scaturisce dal suo radicamento nel Messia:

«Questo popolo messianico ha per capo Cristo “consegnato per i nostri peccati, risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,25), che regna glorioso in cielo dopo aver ottenuto il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Lo statuto di questo popolo è la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali, come in un tempio, inabita lo Spirito di Dio. La sua legge è il nuovo comandamento di amare come ci ha amati Cristo (cf. Gv 13,34). Il suo fine è il regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre più, per essere portato a compimento alla fine dei secoli, quando apparirà il Cristo vita nostra (cf. Col 3,4); allora “anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio” (Rm 8,21)» (Lumen gentium, 9, abb. LG).

In testi come questo denso brano dottrinale della Lumen gentium, la parrocchia ritrova la sua identità e la sua missione. Ritrova anche la sua ministerialità, intorno a «la dignità e la libertà dei figli di Dio», per un compito che è anche un dono (una Gabe che è anche Aufgabe, come si direbbe in tedesco): la liberazione nel dinamismo del Regno, avendo l’amore come centro, oltre che come punto di partenza e punto d’arrivo.

3) Quali sono le urgenze da registrare e i passaggi da compiere?

Le urgenze sono quelle che di volta in volta il discernimento registra, a partire da una lettura sapienziale e profetica dei “segni dei tempi”. Costruire la pace, come realizzazione del compito messianico, non può limitarsi a dichiarazioni astratte, ma deve passare attraverso letture storiche e itinerari d’intervento, conformemente al grande esempio lasciatoci dall’altra grande costituzione del concilio, la Gaudium et spes.  Qui la pace è davvero la concretizzazione storica dell’essere e dell’agire della Chiesa.  Un essere e un agire che passano attraverso la parrocchia e che innervano la sua rete di relazioni tra le persone e tra queste e gli avvenimenti storici. La formazione alla pace riguarda oltre che la vasta tematica della riconciliazione (a tutti i livelli: da quella con Dio a quella con il prossimo nella fattispecie degli altri presenti nella comunità e degli assenti o dei lontani da essa. Ma di certo non possiamo più trascurare, come abbiamo spesso rischiato di fare, il rapporto con il mondo e il suo futuro. Proprio verso di esso infatti il popolo di Dio ha impegnato la sua dottrina e la sua credibilità per offrire speranza e futuro.  Pertanto la pace è dono e compito che la parrocchia riceve come comunità di coloro che costruiscono la pace: «beati gli eirenopoiòi, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Se di essi è costituito il regno dei cieli, a maggior ragione dovrà essere costituita la parrocchia, le cui origini remote si possono far risalire a quella comunità che alla sera della Pasqua riceve la visita del Risorto. Vale la pena riascoltare il brano evangelico:

   «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,19-23).

Appare chiara la doppia dimensione della pace come dono e come compito: dono scaturente dalla risurrezione, compito di riconciliazione, in accordo con la precedente assicurazione di Gesù:

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dá il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e  non  abbia  timore» (Gv 14,27).

L’eucaristia costituisce lo scarto qualitativo tra la pace «come la dà il mondo» e la pace come la dà Gesù: una pace che non è per la pura conservazione di se stessi, ma per la trasformazione in meglio del mondo intero. Tutto ciò

«perché la pienezza del mondo intero sia trasformata in popolo di Dio, in corpo del Signore e in tempio dello Spirito Santo, e perché in Cristo capo siano resi onore e gloria al Creatore e Padre di tutti» (LG 17).

 La parrocchia è soggetto attivo di un ministero salvifico di riconciliazione interumana, pur vivendo, anzi proprio perché viviamo in un tempo che insegue una pace sempre più in pericolo, e con essa il futuro del mondo (GS 15).  Da quando la Gaudium et spes analizzava la storia, questa non sembra essere migliorata. Al contrario, strati sempre maggiori della popolazione mondiale sono impoverite, emarginate, lasciate all’incuria e all’indifferenza. A fronte di ciò, con la ridistribuzione delle risorse economiche, la via della pace passa anche almeno  attraverso l’educazione a valorizzare le risorse culturali e morali di popolazioni materialmente povere «ma più ricche di saggezza», che «possono a quelle offrire un aiuto rilevante», come scriveva la stessa costituzione sulla Chiesa nel mondo (cf. ivi).  Già per il Vaticano II non c’era alcun dubbio: la costruzione della pace è compito specifico e irrinunciabile della Chiesa, in quanto popolo delle beatitudini alla sequela di Cristo. È un compito che richiede la sollecitudine di tutti (GS 49), e che ha al suo centro un’adeguata opera formativa (Gravissimum Educationis 1). È un compito da svolgere come «servizio di somma importanza per gli uomini, specialmente per le nazioni in via di sviluppo, in ordine all’elevazione della dignità umana e alla preparazione di condizioni più umane» (Ad gentes 12). Nessuno può tirarsi indietro, tanto che oggi come allora vige l’appello a che tutti i cristiani si «assumano la loro parte nei tentativi di quei popoli che, lottando contro la fame, l’ignoranza e le malattie si sforzano di creare migliori condizioni di vita e di stabilire la pace nel mondo» (ivi).

Sarà in grado la parrocchia di arrivare a tanto? Ce ne sono le premesse e i mezzi? Ce n’è la volontà? Si tratta solo di sogni, magari «ad occhi aperti» o «sogni diurni», come li chiamava don Tonino Bello? C’è la sola certezza che questi sogni sono stati fatti da Dio per noi. Sono stati accolti e fatti propri dalla Chiesa conciliare, e pur tra qualche diplomatismo e calibrature cautelative, sono lienee che riaffiorano nella riflessione della parrocchia in questo tempo a noi più vicino. Di certo abbiamo assistito, in questi decenni, a una fioritura del movimentismo postconciliare, abbiamo visto la parrocchia prima entrare in crisi e poi risollevarsi come il paralitico dal suo giaciglio. Forse ancora non è però in grado di camminare, o almeno non sembra camminare troppo speditamente.

Che fare e da dove partire? A mio modo di vedere occorre partire da dove partiva e concludeva i suoi venticinque anni di magistero della pace Giovanni Paolo II: «Un impegno sempre attuale: educare alla pace».

Un’opera da compiere non a latere, ma come realizzazione storica del vangelo; un compito che per buona parte è ancora da realizzare. Associazioni e movimenti, che pure hanno lodevolmente messo in atto, con le debite proporzioni e con il nostro beneficio d’inventario  parte dell’ecclesiologia di comunione della Gaudium et spes, ancora sono abbastanza deficitarie rispetto all’ecclesiologia di incarnazione della Gaudium et spes. Il tempo però è venuto, anzi stringe e il compito di cimentarsi seriamente con la pace non potrà essere procrastinato ancora a lungo. Se vorremo avere un futuro e offrire futuro, dovremo tutti finalmente misurarci con quanto la Chiesa del Concilio prescriveva per le associazioni già 40 anni fa:

«Ai nostri giorni, efficacia d'azione e necessità di dialogo impongono che le imprese siano comuni. Per di più, simili associazioni giovano non poco a istillare quel senso universale che tanto conviene ai cattolici, e a formare la coscienza di una veramente universale solidarietà e responsabilità» (GS 90: EV/1, 1633). 

Se siamo tutti chiamati a questa vera e propria missione, lo è chiamata in particolare la parrocchia, che raccoglie ordinariamente i cristiani, in ottemperanza a quanto la stessa costituzione sulla Chiesa nel mondo scriveva e con cui concludo:

 «Pertanto tutti i cristiani sono pressantemente chiamati a «praticare la verità nell’amore» (Ef 4,15), e a unirsi agli uomini sinceramente amanti della pace per implorarla e per attuarla» (GS 78).


[1] La prima citazione è nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2004; la seconda è nel testo «Ai Vescovi del Sud-Ovest della Francia», in Osservatore Romano (29-01-1997) 5.

[2] Mia sottolineatura del testo rintracciabile in www.puntopace.net/Varie/messaggio_giornata_pace_2004.htm.

[3] Cf., per ciò che mi riguarda più da vicino,  G. MAZZILLO, La teologia come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1988 e in riferimento al pensiero e all’agire di Gesù: ID., Gesù e la sua prassi di pace, La Meridiana, Molfetta (BA) 1990.  Più in generale, cf. ID., "Teologia fondamentale", in L. LORENZETTI (a cura di), Dizionario di teologia della pace, Dehoniane, Bologna 1997, pp. 67-77, con le voci simili a quelle qui affiorate.

[4] In A. BELLO, Scritti di pace, 4, Ed. Luce e Vita, Molfetta (BA) 1997, 147ss.

[5] Nella quasi sterminata letteratura sull’argomento, cf., per un aggiornamento più recente, J. P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Queriniana, Brescia 2001 e  G. BARBAGLIO, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, Dehoniane, Bologna 2002; sul “progetto di Gesù nel progetto di Dio” cf. R. FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, Cittadella Ed., Assisi 1983.  

[6] Per leggere un contributo più recente sull’argomento cf. www.puntopace.net/Mazzillo/Lucera14-03-03.htm.

[7] Christifideles laici, n. 26.