Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

Tema generale: Un itinerario verso la Pasqua. Con Cristo nella costruzione della pace

Per la 1^ e la 2^ meditazione vedi La passione di Gesù, storia di vinti vittoriosi (Catania 9-10/04/03);
con riferimento a  Gesù r
ealizza il messianismo biblico. Relazione alla settimana biblica di Lucera (14-03-03).

3^ Riflessione:  La fine della violenza è l’unico vero inizio di una storia umana

Brano di partenza e di orientamento della riflessione di oggi:

Mt 23,29-36:

   <<[Diceva Gesù:] «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri! Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna? Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa, che avete ucciso tra il santuario e l'altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione»>>.

Il brano parla di persecuzione. La consideriamo soprattutto in rapporto a quanti hanno subito e subiscono torti violenza, partendo da un’idea presente nella tradizione dei padri della Chiesa: l’idea che la Chiesa stessa inizia con Abele (ecclesia ab Abel). In alcuni di loro (Pietro Cantore e Stefano Langton) Abele simboleggia l’innocenza, il sacerdozio, la verginità e il martirio. In altri (Pietro di Poitier) Abele prefigura l’agnello immolato, cioè di Cristo.

Lentamente ci allontaniamo dalla  polemica antigiudaica di Ambrogio che presentava Caino come figura allegorica della sinagoga ed Abele come allegoria della Chiesa. Infatti già Agostino sottolinea il rapporto tra Cristo e la Chiesa suo corpo, che ha la su primizia in Abele, il giusto immolato che anticipa l’immolazione di Cristo[1]. Anche la Chiesa subisce persecuzione e violenza, al pari di Abele e di Cristo.

«Così come in questo secolo, in questi giorni cattivi, non solo dal tempo della presenza fisica di Cristo e dei suoi apostoli, ma dallo stesso Abele, il primo ucciso da un empio fratello, e di là fino alla fine di questo secolo, la Chiesa avanza peregrinando tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio»[2]

Popolo che conosce la persecuzione, la Chiesa è popolo delle beatitudini, cioè dei poveri, dei miti, dei costruttori di pace e infine dei perseguitati. Ciò significa che i perseguitati, anche se all’esterno di esplicite strutture ecclesiali, sono ugualmente parte della Chiesa. Tra essi coloro il cui sangue ancora grida davanti a Dio, «dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa… ucciso tra il santuario e l’altare».

L’idea riaffiora con forza nella lettera agli Ebrei che ha descritto il sangue di Abele come sangue che ancora grida dalla terra, perché egli «benché morto, egli parla ancora» (Eb 11,4) e con lui tutta la schiera di quanti sono morti come lui. È la schiera che fa corona a Cristo,

«al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele» (Eb 11,24).

Cristo sceglie di essere tra coloro che subiscono e non tra coloro che provocano la violenza, per attestare che più forte di qualsiasi violenza è l’amore che lo porta nel nostro mondo. Alla stessa maniera sarà solo l’amore a sconfiggere la violenza sulla faccia della terra.

Ecco a riguardo un racconto estremamente significativo:

Dopo l'assassinio di Zaccaria nel tempio, si tentò invano di cancellare la macchia, ancora palpitante, del suo sangue rimasta sul pavimento. Nonostante l’enorme numero dei sacrifici offerti a Dio, con i quali si pensava di riparare il sacrilegio, la macchia di quel sangue continuava a palpitare sulle pietre del luogo sacro. Ciò accadeva nella costernazione dei sacerdoti e di Nebuzarsadan che pensava di placare il profeta offeso vendicandone il sangue con quello di coloro che lo avevano ucciso e fatto uccidere. Il sanguinolento rituale di versare sangue su sangue andò avanti per qualche tempo senza alcun risultato. Zaccaria sembrava implacabile e così rimase fino al momento in cui Nebuzarsadan non gli rivolse  la disperata domanda se non avesse dovuto far uccidere tutti. Rivolto a quel sangue ancora in movimento, chiese«Zaccaria, Zaccaria, ho distrutto i migliori di essi, vuoi che li uccida tutti?». Appena ebbe dette queste parole il sangue si fermò. In quel momento egli si ravvide e finalmente rinsavì, esclamando:«So adesso che ciò è successo a causa di un solo uomo, quanto più dovrà accadere a me che ho ucciso tutti questi uomini che erano in vita!»[3].

L’episodio può essere spiegato in tanti modi. Unico è però lo sfondo dal quale ogni interpretazione muove: Dio non vuole lo spargimento di sangue, Dio non vuole la violenza, Dio non vuole l’oppressione.

Tutto ciò non è stato ancora compreso. Sovente si è ucciso in nome di Dio. Ancora si uccide invocandolo o giustificando la violenza, in nome di valori più alti.

Due esempi. Uno tratto dalla storia della Chiesa, l’altro da quella dei nostri giorni.

  Il primo. La bolla Exurge Domine di Leone X, contro gli errori dottrinali di Lutero, contiene anche due punti che condannano due sue affermazioni. Sono: l’aver detto «È contro la volontà dello Spirito che gli eretici siano bruciati» e «Combattere contro i Turchi è opporsi a Dio, che visita le nostre iniquità per mezzo loro» (H. Denzinger, Enchiridion, 1483-1484). Da qui si deduce che la richiesta di perdono di Giovanni Paolo II in questa materia non è solo un fatto liturgico o pastorale, ma è parte di un vero processo dottrinale. Per rendersene conto basterà inoltre citare la bolla papale di Niccolò V al re Alfonso V re del Portogallo, nel 1452, dove tra l'altro si trova scritto: «La principale ansia che ci portiamo nel cuore è che i nemici del nome cristiano dovrebbero essere repressi e soggiogati alla religione cristiana, poiché nella loro furia violenta essi sono sempre ostili ai fedeli di Cristo e disprezzano la fede ortodossa. Perciò in nome dell'autorità apostolica e sulla base di questa lettera noi vi concediamo:  la piena e libera facoltà di catturare e soggiogare saraceni e pagani e altri infedeli e nemici di Cristo dovunque si trovino; di invadere e conquistare i loro regni, paesi, principati e altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi e possessi; di prendere possesso di ogni bene vi si trovi, sia mobile sia immobile, che sia posseduto da questi stessi saraceni, pagani, infedeli e nemici di Cristo; di ridurre in schiavitù i loro abitanti; di appropriarvi perpetuamente per voi e i vostri successori, i re del Portogallo, dei reami, dei ducati, dei paesi, dei principati e altri domini, possessi e beni di questa sorte, convertendoli al vostro uso e utilità e a quella dei vostri successori».

Il secondo esempio, dei nostri giorni: la mozione approvata a larga maggioranza dal Congresso degli USA di «una giornata nazionale di contrizione, di preghiera e di digiuno per impetrare l’aiuto e la guida di Dio» per «un appello alla provvidenza per la vittoria sul male»[4]. La guerra con le sue distruzioni sembra essere alla fine, ma il sangue versato, il suo strascico di morti, di feriti, di profughi, di violenza, tutto il male provocato non è certo scomparso come d’incanto solo per una vittoria militare, del resto già scontata in partenza[5]. 

Gli sconfitti e il loro grido che brucia nella memoria

Ogni innocente che soffre, qualsiasi essere umano che subisce violenza, ogni povero cui viene impedito l’accesso ai beni della terra (messi da Dio a disposizione di tutti), ogni persona - grande o piccola che sia - intenta a piangere curva sul suo dolore è una nuova e sempre attuale forma dell’Abele delle origini. Abele è ancora qui quando al di là di un terribile grido d’angoscia non c’è che l’indifferenza degli altri o il silenzio del cosmo, perché a quell’invocazione nessuno risponde. Quando le stesse lacrime sembrano essere ingoiate dal nulla (perché così grande può essere il dolore umano, soprattutto quello che nessuno nota, di cui nessun altro si accorge). È nel grido soffocato dei bambini, come in quello rimasto in gola alle donne che hanno subito la violazione della propria persona. È nello sgomento di chi si vede i figli morire di fame, così com’è nel contegno dignitoso di bambini di una favela vestiti di cenci, che portano a seppellire il loro compagno morto bambino in una scatola di cartone. Abele significa ancora la disperazione di una mamma alla quale è strappata precocemente la vita di una figlia. Se la Chiesa inizia con Abele, il popolo di Dio ha qualcuno che cammina in prima fila, subito dopo Cristo e accanto a Maria sua madre. Viene di pensare che ad aprire la fila sia la bambina scalza e nuda della guerra del Vietnam, che fugge con negli occhi lo sguardo di chi non ha scampo, oppure oggi il bambino iracheno, al quale le bombe hanno amputato entrambe le braccia e con loro i bambini di tutte le guerre volute dai grandi, che dopo aver colpito il piccolo in Iraq ora dicono ipocritamente: «Ha perso le braccia!  Ha perso tutta la sua famiglia! Adottiamolo, per aiutarlo!».

Da questa storia troppo segnata dal sangue sale un appello che qualcuno più sensibile di altri ha interpretato come appello messianico.

Il grande problema da lui affrontato riguarda la ferita sempre aperta dei trafitti del passato[6]. Come guardare al passato e al presente che lo sta già diventando e cosa possiamo teologicamente cogliere in esso? Che cosa unisce questo secolo all’altro e che cosa associa questo nuovo millennio a quello che si è chiuso? Che cosa ha in comune questa mia generazione con quelle che l’hanno preceduta? Che cosa avrà in comune con quelle che la seguiranno? W. Benjamin ha saputo individuare come un «appuntamento misterioso» tra le generazioni del passato e quella del presente. Ha colto il senso della redenzione in qualcosa che attraversa la comunicazione tra le diverse epoche storiche. Sebbene, solo di scorcio, e come in una sorta di testamento, che non è stato sviluppato sistematicamente, anche perché non è ha avuto il tempo[7], ha potuto affermare: «Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto»[8]. Si tratta di un’attesa che si estende fino all’«umanità redenta», come la chiama Benjamin, perché «solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato» e ciò significa che non ci sono avvenimenti piccoli e avvenimenti grandi, essendo tutti ugualmente significativi ai fini della redenzione stessa[9]

Commentando questo modo di intendere la storia, espressione di un «pensare sensibilmente» (e chi ha mai detto che si debba pensare solo freddamente o peggio cinicamente?), Giancarlo Gaeta annota che in questo modo di accedere alla realtà, pensiero, eventi e cose interagiscono così dinamicamente e profondamente tra loro, da rivelarsi nel loro «segreto significato, fino ad arrivare a scorgere da lontano il Messia, anche solo attraverso un pensare sensibilmente, che qualcuno ha voluto considerare secondo la sua valenza metaforica e nella sua suggestione poetica[10], ma che fa venire in mente la necessità di non rinchiudere la ricerca al puro e semplice pensiero astratto. In Benjamin sembra trasparire l’esigenza di cogliere densità messianica in una storia che, per essere stata vissuta, non solo ne conserva per sempre le tracce, ma ne rappresenta la sua concrezione ed espressione. Fino al punto di affermare in un frammento, riconosciuto da qualcuno come dichiarazione di fede nel messia: «Solo il Messia stesso compie tutto l’accadere storico e precisamente nella contemporeeità che è una delle caratteristiche della storia. È il tempo che è sempre adesso (Jetzt-Zeit) e, in quanto tale, trabocca del suo fermento messianico, senso che egli soltanto redime, compie e crea la relazione tra questo e il messianico stesso»[11]. Si tratta di una messianicità che più che tendere al personaggio Messia, si compie nello stesso consumarsi degli eventi e in particolare delle persone, con un compimento che però travalica la singolarità, aprendola e correlandola a quell’eterna.

Dalla memoria alla fede della vittoria dei vinti

Coloro che piangono e coloro che muoiono sono allora la stessa Chiesa di Cristo che muore e risorge. È una teologia che supera ogni barriera di tempo e di spazio. Possiamo così ben comprendere la determinazione di chi, come I. Ellacuría, martire assassinato dagli squadroni della morte, poco tempo prima aveva rivisitato le beatitudini scrivendo, con malinconia addolcita di speranza:

«[...] Il meno che si dovrebbe ammettere è lo speciale significato che per Gesù hanno i poveri, gli afflitti, gli affamati. Questi sono i primi nel regno [...] non è che 'anche' i poveri possono trovare consolazione in Dio, ma ai poveri spetta per antonomasia la pienezza del bene e della giustizia di Dio nella storia degli uomini [...] Certamente in esse compare più il dono di Dio che non l’azione dell’uomo, ma tale dono di Dio sceglie chi non possiede nulla, chi è oppresso, quale regno della sua presenza e della sua beatitudine. I poveri sono beati e, pertanto, sono i primi nel regno»[12].

Siamo molto vicino alla teologia di Paolo, quando questi scrive:

«nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: egli prende i sapienti per mezzo della loro astuzia. E ancora: il Signore sa che i disegni dei sapienti sono vani» (1Cor 3,18-20)

Sullo sfondo c’è il suo più celebre assunto:

«Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1Cor 1,17-18).

I piccoli sono allora anche quanti non contano agli occhi del mondo, ma sbaglierebbe colui che pensasse alle beatitudini del Signore come pura e semplice rivalsa. Sono molto di più. Rappresentano infatti le tante forme in cui riappare non solo l’Abele sacrificato ingiustamente, ma anche il pianto di quanti hanno commosso il Signore per la loro sofferenza. È da ricordare in primo luogo il dolore lancinante delle madri, dalle lacrime di Agar, la donna mandata a morire con il figlio Ismaele nel deserto[13], a quelle di Anna, la madre di Samuele, che ogni anno andava a piangere davanti al Signore la sua sventura[14], a quelle di Rachele che piange i suoi figli perché non sono più[15]. È il pianto impotente che scuote l’onnipotenza di Dio, fino ad arrivare a quello di Maria di Nazareth che vedeva morire il figlio tra i tormenti sul Golgota, e che certamente non è sfuggito a Dio Padre, ma anzi ha scosso il suo cuore[16].

È il lamento accorato e dignitoso di chi, come Giobbe[17], si chiede dove cercare Dio per poter almeno discutere con lui delle sventure immeritate che si sono abbattute come uragano nella sua vita:

«Ancor oggi il mio lamento è amaro e la sua mano grava sopra i miei gemiti. Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! Esporrei davanti a lui la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni. Verrei a sapere le parole che mi risponde e capirei che cosa mi deve dire» (Gb 23,2-5).

«Potessi sapere dove trovarlo...». È questo il grido degli oppressi ed il gemito degli infelici. Il problema non è nato con l’olocausto di Auschwitz, anche se qui ha avuto una delle sue esplosioni più vistose. La risposta, che propriamente non è una risposta, non va cercata molto più in là della propria angoscia. La teologia dopo Auschwitz ne è divenuta consapevole ed ha prodotto una riflessione che è di grande interesse anche per il nostro tema. Da uno di quei lager nazisti che, annientando milioni di essere umani, sembravano annullare ogni restante barlume di umanità, e con ciò anche ogni possibilità di continuare a parlare di Dio, qualcuno come D. Bonhoeffer faceva sapere che il Dio in cui noi crediamo è il Dio che ci abbandona, perché noi non lo cerchiamo più come supplemento di risposta alle domande senza risposta, ma cominciamo finalmente a scoprirlo in Gesù crocifisso e abbandonato. Quando per ogni «credente» scocca, come per Bonhoeffer e per i tanti innocenti crocifissi, l’ora dell’ultima onestà (die letzte Redlichkeit), occorre fare i conti con una sorta di «assenza di Dio», quella stessa del Salmo 22, che Gesù ebbe il tempo e la forza di iniziare a pregare dall’alto della croce, sulla quale stava morendo: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. La preghiera è confessione di radicale impotenza umana ed è grido accorato che sale oltre l’abisso e che pure sembra smarrirsi nello stesso abisso. Non di meno è invocazione, più che protesta, atto di amore, più che disperazione, nostalgia di luce dal fondo oscuro di un mistero impenetrabile. È il compimento dell’incontro nel sommo distacco. Solo così riesce a giustificare le paradossali espressioni di Bonhoeffer, che scriveva dal carcere:

«Non possiamo essere onesti, senza riconoscere che noi dobbiamo vivere nel mondo “etsi Deus non daretur”, [anche se Dio non ci fosse]. E proprio ciò noi riconosciamo davanti a Dio. Dio stesso ci costringe a questo riconoscimento. Il nostro diventare adulti ci porta a un veritiero riconoscimento della nostra posizione davanti a Dio. Dio ci fa sapere che noi dobbiamo vivere come coloro che vengono a capo della vita anche senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34)!»[18].

E nonostante ciò, il Dio verso cui innalziamo il nostro grido, nel momento in cui ci sentiamo da lui abbandonati, è pur sempre il Dio davanti al quale noi stiamo e viviamo. La croce è il punto limite, è l’ultima frontiera oltre la quale la fede sta in piedi oppure crolla. Paradossalmente, nel momento in cui avrebbe tutte le ragioni per implodere su se stessa, la fede attinge - nella totale spoliazione di sé - la sua onnipotenza (quella di continuare a sussistere) nella radicale impotenza di Dio. Perché

«Il Dio che ci lascia vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio, è il Dio davanti al quale noi stiamo in continuazione. Davanti a Dio e con Dio viviamo senza Dio. Dio si lascia emarginare dal mondo attraverso la croce, Dio è impotente e debole nel mondo e proprio per questo e solo così ci è accanto e ci aiuta»[19].

Dio ci salva con il suo coinvolgimento nel nostro dolore, in una sorta di sospensione della sua onnipotenza miracolistica, per mostrare l’onnipotenza dell’amore che si fa tutt’uno con l’amato, fino a soffrire e morire con lui, fino a soffrire e morire in lui.

Non può non tornare alla memoria il racconto lucido e sofferto di E. Weisel, lo stesso che ha avviato la cosiddetta “teologia dopo Auschwitz”:

«Le SS impiccarono alla presenza di tutti gli internati del campo due ebrei e un giovane. I due uomini morirono immediatamente, mentre il giovane lottò con la morte per una mezz’ora. Un tale alle mie spalle si chiedeva: Dov’è Dio? Ma dov’è qui Dio? Passavano i minuti e il giovane si dibatteva ancora, tormentato dal cappio che gli toglieva il respiro. E di nuovo quel tale: Dov’è adesso questo Dio? Allora intesi in me una voce che rispondeva: Dov’è? È qui... È appeso alla forca...»[20].

L’idea sconvolgente che qui affiora è la totale solidarietà di Dio con i suoi figli, al punto che egli ne segue non solo le sorti, ma ne condivide il destino. Si rinviene già a proposito dell’esilio del popolo d’Israele, allorquando si asseriva che Dio stesso era andato in esilio con il suo popolo. A riguardo, troviamo l’affermazione che quando il suo popolo era stato esiliato e quindi non avrebbe più potuto frequentare la sua «dimora» anche la sua presenza (la Shekinah) aveva abbandonato il suo tempio, per potere accompagnare il suo popolo e fare ritorno alla «dimora» solo in compagnia dei suoi figli[21]. All’esilio sarebbe seguito un nuovo esodo e tanto nel primo che nel secondo caso Dio sarebbe stato in mezzo al suo popolo. In esilio, prima, e durante il ritorno, dopo.

Anche la fine della vita di Gesù sembrò contemporaneamente un esilio ed un esodo. Un essere strappato dal mondo in cui volontariamente era venuto ed un uscire da esso, per ritornare dove egli era precedentemente. L’evangelista Luca probabilmente ha presente questa doppia dimensione esodale, quando parla della conclusione della vicenda umana di Gesù come un «esodo»[22]. L’uscita dal mondo era per Gesù la manifestazione estrema, la più radicale della sua uscita dal «seno» del Padre per venire sulla terra. Ma era un essere sradicato da un mondo da lui scelto e un essere ricondotto alle sue radici più intime e più vere.

Ma esilio ed esodo sono anche i due aspetti del cammino del popolo di Dio. Nella nostra concezione delle beatitudini sono le sue due dimensioni portanti: la negatività prodotta dall’uomo e la gratificazione effettuata da Dio. Sono l’annuncio che ciò che umanamente è sofferenza, è abbandono e rifiuto, è invece agli occhi di Dio vicinanza, accoglienza, vita in pienezza. Esilio ed esodo significano un’ininterrotta presenza di Dio, una presenza che accompagna il suo popolo nel suo soffrire e nel suo smarrimento, nel suo naufragio e nel suo morire.

La risurrezione di Gesù recupera la sofferenza di ogni uomo, coinvolge nella vittoria sulla sofferenza e sulla morte quanti hanno sofferto e hanno subito la morte. Se con i suoi poveri Dio si è fatto povero e con i suoi Dio si immedesima fino a morire con loro, egli li trascina con sé, ci trascina con sé in una nuova aurora di luce.

Vangelo di Giovanni (20, 1-10)

   <<Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!». Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende giacenti, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende giacenti*, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, giacente con le bende*, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa>>.

Una grotta che serviva da tomba,
come quella che ti fece da culla,
simile alle tante che segnano il Sud,
e una grande pietra
che ne ostruiva l’accesso.
Così avevano pensato quei grandi”
di chiudere il tuo messaggio come pensavano di averti chiusa la bocca per sempre.
E tu scendesti, o Gesù, 
in quel baratro buio
che tanto atterrisce ogni carne
che ripudia il separarsi dai suoi
più ancora, forse,
che congedare se stessa.
Nelle bende ti avevano avvolto
mani pietose e il tuo viso
in quel sudario che al mattino
trovarono a parte
ripiegato, così come, sconvolte, scoprirono giacenti le bende,
perché lì tu non eri rimasto…
La pietra rivoltata e le bende giacenti
annunciavano che qualcosa
era accaduto.
Tu ne desti conferma: ti eri rialzato
e segnato per sempre dalle ferite
del tuo patire e morire, eri vivo
e con te ricominciavano a vivere
gli sconfitti del mondo. (GM/20/04/03)

 



[1]Cf. En .Ps. 118, sermo 29, 9: PL 37,1589. In Agostino la Chiesa appare comunque la civitas Dei, e per questa ragione ha inizio con Abele, a differenza della«civitas mala» che ha inizio con Caino. Cf. En .Ps. 142, 3: PL 37,1846.

[2]Civitas Dei, Lib. XVIII, c. 51: PL 41,614 (la traduzione è mia).

[3] (H. L. Strack - P. Billerbeck (a cura di), Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrasch 2, C. H. Beck, München 19899, 241).

 

[4] Cf. V. parlato «In nome di Dio», in Il Manifesto 33 (7 Aprile 2003) pp. 1.10, che fa riferimento a un articolo di Galli della Loggia su Corsera del giorno precedente]

 

[5] Cf. www.puntopace.net/varie/parlato-in-nomedidio.htm.

[6] Cf., a questo riguardo, il mio approfondimento sull’ingresso della teologia nella storia in www.teologia.it/fati200.html#3.

[7]  Le sue Tesi sul concetto di storia sono il suo ultimo lavoro. Furono redatte entro aprile-maggio del 1940, lo stesso anno in cui, dopo le varie drammatiche peripezie con le quali il filosofo, braccato dalla polizia nazista, cercò scampo, varcando diverse frontiere europee, già malato di cuore e stremato, nella notte del 26 settembre, per non essere riconsegnato dalla polizia spagnola a quella francese, si  tolse la vita con una dose fatale di morfina.

[8] W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, (a cura di R. Solmi), Einaudi, Torino 1995, 76 (. gGli Schriften originali apparsero presso leditore Suhrkamp il 1955). Il contesto complessivo in cui tale affermazione si trova parla di redenzione e di senso del futuro che recupera il passato. Proprio ciò mette a dura prova il materialista storico: «Nell'idea di felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l'idea di redenzione. Lo stesso vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C'è un'intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi   preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa» (ivi).

[9] Infatti «Il cronista che enumera gli avvenimenti senza distingue­re tra i piccoli e i grandi, tiene conto della verità che nulla di ciò che si è verificato va dato perduto per la storia. Certo, solo all'umanità redenta tocca interamente il suo passato. Vale a dire che solo per l'umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una “citation à l'ordre du jour” - e questo giorno è il giorno finale» (ivi).

[10] Cf. H. Arendt, «Walter Benjamin: lomino gobbo e il pescatore di perle», in Il futuro alla spalle, Il Mulino, Bologna 1966. La citazione è tratta da G. Gaeta, Religione del nostro tempo, Edizioni e/o, Roma 1999.

[11] Si tratta del Frammento teologico-politico, in   W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, 51, cit. Secondo secondo G. Gaeta, Religione..., cit., 50.

[12]I. Ellacuría, conversione della Chiesa al regno di Dio, cit., 129-130.

[13]Gn 21, 14-19:«Abramo si alzò di buon mattino, prese il pane e un otre di acqua e li diede ad Agar, caricandoli sulle sue spalle; le consegnò il fanciullo e la mandò via. Essa se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta l'acqua dell'otre era venuta a mancare. Allora essa depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d'arco, perché diceva: “Non voglio veder morire il fanciullo!”. Quando gli si fu seduta di fronte, egli alzò la voce e pianse. Ma Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: “Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione”. Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d'acqua. Allora andò a riempire l'otre e fece bere il fanciullo».

[14]Cf. 1Sam 1,7b-11:«... Anna dunque si mise a piangere e non voleva prendere cibo. Elkana suo marito le disse: “Anna, perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli?”. Anna, dopo aver mangiato in Silo e bevuto, si alzò e andò a presentarsi al Signore. In quel momento il sacerdote Eli stava sul sedile davanti a uno stipite del tempio del Signore. Essa era afflitta e innalzò la preghiera al Signore, piangendo amaramente».

[15]Ger 31, 15-16:«Così dice il Signore: “Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d'essere consolata perché non sono più”. Dice il Signore: “Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c'è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico”».

[16] Gv 19,25-27:«Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa”. A questo brano si deve affiancare l’altro che racconta del pianto di Maddalena davanti alla tomba vuota, un pianto che provoca il diretto intervento di Gesù: “Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro!» (Gv 20,15-16).

[17]Cf. G. Mura, Angoscia ed esistenza. Da Kierkegaard a Montmann. Giobbe e la sofferenza di Dio. Città Nuova, Roma 1982; B. Maggioni, Giobbe e Qohelet. La contestazione sapienziale nella Bibbia, Cittadella, Assisi.

[18]D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung, Kaiser Verlag, München 1978, 177-178.

[19]Ivi, 178. L’idea che Dio ci aiuti con la sua impotenza richiama Mt 8,16-17: «Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie».

[20]Il racconto è riportato da G. Mura, Angoscia ed esistenza..., cit., 137. Si trova in E. Weisel, Night, Foreword by Fr. Mauriac, New York 1960.

[21]Cf. J. Moltmann, La via di Gesù Cristo. Cristologia in dimensioni messianiche, Queriniana, Brescia 1991, 208-209, che riporta da E. Wiesel: « Il Midrash racconta quando il Santo, sia benedetto, verrà per liberare i figli d'Israele dall'esilio e loro gli diranno: Signore del mondo, sei stato Tu a disperderci fra le genti, quando ci hai cacciati dalla nostra dimora, ed ora sei di nuovo Tu a ricondurci a casa?... E il Santo, sia lodato, dirà ai figli d'Israele: Quando io vidi che avevate abbandonato la mia dimora, anch'io l'ho abbandonata per potervi far ritorno insieme a voi. Dio accompagna i suoi figli nell'esilio: un tema che nella tradizione ebraica è continuamente presente nel mondo concettuale del Midrash e della Mistica» (E. Wiesel, Der Mitleidende, in R. Walter, Die hundert Namen Gottes, Freiburg 1985, 70.

[22]Cf. Lc 9,31.