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"Teologia e
istanze delle scienze socio-antropologiche". Relazione di G. Mazzillo all’omonimo gruppo
di studio del congresso dell’ATI - Brescia 1989. Pubblicato in
Il gruppo, che
constava di 15 membri, con la presenza del Prof. De Marco, relatore al
convegno, e P. Donato Valentini in qualità di moderatore, ha affrontato uno dei
sottotemi senz’altro più complessi, ma anche (e a motivo di ciò) più
"vergini" del nostro incontro di Brescia.
Ci siamo resi conto
abbastanza presto di quanto pionieristica fosse l'avventura, per questo ancora
più affascinante, di una riflessione “esplicita” sugli eventuali raccordi,
sebbene "a frammento", tra la teologia e le scienze umane,
normalmente qui indicate sotto la denominazione
"socio-antropologiche".
In alcuni momenti
della discussione qualcuno di noi partecipanti ha avvertito ciò che si coglieva
già durante l’intervento del nostro relatore nell'aula assembleare: la fluida e
nello stesso tempo diffusa poliformità di quella ragione scientifica, che
cimentandosi con l’umano, nelle sue espressioni socio- comportamentali, non può
assolutamente evitare la fatica di ricondurre a moduli unitari e criteri
omogenei ciò che è per sua natura polimorfo e plurisignificante.
Che la riflessione
scientifica delle discipline socio-psico- antropologiche sia, per la natura
dell'oggetto in questione, in posizione di attiguità alla teologia, non sembra
si possa assolutamente negare. Il problema non nasce, né nasceva per noi, dalla
contiguità dell’"oggetto", esso investe invece la formulazione e
persino la formulabilità di tale zona di frontiera ove l'umano sconfina nel
teologico e il teologico non può non toccare trasversalmente l'umano.
Un secondo ordine
di complessità veniva dai problemi sollevati dalla relazione Colombo, la cui
non avvenuta chiarificazione aggiungeva improbità a un cammino già di se stesso
irto delle difficoltà cui si faceva riferimento.
La presenza del
Prof. de Marco è valsa a sciogliere almeno alcuni dei nodi fondamentali in cui
si andava dipanando il discorso, anche se ha comportato un'inevitabile
compressione del tempo già scarso a disposizione per un argomento che dovrebbe
costituire il tema di un intero convegno.
Di una certa
utilità immediata, con tutti i limiti inesorabili delle schematizzazioni, è
stata anche la sintesi delle questioni fatta dal moderatore, che possono essere
ricondotte alle seguenti: 1) l'autoposizione della teologia nel ripensamento di
una "ragione teologica" e le osservazioni dal versante
socio-antropologico; 2)le modalità e i punti d’incontro tra la riflessione
teologica e le discipline umane in questione.
Quanto al primo
punto, le raccomandazioni di De Marco alla teologia riguardavano una
maggiore attenzione al concetto di "modernità" e alla pur sempre
ingombrante e mai del tutto ponderabile presenza dell'elemento soggettivo,
oltre che di quello non rigorosamente ed esaustivamente riducibile alla
"razionalità", vale a dire la presenza dell'"irrazionale"
nel fenomeno più genericamente religioso o anche filosofico della stessa
modernità.
Ma con ciò si viene
anche alle problematiche aperte concernenti il secondo punto. La
complessità non è proprio agevolmente conciliabile con l'invocata e inseguita
"chiarezza" della "ragione teologica" e si affaccia infatti
ben presto già nell'intricata rete di interazioni e reciproche influenze che
intervengono non solo tra “soggettualità“ (che sembrerebbe preferibile a
"soggettività") teologizzante e sapere teologico, tra attore e
sistema, ma anche tra etico e sociologico e, in
definitiva, tra verità e storia. Ciò non poteva non far riaffacciare
ciò che Mons. Sartori indicava, già in apertura, come
"complessificazione": fenomeno tematizzato solo recentemente da
qualche corrente scientifica e che meriterebbe ulteriori e differenziate
analisi, ma anche l'individuazione delle effettive convergenze di aree e di
regioni scientifiche anche molto distanti tra loro.
Il terreno
d'incontro tra teologia e le scienze qui in questione appare promettente e
fertile, ma deve essere preventivamente sgombrato di tutto ciò che ne impedisce
la fruttificazione e che è costituito, per restare nell'immagine, dalla
parcellizzazione di settori sempre più specializzati e pertanto incomunicabili,
anche all'interno della stessa teologia.
Il lavoro svolto
nel gruppo di studio si può paragonare a un primo inventario degli elementi in
gioco e a una presa di coscienza delle tante cose da fare. Ciò ha avuto come
conseguenza anche il procedere della discussione in maniera alquanto
frammentaria, con sconfinamenti in temi e problemi di volta in volta evocati e
mai completamente risolti (né potevano esserlo a causa della loro vastità e
poliedricità). Sono così affiorati problemi relativi allo steso dialogo, al
soggetto del "fare teologia" e alla stessa soggettualità
collettivo-ecclesiale.
I molteplici
interventi si possono ricondurre, solo ad utilità compendiativa (anch'essa
inesorabilmente troppo "soggettiva") intorno a due poli principali,
che qui si riportano.
1)La tendenza a
recuperare la "ragione teologica" come pretesa specifica e
irrinunciabile della teologia, in quanto eccedente anche lo stesso dialogo con
le scienze socio-antropologica. Il dialogo - sottolineava qualcuno - non deve
essere enfatizzato e non deve comunque far perdere di vista tale autonoma e
"propria" ragione.
2)L'individuazione
di alcune effettive convergenze tra teologia e scienze umane, già riscontrate o
ancora riscontrabili come ipotesi di lavoro.
Una bipolarità
dunque tutt'altro che disprezzabile, tésa, da un lato, a salvaguardare la
specificità e, dall’altro, alla rivisitazione e valorizzazione delle istanze
teologiche di volta in volta scoperte altrove.
Nel primo caso,
alcuni interventi hanno sottolineato la necessità di salvaguardare elementi
teologici specifici relativi alla novità originaria e
"imparagonabile" della teologia. L'inedito e l’irrepetibile della
teologia ribadito, in qualche caso non senza una certa sorta di ossessività, è
ulteriormente riassumibile nei punti qui riportati. a)La "realtà"
dell’unica rivelazione nella sua duplice accezione della tradizione orale e
della Parola di Dio. b)Il valore originario e fondamentale dell'approccio
cristologico. c)Il dato comunitario-ecclesiale in cui si risponde alla
rivelazione come dato indeducibile. Tale indeducibilità è da affermare - si
diceva - a fronte sia del soggetto romantico (con menzione al contesto della
Scuola tubinghese del 1800), che del soggetto sociologico, che di quello della
personalità collettiva. d)Il valore primario dell’etico, senza alcuna
capitolazione - si ribadiva - rispetto ad alcune scienze come la psicanalisi,
che toglierebbe qualsiasi valore al peccato, vanificando, di conseguenza, la
stessa redenzione.
Accanto a tali non
inutili chiarimenti e forse sempre ineludibili dichiarazioni, è da registrare
una seconda serie di interventi, che non hanno affatto negato l'originalità e
la strutturale irriducibilità del teologico e l'utilità della ricerca
dell'elemento "veritativo". Hanno tuttavia problematizzato la
modalità o almeno l'orientamento di questa ricerca: l’irriducidile e veritativa
originalità del teologico è da inseguire accanto e parallelamente
o non piuttosto convergentemente e internamente“ al fenomenologico?
Sulla praticabilità
di questa inedita via, che è del resto ben diversa da quella insistentemente
criticata, nella relazione Colombo, come stemperamento e frantumazione
ermeneutico-soggettiva della teologia, si additava ad esempio la recente
"Antropologia in prospettiva teologica" di W. Pannenberg. Questo
tentativo merita una parola in più perché appare proteso a cogliere l’elemento
teologico all’interno delle scienze antropologiche, evidenziando il valore
particolare del sorprendente dinamismo da cui ha origine la perpetuazione della
vita e la sopravvivenza dell'"animale", dell'uomo e del suo vivere
associato: il ricorrente contrasto tra centreità dell’io ed apertura al mondo.
Ma proprio a questo
riguardo, nessuno negherà che l'orientamento è tutt'altro che soggettivo o
autobiografico: mira, al contrario a cogliere l'innesto vitale ed essenziale
tra il soggettivo e l’oggettivo, l’affermazione di sé e la realtà dell’altro in
quanto assolutamente determinante alla costituzione del "sé"
medesimo. Una riprova della validità di tale lettura è nel fatto che Pannenberg
critica decisamente gli approdi esasperatamente soggettivisti della teologia
dialettica (incluso Bultmann), nonostante tutta la sua la buona volontà e le
reiterate attestazioni di fedeltà all'unica e reale, "oggettiva"
verità della Parola di Dio. Forse ciò potrebbe servire anche come monito a non
lasciarsi condizionare da mono-sistemi di pensiero, il cui esito è fatalmente
compromesso dalle sue premesse e dall'orizzonte del suo procedere.
La discussione
toccava, per la verità, solo tangenzialmente tale problematica e si limitava
all'informazione sull’opera di Pannenberg, senza entrarvi nel merito. Ma nel
contesto più generale delle "istanze", spesso ribattezzate
"convergenze" tra il teologico e l'antropologico, qualcuno di noi
presenti ha indicato il terreno comune già relativamente al metodo scientifico
e alla stessa definibilità della scienza: l’autostrutturazione avviene sia per
la teologia che per le scienze socio-antropologiche attraverso la fissazione di
un canone, uno strumentario, una formulabilità
sintattico-lessicale. Il discorso si allargava così all'uso delle fonti e
alle convergenze formali ed epistemologiche e rimandava, comunque,
all’inevitabile (e, per come ciò appariva, intramontabile) necessità di
decodificazione e quindi di ermeneutica di quelle.
Si chiariva, così,
che l'espressione "ratio theologica" contiene una fondamentale
circolarità autostrutturale tra una "dimensione interiore" (ritengo:
la natura "sui generis" della teologia sotto la rivelazione e nella
fede) e "dimensione scientifica" (nei modi già indicati). Ma si
decideva anche di esemplificare la discussione ricorrendo all’esame di un caso
specifico, emblematico di istanze teologico-veritative e
teologico-scientifiche. Accogliendo la suggestione di Sartori, si affrontava
così l'argomento della "soggettività ecclesiale", sede e luogo di
teologia, terminus a quo e terminus ad quem“ della produzione e
dell'attività teologica.
Il dibattivo
riguardava nel pomeriggio quasi interamente il "soggetto comunitario"
(da altri detto "soggetto collettivo"), per analizzare in merito, e
quasi in actu exercito, i rapporti tra scienze socio-antropologiche e
teologia.
Nella discussione,
diventata nel frattempo più organica, si esaminava il soggetto comunitario
sia sul versante teologico che in quello sociologico, con una sorta di
interessante altalena in continua e proficua oscillazione tra due ambiti che alla
fine ci è sembrato si arricchissero e chiarissero proprio (!) in tale pendolare
e reciproco richiamarsi.
Ciò che qui riesco
a raccogliere, quasi un precipitato alla fine di una serie di re-azioni, mai
perfettamente riproducibili proprio perchè dinamiche e interattive, è
l'affermazione che la sociologia (ma anche - si aggiungeva - gli avvenimenti
storici, le istanze politiche e quelle ecologiche e quindi le relative
discipline scientifiche) modificano e ristrutturano, migliorandola,
l'autocomprensione del soggetto collettivo. In tale crescita auto-qualificante
e nell'aprire l’orizzonte a realtà non preventivamente inventariate, credo sia
stata colta una delle principali istanze teologiche di queste scienze.
L’eccedenza, cui la ricerca si apre e che essa rispetta nel soggetto sociale,
non è di poco conto per teologia.
A questo punto la
comunicazione sembrava il terreno interessante su cui il soggetto comunitario
si autocostruisce, si esprime e si perpetua. Personalmente ricorrevo, in
quest'analisi, ai principi di reciprocità, uguaglianza e solidarietà già
evidenziati, anni or sono, da Peukert (in Wissenschaftstheorie-Handlungstheorie-
Fundamentaltheologie) come principi determinanti per la comunicazione e per
ogni soggetto sociale. Questo si trovava di conseguenza ad essere illuminato da
principi che appartengono alla teologia e alla sociologia, con
l'interessantissimo seguito che l’una rimanda, per un'ulteriore fondazione,
all’altra. Ricorrevo come appoggio a nomi legati alla teoria del linguaggio e
della comunicazione come Peirce, Apel, Habermas.
Alla richiesta di
conferma all'esperto di materie sociali, la risposta era che non sempre i
sociologi sono d’accordo nel riconoscere la comunicazione e la solidarietà come
base della costruzione sociale, sicché il soggetto collettivo viene talvolta
visto come il risultato di rapporti asimmetrici, gerarchizzanti e di dominio.
La strutturazione conseguente è asimmetrica e non è di tipo solidale e
comunicativa.
La precisazione
offriva però l'occasione del richiamo, in negativo, all'istanza
teologica. La teologia chiarisce infatti che la differenziazione dei compiti
nel soggetto sociale-ecclesiale non deve essere intesa sulla base del dominio,
ma su quella della reciproca utilità e pluriforme solidarietà. Fungeva anche da
supporto per un chiarimento delle diversità/convergenti che intercorrono tra il
soggetto ecclesiale e quello sociale in senso stretto. Valori primari
difformi/convergenti apparivano allora l’unione nella diversità e
l’indiscutibile e impreteribile fatto della comunicazione, che in qualsiasi
ricostruzione sociologica, anche in quella asimmetrica, non può essere mai del
tutto negata, non fosse altro che per la trasmissione e l'esatta recezione
degli ordini impartiti da chi ha un ruolo dominante.
La difformità
appariva, sul versante teologico, nel valore trascendente della Parola di Dio,
senza dubbio determinante per la stessa strutturazione della comunità
ecclesiale, nel "mistero" che unisce i difformi già nella Trinità e
che è continuo punto di riferimento anche per la comunità e nel valore della
parola umana nel discernimento e nelle valutazioni essenziali per la vita
ecclesiale (incluso, ovviamente, la forma del servizio magisteriale).
Ma, a questo
riguardo, anche la difformità non solo non contrasta, ma anzi dà perfino
ragione di quelle istanze che, con fatica e incessante amore per l'uomo e la
sua avventura, non è raro ritrovare come tracce di un suo più grande mistero.