Giovanni Mazzillo <info autore> | home page: www.puntopace.net
L’ecologia:
una sfida per i credenti
Conferenza
tenuta a Roma il 18/10/1988 in occasione della IV Settimana Ecumenica per la
Pace
“I1 tempo ormai si è fatto breve” (1 Cor 7, 29).
L’apocalittica
è un genere letterario che, nonostante presenti l’intervento di Dio in termini
spesso drammatici per i popoli, per i loro governanti e per la stessa natura, è
tuttavia uno scritto di consolazione e di speranza. Il profeta racconta le sue
visioni, talora oscure e al di fuori della comune immaginazione, per svelare
(apokaluptein) che Dio è all’opera e non è insensibile alla sofferenza e
alla fatica di quanti gli sono rimasti fedeli.
L’apocalittica
è principalmente un appello alla fedeltà e alla resistenza tenace che, perfino
nella notte del silenzio di Dio, ritiene incrollabili le sue promesse. Nel
libro dell’Apocalisse, in un singolare crescendo, queste vengono così formulate
da Cristo che si muove tra le sette stelle e i sette candelabri, rappresentanti
le sette chiese:
1.
“Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita” (Ap 2, 7);
2.
“Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita” (Ap 2, 10);
3.
“Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta
scritto un nome nuovo che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap 2,
17);
4.
“Al vincitore che persevera sino alla fine... darò autorità sopra le nazioni...
e darò a lui la stella del mattino” (Ap 2, 26-28);
5.
“Il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti” (Ap 3, 5);
6.
“Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio” (Ap 3, 12);
7.
“Io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere
presso di me, sul mio trono” (Ap 3, 20-21).
Tutto
il contesto è tuttavia drammatico. Si parla di lotta e di resistenza. È una
lotta impari che vedrebbe soccombenti gli amici di Dio, in quanto privi di
potere, di armi e di ulteriori appoggi ed alleanze. Ma Dio stesso interviene a
garantire la vittoria di coloro che resteranno fedeli sino alla fine.
Il
contesto indica un trapasso da un vecchio mondo ad un nuovo mondo. Saranno
sconvolte le potenze terrene, perché Dio dispone di loro come dispone della
natura. Anch’essa partecipa, per estensione retorica, agli stessi
sconvolgimenti voluti da Dio (cf. ad esempio l’invettiva di Ezechiele contro il
re Og: Ez 38, vv.18-23). La Scrittura parla di “cieli nuovi” e di “terra nuova”
(Is 65, 17; 66, 22; Ap 21, 1; 2 Pt 3, 13), non tanto come fine del mondo, ma come fine di questo
mondo ed irruzione di un nuovo mondo.
Sono
illegittime e mosse da interessi proselitistici le letture realistiche del
genere letterario apocalittico. Seminano il terrore psicologico tra le classi
più popolari, allo scopo di sfruttarne il conseguente bisogno di salvezza ed
estendere la propria setta ed i propri concetti fondamentalisti. Facendo leva
su un effettivo travaglio storico, sottraggono l’uomo ai suoi impegni nella
storia e per la storia. Insistendo sulla salvezza individuale e della setta o
gruppo di appartenenza, tagliano ogni altro legame comunitario ed ogni
possibile solidarietà con l’altro e con il mondo. All’infuori del proprio
gruppo, tutto il resto é considerato fastello da bruciare. La visione
complessiva non è cristiana e nemmeno realmente religiosa (in quanto non
incapace di recepire ed esprimere il vincolo che unisce a Dio e agli altri).
L’apocalittica
pone tuttavia problemi seri per qualsiasi coscienza umana. Qual é il senso
della sofferenza, soprattutto degli innocenti? Perché la stessa natura soffre
ed è talora causa di sofferenza? In che misura il destino dell’uomo si
ripercuote su quello della natura? Viceversa: in che misura il destino della
natura si ripercuote su quello dell’uomo?
La
Parola di Dio segnala un certo legame tra la storia umana e quella della
natura. La teologia può recepire e precisare questo legame, o può minimizzarlo
o addirittura trascurarlo. La concezione teocentrica
lascia in ombra sia l’uomo che il suo impegno verso la storia e la natura. La
concezione antropocentrica valorizza
l’uomo, ma riduce la natura a puro strumento o proscenio dove si svolge la
vicenda dell’uomo. Occorre riconsiderare la dottrina sull’uomo, per comprendere
il suo inscindibile nesso con la natura e la dottrina sulla salvezza per
comprendere quanto la natura sia co-implicata nella salvezza (terrena e
trascendente) di ogni essere umano. Andiamo, forse, verso una sensibilità ecocentrica?
L’apocalittica
teologica tiene acceso il problema di questo rapporto. Nel momento storico in
cui viviamo molte sue immagini ed una parte del suo armamentario onirico si
sono spaventosamente accostati alla realtà.
Escatologia
significa “discorso sulle ultime cose”. Oggi il discorso non riguarda realtà
astratte e lontane, ma realtà vicine, su alcune delle quali abbiamo possibilità
di diretto intervento.
Disponiamo
della morte o della sopravvivenza dell’umanità e di intere popolazioni e
continenti, così come disponiamo della morte o della sopravvivenza della
natura, e, in definitiva, dell’intero pianeta terra.
L’escatologia
ha sempre risentito del suo contesto culturale storico. Nei primi secoli l’attesa del ritorno
imminente di Gesù si andò dilatando fino ad un tempo indefinito. Inizialmente i
cristiani si ponevano seriamente il problema se fosse lecito impegnarsi in un
progetto politico come quello imperiale che sembrava negare le basi stesse del
progetto escatologico di Dio. Per loro la Roma imperiale era la Babilonia
omicida contro la quale avrebbe avuto il sopravvento la città santa rinnovata
dall’alto.
Dall’epoca
costantiniana in poi, in un mondo ritenuto per sua natura durevole ed
onnicomprensivo, l‘escatologia diventò l’insieme di eventi catastrofici
provenienti dall’esterno. I cristiani passarono dal primitivo rifiuto alla
collaborazione fedele. Il ritorno di Gesù, la parusìa, perse ogni
carattere pubblico e politico e divenne una realtà interiore; un mistero da
credere tra gli altri misteri.
Dal
Rinascimento in poi il mito del progresso e della lenta, ma inesorabile
sconfitta del male nel mondo e nella storia, ha condotto l’escatologia
cristiana a spiritualizzare sempre più il suo oggetto. La coscienza cristiana
ha opposto resistenza reale solo dove vedeva minacciati alcuni contenuti
espliciti della sua fede (agnosticismo, ateismo, relativizzazione del dogma),
ma non ha sostanzialmente storicizzato la sua escatologia.
L’epoca attuale ci ha insegnato che l’escatologia
non riguarda solo “le ultime cose” ma anche le realtà “penultime”: questa vita
e questo mondo. Gli studi biblici e teologici hanno dimostrato la dimensione
profondamente escatologica di tutta la vita cristiana e della natura della
Chiesa.
Le
scienze hanno provato, prima con i disastri prodotti direttamente sulla natura,
per un uso illimitato e sconsiderato dei suoi mezzi e poi con le loro
argomentazioni, l’interdipendenza tra biosfera ed ecosfera, tra mondo psichico
e mondo fisico. Hanno dimostrato, inoltre, l’interdipendenza tra lo
sfruttamento e l’impoverimento, l’accumulazione e l‘immiserimento, il benessere
di alcuni popoli e le guerre di altri. In breve tra quello che chiamiamo centro
e periferia.
Coperta
da scelte politiche sbagliate ed immorali, una certa scienza è arrivata
quantitativamente e qualitativamente, a minacciare la sopravvivenza del mondo e
a falcidiare popolazioni intere, uccise per fame, incuria, indifferenza.
È
arrivata a compromettere seriamente l’ecosistema. L’apocalittica teologica è
diventata oggi un’escatologia reale.
Tuttavia l’escatologia
reale non
può e non deve essere intesa in senso esclusivamente negativo. Non dobbiamo
ricadere nella trappola dell’apocalittica pessimistica, che ritiene ormai la
partita dell’uomo sulla terra definitivamente persa. Ciò che ci resta da fare
non è solo l’affidarci a Dio e alla setta o al gruppo che gli sarebbe rimasto
più fedele.
Vivere
l’indole escatologica della propria
fede significa cogliere segni di immortalità nella caducità della storia umana.
Significa assecondare il flusso dello Spirito presente in ogni epoca storica,
per agire nella direzione verso la quale Egli ci sospinge. Tra i segni di
questo nostro tempo, da leggere sempre, come ci insegna il Concilio Vaticano II, alla luce del Vangelo e
dell’esperienza umana (GS 46), c’è questa nuova sensibilità verso la natura,
verso l’ambiente in cui l’uomo vive.
“Dio
lo pose nel giardino dell’Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,
15)
Ai
nostri giorni dovrebbe essere ormai chiaro che non c’è pace senza giustizia.
Qui aggiungiamo, cercando di motivarlo, che non c’è pace giusta senza il
rispetto, la salvaguardia e la custodia del creato. Si può prendere l’avvio da
una citazione di C.F. von Weizsaecker:
“Non
c’è pace tra gli uomini senza pace con la natura (...). La tecnica moderna
sembra proporsi come via alla liberazione dalla scarsità dei beni. Il dominio
dell’uomo - si spera - non sarà più necessario e sparirà, una volta che abbiamo
raggiunto il dominio tecnico sulla natura. Ma forse questa nostra speranza fa i
conti senza l’oste. Il movimento ecologico degli ultimi quindici anni ha
riscoperto questo pericolo. L’Occidente è diventato ricco e ora
domina il mondo con la tecnica.. Ora nel ricco Nord-Ovest è arrivato il
contraccolpo, è giunta la paura: dall’inquinamento idrico, dall’erosione dei
terreni, dalla morte delle foreste, dalle catastrofi dei reattori. Alcuni dei
pericoli ecologici già oggi riconoscibili si trovano al Sud, come il
disboscamento e la desertificazione. Ma al Sud si vede la povertà attuale più
chiaramente del pericolo futuro”[1].
Raccogliamo
intanto le due domande di Weizsaecker:
1)
“È possibile realizzare la protezione della natura su un piano politico ed economico?”
2)
“Si impone poi la domanda storico-antropologica più di fondo, se la natura e la
civiltà in sostanza possano coesistere”[2].
Alla
prima domanda rispondiamo affermativamente, dicendo che è però indispensabile
che cambino le leggi del profitto e dell’iniqua distribuzione dei beni che da
tempo hanno provocato l’attuale disastro politico-ecologico.
Alla
seconda cerchiamo di dare una risposta considerando la civiltà nell’accezione
più generale di evoluzione storica dell’uomo e considerando la natura nel
significato del creato, che è al di fuori dell’uomo e che è nell’uomo stesso.
Perciò parleremo di: a) uomo nella natura b) natura nell’uomo
In
questo modo cercheremo anche di rispondere alle domande già sollevate sul
rapporto tra la sorte della natura e quella dell’uomo e sul senso della natura
stessa, nel momento in cui essa cerca le sue origini, il suo attuale valore e
il suo compimento. Da questa analisi arriveremo alla proposta di alcune indicazioni
sotto il titolo: “Per una prassi creaturale”.
Di
fronte al futuro, gravato da tante ipoteche dobbiamo porci in un atteggiamento
di solidarietà e di ·carità politica. Ciò che facciamo oggi condiziona
infatti il futuro, mentre le nostre scelte condizioneranno la vita degli esseri
viventi che verranno dopo di noi. Si può dire che ciò che grava sul futuro è
una serie di problemi relativi ai valori, che sono poi quelli che condizionano
le nostre scelte di oggi. Uno di questi valori fondamentali è il significato
che diamo alla relazione uomo-ambiente, la relazione che si esprime nelle due
modalità già accennate: a) l’uomo che vive nella natura, b) la natura che vive
nell’uomo.
Tenendo
presenti alcuni studi specifici sull’argomento della creazione[3],
occorre dire che ciò che ancora manca è una sistemazione organica di questa
affascinante e complessa materia. Per ciò che riguarda il nostro contributo,
può essere qui assunto come principio architettonico l’interazione, che, se in
maniera più specifica vale per i rapporti interumani, può essere tuttavia
considerata nella relazione fondamentale tra uomo e natura.
Partiamo
dall’idea che capire è soprattutto interagire e che intelligenza è prima di
ogni altra cosa interrelazione.
La
relazione basilare dell’intelligenza con la propria corporeità infatti è andata
oggi precisandosi come ganglio di una più complessa rete interrelazionale che
investe il rapporto dell’io con gli altri, con il suo ambiente e con la natura.
L’altro, in tutte le sue forme (dalla propria corporeità alla natura come mondo
e ambito che interagisce con il conoscente), non è oggetto e possesso del mio
comprendere, ma soggetto con il quale mi confronto, che cambia me e che è da me
cambiato.
In
questo quadro complessivo la stessa intelligenza della fede è intelligenza
relazionale non nel senso classico, dicendo che essa deve pur riferirsi a
qualcosa di esterno, che è altro da me, ma nel senso comunicazionale, che ci
rimanda ad un interagire tra il soggetto “conoscente” ed il soggetto
“conosciuto”, che rifluisce nel conoscente. In realtà noi non conosciamo,
impossessandoci dell’altro, ma con-conosciamo: conoscendo, consentiamo
all’altro di conoscere se stesso e di conoscere noi, e conoscendo noi stessi,
conosciamo anche l’altro.
Il
dinamismo interrelazionale appare particolarmente importante nel rapporto
comunicazionale interumano e in quello, che a noi interessa più da vicino, tra
uomo e natura. Rispetto a quest’ultima, l’uomo trova la natura innanzitutto in
se stesso.
Ma
si può anche dire: è la natura che in lui si fa presente a se stessa. A livello
biologico, le cellule che ci consentono non solo di vegetare, ma di
comprendere, vivono degli stessi sali, delle stesse sostanze e degli stessi
liquidi che sono negli altri esseri viventi e che sono sulla terra. Ma se la
terra ci è sorella, già solo per questa ragione, siamo imparentati con il cosmo
intero.
Esso
non solo condiziona l’esistere del nostro pianeta, ma gli atomi delle nostre
strutture molecolari sono gli stessi atomi che nella forma più semplice, quella
dell’idrogeno, si trovano alla periferia del cosmo. Si può dire che l’universo
ci affratella, perché tutta la realtà proviene dalla medesima origine.
La
natura dunque vive in noi e fuori di noi ed una parentela, un legame quasi di
carne e sangue ci tiene uniti ad essa. Un legame che non si esaurisce solo
nella comune provenienza, ma che coinvolge, oggi più che mai, noi e la natura
in comune destino.
Si
afferma da tante parti, che mai come oggi, con l’avvento della fisica atomica e
subatomica è diventato chiaro che non c’è più possibilità di salvarsi o di
distruggersi da soli. È diventato realtà ciò che precedentemente era
un’intuizione o una massima sapienziale: nessuno si salva o si condanna da
solo.
Il
fatto nuovo è che l’uomo non solo può distruggere in teoria, ma che egli già
attua la distruzione di se stesso e degli altri. Distrugge la natura in se
stesso e al di fuori di sé. Questo processo autodistruttivo è in atto a diversi
livelli. Ognuno di questi interpella la nostra coscienza e la nostra conoscenza
di credenti.
Il
livello più vistoso, sempre deprecato, ma per il quale manca un’efficace
volontà politica d’intervento è quello della distruzione per fame di milioni di
esseri umani. È una distruzione colpevole, perché le ingenti somme investite in
armamenti e ricerche di nuovi armamenti sono un furto a quanti muoiono di fame,
come diceva il Documento della Santa Sede all’ONU del 1976. È la distruzione
politico-economica.
Il
secondo livello si potrebbe chiamare ecologico. Anche qui non l’uomo in
astratto, ma precise programmazioni economiche, complice il potere politico,
distruggono boschi, inquinano fiumi e mari, rendono irrespirabile l’aria,
assottigliano l’ozono, aumentano l’effetto serra, contaminano l’ambiente con
scorie e fughe radioattive, rendono la terra sempre più vuota e desolata ed i
cibi sempre più sofisticati e nocivi.
C’è
poi un terzo livello, che si può chiamare socio-urbanistico. Anche qui precise
programmazioni economiche ed interventi inadeguati rendono impossibile la vita
associata, favorendo la proliferazione di megalopoli, di quartieri dormitorio,
di sacche periferiche di degrado umano oltre che di squallore ambientale.
I
livelli distruttivi esaminati sono anche autodistruttivi. Distruggere gli altri
è sempre distruggere se stessi. Avvelenare il presente significa avvelenarsi il
futuro. Condannare oggi i figli degli altri a morire di fame e di inedia,
significa condannare i propri figli a morire domani di contaminazione nucleare
ed ambientale.
Ma
c’è ancora qualcosa. Con l’aumento dell’autodistruzione ambientale, aumenta
anche l’autodistruzione psichica. Aumenta la labilità psicologica, il disprezzo
della vita altrui e della propria. Tanto che la natura stessa è colta solo come
matrigna e fonte di insensatezza e di assurdo.
Il
nichilismo, il non credere più a niente e a nessuno serpeggia e si estende
sempre più, non per fatalità o a causa di ”maestri del sospetto”, ma come
logica conseguenza di una interrelazionalità divenuta illogica. Il senso del
tutto cade nel non senso ed il legame di vita e di relazione che
sempre sorregge l‘impalcatura dell’esistere, crolla rovinosamente, generando
angoscia e paura di vivere. Dinanzi a questo scenario, la fede non può non
interrogarsi seriamente su cosa significhi ancora parlare di salvezza e di
comunione, di vita e di civiltà dell’amore.
Deve
chiedersi cosa voglia dire pregare che si compia la volontà di Dio sulla terra
e nei cieli, visto che entrambi sono snaturati dal potere distruttivo dell’uomo
e decreaturalizzati, sicché invece di essere fonte di vita, come Dio aveva
voluto, sono divenuti luoghi e mezzi di morte.
Sono
queste le domande che la natura umana ed interumana solleva dinanzi alla
coscienza dei credenti. Vediamone le possibili risposte.
Se
dopo la seconda guerra mondiale, qualche teologo poté chiedersi che senso
avesse parlare di Dio dopo le efferatezze dei campi di sterminio, oggi la
stessa domanda diventa particolarmente bruciante nell’era in cui l’umanità
dispone concretamente della possibilità di distruggere il pianeta terra ed ogni
fonte di vita, mentre di fatto sta già distruggendo la vita di intere
popolazioni. Che senso ha parlare di Dio dopo Hiroshima ed i milioni di roghi
più grandi di Hiroshima che l’uomo può accendere sulla terra?
Di
fronte alle effettuazioni palesi di cinica distruzione ed autodistruzione in
atto, che senso ha parlare del Dio
della creazione e della comunione? È in questi termini che intendiamo
sviluppare il discorso della natura che va alla ricerca della fede. La nostra è
certamente una ricerca sofferta, ma che, tuttavia, non può non innervare i
nostri convincimenti teologici e la stessa avventura della fede. Da questa ci
viene una risposta che è protesta e proposta.
È
contestazione di un modo di progettare il futuro che mercifica l’uomo e reifica
la natura. Ed è richiamo a significati e valori che indicano un inversione di
tendenza ed un modo di vivere il rapporto con il presente ed il futuro in modo
corresponsabile e solidale e, quindi, alternativo.
Procedendo
con un certo ordine, potremo vedere l’innesto del discorso sulla natura in
quello teologico, parlando di essa come di creazione e pertanto parlando del
creato
a)
alla ricerca delle sue origini
b)
alla ricerca del suo senso
c)
alla ricerca del suo compimento.
Se
per creazione intendiamo l’insieme degli elementi naturali, prima ancora
dell’intervento dell’uomo su di essa con il lavoro, il primo riferimento
necessario è quello chiamato protologico ed è il riferimento alle
origini. Queste vanno intese non solo in senso cronologico, ma in senso
fondamentale, come radici della natura e sistema ultimo di significazione. Tali
origini e radici della natura, come complessità creaturale, sono in Dio. Il
cosmo e la terra, l’uomo ed il suo habitat sono stati voluti da Dio e
rimangono di sua proprietà. Non si ripeterà mai abbastanza l’idea biblica, già
veterotestamentaria, che la terra è di Dio e a lui deve essere sempre riferita.
La terra, dalla quale l’uomo proviene e verso la quale tende, è pertanto di Dio
e ne porta le impronte. È una terra creata quando già erano stati creati la
luce ed il calore ed è popolata di ogni essere vivente, le cui multiformi
specie Dio vuole salvaguardare ad ogni costo, nonostante la distruzione ed il
diluvio.
La
vita che agli altri esseri viventi è data attraverso la Parola di Dio, all’uomo
è conferita dal soffio della bocca del creatore, la stessa che ha detto: “Sia
la luce!”.
Tutta
la creazione è pertanto imparentata con Dio, e, pur non essendo divina, reca le
sue vestigia. Per questa ragione il Regno di Dio non può essere contrapposto al
“Regnum mundi”, al Regno del mondo, ma l’uno e l’altro, pur
differenziandosi tra loro, sono tra loro uniti.
L’alito
vitale che dà all’uomo l’esistenza, l’immagine e la somiglianza di Dio, è lo
stesso che si librava sulla superficie delle acque prima che il mondo fosse. Ma
è lo stesso spirito che arresta il Mar Rosso, per liberare il popolo schiavo
degli Ebrei, che manda i profeti a preconizzare un mondo naturale riconciliato
con l’uomo, che scende su Gesù come sul figlio prediletto e primogenito,
artefice della nuova creazione e vincitore della morte. È lo stesso spirito che
costituisce la chiesa primitiva come comunità del Risorto e comunità dei
risorti.
Di
esso si dice anche, in riferimento a tutte le creature:
“Se
nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano
nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono create, e rinnovi la faccia
della terra” (Sal 104, 39-40).
Il
libro della Genesi afferma inoltre che la terra è data all’uomo e che questi è
a immagine di Dio “perché domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo,
sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano
sulla terra” (Gen 1, 26). Perciò alla prima coppia umana, Dio dà l’ordine:
“Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela” (Gen 1, 28).
Sulla
base di queste affermazioni bibliche, qualcuno ha ritenuto che il dominio
dell’uomo sulla natura sia illimitato ed incondizionato. Qualche autore, anche
recente, ha voluto ravvisare in queste citazioni bibliche la radice dello
sfruttamento sconsiderato delle risorse della terra, affermando che la tradizione
giudaico cristiana è responsabile del saccheggio della natura e del disastro
ecologico.
A
ben considerare le cose, occorre dire che l’ordine di Dio non è tanto il
dominio, ma la custodia e la salvaguardia della terra. La stessa Genesi
afferma: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden, perché
lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2, 15).
L’uomo
sarà ad immagine e a somiglianza di Dio nella misura in cui avrà cura del
creato, così come Dio ha cura delle sue opere, considerate buone e quindi da
custodire e da amare, come testimonia il libro della Sapienza;
“poiché
tu ami tutte le cose esistenti nulla disprezzi di quanto hai creato; che se
avessi odiato qualcosa non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere
una cosa se tu non vuoi?... Tu risparmi tutte le cose, perché sono tue, Signore
amante della vita, poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose”
(Sap 11, 24; 12,1).
La
regalità dell’uomo sul mondo non può non prescindere da questi riferimenti.
Essa sussiste pertanto secondo la logica del Regno di Dio , che è logica di
servizio, di crescita e di promozione della vita e non logica di saccheggio e
di morte.
Dalla
creazione l’uomo comprende che la natura gli è stata affidata perché la
custodisca e ne tragga quanto gli occorre per suo mantenimento e per i suoi
bisogni, non agendo, però contro di essa, ma in equilibrio con essa. Il lavoro
è collaborazione alla creazione di Dio ed è anche travaglio contro le spine e
le asperità che la terra produce a causa del peccato. Sono spine e triboli che
portano le vestigia di un fallimento umano e di una natura divenuta anche
violenta ed addirittura inospitale. Sono i segni della morte iscritta nelle
fibre biologiche della terra e che l’uomo ritrova in sé. Anche in questo caso,
soprattutto in questo caso, la natura è alla ricerca del “sensus fidei”,
del senso della fede.
Il
riferimento biblico-teologico ci dà il valore della morte e risurrezione di
Gesù per il cosmo e per la stessa materia. La natura ha per la teologia un
riferimento ontologico,
“poiché
per mezzo di Lui (di Cristo) - sono state create tutte le cose, quelle nei
cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili... tutte le
cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è prima di
tutte le cose e tutte sussistono in Lui” (Col 1, 16-17).
Il
brano può essere compreso alla luce dell’inno cristologico della Lettera ai
Filippesi dove si parla di Cristo che assume la condizione di servo e diventa
simile agli uomini, fino a sperimentare la sofferenza e la morte di croce (Fil
2, 5-11). Nel Credo professiamo la fede in Colui che “morì e fu sepolto;
discese agli inferi; e il terzo giorno risuscitò dalla morte; salì al cielo”.
Cristo
è sceso agli inferi, nel cuore della terra; non si è sottratto alle profonde
contraddizioni di questa nostra terra. Anzi è sceso sin nel baratro profondo
della sofferenza, dell’ingiusta condanna e della morte dell’innocente.
Ma
proprio per questo egli ha redento la creazione ed ha salvato la terra dalla
sua più radicale ed abissale contraddizione, quella della morte. Questa resta
ancora operante, ma tuttavia riceve un senso. La resurrezione di Gesù immette
nella natura che muore il germe della vita e della sua lenta e progressiva
liberazione. Non è solo l’uomo, ma tutta la creazione che inizia con Cristo il
cammino del suo affrancamento. È un processo già avviato che va verso il
compimento.
La
natura è pertanto un ultimo riferimento, quello cosiddetto escatologico, cioè
relativo alle cose ultime. La liberazione è un processo al quale l‘uomo è
chiamato perché questa avviene anche attraverso la sua collaborazione.
All’impazienza della creazione che “nutre la speranza di essere lei pure liberata
dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei
figli di Dio” (Rm 8, 21) deve corrispondere un fattivo impegno da parte della
comunità dei risorti, sì da rimuovere ciò che ritarda tale liberazione ed
accelerarne l‘avvento completo.
Anche
in questo senso, la natura contiene le vestigia di Dio: sono quelle di un Dio
liberatore che vuole la libertà dei suoi figli e quella della creazione intera,
dando un senso alla morte e alla sofferenza dell’uomo e di ogni altra creatura.
Diventano così comprensibili le parole di E. Cardenal, che diceva: “In tutta la
natura noi troviamo le iniziali di Dio ed ogni essere creato è una lettera
d’amore che Dio ci invia”.
Queste
tracce di Dio ci rimandano alla sorte di gloria alla quale egli chiama tutto il
creato.
Avere una nuova prassi creaturale significa sentirsi corresponsabili
della creazione. Ciò implica innanzitutto un mutato atteggiamento interiore.
Come si diceva, occorre sentirsi parte della creazione. Di solito si è parlato
dell’umanizzazione della natura, quasi a renderla a nostra misura. È giusto, ma
fino ad un certo punto. Ciò di cui abbiamo bisogno è anche una naturalizzazione
dell’uomo, nel senso che occorre una nuova sensibilità che ci faccia sentire
più vicini alla natura, considerandola come casa propria, da rispettare e
custodire, da amare e da abbellire, ma anche da proteggere e salvaguardare. Ciò
deve avvenire senza forzature e romanticismi, sapendo che non tutto ciò avviene
dalla natura è bello e puro. Ci troviamo sempre di fronte ad una creazione non
ancora completamente “liberata”. E ciò deve essere sempre tenuto presente. Lì
dove essa si manifestasse contro l’uomo, varrà il principio della sua necessaria
umanizzazione. Creazione, infatti, è qualcosa di più che la semplice
“naturalezza” di ciò che esiste: indica una natura nel movimento positivo verso
il suo perfezionamento.
Essere
corresponsabili della creazione ha per noi il valore di assecondare la forza
vitale e liberante in essa contenuta, adoperando gli strumenti, già
individuati, dell’analisi, del superamento della violenza, della proposta e
della cooperazione con il Dio creatore,
attraverso il lavoro. In questo modo realizziamo quella riconciliazione che è
anche fonte di gioia, nel contatto diretto con quella creazione che ha la
capacità di riportare continuamente l’uomo alla sua radice e quindi di
facilitargli il passaggio attraverso le inevitabili prove della vita.
Carità
individuale vuol dire qui prendersi cura del bisognoso che non può fare a meno
di noi. Nel momento in cui egli si trova a subire le conseguenze di scelte
sbagliate, fatte da altri o da sé stesso, non ha senso lasciarlo al suo destino,
imprecando contro le cause del male. Siamo chiamati a “prenderci cura” di lui.
Il suo caso pone tuttavia il problema di molti altri casi simili, che possono e
devono essere evitati, cercando di eliminare le cause che vi sono all’origine.
Siamo
allora chiamati ad intervenire non solo sui singoli casi, ma anche sulle
strutture ingiuste, generatrici di ingiustizia, per bloccarne il meccanismo
perverso che continua a danneggiare il prossimo, che noi vogliamo e dobbiamo
servire. “Farsi prossimo” assume il significato di una solidarietà che investe
la nostra prassi complessiva per evitare il male del prossimo. È ciò che
possiamo chiamare carità politica. In questo contesto la nostra
solidarietà è anche con gli uomini di domani, perché come si è visto, le scelte
di oggi condizionano la vita di domani.
Intervenire
sulle cause è un atto di carità politica, perché è un atto di amore verso
quanti che da quelle cause continuerebbero ad essere danneggiati.
Per
operare questo cambiamento di prospettiva occorre dilatare il proprio orizzonte
culturale e la stessa intelligenza della fede. Il primo cambiamento è infatti
quello che va dal singolo caso ai tanti casi e va dagli effetti alle cause. Per
intenderci, non basta fare i barellieri dei feriti in guerra, ma occorre
adoperarsi in tutti i modi perché non ci siano più guerre.
Il
secondo cambiamento si fa passando dal particolare all’universale, dal locale a
ciò che è mondiale. Chi comprende bene il microcosmo, capirà anche il
macrocosmo. Ma chi comprende i rapporti più generali tra povertà e ricchezza,
tra paesi opulenti e paesi della fame, comprenderà finalmente da dove ha
origine il caso particolare. Si può riprendere una massima che esprime
felicemente questa idea, dicendo che bisogna agire localmente, pensando globalmente;
ma aggiungendo che è ugualmente importante intervenire sulle cause globali
proprio perché sono sempre davanti ai nostri occhi i casi particolari.
Il
terzo cambiamento da operare in questa nuova prassi creaturale, è il passaggio
dall’intervento sull’uomo come entità a se stante all’uomo nel complesso
interrelazionale, che lo contraddistingue. È un cammino che interessa anche la
considerazione non solo del passato e delle cause dell’ingiustizia, ma anche
del futuro e dei suoi effetti. In questo contesto la carità politica
diventa carità ecologica. Si tratta di una carità che non saccheggia il
creato, ma ne ha cura, per amore di coloro che verranno dopo di noi.
Ma
la carità è ecologica anche per un’altra ragione. Non c’è amore senza amore di
Dio. Non c’è amore di Dio senza amore per le sue creature. Chi ama veramente
Dio ne ama anche l’immagine che l’uomo e la natura conservano di Lui. Le sue
tracce sono in questo mondo e tutta le creazione è un cantico di lode che si
leva verso di Lui. Chi lo ama unirà la sua voce ed il suo cuore a questa voce
cosmica. La carità non conosce barriere e non conosce limiti. Giacché tutto
abbraccia, in essa troveranno spazio non solo gli altri uomini, ma tutti gli
esseri viventi.
La
prassi creaturale implica questa coralità cosmica come lode a Dio e come
custodia amorosa di quanto Egli ha creato.
J.
MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Queriniana,
Brescia 1986;
R.
FARICY, Vento e mare obbeditegli. Approccio ad una teoria della natura,
Cittadella, Assisi 1884;
Credereoggi 33 (1986), dal titolo «Il mondo come creazione».
Tra
i documenti ecclesiali ricordiamo Gaudium
et spes nn. 33, 34, 39, che prendo in considerazione l’opera dell’uomo come
custode del mondo;
Sul
problema ecologico e su rischio del collasso dell’ambiente naturale, cf. PAOLO
VI, Octogesima adveniens, (14, 5,
1971); GIOVANNI PAOLO Il, Redemptor
hominis, nn. 8, 15, 18 e Laborem
exercens, nn. 4, 5;
EPISCOPATO
TEDESCO, Futuro della creazione e futuro dell’umanità, in Regno-Doc (1981/5) 140-145;
IDEM, Assumersi la rensabilità
della creazione, in REGNO DOC 17 (1985) 530-543.