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Una Chiesa povera per essere Chiesa dei poveri: proponibilità e attualità[1].
Intervento al Congresso dell’Associazione Teologica Italiana. Anagni 12/09/03

Ho aggiunto al titolo “proponibilità e attualità” all’indicazione conciliare di una Chiesa povera per essere Chiesa dei poveri, consapevole dei limiti  della sua finora non avvenuta recezione, perché sono convinto che qui sia in campo qualcosa di più del riconosciuto “diritto di cittadinanza del tema”, ben al di là della problematizzazione e di tutte le cautele espresse, che sono apparse venate di una sorta di rassegnata accettazione dell’esistente. Chiedere alla Chiesa, che poi siamo anche noi, di essere Chiesa povera per essere Chiesa dei poveri non è affatto un orpello retorico, ma un vera e propria esigenza teologica, che muove dalla convinzione di una continuità tra predicazione-agire di Gesù e predicazione-prassi della Chiesa, tra il suo annuncio del Vangelo, buona notizia ai poveri, e la nostra evangelizzazione.  È una continuità che va colta sul versante di un’ecclesiologia che recepisca il grande tema del popolo di Dio come tema generatore della riflessione conciliare sulla Chiesa, ma collegandolo direttamente a quello del suo carattere messianico. Si tratta di un unico grande tema, declinabile su due versanti, due facce della stessa medaglia: popolo di Dio e messianicità della Chiesa, tema che è rimasto assente nella relazione ascoltata e che, relativamente al popolo di Dio è stato trattato di striscio in altre relazioni del congresso, mentre relativamente alla messianicità non è stato nemmeno menzionato. A fronte di tutto ciò, mi sembra ormai maturo il tempo, dopo tanti anni di post-concilio, di cogliere proprio nella messianicità l’anello che congiunge la forma Christi alla forma ecclesiae passando attraverso il suo e il nostro annuncio del Vangelo. Grazie a tale anello, che ancora qualcuno considera mancante, ho articolato la mia reazione in 3 punti: 1)  C’era un progetto di Chiesa, come popolo messianico, negli intenti di Gesù?;  2) Riscoprire l’euangelizesthai come lieto annuncio ai poveri; 3) Chiesa povera per collaborare nella realizzazione del Regno di Dio.

1) C’era un progetto di Chiesa, come popolo messianico, negli intenti di Gesù?

Cominciamo dalle interessanti indicazioni lessicali della relazione di Ruggieri sul temine “evangelizzazione”. Pur nella loro diversità, partono da un comune denominatore: la preoccupazione, tutta pastorale, di come rendere efficace l’annuncio del Vangelo per l’uomo contemporaneo. Manifestano un assillo verso la crescente irrilevanza dell’annuncio, proporzionatamente all’avanzata della modernità, o – secondo la succitata negativa accezione wojtyliana – alla secolarizzazione crescente.  Dal Vaticano II in poi, la Chiesa continua a interrogarsi sull’efficacia della sua azione pastorale nel mondo. Mette in discussione modalità e metodi della sua “missione”. Si cimenta frequentemente con verifiche che abbracciano i più svariati ambiti: dalla “sensibilità” dell’uomo moderno alla “particolarità” dei suoi destinatari. Si trova spesso ad analizzare la situazione del mondo contemporaneo nei termini di un cambiamento continuo, senza sosta, sempre più accelerato, sempre più imprevedibile. A fronte di ciò, non si può nascondere l’impressione di un certo smarrimento, presente tanto nei documenti ufficiali quanto in non poche riflessioni di teologi. Per i primi basta qui qualche riferimento alla Conferenza Episcopale Italiana[2], per gli altri posso solo accennare all’insistenza sulla modernità o post-modernità, un refrain che evidentemente conserva ancora tutto il suo fascino, oltre che la comodità del capro espiatorio e che si trova sia nell’analisi più teologica più generale sia nella riflessione ecclesiologica particolare[3].

Per quanto attiene quest’ultima, occorre aggiungere che la modernità  è sovente considerata  in maniera problematica, per la sua particolare riottosità non solo verso il principio gerarchico, ma anche verso un’impostazione comunitaria della propria esistenza. D’altro canto, anche le soluzioni indicate non devono essere sempre le più felici, data l’insistenza sull’ecclesiologia di comunione, che suscita non di rado l’impressione di essere più un appello morale, che lo sviluppo vero e proprio di un’adeguata teologia del popolo di Dio. Ne sono riprova alcuni atteggiamenti “ecclesiastici”, più che ecclesiali, che impiegano il sintagma “comunione” nel senso di una preoccupazione di ricompattamento, di maggior controllo della pluralità e di centralismo di governo. A mio modo di vedere, tali applicazioni acerbe dell’ecclesiologia di comunione derivano dalla carenza di un impiego coerente e maturo della categoria biblica e conciliare del popolo di Dio. È da questa lacuna che bisogna partire, per comprendere le difficoltà nelle quali è incappato il progetto conciliare di una Chiesa povera[4]. I pur pregevoli, e, in qualche caso, ponderosi trattati di ecclesiologia finora usciti, non hanno approfondito, per come avrebbero dovuto, e in maniera  sistematica, questo nesso. Hanno invece ripreso il tema del cambiamento continuo che sfida la Chiesa e hanno proposto alcune strategie per controllarlo. Qualcuno, come G. Lohfink si è spinto oltre, fino a chiedere - didatticamente più che provocatoriamente: «Dio ha bisogno della Chiesa?»[5], per rispondere ovviamente di sì, ma lasciandosi alle spalle l’altra sua precedente e ben più interessante domanda: «Gesù come ha voluto la sua comunità?»[6].

Questa domanda può apparire naif, alla luce dell’indagine storica e in considerazione di quell’allontanamento dalla – si dice – idealizzata Chiesa delle origini, un allontanamento considerato, a torto o a ragione, come inevitabile. Tuttavia interrogarsi sul “progetto” di Gesù sulla sua comunità non è né sterile, né storicamente improponibile, a partire dal fatto che la riscoperta ebraicità di Cristo e una più attenta contestualizzazione del suo messaggio e della sua prassi ci riportano a un “progetto teologico”, che semplicemente non ci è lecito snobbare. Non ci è lecito, perché ne va della continuità “teologica” del progetto di Dio nella storia umana e della continuità del popolo di Dio nella stessa. Si perviene così a un problema cardine, non più evitabile: quello della corrispondenza della Chiesa all’intentio Dei, a quell’intenzione di Dio, colta sulle labbra, nel cuore e nell’agire di Gesù. Di un Gesù non solo maestro del passato, ma Maestro sempre attuale e irrinunciabile nel presente. Né basta declinare la nostra adesione a lui come individuale “conversione” in senso spirituale/spiritualistico. È tempo, piuttosto, di assumere proprio tale conversione come criterio di apostolicità della Chiesa, superando l’abituale impostazione giuridica di questa, e recuperandovi il senso teologico pleniore di un radicamento effettivo non solo nel Cristo mistico ma anche nel Cristo storico. Un’operazione tanto più importante nel momento in cui il popolo di Dio va prendendo coscienza di essere esso stesso corpo storico oltre che corpo mistico: corpo di uomini e di donne che non vivono astrattamente nella storia, bensì nelle contraddizioni, nelle cadute, ma anche nelle riprese e nei sogni di questa nostra storia[7].

2) Riscoprire l’euangelizesthai come lieto annuncio ai poveri

Insomma il problema della continuità deve ancora passare, nella prassi e nei piani ecclesiali, dal piano giuridico a quello teologico[8], sebbene occorra riconoscere che, dopo le precisazioni magisteriali del 1986, qualcosa in questa direzione, almeno a livello teorico, si è mosso. Tanto da arrivare, in qualche caso, a ritenere superata l’istruzione del problema della fondazione-continuità della Chiesa nei suoi termini tradizionali[9], per incanalarla su una linea di soluzione diversa. Questa considera Gesù come colui che ha impresso una precisa «direzione» nei suoi seguaci, e pertanto rimanda continuamente a lui nella direzione della sua sequela, una sequela certamente assunta in maniera creativa, e tuttavia vero criterio discriminate della missione della Chiesa[10].

In questa direzione, cioè nella sequela Christi e come sequela Christi, come è stato già evidenziato, è da riproporre l’intera problematica del valore della povertà per il popolo di Dio, quella problematica che si può fondamentalmente riassumere in due aspetti fondamentali: Chiesa povera e Chiesa dei poveri. Tutto ciò nella convinzione che il nesso tra evangelizzazione e povertà è un nesso scritto già nei vangeli e pertanto è un irrinunciabile dato evangelico, o se si vuole, un dato dogmatico: non solo in ragione della sequela, ma per il fatto che l’“evangelizzare” nel senso cristiano non può essere altro che l’euangelizesthai dei sinottici, termine con il quale si indica l’attività tipica di Gesù: un’attività tesa a recare il lieto annuncio ai poveri e agli infelici. In questo contesto il nesso di una Chiesa povera e di una Chiesa dei poveri è apostolicamente quello con il Cristo povero e con il Cristo dei poveri, cioè con il Cristo che ha annunciato la buona notizia a tutti, ma cominciando dai poveri e chiamando i ricchi a condividere i loro beni con loro. Su queste due espressioni di una Chiesa povera e di una Chiesa dei poveri si possono dare alcune indicazioni storicamente situate e proponibili, proprio in forza dell’asserito valore teologico della storia per l’agire della Chiesa nella sua evoluzione storica. Una Chiesa povera significa l’assunzione seria e sistematica dello stile e del progetto di vita di Gesù nello svolgimento del suo compito messianico, una Chiesa dei poveri significa l’identificazione da parte della Chiesa con le urgenze e i problemi dei nuovi poveri, che oggi si chiamano in vario modo e che riguardano non solo gli emarginati di vario genere presenti nelle diverse regioni del mondo, ma anche i popoli poveri, cioè oppressi o angariati, sfruttati o dominati da popoli ricchi.      

3) Chiesa povera per collaborare alla realizzazione del Regno di Dio

Ci riferiamo innanzi tutto alla povertà di Cristo come via prescrittiva anche per la Chiesa, prescindendo dall’esegesi biblica più recente sulle condizioni economiche reali della famiglia di Nazaret e da quant’altro sia stato detto in proposito. Riteniamo  infatti che la natura della sua povertà sia da abbordare sul piano qualitativo e non quantitativo. Vale a dire: come scelta e come stile soprattutto relativamente al potere e non relativamente alle cose che egli avesse effettivamente posseduto o utilizzato. Su questa linea, sembra illuminante la distinzione tra auctoritas e potestas, nei suoi risvolti ecclesiologici, relativamente alla diakonia, nuovo nome e vera e propria revisione del munus, da impostare secondo l’insegnamento e l’agire di Gesù. Ne ha parlato con pertinenza e competenza il Cardinale Martini, radicando nel vangelo la prassi di un servizio che deve contraddistinguere quanti hanno autorità nella Chiesa. Partendo da Cristo, vero capo e referente reale e non solo ideale della Chiesa, questa deve intendere e ristrutturare il munus come egli l’ha vissuto e come egli l’ha prescritto per i suoi discepoli.  Vale a dire come diakonia e come compito, sulla base dell’auctoritas e non di una potestas troppo spesso e troppo pesantemente ricalcata sul modo di governare dei potenti di questo mondo[11]. Se l’annuncio del Vangelo forma ecclesiae vuole effettivamente dire qualcosa, occorre coerentemente cominciare da qui.

L’auctoritas, intesa qui come servizio radicato nell’autorevolezza di chi ama, di chi ama di più, è infatti direttamente collegata alla povertà.  Per la Chiesa indica  un’autorevolezza la cui efficacia viene da Dio e dall’inarrestabile azione del suo Spirito. Solo a queste condizioni, essa può evitare le distorsioni e le patologie di un ufficio ridotto, mondanamente,  a puro e semplice potere. Né basta rispondere che la Chiesa ha ricevuto da Cristo “ogni potere”, giacché la pasa exousìa del finale di Matteo si riferisce alla conclusione di una straordinaria vicenda umano-divina: il Signore stesso si è fatto crocifiggere ed è risorto per gli uomini (Mt 28,18).  È lui  che e non un altro che ora manda gli apostoli ad annunciare il lieto annuncio ai poveri, anzi a tutte le creature. È il medesimo Maestro che, nel finale parallelo di Marco,  li manda ad aver cura degli uomini e a liberare gli oppressi (Mc 16,15-18).

La conseguenza teologica è che la Chiesa non vive per se stessa, ma per la salvezza del mondo. Non può progettarsi autonomamente dal mandato di Cristo, non può vivere  in maniera introversa, essendo sempre proiettata verso gli altri[12]. Si ha certamente il diritto di ribadire che, essendo inserita nel mondo, ha pur sempre bisogno di mezzi per adempiere la sua missione. Si ha tuttavia il dovere di precisare che tali mezzi devono essere in sintonia con quell’auctoritas che rifugge l’esercizio del potere alla stregua umana, rifiuta i privilegi e gli appoggi, ovviamente interessati, dei potenti del mondo e si dedica in primo luogo a quella sua attività tipica e “gesuana”, che è l’annuncio del vangelo ai poveri. Un’attività che oltre ad essere missionaria, è anche e soprattutto messianica, perché direttamente collegata all’opera del Messia che adempie in ciò le antiche profezie di un Regno che viene per coloro che non hanno né potere, né averi. La cura prestata proprio a costoro sarà, del resto, il criterio dell’entrata o dell’esclusione definitiva nel Regno escatologico (Matteo 25,31-46).

Tutto questo è stato spesso detto e almeno a livello teorico non dovrebbero sussistere dubbi sulla sua correttezza teologica. Il problema, è stato affermato, è piuttosto quello pratico, data anche la riconosciuta “funzione di sostegno” della Chiesa, “per alimentare alcuni valori necessari alla coesione di una convivenza sempre più frantumata”. E tuttavia anche qui non si può eludere la domanda sull’identificazione di tali valori e sulla natura e sull’entità del sostegno che la Chiesa possa e debba dare.

Ritengo che più che di una funzione di sostegno, si tratta di affermare e adeguatamente motivare una nuova intelligenza profetica, rispetto a quei meccanismi strutturali, pur complessi e profondi, che anziché creare coesione e convivenza,  falcidiano una buona parte dell’umanità per fame; una nuova intelligenza e un agire consequenziale rispetto alle oppressioni, vecchie e nuove, alle guerre guerreggiate e alle continue guerre minacciate. Se in sintonia con la Chiesa universale, le nostre Chiese locali e/o particolari non imboccano la strada della profezia che denuncia l’assurdità e l’inumanità di tutto ciò, non solo la Chiesa non sarà artefice di rapporti riconciliati tra mondi che si allontano sempre più, ma al massimo potrà essere solo la giardiniera dei ricchi, o se proprio si vuole, la cappellana delle ville dei nuovi arricchiti.

Vale certamente il discorso della diversità degli stili e dei carismi ecclesiali, nelle loro diverse identificazioni di appartenenza, e tuttavia occorre affermare senza tentennamenti che nessuna, pur legittima, tipicità ecclesiale può disattendere questa chiamata unica, precisa e inequivocabile ad un esercizio profetico, che è un tutt’uno con l’annuncio del Regno, con la confessione della venuta di Cristo come Figlio di Dio, della sua morte e risurrezione e con l’attesa del suo ritorno. Con tali elementi che strutturano il kerygma bisogna pur sempre fare i conti e richiamare alla continua conversione.

Se proprio appartenenze diverse ci devono essere e ci sono, occorre allora interrogarsi sulla vicinanza di ciascuna di esse a questa normatività di base. Sì, forse non porta lontano impostare la questione nei termini tradizionali della contrapposizione, secondo lo schema binario si/no, appartenenza o non appartenenza a Cristo. Mi sembra però che sia venuto il tempo di chiedersi sinceramente e seriamente, secondo lo schema dell’appartenenza ecclesiale per cerchi concentri,  chi sia più vicino a Cristo e al suo Regno e chi invece ne sia più lontano. Chi sia mosso davvero dal Vangelo che annuncia la vicinanza di Dio ai poveri e chi invece si accontenti di gestire gli spazi lasciati alla Chiesa dai ricchi o perché improduttivi (volontariato e simili) o messi a disposizione di essa, oppure semplicemente perché costituiscono un buon investimento.

Insomma, la conversione, altra categoria biblico-teologica di primaria grandezza, non può essere ancora declamata in linea di principio, o solo demandata alla coscienza del singolo, come ben evidenziato dal relatore, ma deve scaturire dalla coscienza che la Chiesa, essendo popolo di Dio, non progetta se stessa, ma continuamente asseconda il progetto di Dio, convertendosi continuamente, come diceva P. Ignazio Ellacuria, al suo Regno. Appunto: conversione della Chiesa al Regno di Dio.  Si tratta di un regno che ha costitutivamente a che fare con i poveri: poveri tradizionali e nuovi poveri, dando seguito storico all’affermazione di Giovanni XXIII, , che alla vigilia del Vaticano II, l’11 Settembre 1962, dichiarava:

«La Chiesa si presenta qual è e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri»[13].

 È un’affermazione che vale anche per la Chiesa di oggi? E, soprattutto, sono i poveri davvero a casa loro nella Chiesa? Quali poveri allora sono qui da intendere? Si può continuare a discutere sul concetto di povertà e su chi siano i poveri[14]. Ma, limitandoci a dire che i poveri sono tutti coloro che soffrono di qualche privazione (economica, fisica, morale, intellettuale, sociale, politica), tutto ciò non elude la domanda seria se questi siano parte privilegiata, oltre che destinatari preferenziali della Chiesa. A questi poveri bisognerà riferirsi per discernere il nostro grado di vicinanza a Cristo e alla Chiesa del Concilio. Occorre riferirsi a loro nella concretezza di scelte reali e “politicamente” significative, oggi fatte ancora, purtroppo, solo da sparuti gruppi di cristiani “impegnati” (da alcuni missionari ai gruppi di impegno sociale, dal volontariato ai gruppi che si occupano della pace, della giustizia, della salvaguardia del creato, ecc.).

Su questa scia la povertà della Chiesa può diventare condivisione di un progetto messianico, che, mentre annuncia il Regno di Dio, avvicina di più a Cristo. Tra le diverse appartenenze ecclesiali, occorre infatti riconoscere che il grado di vicinanza a Cristo e al suo Regno passa attraverso un’impostazione differenziata verso i poveri e il loro destino, che si potrebbe riassumere in questi termini: il cerchio più esterno riguarda coloro che ai poveri fanno di solito la beneficenza. Certamente sono Chiesa anche loro, nessuno osa affermare il contrario, ma sono espressione di una Chiesa che se in termini generali è ancora Chiesa di fronte al mondo, o, nei casi migliori, Chiesa nel mondo, in termini specifici non è proprio vicina all’intentio e all’actio Christi, ma è piuttosto espressione di quella concezione di “un eminente prelato”, che ancora alle soglie del 2000, diceva:

«non è mai scritto che la Chiesa debba essere povera. Tanto più – aggiungeva – caso mai erano i cristiani a dover essere poveri, magari anche per le sovvenzioni offerte alle loro Chiese»[15].

Non è così. E sia la teologia sia quel prelato lo sanno bene. Certo, occorre che tutti nella Chiesa ne prendiamo coscienza e ciò può avvenire solo se alla concezione della Chiesa nel mondo, passiamo all’altra, pur espressa – sebbene indirettamente - dal Concilio, della Chiesa per il mondo, vale a dire, per la sua salvezza e per la salvezza del suo futuro. Mai come oggi tale salvezza passa attraverso l’impegno per i poveri e con i poveri. Ritengo che proprio ciò voglia dire essere Chiesa povera e Chiesa dei poveri.  Le conseguenze sono molto più pratiche di ciò che si pensi e solo una sorta di rinuncia, probabilmente inconscia, a rimettersi in discussione, può tacciarle di romanticismo o di rivestimento retorico. Esse si chiamano scelta della sobrietà e dell’essenzialità come stile di vita e come possibilità concreta di fraternizzare con gli altri, cominciando dai più bisognosi e vivendo coerentemente l’amore, comandamento nuovo e indicazione cardine del Vangelo, senza del quale amore la scelta dei poveri non avrebbe senso[16]. Si chiamano anche revisione del proprio stile vita e di quello delle comunità di appartenenza, nella rinuncia al lusso e all’ampollosità, ma anche nello studio sereno e serio sulle cause della povertà e sulle modalità di intervento per rimuoverle.  Si chiamano anche impegno per la giustizia e per la pace, per la tutela dei diritti umani, per dare seguito storico a quel messianismo della Chiesa che si rifà al messianismo di Gesù. A questo riguardo la lumen gentium  si può dire che prosegua idealmente la trattazione della povertà della Chiesa del citato numero 8, collegandola non solo con il tema del peccato da cui deve sempre purificarsi, com’è nel seguito del testo, ma anche e soprattutto  parlando della Chiesa come popolo messianico:

«Questo popolo messianico ha per capo Cristo “consegnato per i nostri peccati, risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,25), che regna glorioso in cielo dopo aver ottenuto il nome che è al di sopra di ogni altro nome. Lo statuto di questo popolo è la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali, come in un tempio, inabita lo Spirito di Dio. La sua legge è il nuovo comandamento di amare come ci ha amati Cristo (cf. Gv 13,34). Il suo fine è il regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre più, per essere portato a compimento alla fine dei secoli, quando apparirà il Cristo vita nostra (cf. Col 3,4); allora “anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio” (Rm 8,21)» (ivi, EV/1, 309).

La Chiesa vive l’amore facendo sue le promesse messianiche e le speranze di ogni uomo:

«Perciò il popolo messianico, anche se di fatto non comprende ancora la totalità degli uomini e ha spesso l’apparenza di un piccolo gregge, è però per l’intera umanità germe sicurissimo di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità, viene assunto da lui anche come strumento di redenzione per tutti, ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,12-16)» (ivi).

Assecondando queste indicazioni, la Chiesa vive l’annuncio del Vangelo come speranza degli uomini e del loro futuro, spingendosi a scorgere quell’altro mondo possibile che è vicino al Regno e ne costituisce un suo avamposto.

Per la teologia tutto ciò diventa un compito e un impegno ulteriore. Suggeriamo solo alcune piste di riflessione perché i teologi continuino a cercare le modalità che siano più consone alla teologia e siano espressione di una messianicità vissuta:

1)             l’adozione e lo sviluppo di un “pensare sensibilmente”, che non per questo è meno scientifico dell’altro freddo e incorporeo, di derivazione razionalista[17], che è il "pensare astrattamente"; vale a dire di un pensiero che assume la responsabilità e la cura dell’altro sulla soglia della propria coscienza;

2)             Aprire, decodificare, approfondire e divulgare la portata utopico-liberante della fede cristiana, oltre che del suo annuncio: dei suoi simboli, a cominciare dal Symbolum fidei, fino ai sacramenti e alla trasparenza dei sui segni in genere;

3)             Camminare accanto agli uomini,  privilegiando i più svantaggiati, quanti non hanno voce, né rappresentanti e individuando la Fremdprohetie (Schillebeekx), la profezia estranea, che tale non è, come profezia laica e tuttavia reale di quel Regno che se viene nella fede, viene anche nella storia degli uomini e indicando in questa l’eccedenza di futuro che la inibita.



[1] La presente stesura tiene conto delle osservazioni ricevute. Modifica alcuni titoli e riprende pensieri espressi solo oralmente nel corso del  mio intervento. 

[2] Cf. Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, 29 giugno 2001.

[3] Le lamentele vanno dalla crisi del concetto di Verità alla dissoluzione dell’”ambiente sociale confessionale”, passando per una serie interminabile di posizioni e valutazioni intermedie. Due soli esempi. Sull’impostazione  epistemologica generale cf. G. Lorizio, Rivelazione cristiana. Modernità. Post-modernità, San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 1999; sulle ricadute nell’ecclesiologia cf. M. Kehl, Die Kirche.  Eine katholische Ekklesiologie, Echter, Würzburg 1993. Traduzione italiana: M. Kehl, La Chiesa. Trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI).  Cf. anche M. Fini, «Nuova evangelizzazione: annunciare il vangelo nel compimento del moderno», in Il Regno Attualità 38 (1993) 2, 44-56.

[4] Una rassegna delle più consistenti trattazioni di ecclesiologia apparse dai tempi del Vaticano II è reperibile in G. Mazzillo, «L'eclissi della categoria "popolo di Dio"», in Rassegna di Teologia 36 (1995) pp. 553-587.

[5] G. Lohfink, Braucht Gott die Kirche? Zur Theologie des Volkes Gottes, Herder, Freiburg 1998. Traduzione italiana: Id., Dio ha bisogno della Chiesa?: Sulla teologia del popolo di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999.

[6] G. Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità? La Chiesa quale dovrebbe essere, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1987.

[7] Cf. I. Ellacuría, «Il popolo crocifisso» in Conversione della Chiesa al Regno di Dio, Queriniana, Brescia 1992, 41-69.

[8] Ciò va ovviamente al di là del problema di Cristo “fondatore” della Chiesa, presente nella discussione teologica e che si presenta in molteplici forme.  Cf., a riguardo, la  sintesi di H. J. Verweyen, «Fondazione della Chiesa da parte di Gesù?» e il paragrafo seguente, dal titolo «Una nuova impostazione della questione. Chiesa e canone», in Id., La parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2001, 445-458.

[9] Spostando la questione dal piano giuridico-legale a quello teologico, la posizione più equilibrata sull’argomento ha fatto appello a un'autocoscienza di Gesù sul rapporto stesso intercorso tra l'annuncio del Regno e «la fondazione escatologica del popolo di Dio che sarà aperto a tutti gli uomini». Cf. Commissione Teologica Internationale, Documentum Iam bis de christologia de Iesu autoconscientia quam scilicet ipse de se ipso et de sua missione habuit. Quattuor propositiones explanantur, 31 maggio 1986: EV 10/681-723. Particolarmente importante appare il n. 710, che recita « Non si tratta di affermare che quest'intenzione di Gesù implichi una volontà espressa di fondare e di stabilire tutti gli aspetti istituzionali della Chiesa, quali sono andati sviluppandosi nel corso dei secoli. Invece è necessario affermare che Gesù ha voluto dotare la comunità, che egli è andato raccogliendo attorno a sé, di una struttura che rimarrà sino al pieno compimento del regno». Del resto, sul rapporto tra Regno di Dio e Chiesa cf. quanto già presente nel Vaticano II: «Il mistero della santa chiesa si manifesta nella sua fondazione. Il Signore Gesù infatti diede inizio alla sua chiesa predicando il buon annuncio, cioè la venuta del regno di Dio promesso da secoli nelle Scritture: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino”» (LG 5: EV 1/289).

[10] Cf.  J. Werbick, Kirche. Ein ekklesiologischer Entwurf für Studium und Praxis, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1994, 79  e passim. L’opera è reperibile oggi anche in italiano: Id., La Chiesa. Un progetto ecclesiologico per lo studio e per la prassi (Brescia, Queriniana 1998).

[11] Il riferimento più immediato è, ovviamente, quello evangelico: <<Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve»>> (Lc 22,25).  Per la distinzione di fondo, qui accennata e per la sua impostazione teologica, cf. J. Blank, «Sul concetto di 'potere' nella chiesa», in Concilium 24 (1988/3) 19-32.

[12] Cf. S. DIANICH, Chiesa estroversa, Una ricerca sulla svolta dell’ecclesiologia contemporanea, Paoline, Cinisello B.(MI) 1987.

[13] Riportato da  L. BETTAZZI, La Chiesa dei poveri nel Concilio e oggi, Parazzini, Villa Verucchio (RN) 2001, 9.

[14] Cf. G. MAZZILLO,  Das Subjekt-Sein der Armen in der Kirche als Volk Gottes, Dissertazione dottorale, Würzburg 1983;  ID., “Poveri”, in Nuovo Dizionario di teologie, S. Paolo.  Contributi e riflessione sull’impegno per la pace e la giustizia sono reperibili in www.puntopace.net.

[15] Riportato da L. BETTAZZI, La Chiesa dei poveri … cit., 7.

[16] Debbo tale precisazione al prezioso intervento di Carlo Molari in sede di dibattito in aula dopo la presente relazione.

[17] Su questo cf., a proposito di Walter Benjamin,  G. GAETA, Religione del nostro tempo, Edizioni e/o,  Roma 1999.