Gen 4,17: «Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio».
«Poi...» e
prima?: eliminazione di Abele - il
segno della protezione di Dio - esilio nel paese di Nod (terra di quanti non
hanno patria?). Delitto - paura - autoesilio - bisogno di una città a propria
misura.
«Sette volte sarà
vendicato Caino ma Lamech settantasette».
Lamech erede di Caino parla alle mogli con la (presunta) onnipotenza del violento: «Ada e Zilla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamech, porgete l'orecchio al mio dire: Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido» (Gen 4,23). Inoltre la violenza si autogiustifica: «sette volte Caino, settantasette Lamech».
C’è una sorta di patto di sangue (di natura mafiosa): il sangue degli altri che sarà versato per un nonnulla.
È un patto generatore di violenza e pertanto di morte. La spirale sembra: sopraffazione con l’appiglio di una minuzia - difesa violenta di sé e del proprio clan - considerazione dell’altro come nemico.
Caino è visto come fondatore di “civiltà”, essendo l'antenato degli allevatori, dei musicisti, dei fabbri e forse delle “figlie del piacere” (Naama = la bella o amata) cf. v 22). La città è considerata negativamente da questo brano attribuito alla tradizione jahvista, così come quello della torre di Babele (Gen 11,1-9 ).
«Dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”» (Gen 11,4). La città di Caino nasce dalla ribellione ed è espressione di arroganza.
“Il sangue di Abele ancora parla” (Eb 11,4: «Per
fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad
essa fu dichiarato giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni; per
essa, benché morto, parla ancora»).
Abele prefigura Cristo, e il suo patto nel sangue
versato per gli altri (Eb 12,22.24: «Vi siete accostati ... alla città del
Dio vivente, al Mediatore
della Nuova
Alleanza e
al sangue dell'aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele»;
Mc 14, 24 «[Gesù] disse:
“Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti”».
«Voi vi siete
invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla
Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all'adunanza festosa
e all'assemblea dei primogeniti
iscritti nel cielo ... al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue
dell'aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele» (Eb 12, 22-24).
La città terrena
(che pur era Gerusalemme) è stata tuttavia la città dalla quale Gesù è stato
estromesso, essendo morto fuori di essa, pertanto «Usciamo dunque anche noi
dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non
abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,13-14).
Siamo infatti cittadini del cielo, più che della città.
E che cosa ne è
della città terrena? Dobbiamo rinunciare a viverci dentro o a costruirla?
Certamente no, ma dobbiamo tener presenti alcuni principi importanti.
Oltre a quelli già
evidenziati, occorre:
- Praticare la
correzione fraterna e perdonarsi fino a settanta volte sette:
«Se il tuo
fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà,
avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due
persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se
poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà
neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano ... Allora Pietro
gli si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio
fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non
ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18.15-17.21-22).
- Costruire in
armonia con il progetto di Dio, progetto di pace e di giusta convivenza tra gli
uomini: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i
costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode»
(Sal 127,1).
- Costruire sulla
roccia di una fede praticata nella solidarietà e non sulla verbosità di una
fede declamata (cfr. le due case in Mt 7,24-27).
-
Ricostruire anche in tempo di devastazione e di esilio. Ger 29,7:
lavorare per la pace persino del luogo di deportazione, perché Dio coltiva per
tutti progetti di pace: «perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò
trovare da voi - dice il Signore - cambierò in meglio la vostra sorte e vi
radunerò da tutte le nazioni e da tutti i luoghi dove vi ho disperso - dice il
Signore - vi ricondurrò nel luogo da dove vi ho fatto condurre in esilio» (Ger
29,14).
- Avere come
modello la città definitiva dell’Apocalisse: «Vidi anche la città santa, la
nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per
il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: « Ecco la
dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo
popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro". E tergerà ogni lacrima dai
loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate» (Apc 22, 1-4) [Dio sole della città -
consolazione degli uomini - novità di ogni cosa].
Possiamo prendere
l’avvio di questo segmento di riflessione biblico-teologica da
un’affermazione biblica che ripetutamente asserisce che Dio non accetta regali
(2Cr 19,7). Nessuno può corromperlo e lo stesso deve essere di chi è vincolato
a lui da un patto d’amicizia[2].
Egli non mostra alcuna parzialità interessata e cosi devono fare i giudici del
suo popolo, giacché «il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole
dei giusti. La giustizia e solo la giustizia seguirai» (Dt 16,19-20). Pertanto
nessun potente può essere preferito a danno del povero (Lv 19,15)[3].
Occorre chiarire
subito che tale imparzialità non può essere intesa in alcun modo come
equidistanza simmetrica tra uomini e popoli. Nella Bibbia la giustizia di Dio,
proprio perché di Dio e non di uomini, mira al ristabilimento di quell’ordine
primordiale che ci vuole tutti uguali e che è stato compromesso
dall’ingiustizia umana. Infatti «il Dio grande, forte e terribile, che non
usa parzialità e non accetta regali» (Dt 10,17) è presentato subito dopo come
il Dio che «rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà
pane e vestito» (Dt 10,18). Si fonda ora qui la nostra indiscussa e
indiscutibile contrarietà a ogni provvedimento teso a favorire, anche
indirettamente, discriminazione, disprezzo e rifiuto degli stranieri e di ogni
altro essere umano indifeso. Si fonda sostanzialmente sulla parola di Dio che
prescrive: «Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel
paese d'Egitto» (Dt 18,19).
Quest’assunto,
che collega la magnanimità di Dio con l’esperienza personale dell’esilio,
diventa un vero e proprio ritornello nei libri profetici e sapienziali. A difesa
degli stranieri e degli infelici si erge continuamente colui che attesta:
«Non temere, perché io sono con te; non smarrirti,
perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e anche ti vengo in aiuto e ti
sostengo con la destra vittoriosa» (Is 41,10).
Se volessimo
trovare conferme concrete a tali affermazioni di principio, non dovemmo cercare
a lungo. Quel Dio che non «guarda in faccia alle persone» ed è amorevole
verso i piccoli è Gesù (Mc 12,14), coerente con ciò che di Dio in generale
afferma anche la nuova alleanza. Anche lui non è intimorito dalle persone
importanti e annuncia la liberazione degli oppressi. Ciò vale davanti agli
uomini del mondo come davanti alle autorità della stessa chiesa[4].
Fatti questi doverosi riferimenti, possiamo senz’altro affermare che
l’agire di Dio diventa chiaramente indicativo della prassi umana. La doppia
motivazione è costituita dallo stato di pellegrinaggio sulla terra e
dall’infinita gratuità di Dio. Da lui proviene ogni cosa: singoli e popoli,
uomini dispersi o radunati in una comunità, popolo dell’antica alleanza e
chiesa di Cristo sono tutti opera del suo amore. Tale riferimento all’amore ci
apre uno squarcio sull’accoglienza, come atto primordiale di Dio comunicato
anche ai suoi figli. È molto di più della pura e semplice accettazione. Nei suoi sinonimi, l’accoglienza sembra percorrere
le vie dell’amore. Vale in un doppio senso di marcia: siamo infatti chiamati
ad accogliere l’altro, in quanto e come riverbero del fatto che siamo
continuamente accolti da Dio. Tutto ciò merita almeno un rapido
approfondimento, perché è collegato a temi sicuramente centrali della teologia
biblica. Innanzi tutto l’accoglienza come opera di creazione continua.
Il tema dell’accoglienza appare in definitiva ben presente nella
Bibbia. Il primo ad essere accogliente è Dio. La sua accoglienza significa
innanzi tutto gradimento. Oltre ad “accogliere” la creazione come opera
buona, egli accoglie il sacrificio di Abele. Il suo sacrificio è a lui ben
accetto perché gli è gradito il suo comportamento. Il contrario succede con
Caino, preda della sua invidia e della malvagità (Gen 4,-4-7). La Bibbia parla
ancora dell’accoglienza dei genitori di Sansone, nei confronti del messaggero
di Dio che preannunciava il dono di un figlio, con tutto il suo futuro (cf. Gdc
13,8-25). Ma ciò avviene perché Dio per primo ha accolto, come sempre egli fa,
l’invocazione di quanti si rivolgono a lui come unico sostegno. Ne sono un
esempio l’accorata preghiera di Agar che sta vedendo morire il suo piccolo nel
deserto (Gen 16,11), le invocazioni di tutti i poveri che si levano verso il
cielo in ogni momento della storia e anche oltre di essa, come narra l’autore
dell’Apocalisse a proposito delle invocazioni dei martiri (Ap 21,4). Tale
accoglienza della sofferta invocazione di chi soffre è confermata dalla
lapidaria affermazione di Gesù, che assicura: «E Dio non farà giustizia ai
suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo
aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente» (Lc 18,7-8a).
C’e una
decisa conferma di tale accoglienza dei miseri da parte di Dio in tutti i
profeti. Insieme con il libro dei Salmi quelli profetici presentano Dio come
colui che gradisce l’agire e l’invocare dei poveri, perché è un sicuro
riparo per l'oppresso (Sal 9,10). In realtà «la salvezza dei giusti viene dal
Signore nel tempo dell'angoscia è loro difesa» (Sal 37,39)
Il gradimento di
Dio delle sue creature, in primo luogo di quanti si curano degli altri come lui,
si può ben riassumere con l’affermazione di Paolo che collega l’avvento del
regno con la sequela di Gesù:
«Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o
di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il
Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini» (Rm
14,17-18).
In ciò si
riprende il senso di quanto già asserito sui costruttori di pace, chiamati
figli di Dio. Chi costruisce quotidianamente la pace compie lo steso atto di
accoglienza continua di Dio.
Collegato al tema dell’accoglienza come gradimento di Dio e come realizzazione della sua opera di pace, c’è nella Bibbia quello dell’ospitalità. Chi è ospitale verso il forestiero è da lui benedetto. Nel libro della genesi, oltre ad Abramo che accoglie Dio sotto la quercia di Mamre (Gen 18,1-8), ne è un esempio Rebecca, che accoglie Isacco e così realizza un momento determinante della storia della salvezza. La sua accoglienza è anche il mezzo attraverso il quale le comuni radici sono ritrovate in Dio (Gen 24,18-20). Tra Labano e Giacobbe, l’accoglienza, quando è praticata, fa riandare alla accettazione della prima coppia umana, sicché anche tra parenti si può affermare: «Davvero tu sei mio osso e mia carne!» (Gen 29,14). Lo stesso dinamismo è in atto tra Giuseppe e i suoi fratelli (cf. Gen 43,16).
Non mancano casi di accoglienza drammatica e toccante, fino alle lacrime e alla relativizzazione della morte. Così nel vecchio Giacobbe per la prima alleanza e nell’anziano Simeone per il vangelo. Il primo dichiara a Giuseppe ritrovato: «Posso anche morire, questa volta, dopo aver visto la tua faccia, perché sei ancora vivo» (Gen 46,30); l’altro, stringendo Gesù tra le braccia, non esita a dire: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30).
Non sono che esempi, che ricorrono anche nei libri storici e profetici e riguardano l’accoglienza di re, di profeti, di sacerdoti o di semplici fedeli verso bisognosi, forestieri, svantaggiati. Tutto avviene secondo un messaggio che è sempre sullo sfondo: chi accoglie l’altro in nome di Dio accoglie Dio stesso nel suo passare tra li uomini. Per questo viene benedetto e diventa fecondo.
Con Gesù il tema
dell’accoglienza tocca il momento fondamentale dell’accoglienza o del
rifiuto di Dio. Accogliere la sua Parola che viene nel mondo è l’atto
determinante che, secondo l’evangelista Giovanni, rende gli uomini figli della
luce. Si tratta di un’accoglienza decisiva, che non tutti praticano verso Gesù.
Almeno alcuni arrivano a ripudiarlo: «la luce splende nelle tenebre, ma le
tenebre non l'hanno accolta»[5]
(Gv1,5). La sua accoglienza totale avviene allora da parte del Padre, che lo
risuscita e in lui Uomo nuovo rende nuovi quanti finalmente lo accettano nel
presente e nel futuro. Confrontando Cristo ad Adamo, Paolo coglie in Gesù
l’apertura a Dio e all’altro che era mancata ad Adamo. Gesù è mostrato
sempre in atteggiamento favorevole verso i poveri e quanti soffrono. Il Discorso
della montagna, che inizia con la proclamazione del loro gradimento da parte
di Dio (Beati voi poveri, voi che piangete ecc.) riceve un’ulteriore
motivazione nell’appello di Gesù:
«Venite a me, voi
tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio
giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete
ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico
leggero» (Mt 11,28-30).
Lo stesso
atteggiamento è richiesto da Gesù ai suoi discepoli e a quanti vivranno
secondo il Vangelo, a partire dall’accoglienza verso i più piccoli: «Chi
accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non
accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37). Qualcosa del genere vale
anche a vantaggio dei discepoli, se a loro riguardo il maestro aggiunge:
«Chi accoglie voi
accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un
profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto
come giusto, avrà la ricompensa del giusto» (Mt 10,40-41).
Chi accoglie Dio,
accoglie anche la sua opera. Accetta lo stile di Dio e collabora con lui nella
difesa degli svantaggiati, tra i quali sono i forestieri. Condivide il suo modo
di agire verso gli “altri”, siano essi chiamati, “altri”, oppure,
“stranieri”, “forestieri” o “extracomunitari” e “clandestini” e
quant’altro è stato inventato per etichettare e stigmatizzare coloro che non
appartengono alla nostra cerchia: dai “barbari” e “xenòi”dei
greci agli hostes dei latini[6].
Quest’ultimo termine aveva almeno il pregio di dichiarare esplicitamente ciò
che si pensava degli “altri”: gli hostes erano gli stranieri e come
tali anche i nemici. Il termine latino significa entrambe le cose.
Occorre rovesciare
una simile concezione, ritrovando in Dio con le nostre comuni radici, anche le
motivazioni di fondo per una prassi simile alla sua e a quella di Gesù. Da dove
partire? Dal superamento di ciò che sembra essere alla base di ogni
atteggiamento discriminante: la paura della diversità. Questa si basa su una
immatura coscienza di sé: quella che si sente minacciata dalla presenza del
diverso. Ma non basta solo vincere la paura. Infatti, quando il diverso è stato
accostato, la storia del nostro Occidente ci ha insegnato che il problema non è
stato risolto. Tutt’altro. Il diverso, nella figura degli altri popoli, è
diventato mezzo e non fine: realtà da conquistare, colonizzare e sfruttare,
selvaggio da civilizzare, manodopera da importare, identità da assimilare, o in
ogni caso acquirente da spolpare. L’inversione di tendenza comincia solo
quando si vede nell’altro un fine e non un mezzo, una diversità a me
reciproca e complementare come io lo sono per lui, un partner a tutti gli
effetti, come io lo sono di Dio, un suo figlio con i miei stessi diritti e la
mia stessa identità, e pertanto un vero fratello.
Per vincere la
paura del diverso, occorre superare la cultura del recinto, o meglio della
recinzione, quella di cui parlava Rousseau, identificata forse sbrigativamente
con la nascita della civiltà. Ma di quale civiltà qui si parla? Di quella di
Caino, che fondando la prima città ha innalzato il primo recinto o della civiltà
di Abele? La prima è una civiltà ahimè già venuta, felicemente regnante e
troppo consolidata. La seconda è una civiltà appena abbozzata, e tuttavia
in Cristo, nuovo Abele e grazie agli sforzi anche di non pochi uomini e
donne “di buona volontà” si va faticosamente costruendo, conformemente al
modello della Gerusalemme definitiva di cui parla il libro dell’Apocalisse,
libro della rivelazione non solo del futuro, ma anche del senso del presente[7].
Se il primo passo è stato negativamente la recinzione per difendersi dallo
straniero hostis, forestiero e nemico, un passo risolutivo può venire
solo quando lo straniero non è più hostis, ma hospes[8],
un ospite che però è ospite come me nello stesso mondo, che è il giardino di
Dio affidato agli uomini.
È collegato a
questo passaggio culturale, di vera e propria civiltà, il superamento
dell’istituzione della guerra, degli eserciti e di quanto attiene ad essi. La
recinzione del sé e delle cose ha prodotto le armi. Con il nemico da
combattere, neutralizzare ed eliminare è nata la guerra. Con il diverso da
conquistare, asservire e ridurre a strumento del proprio benessere è nata la
prevaricazione, l’atto anti-creaturale e la violazione dell’altro insieme
con la profanazione dell’ospitalità. Ne è un emblema Sodoma, luogo della
prevaricazione e della profanazione dell'ospite. È la narrazione inquietante di
una violenza che progetta di profanare persino i messaggeri celesti, espressione
della presenza di Dio stesso. Certamente è uno strumento didattico efficace che
contrappone la mancanza di accoglienza e di ospitalità di tali cittadini
all’ospitalità di Abramo (cf. Gen cc. 18-19)[9].
Non andiamo troppo lontano dal senso del testo, se diciamo, attualizzando, che
è una storia che si ripete, se i “diversi” da noi, gli “stranieri”,
anzi questa volta per lo più le “straniere”, anziché ospitalità e
accoglienza trovano nelle periferie e nelle strade più o meno appartate delle
nostre città e dei nostri paesi cristiani la stessa violazione della loro
dignità e con essa l’estinzione delle loro speranze.
L’inversione di
tendenza deve muovere a partire ancora una volta da Abramo uomo di grande fede e
perciò di grande accoglienza. Il racconto della sua ospitalità ci offre le
coordinate per intendere il senso, le modalità migliori e gli esiti
dell'accoglienza stessa.
Di Abramo è
narrata la prodigalità premurosa che tuttavia rispetta l’identità altrui,
sebbene la ignori del tutto, contrariamente al lettore, informato sulla sua
natura divina. Come verrà raccontato anche di Lot, l’ospitalità di Abramo è
anche una sorta di custodia esistenziale del forestiero. Secondo questa
concezione biblica, si tratta di una tutela che investe rapporti sociali e
persino giuridici. L’ospitalità garantisce il nutrimento, la soddisfazione
dei bisogni, i diritti dell’altro, fino alla difesa della sua inviolabilità.
Assistiamo a una sorta di identificazione con la sorte altrui, al punto di
rischiare la propria incolumità e quella delle persone care, come nel caso di
Lot.
Il seguito del
racconto biblico mostra come la violenza compiuta o intentata verso il
forestiero è violenza intentata contro Dio stesso. L’aspetto più tragico è
che così facendo si misconosce il passaggio di Dio e ci autocondanna alla
propria estinzione. L’ospitalità praticata da Abramo e dalla moglie, già
anziani e sterili, porta ad entrambi la vita e un futuro (il figlio Isacco, una
progenie e una nuova terra). L’inospitalità degli abitanti di Sodoma, nel
pieno vigore delle loro forze fisiche trasformerà la loro città lussureggiante
in un lago di fuoco e di morte. Da qui sono invitati a fuggire in fretta gli
amici di Dio, non guardando a ciò che si lascia per non essere trasformati,
come la moglie di Lot, in statue di sale. Statue, potremmo commentare, di
insensibilità, che prepara, con il rifiuto dell’altro, la propria estinzione.
Chi non accoglie
Dio che ci passa accanto e non lo serve nell’altro si autocondanna. Ritroviamo
quest’idea nella celebre scena del giudizio finale (Mt 25,31-46). Come già
accennato, soccorrere i bisognosi, tra i quali i forestieri, significa
accogliere il Re, cioè Gesù. Rifiutandoli, si rifiuta lui. L’esito per così
dire fissa nell’eternità l’accoglienza come condivisione di felicità.
L'indifferenza fissa per sempre la separazione in un’incolmabile distanza.
Questo doppio esito si può ripercorrere all’indietro in molti altri testi
biblici. Troviamo scritto ad esempio:
«Quando un
forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il
forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi;
tu l'amerai come tu stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese
d'Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio. (Lv 19,33-34).
A questo riguardo
è ancora prescritto:
«Non molesterai
il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese
d'Egitto» (Es 22,20).
Tutto muove dalla
giustificazione storico-esistenziale: «Anche tu sei stato forestiero»[10].
Con la venuta di Gesù i tempi del verbo si spostano: «Non solo sei stato, ma
sei forestiero e pellegrino sulla terra». Il pellegrinaggio è la propria
vicenda umana, divenuta avventura di fede:
«Nella fede
morirono tutti costoro (cioè gli antichi padri della fede), pur non avendo
conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano,
dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così,
infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria» (Eb 11,13-14).
La stessa idea
ritorna nella prima lettera di Pietro: «Carissimi, io vi esorto come stranieri
e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all'anima»
(1Pt 2,11; cf. Sal 39,13). C’è l’invito a non fermarsi sulla terra, per
raggiungere non solo la città da venire, ma il Cristo già venuto e sempre
veniente[11].
Il discorso
finora sviluppato è un tutt’uno con l’assunto già menzionato in apertura e
che è tipico della lettera a Diogneto. Si può riassumere così: essere
stranieri a casa propria e a casa propria in terra straniera. Tale contemporanea
estraneità e comune cittadinanza impedisce, da un lato, le prevaricazioni già
viste e giustifica, dall’altro, l’impegno a migliorare la terra, i rapporti
umani, le relazioni interreligiose e, con tutto ciò, il futuro del mondo. Il
popolo di Dio che cammina nella storia ha al suo interno un principio di
trascendenza nei riguardi di essa, ma nondimeno ha anche un compito tutto da
svolgere. In quanto parte della famiglia umana, abbiamo una corresponsabilità
verso le sorti di tutti e pertanto l’obbligo morale di costruzione del futuro
in senso migliorativo. Sappiamo al contempo di uno scarto
qualitativo tra ciò che l’umanità
è oggi e ciò che ancora può e deve essere, in conformità con l’avvento del
Regno di Dio. Sono i due aspetti del paradosso che nella Lettera a Diogneto dice che i cristiani
«pur vivendo in città greche o barbare - come a
ciascuno è toccato - e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel
vitto e in tutto il resto, danno l’esempio di una vita sociale mirabile, o
meglio - come dicono tutti - paradossale. Abitano nella propria patria, ma come
pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono
staccati come stranieri; ogni nazione è la loro patria, e ogni patria è una
nazione straniera [...]. Vivono nella carne ma non secondo la carne. Dimorano
sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi vigenti, ma con
la loro vita superano le leggi»[12].
Si tratta di una
paradosso relativo alla vita secondo lo spirito e alla cittadinanza del cielo[13],
a partire dall’«essere nel mondo, ma non del mondo»[14]
e di quanto abbiamo già visto nella lettera agli Ebrei, le cui origini si
possono ancora una volta ritrovare nella confessione di Abramo: «Io sono
forestiero e di passaggio in mezzo a voi» (Gn 23,4). Tale stato di
pellegrinaggio, quando è vissuto nella fede, è tuttavia fermento per un mondo
nuovo, o meglio per vivere in modo nuovo le vicende del mondo. L’accoglienza
costruttiva del suo futuro sta in questo segreto: tutto ci è dato in dono, ma
richiede la nostra collaborazione per essere volto sempre al meglio. Il motore
di tutto è l’amore, quello con cui Dio ci accoglie e quello che egli ci
raccomanda di praticare verso gli altri, giacché accogliere il pellegrino, il
diverso e anche il nuovo, è accogliere Dio. Al punto che troviamo scritto:
«Perseverate nell'amore fraterno. Non dimenticate
l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo»
(Eb 13,1-2)[15].
Ne derivano,
in conclusione, alcune suggestioni spirituali e alcune indiscutibili
applicazioni pratiche. La prima riguarda la spiritualità, che deve ripartire
dall’indole peregrinante del popolo di Dio. Ciò consentirà di saldare la
crescita personale con quella comunitaria e di recuperare la propria parte di
responsabilità nei confronti del mondo in cui Dio ci ha posto a vivere. La
seconda conseguenza è un’impostazione dell’accoglienza in termini nuovi,
che rispettando la diversità, porti le stesse religioni a dialogare sul
significato della storia e dell’umanità. È un passaggio che non può
avvenire prescindendo da Dio, ma, al contrario, recuperando la capacità di
contemplare Dio, per abituarsi sempre più all’idea che anche oggi egli passa
in mezzo alla nostra umanità. In terzo luogo, occorre non idealizzare
l’incontro con l’altro in maniera romantica, o ripescando il misto del
“buon selvaggio”. Ogni uomo, come ogni cultura, ha i suoi punti deboli.
Riflettervi insieme li fa scoprire e porta gli uomini e persino le religioni a
purificare le proprie idee e le proprie identità. Dio passa, è vero, ma
attraverso uomini, che non sempre sono angeli puri e immuni. Ciò non può
giustifica il rifiuto. Può essere l’occasione per rivedere i propri limiti e
spingere se stessi e gli altri a indicare ciò che è migliorabile come tale.
Solo se si arriva a tale sorta di autoconversione continua, il rimando a Dio è
un invito a vederlo come fonte di vita e di pace e pertanto di riconciliazione,
che non annulla ma consente di armonizzare le inevitabili e indispensabili
differenze. Infine può accadere persino che le persone accolte, quando si
sentono amate in un modo cui non sono abituate, reagiscano male e forse con
ingratitudine. Sono casi-limite, ma che si possono capire partendo dal
presupposto che la peggiore povertà è quella “dello spirito”, cioè del
degrado che può colpire anche l’anima. Più che del viandante si tratta
allora dell’uomo sradicato, che senza volerlo si è spogliato di qualsiasi
stima dell’altro, perché non stima più nemmeno se stesso. È un fenomeno già
descritto da Simone Weil:
«Quando l’io è ferito dall’esterno, per prima
cosa si rivolta con estrema amarezza, come un animale che si dibatte (…)
desidera esser finito e si lascia venir meno. Se allora l’amore lo risveglia,
è un acutissimo dolore che genera ira contro chi l’ha provocato. Da ciò,
negli esseri degradati, le reazioni (apparentemente inspiegabili) di vendetta
contro chi ha fatto loro del bene»[16].
Che cosa resta da
fare allora? Occorre non stancarsi e bisogna continuare ad amare. Solo un
supplemento d’amore senza ricompensa può coprire la nudità esistenziale di
chi ha smarrito l’amore. Ma in questa maniera ci si incammina decisamente
verso quell’accoglienza di Dio che non è più strumentale, né può esserlo.
È un’accoglienza sa attendere e medicare, pronta anche ad essere sconfitta,
sapendo che però non si può mai sconfiggere l’amore, perché l’amore è
Dio stesso.
[1] Questo testo riprende in una nuova concatenazione 2 interventi precedenti: Dalla città di Caino alla città di Abele (Rossano 1996 / Schema della relazione); Nessuno è clandestino: fondamenti teologici - Relazione al convegno di Catanzaro. Aula Sancti Petri, Episcopio 4/11/02.
[2] «Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande; non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio; le cause troppo difficili per voi le presenterete a me e io le ascolterò» (Dt 1,17).
[3] Si può dire ancora che Dio non alcuna soggezione nei confronti di chicchessia (Gb 34,17-19; Sir 35,12; Sap 6,7-8) perché tutti sono opera delle sue mani (Gb 34,19), ha creato il piccolo e il grande e si prende cura ugualmente di tutti» (Sap 6,7; cf. Pr 22,2; Gb 31,15).
[4] Ef 6,9; Col 3,25; Gc 2,1; 1Pt 1,17.
[5] Questa almeno la traduzione tradizionale, anche se non sono mancati coloro che hanno inteso la frase in questo senso: «la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta» (Traduzione Nuova Riveduta). In ogni caso l’idea del rifiuto di Gesù, al pari dei profeti, non è un’idea peregrina, ma è presente nel nuovo testamento, come ad esempio: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» (Mt 23,37-39, cf. anche Mt 21,38-40; Eb 13,12).
[6] Per una ricostruzione storica del problema e un aggiornamento filosofico e teologico sulla materia cf. T. SUNDERMEIER, Comprendere lo straniero. Un’ermeneutica interculturale, Queriniana, Brescia 1999.
[7] Per un primo approfondimento sulla città di Caino e la città di Abele cf. www.puntopace.net/Mazzillo/citta-Caino-citta-abele.htm.
[8] J. DANIELOU, «Pour une théologie de l'hospitalité», in VS 85 (1951) 340
[9] Cf. LUIGI DI PINTO S.I, «Abramo e lo straniero (Gn 18,1-16) 1. Un'introduzione all'ospitalità» e IDEM, «…. 2. L'ospitalità celebrata» in RdT 38 [1997] 597-620 e (RdT 38 [1997] 735-769.
[10] A questo proposito cf. Es 12,48; Lv 19,33s; Dt 10,18s; Dt 24,17s; Dt 27,19 Sal 146,9.
[11] «Usciamo dunque anche noi dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura (Eb 13,13-14; cf. Fil 3,20).
[12] «Discorso a Diogneto», in G. Corti (a cura di), I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 1966, 364-365.
[13] Cf. 2Cor 10,3 e Rm 8,12-13 e Fil 3,18-20.
[14] Cf. Gv 15,19; 17,14-16.
[15] Cf. sui messaggeri anche Rm 12,13; Gen 18,2s; Gen 19,1s; Tb 5,4s; Gdc 6,11-24; Gdc 13,3-23.
[16] S. WEIL, L’ombra e la grazia, Edizioni di Comunità, Milano 1951, 74.