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Intervento di G. Mazzillo alla presentazione del libro:

G. Celico, Santi e briganti del Mercurion, Editur Calabria, Diamante (CS) 2002

(Tortora, aula consiliare 01/05/02)

Il mio intervento è giustificato più dalla stima e dal legame di amicizia dell'autore nei miei confronti, che da una mia specifica competenza sulla materia. In ogni caso, letto il libro e ascoltati i precedenti contributi, intervengo soprattutto in merito a ciò che ho trovato di più immediato interesse per quanto attiene il mio campo di studio e di ricerca, vale a dire la teologia e in essa il ruolo della Chiesa e anche dei "santi" citati nel titolo.

Il titolo, in maniera alquanto intrigante, come si direbbe oggi, e forse un po' giornalistico, mette insieme "santi e briganti" di quel contenitore non solo geografico, ma storico-culturale che è il Mercurion, la cui delimitazione resta però a tutt'oggi tutt'altro che definita. In ogni caso sembra caratterizzarsi nel libro con il comprensorio che occupa il quadrante nord occidentale della Calabria e della parte ad essa più attigua tanto dell'attuale Basilicata che del lembo meridionale dell'attuale Campania. È un comprensorio che fa riferimento al Mercurion e risale a ritroso fino e forse anche oltre i monaci di San Basilio, i "basiliani". Questi sono arrivati sulle nostre coste dall'Oriente, già verso la fine del primo millennio, succedendo all'arrivo di coloro che, molti secoli prima, avevano fondato nell'attuale Mezzogiorno d'Italia le colonie della Magna Grecia e agli altri che, in epoca romana prima e in epoca bizantina poi, avevano sempre preferito le nostre coste come luoghi di approdo. Qui, per lo spirito di tolleranza e di accoglienza delle popolazioni locali e per la posizione geografica e per le condizioni climatiche e ambientali, avevano potuto sviluppare con una rete di commerci e di scambi, anche una rete di incontri al livello spirituale, oltre che culturale ed esistenziale.

In questa terra comprendente le singole "terre", dalla "terra di Tortora" o di "Turtura", come trascrive diligentemente Celico, alla terra di Lauria, da quella di Aieta a quella di Scalea ecc. avvengono i fatti che l'autore annota, avendoli reperiti e riportati dalle fonti documentali, tra i quali spiccano gli archivi parrocchiali. Ci è offerta così una ricchezza di informazioni, un repertorio e qualcosa di più di un semplice repertorio di notizie e di fonti.

Sono proprio queste fonti che registrano i fatti, di solito eccedenti l'ordinario e che sono stati ascritti ai santi e ai briganti. Santi e briganti, perché, sebbene agli antipodi, si tratta di due tipologie umane che non solo vanno al di là dell'ordinario, ma sono, ciascuna per la sua parte, espressioni di una trasgressione. Trasgressori delle leggi vigenti e del volere dei signori allora imperanti, i briganti; trasgressori dell'ovvietà e della ordinarietà, della routine esistenziale di una vita consumata solo tra il focolare, la campagna, la chiesa e la piazza, i santi.

Va da sé che tra questi estremi si estende l'arco di una moltitudine tutt'altro che disprezzabile. Le sue condizioni di vita ordinaria non ne fanno però oggetto di menzione nei documenti scritti. Queste, al massimo, ci informano su un'impressionante quantità di incidenti e di pericoli con la quale la gente comune doveva fare i conti. Si tratta di incidenti di lavoro o di condizioni climatiche avverse. Di risse e ferimenti, di agguati, di uccisioni e di soprusi. Sono numerosi coloro che risultano uccisi dai fulmini nelle campagne, o perché precipitati, di solito involontariamente, dai dirupi che segnano le nostre terre. Numerosi anche coloro che, in un modo o in un altro, hanno a che fare con la "giustizia". Scorrendo la cronaca compilata in queste pagine, qualcuno potrebbe chiedersi che cosa ne fosse della gente comune, visto che la cronaca registra solo quella che per un qualche motivo si staccava dall'ordinarietà. Sebbene questa non sia menzionata esplicitamente, fa tuttavia capolino tra un'annotazione e un'altra. Uno studio condotto accanto a questo pur pregevole di cui oggi disponiamo, potrebbe mettere in luce aspetti altrettanto interessanti come quello degli incidenti e degli eventi straordinari. Così ad esempio, contando nel libro dei morti i bambini mensilmente venuti a mancare, ci si potrebbe rendere facilmente conto della mortalità infantile allora imperversante. Da qui non sarebbe impervio arrivare alle condizioni sociali di quelli che sono chiamati gli humiliores, ma che sono la corrente portante della storia.

In ogni caso nemmeno santità e brigantaggio sono esclusivo appannaggio di chi porta simili titolature. C'è stata e c'è nella nostra terra una santità diffusa, nascosta, poco o per niente in vista. Anche questa è santità di una Chiesa che di certo non si limita allo stato ecclesiastico di personaggi che si sono distinti nel clero o lo hanno infangato con le loro malefatte, anch'esse puntualmente registrate nel libro. È una santità da tenere in giusta considerazione, accanto a quella santità più in vista di personaggi che sono stati ritenuti santi già dal popolo, come la pur dolce Maria Angelica Mastroti di Papasidero (1851 - 1896) o come il Beato Angelo d'Acri (oggi molto noto per l'avanzata procedura di canonizzazione e di cui è registrata la presenza a Maratea). Dall'altro versante, c'è parimenti un brigantaggio spicciolo, fatto di espedienti e di piccole truffe, di prepotenze e malversazioni, che non sempre arrivano agli onori della cronaca. Si colgono qua e là tra le righe di essa, nelle lamentele ufficializzate o nelle difese di alcuni imputati.

C'è parimenti la testimonianza nel libro di una concezione magica e mitologica che, alla luce delle conoscenze attuali, risulta inquietante. È quella, ad esempio, che faceva gridare all'untore e talora faceva linciare dalla folla eccitata da facinorosi, i malcapitati sorpresi vicino a qualche pubblica fontana in tempo di epidemia, come il colera. È documentato a Verbicaro e anche altrove. Così risponde a un'inaccettabile concezione religiosa anche nella gerarchia della chiesa quella, in nome della quale veniamo informati, che a Tortora il 31 luglio del 1709 muore nella prigione baronale, probabilmente di crepacuore - aggiungo - e per i maltrattamenti subiti, Dianora Laico, fatta carcerare insieme alla figlia Caterina dal tribunale di Cassano allo Jonio con l'accusa di stregoneria.

Anche a Tortora, come in tutto il Mercurion, la storia risente di quelle contraddizioni e di quelle oggi inaccettabili concezioni, che essa aveva altrove, così come emerge la contraddizione di eventi spesso tragici e dalle tinte fosche nell'avvicendarsi di poteri, che pur essendo lontani, come i re borbonici o i sovrani e i luogotenenti francesi, si lasciavano dietro, sulle nostre piazze polverose e le nostre spiagge assolate teste mozzate di briganti catturati o di filofrancesi acciuffatti dagli avversari. Oppure si lasciavano dietro case saccheggiate e incendiate, se non intere cittadine date alle fiamme come è successo a Lauria e altrove.

In questo contesto complessivo in cui l'uomo manifesta anche da noi le sue virtù e i suoi fanatismi, la sua grandezza e le sue cadute, la sua crudeltà e la sua generosità, emergono, è vero, anche poeti, studiosi, giuristi, sacerdoti, vescovi e teologi.

Tra questi vorrei menzionare solo qualcuno, che certamente sarebbe interessante studiare in maniera sistematica, sempre che si riescano a trovare copie delle loro opere: Lucio Palamolla di Scalea (1571-1651), che ebbe incarichi ecclesiastici importanti, rifiutò più volte l'episcopato e morì in concetto di santità; Lorenzo Brancato, nato a Lauria il 1612, detto "sommo teologo", cardinale e persino papabile, che morì il 1693; Santo Schifino di Santa Domenica Talao (1841-1906), gesuita e docente alla Gregoriana, autore di molti e importanti testi teologici.

Sono solo alcuni nomi e fanno testo, ma sono l'espressione di un con-testo, che tra santi e briganti ha vissuto la sua vicenda umana. Una vicenda, che riscoperta e studiata, non ci aiuta solo a capire meglio il nostri oggi e le nostre radici. Ci aiuta a capire come oggi, più di allora, ci sia sempre bisogno di crescita, una crescita umana e pertanto anche cristiana: quella che ha significato e sempre significa affrancamento dalla miseria e dall'ignoranza, dal gregarismo e dal pecorismo che fa saltare sul carro dei vincitori, dalla passività e dall'atavica sfiducia in se stessi, per diventare protagonisti della nostra storia. Una storia che eviti gli errori del passato e si proietti a misura di un'umanità e di un umanismo che la fede in Dio non ostacola, ma semmai può e deve contribuire a motivare e a potenziare.