Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net 

REPLICA DI    G. Mazzillo alla lettera di M. Pucci 08/07/2018

Caro Michelangelo, innanzi tutto il motivo del mio lungo silenzio  dopo la tua ultima replica degli inizi di giugno. Sono stato impegnato a Catanzaro per gli esami di fine semestre e per lavori in casa, che non mi hanno consentito di concentrarmi intellettualmente, perché hanno assorbito il mio impegno quasi tutto sul piano del lavoro pratico, qui all’eremo delle Sarre, dove mi trasferisco d’estate, Ora che i lavori per buona parte sono stati ultimati, ho un po’ di tempo in più per documentarmi anche e soprattutto in merito al concetto di scienza su cui il nostro colloquio, almeno formalmente, sembra essere rimasto bloccato.

Nelle tue repliche e precisazioni, comunque stimolanti, il concetto di scienza appare sempre più come letto di Procuste, definito e definitivo, chiaro, ma riduttivo. Ovvio che la teologia, che non soddisfa quelle uniche e immodificabili premesse, perché più ampia, è tagliata fuori, non potendo essere adattata a quella misura. L'obiezione è solo se e quando la scienza abbia perentoriamente definito di se stessa. I processi scientifici dimostrano piuttosto che la scienza adatta volta per volta la sua concezione scientifica ai risultati cui più modestamente può pervenire. Il metodo galileiano vale per una tipologia di scienza, ma non include tutte le scienze e tutto il reale. Mi rendo conto che nella tua ultima replica manca la presa in considerazione delle riflessioni su teologia ed epistemologia, comunque sempre recuperabili in <www.puntopace.net/Mazzillo/Epistemologiaxweb.htm>. La complessità di quanto emerso da quel dibattito e da altri simili porta a concludere che non si può uscire dalla nostra discussione solo asserendo che la teologia sia una “disciplina”.  Del resto disciplina di che cosa e definita da chi o in funzione di che cosa?

Anche a voce abbiamo inoltre chiarito che quando si afferma che la teologia è una scienza, lo si afferma nel senso delle cosiddette “Scienze dello spirito”, espressione di Dilthey, che pur con tutti i suoi limiti, ci consente di ritenerla come un sapere critico e motivato, e non una mera collezione di sentenze, dottrine e tradizioni.  Partendo dall’ipotesi Dio e della sua rivelazione, certamente non dimostrabili alla stregua di dati fisici o di deduzioni apodittiche, la teologia ne mostra però, da una parte, la non contraddittorietà con il “dato” umano, storico e sociale e, dall’altra, la sua non contraddittorietà interna. In questo modo la teologia espleta quella prima indispensabile funzione di ogni scienza, che è la dimensione analitica. Ma oltre alla “ragionevolezza”  del fondamento di cui discute, essa ha a che fare con fonti, testi e produzioni del passato che sono ermeneuticamente da contestualizzare, comprendere, attualizzare. Per questo motivo la teologia adempie un’altra delle funzioni fondamentali emerse dallo sviluppo dell’epistemologia: quella ermeneutica. Senza di essa gli scienziati non potrebbero  né comprendere le teorie del passato né formulare quelle del presente. Infine il suo è un riferimento a un’esperienza vissuta, esistenzialmente rilevante e  storicamente importante (come su questo punto anche tu ammetti, parlandone nella prima lettera a proposito della “carità”). È la dimensione pratica della stessa teologia, che, al pari delle altre scienze, non ne può prescindere.

Se ciò non basta, e suppongo che per te non basterà, visto il letto di Procuste di prima, sfogliando il dizionario di Filosofia edito da Garzanti la voce “teologia” è così sviluppata: “Termine designante dapprima la conoscenza relativa agli dei, e poi la scienza di Dio e delle cose divine”. Il dizionario prosegue annotando l’origine e gli sviluppi di tale “scienza di Dio e delle cose divine”, nell’evidenziarne due aspetti: la conoscenza di Dio attinta mediante la fede e l’esperienza mistica e la “scienza delle verità rivelate”, come “riflessione sistematica e critica sulla dottrina cristiana”. Prosegue dicendo che entrambe le accezioni “restano ancora nell’uso corrente: sicché si parla di teologia anche là dove non sussiste l’utilizzazione di particolari strumenti speculativi o scientifici.  Del resto la tensione tra ragione e fede è immanente alla teologia stessa: se infatti la fede esige dalla ragione un’obbedienza totale, l’atteggiamento dei teologi variò dal rifiuto più radicale all’assunzione più rigorosa dell’impegno razionale”. Quanto alla “disciplina”, questa è invocata non per la teologia in sé, ma per le sue parti. Infatti le diverse vicende della teologia nella storia “hanno condotto alla suddivisione della teologia in diverse discipline, accomunate dall’oggetto (la rivelazione), ma distinte quanto al metodo d’indagine. Si distingue così principalmente un ramo storico e positivo (esegesi, teologia biblica, patrologia, storia del dogma) e un ramo speculativo e sistematico (teologia dogmatica, teologia morale, teologia mistica). Oggi tuttavia si tende a sminuire il rigore delle partizioni settoriali; sempre maggiore importanza assumono, da un lato, l’indagine storica e positiva, dall’altro il contatto con discipline originariamente estranee alla tradizionale nozione di teologia: le indagini sociologica, psicologica, religioso-comparata tendono ad assumere maggior peso”.

Come vedi, caro Michelangelo, le cose sono molto più complesse di come si poteva pensare di primo acchito. D’altra parte, precisato che qui io penso alla teologia solo nel secondo senso (quello della riflessione critica), tu mi potresti obiettare che tutto ciò è più nell’ottica della filosofia che della scienza. In realtà, però come puoi notare, la scienza vi rientra da molte porte e finestre,  per il metodo e per il rigore critico cui la citazione fa riferimento. Lo stesso Dizionario della filosofia lo riconosce senza alcun dubbio, mentre mostra delle remore parlando della filosofia. Della filosofia infatti scrive: “Termine che deriva dal greco e significa alla lettera ‘amore della sapienza’ […] Come attività intellettuale specifica, e come forma di sapere organizzato scientificamente (anche se l’identificazione della filosofia con la scienza è oggetto di discussione), essa esiste solo nella tradizione europea che comincia con i greci”. Il testo però riconoscenze successivamente la presenza di elementi filosofici anche in altre aree della storia umana.

Andiamo ora ad un altro riscontro. Se cerchiamo la voce “Filosofia”  ne “La nuova enciclopedia delle scienze”, sempre della Garzanti, essa non compare. Non compare nemmeno  la voce “Teologia”. Ciò può significare che le scienze qui, e non altrove, in oggetto sono quelle sperimentali in senso classico galileiano. Ciò segna un buon punto a tuo favore, ma personalmente io non ho mai affermato che la teologia in quanto scienza sia riconducibile a quella galileiana. Ho sempre sostenuto e sostengo, nel senso del dizionario citato, che la sua scientificità non riguarda la sperimentazione di Dio, per definizione non sperimentabile, ma il metodo critico relativamente a ciò di cui, in riferimento a lui, la teologia si occupa.

Quanto poi alla tendenziosità (al più di natura poetica) e dunque alla non affidabilità del mio riferimento a Dio come fondamento reale di un bisogno reale dell’uomo (l’immagine dell’acqua ecc.), inviterei ad essere più cauto. Non solo perché non è stato mai dimostrato che ciò cui perviene la poesia sia meno reale di ciò cui perviene la ragione, ma anche perché in caso contrario, resta sempre da chiarire perché l’uomo avverta sempre quel bisogno di Ulteriorità e non  un altro. Vale a dire, perché l’uomo non ha il bisogno, ad esempio, dell’uranio, ma del potassio? Qui parlo del bisogno fisico e non del desiderio di accaparramento come quello dell'oro. Per cui il tuo contro-esempio dell'oro, che l'uomo desidera pur non contenendolo, non è calzante.  La ragione del bisogno fisico del potassio e non dell'uranio o dell'oro è perché il potassio è fondamentale per il sangue, il cervello e quant’altro, mentre  gli altri no.  Qual ne è  l’ultima ragione? Risponderei dicendo che la ragione è che l’uomo è fatto anche di potassio. Analogamente, in maniera però non stringente, ma di certo fortemente indiziaria e probabilistica, mi sento di affermare che se l’uomo avverte il bisogno della trascendenza è perché in qualche maniera e misura è ad essa strettamente collegato. Si potrebbe dire la contiene o meglio è da questa contenuto. Arrivo a tale risultato, aggiungo, con una sintesi per convergenza e non per deduzione – d’accordo –, ma ciò non è affatto irrilevante. Che l'uomo sia tutto divino perché ne avverte il bisogno, è una soluzione immanentistica, verso cui mostri interesse,  ma sarebbe da discutere ulteriormente, perché non risolve, bensì  aggrava una congerie di problemi.

Concludo con la citazione di un contemporaneo ricercatore di Dio, che non fa mistero delle sue difficoltà a riconoscerlo. Tuttavia ne ammette la possibilità. È il filosofo Vincenzo Vitiello, ordinario di Filosofia teoretica dell’Università di Salerno. Ho avuto da poco il suo libro “Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo” (Città Nuova, 2002). È un libro che consiglio. Ecco la citazione: riguarda la possibilità di Dio e per ciò che ci riguarda, anche della teologia come riflessione critica su quanto si riferisce a lui e a noi in rapporto a lui: “Se le cose sono: tenersi fedeli alla possibilità possibile non significa negare l’esistenza delle cose. Neppure la potenza è negata dalla possibilità possibile. Il potere, la potenza non sono negati: sono resi ‘possibili’ - come le cose. Il possibile, confine estremo della ragione, è il luogo del religioso, del paradosso, della relazione tra sacro e divino” (ivi, 50).

Con ciò termino augurando a te e a chiunque altro vada alla ricerca di Dio, sempre che voglia davvero incontrarlo, un buon cammino. Se di Dio non ci potranno essere riscontri (nel senso sperimentale del termine), ritengo che però ci possano essere incontri (nel senso esperienziale). L'intervento di Parblé che mi ha preceduto mi sembra da leggere in questo senso ed è di notevole importanza. Buon cammino allora e grazie dell’attenzione. Giovanni Mazzillo

 

INTERVENTO DI PARBLE'  del 5/06/02

Sul fatto che non possiamo parlare di Dio perché indicibile, ineffabile e allargare il concetto di "non nominare il nome di dio in vano" anche al significato dell'impossibilità di nominarlo senza errore, ciò non giustifica che di Dio non abbiamo diritto di parlarne. Certo non né possiamo parlare in maniera adeguata, e facciamo sempre delle congetture approssimative, ma non possiamo fare a meno di parlare di Dio. Parlare di Dio non è un argomento che concerne preminentemente l'astrazione o il motore immobile originario o i suoi attributi divini o come si sia rivelato alle altre religioni o come
debba comportarsi la chiesa etc. parlare di Dio interrogandoci su di esso è più una esigenza personale, esistenziale; quando soffro mi chiedo il perché, mi turba rimanere senza risposte dinanzi al Dio dell'amore piuttosto che rimanere senza risposta di come egli abbia creato il mondo o altre cose. In questo senso, dal profondo dell'inquietudine dell'uomo io m'interrogo su Dio e ho bisogno di parlare di lui con gli altri, e non è proprio Gesù che dà delle risposte dirette ai malati ai sofferenti, ognuno di noi in quelle sere che è preso dallo sconforto più assoluto e si chiede il perché della sua angoscia sente il bisogno di pensare ad un Tu con il quale parlare ma per il fatto che non né possa parlare degnamente o rettamente non toglie il bisogno di parlare su Dio. Mi chiedo come sia possibile non poter parlare di Dio solo per il fatto che non né possiamo formarne un pensiero fisso, mi chiedo come possa Wittgenstein dire "Ciò di cui non si può parlare si deve tacere" è come se ci chiedessero di non farci domande quando invece queste domande più grandi chiedono proprio a noi le risposte.  Parblé