Giovanni Mazzillo <info autore>     |   home page:  www.puntopace.net  

REPLICA del Prof. Michelangelo Pucci  del 5/06/2002

St.mo don Giovanni,
                                  mi duole affliggerti con queste mie repliche, ma ritengo
di non dovermi esimere fino a che il mio pensiero non risulti chiarito in tutti gli aspetti.
Qui  di seguito la mia replica alla tua replica. Ho seguito il tuo metodo di riportare
le tue osservazioni e di replicare punto per punto in carattere Arial Corsivo.

 

Tu hai scritto sulle mie riflessioni sulla teologia:

"…. Vi ho trovato considerazioni e argomentazioni che hanno una loro validità in discipline non rigorose e sul piano della fede. Questa però ammette dei presupposti che non discute e non verifica e sui quali costruisce le discipline di cui sopra con la pretesa di conferir loro una rigorosità che non possono avere, perché non hanno carattere scientifico".

Proprio questo incipit costituisce, secondo me, il nocciolo del problema, su cui vorrei dirti subito, che, fatte alcune debite precisazione, anch’io posso essere parzialmente d’accordo. Intanto è vero che, seppure la teologia sia una scienza, essa è diversa dalle altre scienze.

Da quello che ho letto mi sembra ricorrente  nel tuo scritto la confusione tra il termine “scienza” e il termine “disciplina”. È accordo comune, sia fra i filosofi sia fra gli scienziati, di indicare con il termine “scienza” lo studio fondato sulla sperimentazione galileiana e di chiamare disciplina lo studio, anche non sperimentale, di un settore del sapere.

Come ho dimostrato nel mio precedente intervento, la Teologia, così come la intendono i suoi cultori religiosi,  non può essere una scienza, ma una disciplina, come la Filosofia.

Diversa in che cosa e fino a che punto? Intanto diversa perché il suo oggetto è, come dicevo la volta scorsa, del tutto particolare: è un oggetto-soggetto, dal momento che attiene a Dio, cioè a colui che per essere fondamento del reale e radice ultima dell’esistente, sfugge alla sua catturabilità nelle nostre categorie abituali che ne determinano la realtà. Vorrei dire che Dio, in quanto la rRealtà della realtà, o il loro suo fondamento,, strano a dirsi, ma logico in sé, non si può cogliere alla stessa stregua di tutte le altre realtà. Per fare un esempio, che se non calza del tutto è però intuitivo, direi che è come se con i nostri occhi volessimo guardare direttamente (non certo attraverso uno specchio), i colori dei nostri stessi occhi).

L’argomentazione che precede non regge, perché poggia sulla “coniectura fidei” che Dio sia il fondamento del reale, la sua radice, realtà della realtà; presupposto non dimostrato né dimostrabile scientificamente. La sola logicità non basta per qualificare una disciplina come scienza.

Hai ragione quando affermi che l’oggetto della teologia ciò si basa sulla fede e la fede è un presupposto non discusso. Mi sembra però che da ciò non ne derivi una non rigorosità del pensare teologicoamente. Perché mai? Intanto perché se è vero che non si può a rigore logico-matematico provare quanto asserito per fede, non è altrettanto vero che non sia da provare quanto ci accosta e ci apre all’atto di fede, tutto ciò che è stato indicato come l’insieme delle condizioni previo previe e indispensabilmente preparatorio preparatorie alla fede, i cosiddetti prolegomena fidei. Voglio dire, per fare un esempio, che se credere che Gesù sia l’inviato e persino il Figlio di Dio è senza dubbio operazione di fede, indagare se Gesù sia scientificamente esistito, quali siano le fonti storiche, quale attendibilità abbiamo gli scritti che parlano di lui, in quali circostanze storico-sociali egli sia vissuto ecc., è materia e metodo rigorosamente scientifico, alla stessa stregua di ogni altra ricerca storica. Lo stesso dicasi delle indagini sulle religioni, sulle patologie religiose, i suoi travisamenti, i suoi fondatori ecc.

L’indagine sull’esistenza storica di Gesù e sull’ambiente storico-sociale nel quale egli avrebbe operato è, come ben dici, oggetto della storia, non della teologia. L’indagine storica, a sua volta, può essere scientifica se procede con il rispetto delle regole e con l’impiego del metodo proprio della scienza.

Ma Inoltre, lo stesso rigore si richiede per la coerenza logica con la quale deve articolarsi il discorso teologico, che dovrà sempre attenersi con scrupolo sia alla coerenza interna di ciascuna sua proposizione, sia a quella delle varie proposizioni nel loro insieme, rispettando il principio di non contraddizione e rispettando i vari e indispensabili passaggi logici e metodologici richiesti da qualsiasi scienza. Sulla stessa linea di scientificità devono camminare il reperimento delle fonti (da quelle bibliche a tutte le altre), la loro valutazione critica e il loro utilizzo.

In quanto alla rigorosità, bisogna distinguere la rigorosità scientifica, che si regge sulle verifiche sperimentali, dalla rigorosità logica, che si regge sul concatenamento di proposizioni, spesso sfociante in paralogismi. La sola rigorosità logica, spesso fallace, può fondare una Filosofia, non una Scienza. La Teologia, pur seguendo una rigorosità logica, non può definirsi una scienza, ma è da assimilarsi alla filosofia. Anche la filosofia procede per rigorosità logiche, ma non ha mai preteso per questo di essere scienza. Il reperire le fonti, valutarle e criticarle è attività delle scienze storiche, non della teologia, essa può cominciare da, non con quelle attività.

La definizione di Dewey, pur tendendo implicitamente, com’è ovvio, verso il pragmatismo, mi sembra possa essere accettata fino a che non escluda per principio che la scienza è sia fatta anche di salti e di discontinuità. Come, raccogliendo la lezione di coloro che tu citi in seguito (Popper, Heisenberg, Wittgenstein), Kuhn ha dimostrato, anche il processo delle scienze fisico-matematiche, ma includiamoci anche quelle relative alla biologia, all’astrofisica e al mondo atomico e subatomico, non è affatto lineare, né senza problemi. Soprattutto, come scrivi anche tu, essa non pretende più di asserire certezze assolute. A ciò vorrei aggiungere, ma il tutto è meglio espresso nel testo "teologia Teologia ed epistemologia", che lo stessoil Wittgenstein delle "Ricerche filosofiche" è molto diverso da quelle del rigorismo logico del Tractatus logico-philosoficus. Giunge ad ammettere, al pari di altri grandi teorici della scienza, la legittimità della teologia come scienza, basandosi sul fatto che non il suo presupportopresupposto, ma in questo caso la sua ipotesi, quella di Dio, è un’ipotesi vera e propria, anche se la più grande e per questo la meno verificabile possibile. stessa

L’affermazione del Wittgenstein, che sembra supporre una legittimità della Teologia come scienza fondandola sull’ipotesi Dio, non è conclusiva. Primariamente perché essa sembra muoversi nell’ambito di un discorso filosofico e non scientifico, secondariamente perché la qualificazione di scientificità non discende dal semplice lancio di un’ipotesi, ma dalla sua verifica sperimentale, in mancanza della quale si resta solo nell’ambito di una teoria filosofica.

Sui processi conoscitivi e sui limiti del conoscere sono d’accordo anch’io. Solo che mi pare che nonostante ciò, tu insista particolarmente eccessivamente sulla verificabilità e la ripetibilità dell’esperimento come l’ideale della stessa scienza.

Niente da eccepire, soltanto faccio notare che altro è verificare corpi, onde sonore o elettromagnetiche, stati fluidi e gassosi, altro è verificare ciò che attiene al complesso mondo umano. Questo non può essere trattato come quelli, perché di natura diversa. Non per questo però si potrà dire che sociologia, psicologia, storia e quant’altro non siano scientifiche. Presenteranno problemi ulteriori e imprevisti, ma ciò è nell’ordine e nella natura di ciò che si esse osservano. Su questo punto, con tutti i limiti possibili, la distinzione di Dilthey tra "scienze della natura" e "scienze dello spirito" fa luce su modi di procedere diversi, ma che comunque obbediscono (o dovrebbero) ugualmente ubbidire al criterio deldi rigore. Ora a me sembra che proprio nei casi in cui la scienza si occupa di fenomeni più complessivi, come la "relatività" ecc., seppure ci garantisca alcuni principi e leggi ripercorribili sperimentalmente, non ne può garantire altri, che oggettivamente le sfuggono di mano.

Opportuna è la distinzione tra “scienze fisiche” e “scienze umane”. Le scienze fisiche hanno come oggetto di studio corpi fisici, le scienze umane hanno come oggetto di studio eventi e comportamenti umani. Ambedue le categorie di scienze, però, si reggono sull’osservazione di fatti, sulla sperimentazione di tipo galileiano, sulla formulazione di leggi o costanti, sulle quali è possibile fondare la prevedibilità di eventi e comportamenti. La differenza tra le due categorie sta nella maggiore o minore probabilità di manifestazione dell’evento o del comportamento previsto (la scienza infatti, più che certezze, predica probabilità, come ho avuto modo di precisare nel precedente intervento). A questo proposito, la citata distinzione  di Dilthey tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito” non mi sembra calzare. Le “scienze dello spirito”, cui accenna Dilthey, non sono certamente le “scienze umane”: sociologia, psicologia, storia, ecc.. Queste non studiano lo spirito, come è inteso nella filosofia e nella teologia, ma studiano fatti, eventi, comportamenti osservabili, misurabili, traducibili in termini matematici, ripetibili e, perciò, verificabili sperimentalmente e, quindi, prevedibili nei limiti di cui sopra. Nel caso che la psicologia pretendesse di andare oltre il campo sperimentale ed affermasse, per esempio, l’esistenza di un’anima immortale, cesserebbe di essere scienza e diventerebbe filosofia.   

A questo punto, mi pare che tu voglia toccare il cuore del problema, quando affermi: Per la verità non so a quali altre "forme di conoscenza" tu ti riferisca, quando dici che se quelle secondo il processo scientifico alla Dewey a stento possanouò offrire certezze, a maggior ragione non ne potranno offrire le altre. In ogni caso parli della teologia e dei processi psichici che sarebbero all’origine della religione, tra cui, quello - aggiungo - già ipotizzato da Lucrezio, del timore. In ogni caso tali processi sono non ripetibili e dunque non scientificamente affidabili, perché, come scrivi: "restano a livello di esperienze individuali, comunicabili ma non ripetibili".

È vero, ma non è detto che ciò che non è sperimentalmente ripetibile da un altro nella stessa forma, non sia reale o non abbia riferimenti reali. Qui dobbiamo intenderci. Il processo psichico di per sé non è la religione, ma può condurre l’uomo fino alla sua soglia. Talora può essere deviato e deviante come qualche volta la ragione, ma ciò non significa che non abbiamo mai alcuna facoltà che ci possa, ragionevolmente condurre a intravedere dove la ragione finisca e dove la fede cominci. Ora, a rigore, non è illogico domandare: Ci può essere un’eventuale scienza che consideri tali processi, la loro correttezza e il loro andare fino alla "soglia" della fede, pur senza pronunciarsi razionalmente sui contenuti della fede stessa, che si sa, appartengono a un altro ordine di certezza? Senza ancora compiere particolari atti di fede, mi sembra si possa, rispondere che tale scienza esiste ed è appunto la teologia, almeno quella parte di essa che è chiamata "teologia fondamentale".

Per quanto detto in precedenza, impropriamente si usa qui il termine “scienza” in luogo di “disciplina”. Non basta il rigore logico per conferire alla teologia, e alla filosofia, la qualificazione di Scienza, per la quale è essenziale la verificabilità sperimentale.

Essa prende sul serio la pretesa dell’uomo di andare oltre se stesso e la stessa possibilità che ci sia una trascendenza reale e non mera rappresentazione simbolica. Ma resta saldamente ancorata al procedere logico, almeno per ciò che riguarda i presupporti della fede stessa. Insomma prende sul serio che ci sia un "Possibile Dio", come si esprime il filosofo dell’Università di Napoli Vincenzo Vitiello [ V. VITIELLO, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002], che partito dal nichilismo, approda, nel suo più recente volume, a qualcosa di più che a un’ipotetica possibilità, in direzione di ciò che altri hanno detto della fede: "un affidamento esistenziale".

Prendo allora sul serio anche l’obiezione che segue nel tuo testo e che è così espressa: La mia risposta a questa obiezione è la seguente: Che il processo dell’uomo verso il proprio autosuperamento possa almeno implicitamente segnalare un dato reale e non essere il frutto di un’insanabile illusione, non si può escludere in linea di principio. Che esso ci sia e non si estingua mai, nemmeno con l’avanzare della scienza che demitizza fulmini, paure e angoscia del vuoto, appare un forte indizio in direzione di una possibile trascendenza. Non si tratta di processi ingannevoli ribattezzati "teogonici", ma di tensioni esistenziali che esigono un perché. A chi oggi come Feuerbach, sebbene in forme differenti, ripropone che Dio è frutto delle nostre proiezioni oltre il nostro riconosciuto e accettato limite, si può sempre rispondere: Ma da dove nasce questa indomita tendenza a superarlo, visto che ormai sappiamo di essere finiti e dunque dimoranti più o meno felici, o almeno contenti, nell’isola della nostra immanenza? Ci sarebbe per il marinaio il bisogno di navigare se non ci fosse il mare? Ci sarebbe soprattutto l’isola se non ci fosse acqua intorno? Quand’anche tale mare fosse invisibile, per una sopraggiunta cecità del marinaio o per un invincibile oscuramento cosmico, nel marinaio non si estinguerebbe il desiderio di navigare. Ma proprio questo attesta che il mare è non solo possibile, ma reale. Il desiderio di andare oltre se stessi attesta in noi che esiste questa possibilità. Diversamente non lo avremmo. Alla stessa maniera, si potrebbe aggiungere, la sete e il bisogno di bagnarsi, attestano, anche per uno che, per ipotesi, non avesse mai visto un ruscello o una fonte, ma avesse solo mangiato frutta e verdura, che l’acqua esiste. E perché mai? Perché non ci sarebbe la sete, né il bisogno dell’acqua, se l’uomo non fosse principalmente costituito proprio di acqua, anche qualora lo fosse a sua insaputa.

Quanto precede è un procedimento logico molto sottile, ma è solo un esercizio  di una qualche rilevanza filosofica, improduttivo sul piano scientifico. Procedendo con ordine: a) cominci con il dichiarare che il bisogno (è da discutere che si tratti di un processo) dell’uomo di andare “oltre” non esclude in via di principio che possa segnalare un dato reale; ciò è ammissibile anche nel procedimento scientifico. b) Prosegui affermando che la presenza e l’inestinguibilità di questo bisogno appare un forte indizio di trascendenza; con questa affermazione siamo già fuori del metodo e dell’ambito scientifico, il trascendente, infatti, non può e non potrà mai essere oggetto di osservazione e sperimentazione. Un bisogno umano è l’espressione di una mancanza dovuta alla finitezza dell’esistenza, mancanza che lo spinge alla ricerca, lo stimola ad andare avanti, ma sempre nel finito, anche se a lui, per un errore di percezione, sembra di essere proteso verso l’infinito solo perché la meta non si trova nel suo “campo visivo”. Le tensioni esistenziali che esigono un perché trascendente sono oggetto della filosofia. Quando esse sono oggetto di studio nella psicologia scientifica sono spiegate validamente nell’immanenza. I loro perché si trovano nelle esperienze della vita passata dell’individuo,   nelle sue relazioni sociali, ecc, c) continui con l’immagini dell’isola, del mare e del marinaio, efficaci sul piano poetico, ma non dimostrativi su quello scientifico e neppure su quello logico. d) concludi con l’ argomento che come l’ esistenza dell’acqua sarebbe attestata dalla sete, così l’esistenza del trascendente sarebbe attestata dal desiderio di trascendenza e rafforzi l’argomento spiegando la sete con il fatto che l’uomo è costituito di acqua, lasciando implicita la conclusione che se l’uomo desidera qualcosa (ad es. Dio), questa deve necessariamente esistere. Queste argomentazioni, pur persuasive sul piano emotivo, non sono convincenti sul piano logico e per nulla sul piano scientifico. In primis, il confronto fra la sete metafisica e la sete fisiologica è improponibile per il fatto che sono due bisogni di natura totalmente diversa, per cui ciò che possiamo dire della seconda non vale assolutamente per la prima. Mentre sulla sete fisiologica possiamo fare un discorso scientifico, sulla sete metafisica possiamo solo fare un discorso filosofico. I due piani non si tangono ed ogni loro accostamento è arbitrario. In secundis, l’argomento della sete spiegata con il fatto che l’uomo è costituito di acqua è valido scientificamente solo nella fattispecie, ma non è trasferibile in altri contesti, infatti non posso dire, né scientificamente, ma neppure logicamente, che se l’uomo ha sete di oro è costituito da questo elemento; se potessi dirlo potrei anche dire, ma solo logicamente, che se l’uomo ha sete del divino è divino lui stesso. Ma voi teologi non accettate questa conclusione.

Tu ammetti che va al di là del seminato chi esclude Dio in nome della scienza. È già un passo importante. A me sembra si possa però ragionevolmente aggiungerne uno successivo: quello della plausibilità della sua esistenza (vedi le riflessioni di Berger che riporto nel mio contributo su Teologia ed epistemologia) e per ciò che riguarda la teologia si possa ammettere la sua "scientificità" non solo per i motivi espressi precedentemente, ma anche per l’esplicita ammissione di affermati studiosi su quell’intricato campo che è la filosofia e la definizione della scienza. Mi riferisco a Michael Dummet [Cf. la sua La base logica della metafisica, Edizioni del Mulino, Bologna], ritenuto uno dei massimi filosofi viventi e analitici del pensiero umano, come della scienza.

In un illuminante passaggio, egli ha scritto:

"(Per il credente) Dio deve esistere perché esistono sue rivelazioni, ma perché queste siano credute con la fede, così come l’abbiamo definita, l’esistenza di Dio deve essere accessibile con la pura riflessione razionale e non essere in sé il contenuto della fede … Per quanto riguarda la fede quindi, la razionalità della credenza religiosa dipende da due fattori: se è ragionevole supporre che Dio riveli certe verità agli esseri umani e, in questo caso, se tale rivelazione è stata correttamente identificata; e se è ragionevole dare a ciò che non si conosce lo stesso grado di adesione appropriato per ciò che si conosce" [M. DUMMET, "Dio, tra fede e ragione. Credere alla "rivelazione" implica la rinuncia ai principi di ragionevolezza e anzi richiede di utilizzarli". in Duemila. Supplemento (straordinario) di Dicembre 1999 al Sole 24-ore, qui pag.1].

Questa citazione si muove nell’ambito del puramente logico e, quindi, nell’ambito filosofico e nulla giustifica il passaggio all’ambito scientifico che richiede tutt’altre evidenze.

In definitiva, se credere a un Dio e alla "rivelazione" "non implica la rinuncia ai principi di ragionevolezza, anzi richiede di utilizzarli", non mi sembra del tutto soddisfacente la tua conclusione:

 La ritengo non espressiva della complessità e della ricchezza che sia in campo teologico, sia in campo scientifico sono emerse dai tempi di Feuerbach e delle formulazioni riduzioniste di chi ha pensato che Dio non sia altro che un prodotto della nostra mente. Rispetto a formulazioni così estreme, tu mi sembra sia più cauto e, soprattutto nella prima lettera, colleghi la fede alla prassi della solidarietà. Proprio qui però si aprirebbe un altro lungo discorso, forse quello dirimente, a partire dalla controdomanda: Ma perché l’uomo deve amare e non piuttosto odiare? Perché fare del bene ed aiutare gli altri è per noi tutti preferibile al fare del male? Solo per salvaguardare la specie, come sembra suggerire qualcuno (cf. E. Scalfari)? Mi sembra effettivamente troppo poco e ci condurrebbe di nuovo a un riduzionismo senza sbocchi oltre che senza speranza.

La “controdomanda” resta aperta a molte risposte, certo anche a quella di Scalari, che vanno cercate nel mondo dello “spirito” umano. Ad essa non si può rispondere unicamente facendo riferimento all’ispirazione o alla causalità di un Ente trascendente distinto e al disopra dell’uomo, costituente un altro ordine di realtà. Si toglierebbe all’uomo stesso il merito del bene che fa e la dignità che da ciò discende. Attribuzione pericolosa perché qualcuno oltre all’ispirazione del bene potrebbe addebitargli quella del male. Penso alla cattiva traduzione del “Padre Nostro” nel punto in cui troviamo l’espressione “non indurci in tentazione”. Espressione oggi mutata in “non permettere che cadiamo in tentazione”, che mi sembra più consona con l’idea che il cristiano dovrebbe avere di Dio. Per concludere lasciamo che la teologia rimanga nel campo della fede, la quale nobilita l’uomo che la pratica al pari di quanto, in un’altra sfera, la scienza nobilita i suoi cultori. Cercando, arrampicandosi sugli specchi, di darle basi scientifiche (che non può avere per tutte le ragioni sopra dette), si dubita forse della validità della teologia nel suo campo? Non credo sia il tuo caso.

Con tutta la mia stima

Michelangelo Pucci