REPLICA del Prof. Michelangelo Pucci del 5/06/2002
Tu hai scritto sulle mie
riflessioni sulla teologia:
"…. Vi ho trovato
considerazioni e argomentazioni che hanno una loro validità in discipline non
rigorose e sul piano della fede. Questa però ammette dei presupposti che non
discute e non verifica e sui quali costruisce le discipline di cui sopra con
la pretesa di conferir loro una rigorosità che non possono avere, perché non
hanno carattere scientifico".
Proprio questo incipit
costituisce, secondo me, il nocciolo del problema, su cui vorrei dirti subito,
che, fatte alcune debite precisazione, anch’io posso essere parzialmente
d’accordo. Intanto è vero che, seppure la teologia sia una scienza, essa
è diversa dalle altre scienze.
Da
quello che ho letto mi sembra ricorrente nel
tuo scritto la confusione tra il termine “scienza” e il termine
“disciplina”. È accordo comune, sia fra i filosofi sia fra gli
scienziati, di indicare con il termine “scienza” lo studio fondato sulla
sperimentazione galileiana e di chiamare disciplina lo studio, anche non
sperimentale, di un settore del sapere.
Come
ho dimostrato nel mio precedente intervento, la Teologia, così come la
intendono i suoi cultori religiosi, non
può essere una scienza, ma una disciplina, come la Filosofia.
Diversa in che cosa e fino a che
punto? Intanto diversa perché il suo oggetto è, come dicevo la volta scorsa,
del tutto particolare: è un oggetto-soggetto, dal momento che attiene a Dio,
cioè a colui che per essere fondamento del reale e radice ultima
dell’esistente, sfugge alla sua catturabilità nelle nostre categorie
abituali che ne determinano la realtà. Vorrei dire che Dio, in quanto la
rRealtà della realtà, o il loro suo fondamento,, strano a dirsi, ma logico
in sé, non si può cogliere alla stessa stregua di tutte le altre realtà.
Per fare un esempio, che se non calza del tutto è però intuitivo, direi che
è come se con i nostri occhi volessimo guardare direttamente (non certo
attraverso uno specchio), i colori dei nostri stessi occhi).
L’argomentazione
che precede non regge, perché poggia sulla “coniectura fidei” che Dio sia
il fondamento del reale, la sua radice, realtà della realtà; presupposto non
dimostrato né dimostrabile scientificamente. La sola logicità non basta per
qualificare una disciplina come scienza.
Hai ragione quando affermi che
l’oggetto della teologia ciò si basa sulla fede e la fede è un presupposto
non discusso. Mi sembra però che da ciò non ne derivi una non rigorosità
del pensare teologicoamente. Perché mai? Intanto perché se è vero che non
si può a rigore logico-matematico provare quanto asserito per fede, non è
altrettanto vero che non sia da provare quanto ci accosta e ci apre all’atto
di fede, tutto ciò che è stato indicato come l’insieme delle condizioni
previo previe e indispensabilmente preparatorio preparatorie alla fede, i
cosiddetti prolegomena fidei. Voglio dire, per fare un esempio, che se
credere che Gesù sia l’inviato e persino il Figlio di Dio è senza dubbio
operazione di fede, indagare se Gesù sia scientificamente esistito,
quali siano le fonti storiche, quale attendibilità abbiamo gli scritti che
parlano di lui, in quali circostanze storico-sociali egli sia vissuto ecc., è
materia e metodo rigorosamente scientifico, alla stessa stregua di ogni
altra ricerca storica. Lo stesso dicasi delle indagini sulle religioni,
sulle patologie religiose, i suoi travisamenti, i suoi fondatori ecc.
L’indagine
sull’esistenza storica di Gesù e sull’ambiente storico-sociale nel quale
egli avrebbe operato è, come ben dici, oggetto della storia, non della
teologia. L’indagine storica, a sua volta, può essere scientifica se
procede con il rispetto delle regole e con l’impiego del metodo proprio
della scienza.
Ma Inoltre, lo stesso rigore
si richiede per la coerenza logica con la quale deve articolarsi il
discorso teologico, che dovrà sempre attenersi con scrupolo sia alla coerenza
interna di ciascuna sua proposizione, sia a quella delle varie proposizioni
nel loro insieme, rispettando il principio di non contraddizione e rispettando
i vari e indispensabili passaggi logici e metodologici richiesti da qualsiasi
scienza. Sulla stessa linea di scientificità devono camminare il
reperimento delle fonti (da quelle bibliche a tutte le altre), la loro
valutazione critica e il loro utilizzo.
In
quanto alla rigorosità, bisogna distinguere la rigorosità scientifica, che
si regge sulle verifiche sperimentali, dalla rigorosità logica, che si regge
sul concatenamento di proposizioni, spesso sfociante in paralogismi. La sola
rigorosità logica, spesso fallace, può fondare una Filosofia, non una
Scienza. La Teologia, pur seguendo una rigorosità logica, non può definirsi
una scienza, ma è da assimilarsi alla filosofia. Anche la filosofia procede
per rigorosità logiche, ma non ha mai preteso per questo di essere scienza.
Il reperire le fonti, valutarle e criticarle è attività delle scienze
storiche, non della teologia, essa può cominciare da, non con quelle attività.
La definizione di Dewey, pur
tendendo implicitamente, com’è ovvio, verso il pragmatismo, mi sembra possa
essere accettata fino a che non escluda per principio che la scienza è sia
fatta anche di salti e di discontinuità. Come, raccogliendo la lezione di
coloro che tu citi in seguito (Popper, Heisenberg, Wittgenstein), Kuhn ha
dimostrato, anche il processo delle scienze fisico-matematiche, ma
includiamoci anche quelle relative alla biologia, all’astrofisica e al mondo
atomico e subatomico, non è affatto lineare, né senza problemi. Soprattutto,
come scrivi anche tu, essa non pretende più di asserire certezze assolute. A
ciò vorrei aggiungere, ma il tutto è meglio espresso nel testo
"teologia Teologia ed epistemologia", che lo stessoil Wittgenstein
delle "Ricerche filosofiche" è molto diverso da quelle del
rigorismo logico del Tractatus logico-philosoficus. Giunge ad
ammettere, al pari di altri grandi teorici della scienza, la legittimità
della teologia come scienza, basandosi sul fatto che non il suo
presupportopresupposto, ma in questo caso la sua ipotesi, quella di Dio, è
un’ipotesi vera e propria, anche se la più grande e per questo la meno
verificabile possibile. stessa
L’affermazione
del Wittgenstein, che sembra supporre una legittimità della Teologia come
scienza fondandola sull’ipotesi Dio, non è conclusiva. Primariamente perché
essa sembra muoversi nell’ambito di un discorso filosofico e non
scientifico, secondariamente perché la qualificazione di scientificità non
discende dal semplice lancio di un’ipotesi, ma dalla sua verifica
sperimentale, in mancanza della quale si resta solo nell’ambito di una
teoria filosofica.
Sui processi conoscitivi e sui
limiti del conoscere sono d’accordo anch’io. Solo che mi pare che
nonostante ciò, tu insista particolarmente eccessivamente sulla verificabilità
e la ripetibilità dell’esperimento come l’ideale della stessa scienza.
Niente da eccepire, soltanto
faccio notare che altro è verificare corpi, onde sonore o elettromagnetiche,
stati fluidi e gassosi, altro è verificare ciò che attiene al complesso
mondo umano. Questo non può essere trattato come quelli, perché di natura
diversa. Non per questo però si potrà dire che sociologia, psicologia,
storia e quant’altro non siano scientifiche. Presenteranno problemi
ulteriori e imprevisti, ma ciò è nell’ordine e nella natura di ciò che si
esse osservano. Su questo punto, con tutti i limiti possibili, la distinzione
di Dilthey tra "scienze della natura" e "scienze dello
spirito" fa luce su modi di procedere diversi, ma che comunque
obbediscono (o dovrebbero) ugualmente ubbidire al criterio deldi rigore. Ora a
me sembra che proprio nei casi in cui la scienza si occupa di fenomeni più
complessivi, come la "relatività" ecc., seppure ci garantisca
alcuni principi e leggi ripercorribili sperimentalmente, non ne può garantire
altri, che oggettivamente le sfuggono di mano.
Opportuna
è la distinzione tra “scienze fisiche” e “scienze umane”. Le scienze
fisiche hanno come oggetto di studio corpi fisici, le scienze umane hanno come
oggetto di studio eventi e comportamenti umani. Ambedue le categorie di
scienze, però, si reggono sull’osservazione di fatti, sulla sperimentazione
di tipo galileiano, sulla formulazione di leggi o costanti, sulle quali è
possibile fondare la prevedibilità di eventi e comportamenti. La differenza
tra le due categorie sta nella maggiore o minore probabilità di
manifestazione dell’evento o del comportamento previsto (la scienza infatti,
più che certezze, predica probabilità, come ho avuto modo di precisare nel
precedente intervento). A questo proposito, la citata distinzione
di Dilthey tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”
non mi sembra calzare. Le “scienze dello spirito”, cui accenna Dilthey,
non sono certamente le “scienze umane”: sociologia, psicologia, storia,
ecc.. Queste non studiano lo spirito, come è inteso nella filosofia e nella
teologia, ma studiano fatti, eventi, comportamenti osservabili, misurabili,
traducibili in termini matematici, ripetibili e, perciò, verificabili
sperimentalmente e, quindi, prevedibili nei limiti di cui sopra. Nel caso che
la psicologia pretendesse di andare oltre il campo sperimentale ed affermasse,
per esempio, l’esistenza di un’anima immortale, cesserebbe di essere
scienza e diventerebbe filosofia.
A questo punto, mi pare che tu
voglia toccare il cuore del problema, quando affermi: Per la verità non so a
quali altre "forme di conoscenza" tu ti riferisca, quando dici che
se quelle secondo il processo scientifico alla Dewey a stento possanouò
offrire certezze, a maggior ragione non ne potranno offrire le altre. In ogni
caso parli della teologia e dei processi psichici che sarebbero all’origine
della religione, tra cui, quello - aggiungo - già ipotizzato da Lucrezio, del
timore. In ogni caso tali processi sono non ripetibili e dunque non
scientificamente affidabili, perché, come scrivi: "restano
a livello di esperienze individuali, comunicabili ma non ripetibili".
È vero, ma non è detto che ciò
che non è sperimentalmente ripetibile da un altro nella stessa forma, non sia
reale o non abbia riferimenti reali. Qui dobbiamo intenderci. Il processo
psichico di per sé non è la religione, ma può condurre l’uomo fino alla
sua soglia. Talora può essere deviato e deviante come qualche volta la
ragione, ma ciò non significa che non abbiamo mai alcuna facoltà che ci
possa, ragionevolmente condurre a intravedere dove la ragione finisca e dove
la fede cominci. Ora, a rigore, non è illogico domandare: Ci può essere
un’eventuale scienza che consideri tali processi, la loro correttezza e il
loro andare fino alla "soglia" della fede, pur senza pronunciarsi
razionalmente sui contenuti della fede stessa, che si sa, appartengono a un
altro ordine di certezza? Senza ancora compiere particolari atti di fede, mi
sembra si possa, rispondere che tale scienza esiste ed è appunto la
teologia, almeno quella parte di essa che è chiamata "teologia
fondamentale".
Per
quanto detto in precedenza, impropriamente si usa qui il termine “scienza”
in luogo di “disciplina”. Non basta il rigore logico per conferire alla
teologia, e alla filosofia, la qualificazione di Scienza, per la quale è
essenziale la verificabilità sperimentale.
Essa prende sul serio la pretesa
dell’uomo di andare oltre se stesso e la stessa possibilità che ci sia una
trascendenza reale e non mera rappresentazione simbolica. Ma resta saldamente
ancorata al procedere logico, almeno per ciò che riguarda i presupporti della
fede stessa. Insomma prende sul serio che ci sia un "Possibile Dio",
come si esprime il filosofo dell’Università di Napoli Vincenzo Vitiello [
V. VITIELLO, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città
Nuova, Roma 2002], che partito dal nichilismo, approda, nel suo più recente
volume, a qualcosa di più che a un’ipotetica possibilità, in direzione di
ciò che altri hanno detto della fede: "un affidamento
esistenziale".
Prendo allora sul serio anche
l’obiezione che segue nel tuo testo e che è così espressa: La mia risposta
a questa obiezione è la seguente: Che il processo dell’uomo verso il
proprio autosuperamento possa almeno implicitamente segnalare un dato reale e
non essere il frutto di un’insanabile illusione, non si può escludere in
linea di principio. Che esso ci sia e non si estingua mai, nemmeno con
l’avanzare della scienza che demitizza fulmini, paure e angoscia del vuoto,
appare un forte indizio in direzione di una possibile trascendenza. Non si
tratta di processi ingannevoli ribattezzati "teogonici", ma di
tensioni esistenziali che esigono un perché. A chi oggi come Feuerbach,
sebbene in forme differenti, ripropone che Dio è frutto delle nostre
proiezioni oltre il nostro riconosciuto e accettato limite, si può sempre
rispondere: Ma da dove nasce questa indomita tendenza a superarlo, visto che
ormai sappiamo di essere finiti e dunque dimoranti più o meno felici, o
almeno contenti, nell’isola della nostra immanenza? Ci sarebbe per il
marinaio il bisogno di navigare se non ci fosse il mare? Ci sarebbe
soprattutto l’isola se non ci fosse acqua intorno? Quand’anche tale mare
fosse invisibile, per una sopraggiunta cecità del marinaio o per un
invincibile oscuramento cosmico, nel marinaio non si estinguerebbe il
desiderio di navigare. Ma proprio questo attesta che il mare è non solo
possibile, ma reale. Il desiderio di andare oltre se stessi attesta in noi che
esiste questa possibilità. Diversamente non lo avremmo. Alla stessa maniera,
si potrebbe aggiungere, la sete e il bisogno di bagnarsi, attestano, anche per
uno che, per ipotesi, non avesse mai visto un ruscello o una fonte, ma avesse
solo mangiato frutta e verdura, che l’acqua esiste. E perché mai? Perché non
ci sarebbe la sete, né il bisogno dell’acqua, se l’uomo non fosse
principalmente costituito proprio di acqua, anche qualora lo fosse a sua
insaputa.
Quanto
precede è un procedimento logico molto sottile, ma è solo un esercizio di
una qualche rilevanza filosofica, improduttivo sul piano scientifico.
Procedendo con ordine: a) cominci con il dichiarare che il bisogno (è da
discutere che si tratti di un processo) dell’uomo di andare “oltre” non
esclude in via di principio che possa segnalare un dato reale; ciò è
ammissibile anche nel procedimento scientifico. b) Prosegui affermando che la
presenza e l’inestinguibilità di questo bisogno appare un forte indizio di
trascendenza; con questa affermazione siamo già fuori del metodo e
dell’ambito scientifico, il trascendente, infatti, non può e non potrà mai
essere oggetto di osservazione e sperimentazione. Un bisogno umano è
l’espressione di una mancanza dovuta alla finitezza dell’esistenza,
mancanza che lo spinge alla ricerca, lo stimola ad andare avanti, ma sempre
nel finito, anche se a lui, per un errore di percezione, sembra di essere
proteso verso l’infinito solo perché la meta non si trova nel suo “campo
visivo”. Le tensioni esistenziali che esigono un perché trascendente sono
oggetto della filosofia. Quando esse sono oggetto di studio nella psicologia
scientifica sono spiegate validamente nell’immanenza. I loro perché si
trovano nelle esperienze della vita passata dell’individuo, nelle
sue relazioni sociali, ecc, c) continui con l’immagini dell’isola, del
mare e del marinaio, efficaci sul piano poetico, ma non dimostrativi su quello
scientifico e neppure su quello logico. d) concludi con l’ argomento che
come l’ esistenza dell’acqua sarebbe attestata dalla sete, così
l’esistenza del trascendente sarebbe attestata dal desiderio di trascendenza
e rafforzi l’argomento spiegando la sete con il fatto che l’uomo è
costituito di acqua, lasciando implicita la conclusione che se l’uomo
desidera qualcosa (ad es. Dio), questa deve necessariamente esistere. Queste
argomentazioni, pur persuasive sul piano emotivo, non sono convincenti sul
piano logico e per nulla sul piano scientifico. In primis, il confronto fra la
sete metafisica e la sete fisiologica è improponibile per il fatto che sono
due bisogni di natura totalmente diversa, per cui ciò che possiamo dire della
seconda non vale assolutamente per la prima. Mentre sulla sete fisiologica
possiamo fare un discorso scientifico, sulla sete metafisica possiamo solo
fare un discorso filosofico. I due piani non si tangono ed ogni loro
accostamento è arbitrario. In secundis, l’argomento della sete spiegata con
il fatto che l’uomo è costituito di acqua è valido scientificamente solo
nella fattispecie, ma non è trasferibile in altri contesti, infatti non posso
dire, né scientificamente, ma neppure logicamente, che se l’uomo ha sete di
oro è costituito da questo elemento; se potessi dirlo potrei anche dire, ma
solo logicamente, che se l’uomo ha sete del divino è divino lui stesso. Ma
voi teologi non accettate questa conclusione.
Tu ammetti che va al di là del
seminato chi esclude Dio in nome della scienza. È già un passo importante. A
me sembra si possa però ragionevolmente aggiungerne uno successivo: quello
della plausibilità della sua esistenza (vedi le riflessioni di Berger che
riporto nel mio contributo su Teologia ed epistemologia) e per ciò che
riguarda la teologia si possa ammettere la sua "scientificità" non
solo per i motivi espressi precedentemente, ma anche per l’esplicita
ammissione di affermati studiosi su quell’intricato campo che è la
filosofia e la definizione della scienza. Mi riferisco a Michael Dummet [Cf.
la sua La base logica della metafisica, Edizioni del Mulino, Bologna],
ritenuto uno dei massimi filosofi viventi e analitici del pensiero umano, come
della scienza.
In un illuminante passaggio, egli
ha scritto:
"(Per
il credente) Dio deve esistere perché esistono sue rivelazioni, ma perché
queste siano credute con la fede, così come l’abbiamo definita,
l’esistenza di Dio deve essere accessibile con la pura riflessione razionale
e non essere in sé il contenuto della fede … Per quanto riguarda la fede
quindi, la razionalità della credenza religiosa dipende da due fattori: se
è ragionevole supporre che Dio riveli certe verità agli esseri umani e,
in questo caso, se tale rivelazione è stata correttamente identificata; e se
è ragionevole dare a ciò che non si conosce lo stesso grado di adesione
appropriato per ciò che si conosce" [M. DUMMET, "Dio, tra fede e
ragione. Credere alla "rivelazione" implica la rinuncia ai principi
di ragionevolezza e anzi richiede di utilizzarli". in Duemila.
Supplemento (straordinario) di Dicembre 1999 al Sole 24-ore, qui
pag.1].
Questa
citazione si muove nell’ambito del puramente logico e, quindi, nell’ambito
filosofico e nulla giustifica il passaggio all’ambito scientifico che
richiede tutt’altre evidenze.
In definitiva, se credere a un
Dio e alla "rivelazione" "non implica la rinuncia ai principi
di ragionevolezza, anzi richiede di utilizzarli", non mi sembra del tutto
soddisfacente la tua conclusione:
La ritengo non espressiva
della complessità e della ricchezza che sia in campo teologico, sia in campo
scientifico sono emerse dai tempi di Feuerbach e delle formulazioni
riduzioniste di chi ha pensato che Dio non sia altro che un prodotto della
nostra mente. Rispetto a formulazioni così estreme, tu mi sembra sia più
cauto e, soprattutto nella prima lettera, colleghi la fede alla prassi della
solidarietà. Proprio qui però si aprirebbe un altro lungo discorso, forse
quello dirimente, a partire dalla controdomanda: Ma perché l’uomo
deve amare e non piuttosto odiare? Perché fare del bene ed aiutare gli altri
è per noi tutti preferibile al fare del male? Solo per salvaguardare la
specie, come sembra suggerire qualcuno (cf. E. Scalfari)? Mi sembra
effettivamente troppo poco e ci condurrebbe di nuovo a un riduzionismo senza
sbocchi oltre che senza speranza.
La
“controdomanda” resta aperta a molte risposte, certo anche a quella di
Scalari, che vanno cercate nel mondo dello “spirito” umano. Ad essa non si
può rispondere unicamente facendo riferimento all’ispirazione o alla
causalità di un Ente trascendente distinto e al disopra dell’uomo,
costituente un altro ordine di realtà. Si toglierebbe all’uomo stesso il
merito del bene che fa e la dignità che da ciò discende. Attribuzione
pericolosa perché qualcuno oltre all’ispirazione del bene potrebbe
addebitargli quella del male. Penso alla cattiva traduzione del “Padre
Nostro” nel punto in cui troviamo l’espressione “non indurci in
tentazione”. Espressione oggi mutata in “non permettere che cadiamo in
tentazione”, che mi sembra più consona con l’idea che il cristiano
dovrebbe avere di Dio. Per concludere lasciamo che la teologia rimanga nel
campo della fede, la quale nobilita l’uomo che la pratica al pari di quanto,
in un’altra sfera, la scienza nobilita i suoi cultori. Cercando,
arrampicandosi sugli specchi, di darle basi scientifiche (che non può avere
per tutte le ragioni sopra dette), si dubita forse della validità della
teologia nel suo campo? Non credo sia il tuo caso.
Con
tutta la mia stima
Michelangelo
Pucci