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Giovanni Mazzillo

 

 

Cristologia e prassi cristiana

 

 

Corso comune al biennio di specializzazione
per la cristologia

della PFTIM Sezione Capodimonte

1° Semestre 2005-2006

Dispense ad esclusivo uso degli Studenti

 

 

 

 


 

 

Articolazione del corso

A) Panoramica sui più recenti apporti sulla storicità di Gesù

-          Strumenti didattici: Presentazione sintetica ed estesa del corso

in www.puntopace.net/Mazzillo/Mazz_presentazioneNapoli05.htm

 

B)     Il problema del Gesù storico (origini e sviluppi)

Strumenti didattici: Gesù e la sua prassi di pace I^parte

in www.puntopace.net/Mazzillo/Mazz_GesuA.htm

o       Le fonti e la loro attendibilità

o       Il superamento della “Storia delle forme”

o       Possibilità di recuperare una “biografia teologica” di Gesù

o       Il progetto di vita di Gesù  nella re-interpretazione dell’ebraismo

C)    Per una cristologia che muova dall’agire di Gesù

Strumenti didattici: Gesù e la sua prassi di pace 2^parte

in www.puntopace.net/Mazzillo/Mazz_GesuB.htm

o       Gesù e la sua prassi di pace

o       La prassi convocatrice, diaconale e liberante

o       La prassi oblativa

D)    Le beatitudini evangeliche rivisitate come criterio dell’agire del popolo di Dio

o       Chiesa che “fa la verità” praticando le beatitudini

o       L’agire e il suo valore relazionale

o       La prassi come atto di solidarietà

o       Le beatitudini come sintesi tra mistica e politica

 

E)     L’amore sorgente e compimento dell’agire cristiano

o       L’amore che viene da Dio

o       L’abbraccio che solleva e dà la pace

o       L’ingiustizia da combattere e la giustizia da restaurare

o       La via della carità via dell’autentica liberazione

o       L’etica razionale e la vita secondo lo Spirito

o       Obbedienza teologale e disobbedienza civile?

 

F)     Sequela e prassi del popolo di Dio

o        Schemi sulla “prassi pastorale” della Chiesa

o        Prassi pastorale come prassi delle beatitudini

 

 

Strumenti didattici: testo qui riportato

 

Bibliografia

Dispense del Docente – www.puntopace  con codici forniti in classe

G. MAZZILLO, Gesù e la sua prassi di pace, Meridiana, Molfetta (Ba), 1990       

J. P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico 1, Queriniana, Brescia 2001

G. BOF, Gesù di Nazareth… Figlio di Adamo, Figlio di Dio, Paoline, Milano 2000.

I. ELLACURIA, Conversione della chiesa al regno di Dio. Per annunciarlo e realizzarlo nella storia, Queriniana, Brescia 1992.


 

 

D) Le beatitudini evangeliche rivisitate come criterio dell’agire del popolo di Dio

0. Introduzione: Chiesa che “fa la verità” praticando le beatitudini

Si può prendere l’avvio di questa riflessione sull’agire del popolo di Dio e sui suoi fondamenti da un principio unanimemente accettato, anche se paradossalmente solo “in teoria”, che afferma che la teoria non può essere separata dalla prassi[1]. Per la teologia cristiana il principio può riferirsi ad un’affermazione di Gesù di indiscutibile valore, nella quale compare l’espressione «fare la verità»[2]. In un contesto teologico più generale «fare la verità», è tipico di colui che «opera la verità» (poiōn tēn alētheian) e costui è in primo luogo il facitore della verità per eccellenza, cioè Cristo. Egli si è definito «la via, la verità e la vita»[3]. Perfetto «facitore della pace» e «nostra pace»[4], egli è colui che ha proclamato «beati i facitori di pace!» (eirēnopoiòi). Ha mostrato come la si debba realizzare. L’ha “compiuta” in se stesso, nel suo corpo e attraverso la croce, essendo il primo e fondamentale «artefice di pace» (poiōn eirēnēn)[5]. Costruttore di pace perché operatore di verità, Cristo è il paradigma di un agire di pace che è compendio e base della prassi delle beatitudini, una prassi che ci coinvolge come popolo di Dio e come singoli, in una sintesi inscindibile tra la teoria e la prassi; per così dire, inverando l’agire e facendo la verità.

Il punto di partenza è ancora una volta Cristo. Riprendere la sua beatitudine centrale significa per il popolo di Dio accogliere l’invito di Paolo: «diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19). Sono queste le “opere” che danno spessore storico ad una verità che altrimenti resterebbe troppo astratta, irraggiungibile e persino irrilevante. Ortodossia ed ortoprassi sono dunque inscindibili, anzi, a dire il vero, non c’è nemmeno ortodossia (dottrina retta) se non c’è ortoprassi (agire retto), così come non c’è ortoprassi senza ortodossia, giacché questa è almeno implicita in ogni agire teologicamente retto. Ma l’ortoprassi è per noi da cogliere sempre intorno alla magna charta del discorso della montagna e della proclamazione delle beatitudini in particolare. L’iniziazione alla pratica della teologia è intraprendere un nuovo modo di pensare e di fare[6] non intorno a una generica novità, ma avendo come punto di riferimento costante la sequela di Gesù. È inoltre un cammino comunitariamente inteso e ciò costituisce l’alveo e il contesto ermeneutico autentico dell’inveramento della prassi cristiana.

Ciò vale per il popolo di Dio, come per il teologo, non meno di quanto valga per il singolo cristiano. Avviene però all’interno dell’intera comunità ecclesiale e in un atteggiamento complessivo di accoglienza nella fede del messaggio sempre liberante del vangelo. Se è vero che la teologia non può far a meno di ricorrere alla ragione, anche là dove la ragione si arresta, per adorare ragioni più alte, come quelle della croce e della follia di Dio, l’esistenza del teologo è situata all’interno di un contesto ecclesiale che trasforma la fede credente in fede confessante e la sua professionalità teologica in professione teologale[7]. La pratica della teologia è anche questo. È specificamente questo.

I richiami alla lealtà ecclesiale e all’ortodossia del teologo sono i benvenuti se partono dalla necessità costitutiva della stessa esistenza cristiana ad una coerente e integrale confessione di fede che riguarda tutti nel popolo di Dio: i pastori e i teologi, i maestri non meno dei dottori. Non possono però prescindere da una fede sempre da confessare e da praticare, da parte di tutti, pur nella diversità delle singole vocazioni e dei differenti ruoli nella comunità ecclesiale. Anche per questo motivo, viene sempre più affermato che la ricerca teologica è un vero e proprio ministero, corrisponde a un’esplicita vocazione nella chiesa e avviene all’interno della fede e del cammino del popolo di Dio[8]. Volendo però ulteriormente qualificare i contenuti intorno ai quali ruota tale ministero, nella più generale ministerialità del popolo di Dio, non sarà inutile ribadire che il loro nucleo portante è “fare la verità” di ciò che affermano le beatitudini di Gesù. La loro paradossalità le rende particolarmente fragili, ma anche feconde, perché spinge verso un loro inveramento nella testimonianza. Sono una sfida che Gesù  sempre lancia al suo popolo.

Certamente non è nuova la “dimensione pratica” della teologia, che come tale ha anche un notevole interesse ecumenico, se proprio il mondo evangelico l’ha richiamata fin dagli inizi, attaccando, almeno alle sue origini, il suo valore scientifico, identificato in quello deduttivo e astratto della Scolastica. In epoca contemporanea, K. Barth ha affermato esplicitamente che la teologia è “testimonianza” perché è accoglienza della Parola di Dio, dalla quale sempre dipende. Con Calvino ha infatti ritenuto che ogni retta conoscenza di Dio nasce dall’obbedienza, al punto di asserire:

«... ciò per cui la teologia è teologia non è la parola con cui essa risponde bensì la Parola che essa ascolta ed alla quale risponde. La teologia sta e cade con la Parola che precede la sua parola, con la Parola che la fonda, la suscita e la provoca»[9].

È una pensiero completamente condivisibile, anche se, da parte cattolica, richiede di essere completato con il valore della comunità per la recezione e l’interpretazione della stessa Parola. L’obbedienza della fede passa attraverso un coinvolgimento di vita nel cammino del popolo di Dio, senza del quale la stessa teologia non avrebbe senso. In ogni caso il carattere pratico della teologia la collega, come si diceva non solo all’ortodossia, ma anche all’ortoprassi, sicché con la dimensione pratica si vuole indicare in generale l’aspetto esistenziale ed ecclesiale della fede, dalla quale ogni riflessione teologica sempre parte e alla quale sempre si riferisce. Come tale, la formula equivarrebbe a una pratica della teologia, che in tutta la nostra riflessione costituisce una sorta di continuo richiamo al carattere confessante e testimoniale di ogni nostro discorrere su Dio. Su questa base s’innesta l’altro lemma riguardante la teologia pratica. Giacché l’espressione è ormai consacrata dall’uso linguistico che se ne fa in teologia, vedremo più in dettaglio cosa ciò voglia indicare. Per ciò che si può asserire adesso, si tenga presente che se la teologia pratica non è semplicemente la teologia pastorale, non è nemmeno l’insieme di quelle discipline teologiche che non si lasciano ricondurre a un concetto più generale come quello di teologia biblica, o dogmatica, o di altra natura.

Per noi non si tratta di un concetto generale e quindi di quella teologia comprendente, ad esempio, la liturgia, il diritto canonico e simili. Si potrebbe sostenere che, pur sempre doverosamente salvaguardando il proprio carattere scientifico, la teologia è sempre pratica perché nasce dalla riflessione su una prassi (quella di Dio e in particolare quella di Cristo) e tende ad orientare una prassi, quella della chiesa nel suo insieme e dei cristiani presi nella loro singolarità. La irrinunciabile caratterizzazione cristocentrica della teologia richiede che anch’essa tenda sempre a “fare la verità”, non per pragmatismo, ma perché anch’essa parte, al pari della fede, dall’accoglienza di una Verità che il teologo non può fare altro che adorare e seguire. Non può fare altro che in-seguire, attualizzando nell’oggi, cioè nelle circostanze storiche nelle quali si trova, ciò che quella Verità suggerisce e grazie alla quale egli pres-agisce. Una teologia siffatta tocca prima o dopo la profezia. È quel particolare sapere di Dio e della sua rivelazione che diventa presaga, non nel senso che indaga sul futuro, ma nel senso che penetra con lo spirito[10], sì da leggere nelle righe del passato e del presente le linee direttrici del progetto di Dio, linee che si muovono verso il futuro. In questo modo, seppure si comprenda ancora la distinzione didattica tra la teologia sistematica e quella pratica, tale distinzione non può diventare una separazione, né può giustificare un isolamento di uno di questi due aspetti fondamentali, che occorre invece tenere insieme.

Non si tratta di un’operazione che possa riuscire con una sorta di dosaggio epistemologico o di ingegneria concettuale; al contrario, può essere solo l’effetto dell’operare la verità conformemente al dettato e all’esempio di Gesù. È un’operazione che può aver luogo solo se si comprende fino in fondo che il “fare la verità” è la realizzazione dell’amore. La nostra riflessione a riguardo costituisce l’ossatura dei fondamenti teologici per una “teologia pratica”, che non è una teologia della prassi, ma una teologia che vive nella e per la prassi di Dio e tende a prolungarne gli effetti nell’oggi e nello spazio che essa tocca. Nasce e vive nell’amore e sempre rincorre lo stesso amore perché questo possa intersecare la storia di ogni giorno. Nell’amore ritrova l’humus delle beatitudini e cerca di indicarne la concretezza storica, paradossale e effettiva nello stesso tempo, perché continuamente rincorre la prassi di Gesù.

Questa nostra proposta accoglie il bisogno, manifestato da più parti, di colmare la distanza ancora esistente tra la riflessione teologica, cosiddetta “speculativa” e la “pastorale”. Nonostante la vasta produzione teologica che caratterizza questi nostri anni, resta la difficoltà di tradurre in gesti concreti e in prassi quotidiana ciò che è stato già ripensato e proposto sia nelle pubblicazioni teologiche che nei pur numerosi documenti magisteriali del post-concilio. Le ragioni di questa difficoltà di effettiva comunicazione tra livello teorico e livello pastorale sono tante. Si possono però ricondurre a un difetto di fondo: l’autosufficienza in cui spesso è vissuta e vive la riflessione teologica, che si appella alla pastoralità e alla prassi solo per considerare le possibilità applicative di ciò che essa ha prodotto in modo autonomo. Gli “operatori pastorali”, parroci, sacerdoti, laici e religiosi sono, d’altro canto, prevenuti sulla riflessione teorica, perché ritengono, come i “teologi”, che altro sia la teoria, altro la prassi. La loro esperienza rischia sovente di confinarli alla stessa autosufficienza che essi criticano nei “teologi di professione”.

È uno schema di pensiero limitato che però si può e di deve superare nella consapevolezza della strettissima interconnessione tra la prassi pastorale e la stessa teoresi, che rimanda ad essa non solo in sede applicativa, ma anche nel suo stadio germinale, come “luogo teologico” in cui ogni riflessione sulla fede ha luogo, per la semplice ragione che la fede nasce in un contesto di prassi ecclesiale-comunitaria, si alimenta in essa e fa continuamente riferimento a questa.

La nostra proposta è in primo luogo un approfondimento di queste interconnessioni strutturali tra teologia e vita pastorale, in vista di una maggiore consapevolezza delle implicanze teologiche di ogni atto pastorale e di una più profonda coscienza pastorale, “pratica”, di ogni atto di riflessione teologica. Si tratta di una riflessione, che nel solco di quella nostra precedente, resta informata dall’amore, recependo le esigenze dell’amore in Dio annunciato da Gesù al suo popolo come popolo delle beatitudini. Nel progetto più generale di chiesa che ne è scaturito, cercheremo di articolare i punti determinanti di una prassi del popolo di Dio da ricondurre sempre alla Triunità divina alla quale abbiamo accesso in Cristo.

Radicata dell’agire della Triunità come fonte e corrente dell’amore, la prassi pastorale che ne consegue non è volontarismo, né realizzazione di un nostro progetto elaborato autonomamente, ma è piuttosto prassi teologale. Fa riferimento alla Triunità d’amore che continuamente sorregge la sua comunità e la rimette in carreggiata. Proclama la sua benevolenza verso il suo popolo e ci invia a proclamarla agli infelici. È questo che s’intende per prassi teologale ancorata alle beatitudini ed è ciò che ci spinge ben oltre le pur doverose chiarificazioni sul significato e sul valore dell’agire in quanto tale.

1 CAPITOLO
L’agire e il suo valore relazionale

1.1. Teoria e prassi nella storia del pensiero occidentale

1.1.1. Le origini del problema

Affrontando l’argomento in maniera sistematica, si potrebbe dire che si tratta del rapporto tra idea e realtà, in tutte le sue variazioni. È il rapporto tra parola e fatto, coscienza ed essere, pensare ed agire, soggetto e oggetto. Le posizioni che lo hanno indicato sono tra le più controverse e le più varie della storia della filosofia. Vanno dalla negazione del secondo polo, che verrebbe sempre e comunque assorbito nel soggetto pensante o interrogante, all’affermazione contraria che ritiene il primo come semplice cristallizzazione di ciò che accade nella realtà fattuale[11]. Tra questi due estremi c’è un florilegio di posizioni intermedie e variegate. Anche per la teologia il rapporto in questione non è stato, e non è tuttora, di secondaria importanza. Ha assunto diverse connotazioni storiche e al presente si può ricondurre a quella fondamentale che interessa l’interconnessione tra i principi e l’attuazione storica del cristianesimo, tra la sua essenza e la sua modalità concreta e visibile, insomma tra il Vangelo e la chiesa, come pure tra la vita contemplativa e quella attiva. Per ciò che ci interessa maggiormente, investe il legame tra riflessione teologica e attività pastorale.

Le origini del binomio riassunto in teoria-prassi sono ricondotte da alcuni fino a Erodoto, che distingueva tra theōréin e istoréin (vagamente traducibili come teorizzare e storicizzare[12]), due atti ritenuti fondamenti della scienza storica, mentre la scuola ionica riteneva la theōría una contemplazione spirituale di cose astratte[13]. Da Platone in poi si trova l’associazione con theion (divino). La filosofia è considerata theōría in quanto è ricerca cognitiva dell’ultimo fondamento divino del reale. La distinzione di Aristotele è nota. C’è una vita che pensa (os theōrēticós, vita teoretica) e una realtà vitale che agisce (os praktikós, vita pratica). La sua tripartizione è divenuta ormai classica: theōría, praxis, poiēsis (cioè teoria, prassi, produzione). La prima riguarda il pensare in quanto tale, la seconda riguarda una particolare forma di conoscenza tesa all’agire morale, la terza indica invece l’attività più propriamente tecnica e artigianale[14].

Nel seguito della storia del pensiero greco, si esaspera una sorta di dualismo che spinge sempre più il momento teorico verso la gnosi. Proprio questa riesce ad assorbire in sé, attraverso l’ascesi, l’aspetto più propriamente pratico. Tommaso d’Aquino riprende dalla filosofia greca la teoria in quanto conoscenza speculativa, e riserva la dimensione pratica al comportamento etico. Ritiene, con Aristotele, che la scienza coltivata al fine della conoscenza, è sapienza e ne deduce che la teologia, pur non essendo una scienza pratica, è pur sempre scienza, oltre che sapienza[15]. Ricorre al concetto di scienza della sua epoca, osservando che in quanto scienza umana, la teologia è subalterna alla scienza divina, quella di Dio comunicata all’uomo attraverso la rivelazione. Conclude che la teologia è una scienza teorica, perché essendo sapienza, contempla nella carità ciò che Dio ha comunicato all’uomo[16].

Il nominalismo insiste sulla cognitio practica, la conoscenza pratica, ritenendo che ad orientare la volontà dell’uomo e a determinarne l’agire sia proprio la conoscenza di Dio, fine della persona umana. Per Duns Scoto la conoscenza del fine non si può separare dalla conoscenza dell’oggetto e ciò ha rilevanza per la prassi[17]. È una posizione che, mentre sembrerebbe a prima vista riconciliare prassi e teoria, ha per effetto un allontanamento ulteriore dei due termini del problema. Infatti, tanto il soggetto che la coscienza finiscono con l’allontanarsi sempre di più dagli oggetti con i quali hanno a che fare. L’esito non può essere che uno: si buttano le basi per quei moderni sistemi scientifici spesso chiamati pre-assiomatici, perché separano l’operazione logica formale degli enunciati di base (assiomi) dalla loro applicabilità e dalla corrispondenza al reale. In questo modo, si abbandona il mondo “oggettivo” alla deriva del metodo induttivo e della conoscenza meramente sperimentale. Influssi negativi di una simile procedura nel campo teologico odierno possono ravvisarvi nella tendenza, ancora presente in una certa teologia occidentale, a curare fino alla smania gli aspetti scientifico-formali delle formulazioni (incluse quelle dette veritative e magisteriali), trascurando il loro imprescindibile legame con la fede e con la prassi del popolo di Dio.

1.1.2. Il mondo protestante e la “teologia pratica”

Facendo qualche riferimento storico alla discussione più propriamente teologica, possiamo annotare come soprattutto il mondo protestante è originariamente ostile a qualsiasi idea di teologia come scienza teorica. Lutero afferma con determinazione che «la vera teologia è pratica» e che «la teologia speculativa appartiene chiaramente al diavolo»[18]. Il motivo di questo radicale cambiamento di prospettiva dalla tradizione medioevale, risiede nel fatto che per Lutero l’oggetto della teologia non è Dio in quanto tale, ma solo il suo rapporto con noi. Secondo il riformatore,

«il soggetto proprio della teologia è l’uomo, reo di peccato e perduto, e Dio giustificatore e salvatore dell’uomo peccatore»[19].

Da Lutero in poi il mondo evangelico del XVI e XVII secolo preferisce parlare della teologia come scienza pratica, anche se occorre precisare che una simile denominazione non si riferisce a un esercizio etico-religioso. Indica sempre il rapporto salvifico e il risvolto antropologico dell’agire di Dio. Non mancano posizioni che sono altrettanto decise, come quella di J. H. Alsted, il quale ammette una definizione della teologia come scienza solo in un senso molto lato: conoscenza delle cose divine, a partire dalla Scrittura e senza alcun rifacimento o elaborazione teoretica[20]. Dopo il radicalismo dei primi riformatori, altri riconoscono alla teologia il carattere di scienza pratica, in stretto riferimento a Dio e all’esistenza umana. La teologia positiva assume una connotazione anch’essa antagonistica alla teologia scolastica, disdegnata come “dotta” o “accademica”, e ribadisce l’importanza di ancorare la prassi cristiana alla sola Scriptura.

L’orizzonte, alquanto ristretto, di questa concezione poté essere superato grazie a Schleiermacher, che nel secolo scorso operò una sintesi tra concetto positivo e concetto pratico della teologia. Riaffermò che la dottrina deve restare sempre saldata alla positività della Parola di Dio e tuttavia riconobbe il carattere “pratico” della teologia, a motivo della presenza della chiesa nella società. Da allora in poi, a partire da Troeltsch, la teologia evangelica, seguita successivamente da quella cattolica, ha riconosciuto il carattere “storico” della teologia stessa in quanto «scienza del cristianesimo». Il riferimento alla prassi ha portato in sostanza la teologia a legarsi sempre più alla storia, fino a rischiare di ridurre tutto ad essa. La reazione all’impostazione storicista non ha però tardato a manifestarsi. Viene in primo luogo dalla teologia dialettica. Barth insorge contro con decisione, parlando della teologia come della scienza di Dio e della sua rivelazione, a servizio della Parola di Dio, che rimane sempre soggetto di ogni altra parola umana. A quella Parola va l’ossequio e l’obbedienza dell’intelletto e della volontà. Ammettendo la teologia come servizio, sul piano ecclesiale, Barth ritiene la teologia possibile solo come «autoesame scientifico» della chiesa, cioè come autocorrezione continua del suo stesso parlare di Dio[21].

È una posizione alla quale si è avvicinato anche Ebeling, per il quale l’oggetto della teologia è l’evento linguistico nell’ascolto della Parola di Dio[22]. La teologia esamina il processo secondo cui tale evento si svolge e, interpretando l’annuncio, ha di mira la sua proclamazione nell’assemblea. Da qui nasce la «responsabilità ecclesiale» che deve animare non solo i teologi, ma anche la teologia nel suo insieme, sicché la teologia è una «scienza responsabile». È un’attività che deve muoversi nell’ambito della fedeltà al «dato storico», costituito nella sua essenzialità dal fatto che Dio ha parlato. Fedeltà al fatto significa anche fedeltà ai suoi contenuti. Ne discende che l’ermeneutica non è una scienza come le altre scienze, perché non fine in se stessa, ma è finalizzata all’annuncio corretto e fedele della Parola di Dio. La responsabilità ecclesiale, che Ebeling ascrive ai caratteri specifici della teologia, è in sé un fatto positivo e viene a colmare una lacuna: la valenza comunitaria, ecclesiale, di ogni teologare. In questa maniera, Ebeling ed altri teologi evangelici moderni, che pur non ripudiano il carattere scientifico della teologia, recuperano la sua dimensione pratica, grazie all’ecclesialità oltre che alla storicità salvifica di quel rapporto determinante tra Dio e l’uomo tanto caro ai primi protestanti.

1.1.3. Prassi, sperimentazione, ed esperienza

Da questa breve panoramica sulla teologia si può già ricostruire un primo spezzone della storia del rapporto tra teoria e prassi. È una storia che segna comunque la modernità, nella quale la ricerca più propriamente scientifica privilegia sempre più la conoscenza empirica. Sono note le posizioni di Galileo, da una parte, e di Bacone, dall’altra. Non sono che gli inizi di una tendenza che affermerà sempre più il valore della sperimentazione in quanto atto che costringe la natura a manifestare se stessa e le sue leggi. La prassi è sostanzialmente il potere che lo scienziato ha nei confronti di ciò che lo circonda. In questo modo la teoria è solo ciò che ha bisogno di essere dimostrato attraverso la sperimentazione, diversamente perde qualsiasi valore conoscitivo. Non ha infatti alcun valore ciò che non può essere dimostrato sperimentalmente. Il problema della conoscenza si afferma con queste caratteristiche, fino ad assumere connotati chiaramente antimetafisici.

Il mondo filosofico dell’epoca non può ignorare il problema e nemmeno negare i successi che la scienza va conseguendo grazie al proprio metodo. Non può, d’altro canto, rassegnarsi a semplice scientismo. Tende allora ad una nuova sintesi tra momento teoretico e momento empirico, cercando di comprendere le condizioni generali e il funzionamento complessivo del conoscere. Lo sforzo di Kant è di ristabilire un equilibrio tra ciò che molti avevano visto come definitiva separazione, tra la ragione pura e la ragione pratica. Questi due lemmi compendiano secoli di controversie e di approfondimenti, che sono risultati determinanti sia per il mondo scientifico sia per quello teologico. Rappresentano non due diverse ragioni, ma due modi differenti che la ragione ha di porsi di fronte al reale. La ragione pratica richiama immediatamente alla prassi, ma questa non è nella filosofia di Kant semplice banco di prova di una teoria, perché ha essa stessa un suo valore e un suo impianto teorico.

Quella di Kant è una sintesi provvisoria e si manifesta ben presto precaria, per i noti problemi di comunicazione che solleva tra le due modalità di conoscere e tra lo stesso conoscere e la consistenza della realtà conosciuta. Spinge infatti una larga parte della filosofia successiva a privilegiare il momento teoretico, ideale, come fonte del reale, al punto che per Hegel la prassi non è altro che l’apparizione (Erscheinung) storica della ragione, anzi è la stessa ragione che costituisce la realtà[23]. Spinge un’altra parte a dare valore preminente all’elemento pratico, esperienziale o materiale che sia. La cosiddetta sinistra hegeliana sviluppa una critica serrata all’autogiustificazione ideologica in cui necessariamente incorre la posizione di Hegel e rivendica alla prassi un primato non solo critico, ma anche rivoluzionario. Ciò accade nel senso che ogni teoria diventa soggetto ed oggetto di critica, alla luce di una dialettica storica, i cui soggetti si affermano l’uno a danno dell’altro. Tutto avviene in un processo, che non è mutevole per dialettica interna, ma che attraverso la rivoluzione, tende, come vedremo soprattutto in Karl Marx,  ad una conciliazione ultimativa tra teoria e prassi, tra anticipazioni ideali e condizioni storiche reali.

1.1.4  Moderni tentativi di conciliare prassi e teoria

Come si sarà notato, le posizioni sono molto diverse, anche se è immediatamente da precisare che anche tendenze contrapposte, come queste accennate, non elidono l’uno o l’altro momento, come talora è dato di sentire. Teoria e prassi sono sempre ugualmente presenti, sebbene sotto le più varie denominazioni. Sono effettivamente troppo importanti entrambe, perché possano essere annullate. Negarne una o l’altra equivarrebbe a negare uno degli aspetti fondamentali del modo di essere dell’uomo nel mondo. Nessuno pensa realmente di poter elidere l’una a vantaggio dell’altra. È vero piuttosto che si tratta di capire in che maniera teoria e prassi siano interdipendenti e quale delle due abbia un primato, che se non sempre, né in tutti è un primato di valore; è tuttavia in tutti di importanza strutturale più che funzionale. Il problema diventa allora capire se la prassi abbia origine da una teoria previamente formulata o se la stessa teoria non sia che il risultato di una prassi già sperimentata e consolidata.

Accanto all’operazione di sintesi sempre ritentata dalla filosofia, gioverà ricordare anche un’altra corrente culturale che sembra proporre una soluzione alternativa. Ci riferiamo al romanticismo prima e all’esistenzialismo dopo. In ambedue si compie il tentativo di congiungere la significanza della vita individuale e collettiva con lo stesso pensiero umano. L’esistenza, con le sue impreteribili ragioni, riaffiora come ragione ultima e definitiva. Se ciò è il substrato comune a tanta letteratura e cultura contemporanea, non manca chi si dedica a un approfondimento più sistematico del valore che l’elemento vitale e pratico ha per l’uomo e quindi per la realtà in genere. M. Blondel riprende l’antico e ricco filone dell’elemento vitale legato all’agire dell’uomo. Passa dalla rinominazione tomista actio della praxis aristotelica a quella francese di action. Aristotele nell’Etica a Nicomaco[24] aveva caratterizzato l’agire umano distinguendolo da quello animale e lo aveva chiamato prassi. Tommaso aveva parlato invece di actio, azione, indicando con ciò l’attività umana come tale, pur privilegiando quella spirituale (in riferimento al pensiero, alla volontà e alla contemplazione). Per Tommaso l’actio è azione transitiva (come la produzione aristotelica), oppure azione immanente (attività spirituale)[25].

Blondel, e in genere la filosofia dell’azione, continuano ad adoperare il termine “azione” e non quello di prassi. Fanno dell’azione il principio per attingere la realtà, fino ad arrivare al suo referente ultimo, l’Assoluto[26]. L’opera fondamentale del filosofo francese è contemporaneamente saggio di una critica della vita e saggio di una scienza della “pratique”, termine tradotto recentemente con “prassi”. Il principio determinante tutta l’impalcatura di Blondel resta tuttavia l’action in quanto tale, vale a dire, ciò che costituisce l’esperienza umana fondamentale. Irrinunciabile e innegabile presupposto ed espressione di qualsiasi vivere umano, l’azione trascina con sé una serie di domande che iniziano e terminano con la questione fondamentale:

«La vita umana ha o non ha un senso? E l’uomo ha un destino? Io agisco, ma senza neanche sapere che cos’è l’azione, senza aver desiderato di vivere, senza conoscere esattamente né chi sono né addirittura se sono»[27].

Non si tratta di una domanda, ma della domanda, ed è singolare che nasca e muoia con l’azione, o meglio con l’attività umana, mai riducibile a mera speculazione, ma che piuttosto costituisce un anello di congiunzione tra il contemplare le cose e il volerle. Siamo sulla scia di John Henry Newman, considerato uno degli antesignani della filosofia dell’azione, che scriveva:

«quando un grande enunciato [...] si diffonde in una moltitudine di uomini e di questi richiama l’attenzione, esso non è soltanto ricevuto passivamente [...] ma diventa un principio attivo dentro di loro, portandoli ad una contemplazione sempre nuova di esso, ad una sua applicazione in svariate direzioni e alla sua diffusione ovunque»[28].

Blondel, al pari di tutta quella corrente culturale che si rifà all’azione, non misconosce dunque l’atto più eminentemente teoretico dell’uomo, ma vede anche questo come azione, e ne cerca una collocazione all’interno delle differenti dimensioni dell’attività umana. Prende insomma sul serio l’agire in quanto tale, incluso quello della riflessione teoretica, indagando su ciò che smuove e porta avanti proprio un tale agire.

La posizione del pragmatismo, nella sua forma più grezza, costituisce un passo indietro rispetto al marxismo. Nelle Tesi su Feuerbach Marx aveva ancora colto un immancabile rapporto che deve sempre intercorrere tra teoria e prassi, pena lo scadimento a scolasticismo senza nerbo oppure a misticismo senza critica. La tesi 2 infatti recitava:

«La questione se al pensiero umano corrisponda una verità oggettiva non è una questione teorica, ma una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere (Macht), l’aldiquà del suo pensiero. La disputa sulla realtà o la non realtà di un pensiero che si isoli dalla prassi è una questione puramente scolastica»[29].

Ma ciò significava che anche la prassi da sola è monca, se è vero che colui che si affida unicamente ad essa, senza vagliarla criticamente, scade in un “misticismo senza critica”. Il fatto è che pur essendo una sorta di verifica della teoria, la prassi è ulteriormente verificata da questa, in una circolarità che rende entrambe, teoria e prassi, organicamente complementari. C’è di più. Si parte da una concezione che non si limita a far discendere la prassi dalla teoria, ma vede la stessa realtà costringere la mente umana a formulare la teoria. Ciò significa che la prassi interviene a modificare il mondo e determina in definitiva la formulazione della corrispondente teoria. È rimasta celebre la domanda (con la relativa risposta) che manifesta il capovolgimento di prospettiva del rapporto teoria-prassi:

«Le necessità teoriche riusciranno a diventare necessità immediatamente pratiche? Non basta che il pensiero spinga alla loro realizzazione, è necessario che la realtà stessa tenda al pensiero»[30].

L’intero sistema sembra voler ancora conciliare i due termini in gioco, ritenendo che se la prassi cambia la natura, non lo fa in modo automatico, perché richiede l’elemento conoscitivo, la coscienza. Ma in questa maniera prassi e teoria appaiono non solo reciprocamente complementari, ma anche circolarmente referenziali. Se una certa concezione marxiana lo affermava in linea di principio, non si soffermava tuttavia sul modo e sulle formalità che rendessero possibile una simile sintesi. Né era mossa dalla preoccupazione di salvaguardare una qualche verità dal pericolo della sua relativizzazione attraverso il momento pratico. Il marxismo successivo a Marx è invece soggiogato dal fascino del moto rivoluzionario come leva che forza il momento teorico, sì da sussumere qualsiasi teoria attraverso la conquista dei mezzi di produzione del proletariato. Lenin proclamava:

«Per la rivoluzione non basta che le masse sfruttate e oppresse abbiano coscienza dell’impossibilità di vivere come prima e reclamino cambiamenti; per la rivoluzione è necessario che gli sfruttatori non possano più vivere né governare come prima»[31].

Ben altra preoccupazione mostra Blondel, cui invece sta a cuore che la soggettività umana, proprio a partire dall’agire, sia fondamentalmente aperta alla trascendenza. Non si tratta di una nuova concezione sulla genesi della verità a partire dalla prassi, come se la verità fosse dipendente e riplasmabile attraverso la prassi. Per il filosofo francese la verità ha sempre un’importanza fondamentale e l’azione non è che uno dei mezzi, anzi è la via maestra per coglierla. L’autore scrive verso la conclusione del suo saggio:

«Pertanto lo studio dell’azione ha come risultato necessario quello di giustificare gli stessi termini del problema che si impone a tutti, offrendo una spiegazione esaustiva dell’originaria ambizione dell’uomo, e quello di determinare la legge della vita umana, con la semplice constatazione di ciò che è: Veritas norma sui. Non c’è esortazione o istruzione che valga quanto quella visione dell’inevitabile. [...] Dobbiamo semplicemente lasciare che quella verità necessaria si dispieghi nonostante tutte le sue resistenze. Bisogna avere abbastanza fiducia in essa per non attendere nulla se non dalla sua sola presenza»[32].

Se la prassi sembra essere immanente ad un pensiero che diventa esso stesso modificatore del mondo, si tratta sempre, di una prassi che non si regge senza la luce della verità. Il pensiero non la plasma ex novo, ma piuttosto la scopre. E nondimeno non si può negare quella circolarità di cui si parlava:

«dal pensiero alla prassi e dalla prassi al pensiero: il cerchio deve essere chiuso nella scienza perché lo è nella vita»[33].

Tuttavia il problema è proprio questo: quanto la scienza è specchio fedele della vita o quanto piuttosto non è una sorta di sistema che finisce con l’alimentare se stesso, inventandosi non solo gli strumenti, ma persino i pezzi su cui lavora? Il pericolo è sempre quello di cadere in un circuito che si autoalimenta, così come il maniaco finisce coll’offrire sempre nuove ragioni ad una ragione che ha perso irrimediabilmente il contatto con la realtà. Se ciò può succedere alla scienza in quanto tale, può accadere anche alla teologia. Da qui l’importanza di riscoprirne il valore pratico delle asserzioni teologiche, ovvero la loro incidenza sulla vita e il valore che la vita ha su di esse.

Affiora lo spinosissimo problema della consistenza della verità e della sua indisponibilità, per definizione, a manipolazioni dovute alla prassi. L’equilibrio di Blondel e la sua attenzione all’elemento spirituale, come base determinante e qualificante l’azione, non danno certo adito ad alcuna relativizzazione della verità. A torto egli venne accusato di modernismo. Come i suoi commentatori non tralasciano di annotare, quell’accusa era ingiusta, sebbene avesse pesato tanto su di lui, da far mettere all’Indice dei libri proibiti i suoi Annales de Philosophie Chrétienne, nei quali egli aveva espresso il suo pensiero sotto pseudonimo[34]. È ugualmente ammesso che la posizione equilibrata di Blondel non sempre si ritrova nei suoi collaboratori e discepoli. Certamente ben altra cosa accade con quanti hanno estrapolato la sua dottrina sull’azione dal suo humus spirituale ed esistenziale.

Radicalizzando la centralità dell’azione, rivisitata come prassi, e mettendone in risalto i condizionamenti e le circostanze in cui questa ha luogo, proprio una corrente della Filosofia dell’azione preparò il passaggio al pragmatismo. Pensatori come W. James, e J. Dewey[35] recuperano il termine “prassi”, ma ne capovolgono la prospettiva di fondo, al punto che l’azione non è un mezzo per raggiungere la verità, ma è essa stessa il criterio della verità. L’azione è per il pragmatista l’esperienza, non solo come strumento di verifica, ma come elemento che discrimina la verità o la non verità. Si potrebbe dire che la prassi non è più ciò che caratterizza il soggetto umano o il suo esprimersi in quanto tale, ma piuttosto ciò che dimostra significanza o irrilevanza di ogni cosa e, con ciò, ne determina la verità. La prassi non viene definita, eppure decide di volta in volta ciò che è reale e ciò che non lo è.

Sebbene con altri intenti, la sociologia ritorna sui rapporti interumani, e quindi sull’agire come modalità tipica dell’uomo. Ci riferiamo a una corrente della sociologia che considera l’azione non come semplice modalità dell’essere relazionale dell’uomo, ma la radice del suo vivere sociale. L’azione contiene già la società, perché il soggetto agente, proprio perché agisce, deve sempre essere correlato all’altro e quindi alla società. Vi è orientato e persino predeterminato, perché è la società a costituire l’insieme delle condizioni che rendono possibile ogni modalità dell’agire[36]. Di conseguenza, agire è un continuo reagire e interagire. Ciò che l’agente compie è sempre frutto di una scrittura collettiva. Anche il concetto che egli si forma di sé nasce e si plasma in questa realtà sociale, al punto che si afferma che la “mente” e la società sono strettamente interdipendenti, come lo sono il concetto di sé e il concetto dell’altro[37].

L’acquisizione di queste interconnessioni fondamentali non può certamente prescindere dalla complessità del soggetto, né per ciò che riguarda la sua libertà (e la conseguente progettualità), né per ciò che riguarda il suo immediato e costitutivo rapporto con l’altro. Ma asserire ciò significa affermare qualcosa di più di quanto sostenevano la filosofia aristotelica e quella tomista. Infatti la prassi non può essere ricavata solo dalla differenza tra mondo umano e mondo non umano. Per due motivi fondamentali: è diventato oggi abbastanza chiaro che il mondo cosiddetto non umano costituisce un’unità con l’uomo ed inoltre l’indagine sull’agire porta più lontano di ciò che appare a prima vista.

L’analisi dimostra che agire è sempre interagire, fino ad affermare che la prassi è comunque interprassi, nel senso che l’interazione si gioca non solo tra il mio io e l’altro io, ma anche tra il suo agire e il mio agire, sicché l’agire dell’uno influenza l’agire dell’altro ed è da questo influenzato. Lo conferma da più parti anche la ricerca sociologica: sia quando approda a una dottrina adeguata dell’interazione, sia quando ricorre all’agire comunicativo, come modo di agire tipico della comunicazione[38]. In modo specifico, la psicologia sociale conduce una più approfondita analisi sull’interazione come reciproca influenza dei soggetti, nelle varie forme sociali della vita umana. Essa indica la prima acquisizione degli strumenti comunicativi (che contemporaneamente abilitano alla socializzazione e sono frutto di essa) nella prima infanzia e sostiene che ciò costituisce la base del processo per la formazione della propria personalità[39]; oppure considera determinante l’interazione tra gruppi[40]; o ritiene, infine, che il processo stesso dia origine a veri e propri sistemi sociali[41].

In conclusione, le scienze umane sono oggi in grado di indicare l’interconnessione esistente tra l’agire e il pensare come un rapporto dinamico. Ci consentono di evitare i massimalismi ideologici e le facili scorciatoie epistemologiche, alle quali anche la teologia non è stata indifferente, per guardare alla realtà umana come realtà comunque interumana e per rilevare l’agire del singolo come continuo relazionarsi all’altro. In questa maniera, anche se non dimostrano (cosa del resto non richiesta), nemmeno contraddicono il fatto che l’agire dell’uomo possa essere meglio inteso in un contesto teologico più ampio. È il contesto per il credente in un Dio che si rivela nella storia del dialogo interattivo tra l’agire di Dio e l’agire dell’uomo. Si tratta di un inte-ragire teologicamente qualificante, perché dà un senso particolare (per noi di natura ecclesiale, oltre che storica) all’agire umano come interagire con l’intenzionalità di Dio, nella contestualità sempre interagente della comunità come suo popolo e, per noi, come popolo delle beatitudini.

1.2 La prassi come atto di solidarietà

Tutto il discorso finora fatto significa che la teologia deve essere capace di leggere i segni della presenza salvatrice di Cristo in questo nostro tempo, interpretandolo alla luce dell’agire di Dio, attraverso la categoria della memoria trasformatrice della passione e della risurrezione di Cristo. Solo così può dischiudere gli spazi di futuro che quella memoria ogni volta rende possibile[42]. Ma ciò comporta anche una solidarietà continua con i sofferenti del presente, oltre che con quelli del passato. Ciò che Moltmann chiama «compito terapeutico» della teologia, non è l’offerta di una consolazione a buon mercato da parte di chi crede in una vita migliore nell’aldilà, bensì una partecipazione al soffrire dell’uomo in riferimento alla prassi di Gesù. La solidarietà anamnetica è compartecipazione alla sorte del momento: è la riproposizione di quel jetzt-Zeit (il tempo che è adesso) che già per Benjamin era il continuo fluire e rimescolarsi del carico del passato nella spinta propulsiva verso il futuro. Tutto questo perché

«L’“attualizzazione” della teologia non può essere solo adattamento allo spirito dei tempi moderni, ma deve anche essere partecipazione alle sofferenze del momento presente e opposizione alle loro cause. Il potenziale salvifico e liberante della memoria salvifica di Cristo non si rivela tutto nel “modernismo”, ma nell’aver parte alle storie di dolore del presente e nel mettersi dalla parte delle vittime del “mondo moderno”»[43].

Da queste premesse deriva che la prassi comunicativa dell’uomo deve confrontarsi con l’agire di Dio, passando attraverso la prassi di Cristo in un modo diretto ed esplicito. Collegata a questa, diventa prassi solidale, inserendosi nel circuito della solidarietà di Dio, perché non c’è vera comunicazione che non sfoci nella solidarietà e non vi può essere solidarietà se non in un contesto giustificativo complessivo, costituito dalla comunicazione. Tutto ciò evidenzia i limiti della modernità occidentale e ci consente di recuperare la solidarietà nel complesso valoriale delle altre culture. Il significato ecumenico e comunicazionale di un simile dialogo è ovvio, anche se occorre ricordare che le nostre ricerche “europee” a riguardo sono ancora insufficienti. Sono però da chiedere con insistenza e da intraprendere al più presto, per dare credibilità all’apertura verso l’altro, verso il diverso, così come invoca una possibile teologia europea della liberazione.

In ogni caso, i limiti della nostra concezione culturale moderna appaiono appena si tenta un confronto con il mondo culturale non moderno, a partire da quello “arcaico”. È vero: l’universo che si dischiude alla ricerca è pressoché illimitato. Molte sono le aree storiche e geografiche che si presentano a chi vuole affrontare la materia, così come sono molti e variegati i loro sottosistemi. Il nostro riferimento non può offrire che nozioni generiche, pur volendo cogliere la solidarietà come valore fontale di un mondo così complesso. Eppure si può asserire che in esso la solidarietà è il grande principio vitale che attiva la realtà complessiva in cui l’individualità si situa[44].

Al di là delle multiformi caratterizzazioni culturali delle religioni “arcaiche” e meno “arcaiche”, si può cogliere nella maggior parte di esse la coscienza della realtà come essere comune. Alcune religioni attuali mostrano persino interesse per l’agire e per la persona di Gesù, come di essere per gli altri[45]. Percepiscono il valore della comune appartenenza e ciò trova riscontri notevoli persino nella ritualità religiosa in genere, sulla base di una concezione della vita come relazione fondamentale e inalienabile[46]. Il tema della solidarietà presso popoli non europei, o presso forme culturali arcaiche anche del bacino europeo è un tema di per sé vastissimo. Nella filosofia occidentale coincide con la ricerca condotta dall’antropologia. Nelle religioni in genere è da ricercare sotto denominazioni non sempre univoche, che sono, ad esempio, partecipazione, comunità, unicità e totalità. Uno dei padri della fenomenologia delle religioni, G. van der Leew, dà il giusto rilievo alla solidarietà presso le grandi religioni, individuandola nel senso primitivo della comunità:

«Il primitivo pensa e agisce collettivamente. L’individuo non è niente senza gli altri; agiscono in lui la famiglia, la stirpe, la tribù [...] Presso i Germani l’uccisione di un parente è peggio assai di un delitto [...] equivale ad un vero suicidio. Parimenti, in Israele, la rottura della pace tra fratelli [...] è un’assurdità. Presso i Greci è l’uccisione del parente che risveglia ed attira le Erinni»[47].

Il vincolo parentale e tribale non è però che un’espressione di un rapporto più profondo tra l’uomo e ciò che lo circonda, avvertito come legame ancestrale e originario. La coscienza individuale ruota intorno a uno stesso principio vitale. Intercetta una partecipazione profonda che si protende verso la totalità degli esseri viventi[48]. Per i popoli e le culture a caratterizzazione arcaica la realtà germoglia continuamente da una medesima sorgente che coincide con la vita universale.

In forza di questo vero e proprio principio dell’esistenza, vive ogni cosa, tanto la persona che l’essere in genere. Grazie ad esso gli esseri naturali e soprannaturali sono in azione, pur con caratteristiche particolari. Da questa medesima origine deriva il dialogo tra uomo e uomo, e tra uomo mondo soprannaturale e mondo naturale. È un rapporto che assume la forma della comunione.

A qualcosa di simile perveniva verso la fine del secolo scorso, il missionario ed etnografo R. H. Codrington, scoprendo che per i Melanesiani tutto il mondo è pervaso da una forza soprannaturale chiamata mana[49]. La ricerca successiva ha messo in luce che, sebbene in altre forme, una simile percezione è fortemente presente presso i pigmei Bambuti e i Bantu congolesi per l’Africa, e presso i Sioux e gli Irochesi per l’America del Nord. Le concezioni filosofiche legate alle religioni e alle culture orientali ritengono, a loro volta, che la vita individuale sia inserita in quella comunitaria, sicché la stessa religione è vista come un processo di comunicazione tra piccole tradizioni e grandi tradizioni[50]. Le religioni africane e in genere tutte le religioni similari, a caratterizzazione cosmologica, ruotano intorno alla realtà comunitaria. Come già visto, essere esclusi dalla comunità è peggio che morire[51].

Le religioni indiane, antiche e recenti, fin dall’antichissima epoca vedica, hanno netta la percezione di una forza che fonda e sostiene tutto l’esistente: il brahman. È la totalità fondativa che riaffiora nel monismo del Vedanta: una sorta di profondità in cui la singolarità affonda nel momento in cui si libera del proprio io[52]. Un’appartenenza così forte si rinviene anche nell’Islamismo, che non contempla soltanto il rapporto tra Dio e il suo devoto, ma anche l’appartenenza e la dedizione alla comunità, l’umma (da umm, madre)[53].

Anche solo da questi accenni si può comprendere l’importanza della solidarietà discendente direttamente dall’elemento comunitario presente nelle culture sviluppatesi antecedentemente o al di fuori della “modernità” occidentale. Ma cosa succede nel nostro mondo occidentale? Dalla nostra esperienza e dalle letture sull’argomento riceviamo la netta sensazione che è ormai venuto il momento di prendere coscienza delle conseguenze devastanti dell’ideologia di una libertà individuale illimitata. Essa è apparsa spesso anticomunitaria, o comunque tutta protesa al solo individuo e alla soddisfazione dei suoi bisogni. Nella storia della nostra cultura ciò non ha avuto veri e propri correzioni di rotta. Al più, si è intravisto, con Kant e con l’Illuminismo in genere, un unico limite in un precetto negativo: non ledere la libertà altrui. È pur sempre qualcosa, ma questa pura e semplice limitazione non può bastare. Non solo perché può sconfinare alla fine con l’indifferenza verso l’altro, ma perché la solidarietà, come atteggiamento positivo e non limitativo, appare oggi più che mai presupposto indispensabile anche al dispiegamento di ogni forma di libertà[54].

In questo sempre più urgente bisogno di un principio etico fondamentale, universalmente riconosciuto, abbracciante la solidarietà e la responsabilità, la prassi cristiana ha certamente molto spazio davanti a sé. Non deve proporsi certamente come azione presenzialista o concorrente a quanti si ispirano allo stesso principio, e nemmeno come contrapposizione a chi si esprime per un radicale affrancamento da ogni derivazione cristiana o religiosa del soggetto moderno[55]. Superando semplificazioni e schematismi, che rischiano di essere sempre parziali, il popolo di Dio deve registrare come positivo il crescente bisogno di una mobilitazione etica concertata, pur nel doveroso rispetto del pluralismo religioso e culturale. L’adozione di un principio etico così decisivo implica anche una particolare concezione dell’uomo, alla quale esso è sempre da ricondurre. Sebbene non tutti sottoscriverebbero l’idea di Duns Scoto che ogni soggetto creato sia creato solo per l’amore[56], il popolo di Dio deve cercare un consenso minimo nella responsabilità verso l’altro anche come presupposto e garanzia dello stesso dispiegamento esistenziale di ogni persona[57].

Si può facilmente convenire sul fatto che, prima ancora della riflessione filosofica, la storia della nostra libertà abbia dimostrato che quando si ritiene che la soggettività non abbia alcuna responsabilità nei confronti dell’altro, l’imbarbarimento è vicino. Si arriva, più rapidamente di quanto si supponga, a ogni genere di nefandezza: dall’etnocidio, allo stupro, dalla tortura alle dittature più feroci, fino all’indifferenza sistematica e diffusa per chi soffre e muore. Si può ugualmente convenire che ogni soggettività esiga almeno un contesto complessivo dove si prevedano le finalità alle quali la libertà umana non può sottrarsi[58]. L’antropologia, prima ancora che la teologia, non può certamente sottrarsi alla verifica relazionale e di conseguenza comunitaria. L’uomo non vive da solo, né può prescindere dagli altri. L’altro, gli altri, non sono una sorta di piazza dove il singolo passa, pensando solo a se stesso. Sono, al contrario, soggetti con i quali la singola persona interagisce e proprio nella relazione realizza se stessa[59]. Tutto ciò è stato recepito, come già accennato, almeno da una parte della filosofia recente e della sociologia contemporanea[60]. Lo ritroviamo nella letteratura e nell’arte, nella cinematografia e nell’esperienza di ogni giorno.

La riflessione teologica non può, a sua volta, ridurre la dimensione etica del vivere con gli altri a semplice appendice di un’esistenza inesorabilmente individualistica. Le teologie della prassi colgono, invece, lo stretto collegamento che la libertà del singolo deve avere con il dispiegamento di quella altrui, sì da proporre il progetto di fondare l’agire del cristiano su una sua concezione essenzialmente comunitaria[61]. Il punto di partenza deve essere l’idea teologica, già neotestamentaria, che Dio non è “individuo” ma “comunità” di persone. E ciò esige, come vedremo, che la nozione cristiana della koinonia (comunione) sia applicata alla concezione complessiva della storia e della prassi, ma anche al compito e alla missione della chiesa nel mondo[62]. La riflessione teologica ha finora interloquito con l’uomo della modernità (soggetto libero e dotato di mezzi per espandere la sua autonomia). L’ha accettato talora acriticamente, talora invece ne ha stigmatizzato la natura fondamentalmente individualistica[63]. Le teologie della prassi propongono, con appassionato impegno, un cambiamento radicale di questa prospettiva.

Come si deve valutare tale intento? Ci sembra sufficientemente fondata l’analisi della natura individualistica dell’uomo moderno. Abbiamo già mostrato che le forme estreme dell’individualismo, in cui cade la nostra società occidentale, hanno la loro base nella carenza etica sul piano della relazione e della responsabilità. Non ci soddisfa certamente nemmeno lo schiacciamento della persona cui possono portare alcune culture alternative alla nostra. Né possiamo essere così ingenui da ritenere che il mondo non “civilizzato”, che qualcuno con disprezzo, altri con nostalgia, chiama selvaggio, sia tutto idilliaco e non abbia bisogno di purificazione, se non di correttivi drastici. Dall’illuminismo francese in poi il nostro mondo ha potuto alimentare il mito del buon selvaggio[64], ma spesso solo per evasione o per ricerca di esotismo. Noi riteniamo che, valutando criticamente ogni situazione, occorre sempre insistere sulla coppia valoriale solidarietà-responsabilità come base di una nuova prassi di rispetto dell’altro, di convivenza pacifica tra popoli diversi e di crescita comune. Tale fondamento per un verso converge con ciò che ricaviamo dalla riflessione sul popolo di Dio popolo delle beatitudini, per un altro riceve un’ulteriore e insperata spinta in avanti.

1.3. Le beatitudini come sintesi tra mistica e politica

1.3.1 La sintesi della «teologia delle realtà terrestri»

Dopo aver presentato per somme linee la problematica del rapporto teoria-prassi nel suo contesto più generale, occorre dire che la teologia ha risentito notevolmente dello sviluppo avuto in questo secolo da questo tema e dalle soluzioni di volta in volta prospettate. Negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, nascevano o si affermavano dappertutto nella chiesa gruppi e movimenti che riscoprivano il valore delle cosiddette realtà terrestri. Essi davano corpo a quanto i teologi avevano anticipato in epoca pre-conciliare sul valore della realtà umana a partire dal progetto salvifico di Dio, un progetto che riscoperto come onnicomprensivo della realtà nella sua interezza, la realtà di Dio e la realtà dell’uomo[65]. Sono noti i nomi di Teilhard de Chardin, di D. Chenu e di altri teologi, la cui opera è legata a queste tematiche. È l’opera di pionieri, che, rivalutando l’attività dell’uomo all’interno di una più ampia e profonda teologia dell’incarnazione, hanno compiuto una sorta di svolta antropologica. Quest’ultima è legata soprattutto all’opera di K. Rahner. Furono così poste le basi per quelle riletture teologiche che, intorno agli anni sessanta e settanta, rispondono ai nomi di teologia della speranza, teologia politica, teologia della liberazione e, accanto a queste, teologia della pace.

Sono comunque riletture teologiche che, pur da angolazioni diverse, sono accomunate dall’interesse per la concretezza storica dell’uomo salvato dalla Grazia. Ma sono anche accomunate dalla scoperta del valore dell’opera dell’uomo come risposta di fede e obbedienza della fede. Anche in questo caso l’obiettivo è una sintesi continuamente ricercata e storicizzata tra credere ed agire, tra fede ed opere. Ciò accosta una parte della teologia protestante e la parte più innovativa della teologia cattolica. Vede uniti teologi europei ed extraeuropei, che non di rado si sono formati nelle scuole europee. Le loro teologie appariranno certamente differenziate e in alcuni casi dissimili, ma non per questo del tutto divergenti. Il fondo comune della svolta antropologica resta e viene unanimemente riconosciuto, anche se cambia la contestualità dell’uomo e della salvezza di cui Dio gli fa dono. È l’uomo minacciato dall’omologazione e robotizzazione nel Nord Europa, un uomo sempre più incapace di sperare e di credere, perché irretito dal capitalismo e dall’opulenza. Ma è anche l’uomo oppresso dai poteri militari e dall’apartheid nei paesi extraeuropei. È l’uomo non-persona nei paesi poverissimi dell’America Latina.

Il problema teologico, diventato in Europa «come parlare di Dio dopo Auschwitz», si trasforma ben presto in quello di «come parlare di Dio permanendo tuttora Ayacucho». Auschwitz, divenuto cimitero delle speranze di una cultura occidentale e Ayacucho, nome quechua (che oggi designa una città peruviana), che significa cimitero. Emblematicamente, il cimitero di tutti gli sterminati dalla fame, dalla violenza e dall’indifferenza di quanti vivono nel “benessere”[66].

Nella ricostruzione delle riletture teologiche postconciliari, fiorite tanto al Nord che al Sud del mondo, si afferma, a ragione, che quelle più significative non sono più teologie del genitivo, ma vere e proprie teologie prospettiche, che guardano cioè l’universo teologico da una determinata angolazione. Cercando i fatti che hanno determinato una tale svolta, alcuni menzionano l’acquisita convinzione dell’indispensabilità dell’“impegno politico”. Indicano con tale lemma un impegno storico-sociale capace di dare carne e concretezza alla salvezza di Dio. È un impegno storico che appare rafforzato dall’acquisizione di una nuova sensibilità escatologica. Da una parte, si storicizza nell’oggi e nell’ortoprassi la retta dottrina, l’ortodossia. Dall’altra, proprio per il riferimento alle ultime cose (ta escatà) si vuole impedire alla teologia di ridurre la salvezza a un valore storico-terreno. I teologi impegnati in questa rilettura complessiva dell’agire umano non considerano mai esauribile il Regno di Dio nella vicenda intramondana, fosse anche la più esaltante e la più rivoluzionaria possibile[67].

Anche i differenti percorsi, che la teologia ha attraversato in questo secolo, si possono capire meglio tenendo presente questa doppia indispensabilità: l’impegno storico e il riferimento escatologico[68]. Ciò avviene nel mondo evangelico e nel mondo cattolico. Il percorso di K. Barth e della teologia dialettica in genere, pur l’insistenza sulla impredicatività di Dio e sul valore preminente della sua Parola su ogni altra parola (compresa quella teologica), non può non ricorrere alla mediazione della storicizzazione della salvezza di Dio e della stessa Parola. Ribadisce che si tratta di una salvezza sempre gratuita e soccorrevole verso l’uomo di oggi, che tuttavia ha una sua contestualità esistenziale, alla quale anche quella teologia fa continuo riferimento. In forza di queste considerazioni, anche la teologia evangelica arriva a una sua svolta antropologica. Con R. Bultmann affronta decisamente e sistematicamente il problema del soggetto, mentre con J. Moltmann tira le prime conseguenze pratiche dell’impegno del cristiano per un mondo rappacificato in Cristo e in continuo avanzamento verso l’eschaton finale. In campo cattolico la nouvelle teologie di lingua francese affianca la svolta antropologica, già accennata, di K. Rahner, mentre da uno dei suoi discepoli, J. B. Metz, emerge con nuovo impulso la cosiddetta teologia politica.

In questo humus teologico, che storicizza la salvezza nell’oggi e parte dalla concretezza dei soggetti storici emergenti, si afferma la teologia della liberazione in tutte le sue forme (da quella latino-americana, alla black theology, dalla teologia asiatica alla teologia femminista). La teologia cerca di saldare insieme i due tradizionali capi dell’aggrovigliata matassa teologica: la libera offerta salvifica di Dio e a risposta dell’uomo. Da una parte, la Grazia, la cui efficacia storica è stata immessa irreversibilmente ed escatologicamente nel mondo come dinamismo scaturente dalla risurrezione di Cristo; dall’altra, l’azione umana come risposta e cooperazione a un compito liberante, da adempiere in maniera adulta e intelligente, a partire dalle effettive situazioni dei soggetti. Ciò tiene conto delle loro effettive condizioni: sia quelle di natura esistenziale e psicologica, che le altre di natura sociale e politica[69]. In una parola, si tratta di una saldatura che valorizza le varie analisi condotte recentemente sull’uomo (analisi storica, psicologica, economica, politica) e valuta la realtà alla luce del Vangelo e dei segni dei tempi. Sono gli stessi segni che Giovanni XXIII e il Concilio hanno considerato vere chiavi per comprendere il progetto di Dio non sull’uomo in astratto, ma sugli esseri umani di oggi[70].

1.3.2 La dimensione mistico-politica della realtà redenta

In questa comprensione dell’uomo alla luce della fede e nella riconsiderazione della fede partendo dall’uomo situato, c’è un reale ascolto di Dio. Se ne cercano le tracce nella storia. C’è un nuovo e fecondo atteggiamento contemplativo e persino mistico. È la comprensione infatti della storia a partire dalla memoria sovversiva del Crocifisso risorto, come si esprimeva J. B. Metz, che sviluppava ulteriormente la svolta antropologica, sino a farne una svolta politica. Sul volgere degli anni ’70 e agli inizi degli anni ’80, riteneva più che mai urgente riscoprire il valore “politico” della fede cristiana, ma attribuiva parimenti alla teologia il compito di pervenire alla sua dimensione doppiamente critica: tanto rispetto alla società contemporanea e alle realizzazioni storiche ecclesiali, che rispetto alle concettualizzazioni teologiche[71].

È un’operazione importante che vuole coniugare insieme mistica e politica. Mistica, perché l’ambiente vitale in cui ogni teologare nasce e si sviluppa rimane saldamente ancorato alla Parola di Dio e all’esperienza redentiva e liberante di Cristo. Politica, perché la “memoria sovversiva” di Cristo ha una significanza pubblica e storicamente efficace. L’opera di Metz, alla quale si collegano molti dei progetti teologici più recenti, è significativamente espressa in questo binomio, lo stesso che è stato scelto come titolo della miscellanea dei suoi discepoli e amici teologi, pubblicata nel 1988, in occasione del suo 60° compleanno: mistica e politica[72].

La sintesi è da intendere sulla linea di una continua e permanente tensione tra caratteristiche irriducibili tra loro e che sono l’esigenza della sequela Christi e la dimensione testimoniale della stessa fede, una fede cioè che vive e si incarna nella storia e nella società. Il binomio porta però ad ulteriore chiarificazione lo sforzo della teologia contemporanea di cogliere una dimensione teologica nell’agire del cristiano e della chiesa. Dalla “teologia delle realtà terrestri” alla stessa “teologia politica”, dalla “teologia della speranza” alla “teologia della liberazione”, lo sforzo di sintesi è pur sempre tra la dimensione mistica dell’esistenza cristiana e la testimonianza pubblica della fede. Così come lo è ancora più espressamente nella teologia della pace, perché in essa avviene una sorta di dispiegamento di entrambe, in quel crocevia rischioso, eppure inevitabile, dove la salvezza di Dio deve essere concretizzato in scelte e opere di vita. Si tratta di scelte storiche dove la speranza escatologica diventa speranza efficace degli infelici e inizio della loro effettiva liberazione. Qui la teologia della pace manifesta tutta la sua potenzialità, che è quella di rendere più immediatamente evidente lo spessore storico e collettivo di una salvezza che abbraccia tutto l’uomo e tutti gli uomini. Essa si collega direttamente all’eschaton, all’evento del Cristo vincitore della morte e di ogni inimicizia. Attinge alla dimensione mistica e cristologica della salvezza, ma ne considera contemporaneamente la sua carne storica e il suo spessore politico. Adoperando come criterio ermeneutico questo fecondo binomio, tenteremo ora di leggere più da vicino gli espliciti abbozzi di una teologia della pace, per approdare alla nuova sintesi elaborabile sulla base delle beatitudini.

1.3.3 “Teologie della prassi” e “teologia della liberazione”

Non è un caso che il primo studio sistematico dal titolo esplicito Teologia della pace sia stato compiuto da un autore che, pur essendo europeo, compare tra i teologi più noti della teologia della liberazione latino-americana. Si tratta di Joseph Comblin, la cui opera Théologie de la paix fu pubblicata a Parigi agli inizi degli anni ’60. È lo stesso autore di cui è spesso citata una recensione sulle cosiddette teologie della prassi a partire al 1930. In quest’ultima opera, registrando gli impulsi innovatori della teologia degli inizi del nostro secolo, l’autore li ravvisava nel ritorno alle tre fonti prioritarie del metodo teologico: fonte biblica, patristica e liturgica. Segnalava come realmente decisivo l’ingresso dell’azione come tema teologico esplicito[73]. Indicava in essa la base delle nuove teologie raccolte sotto le dizioni: teologia della storia, teologia delle realtà terrestri e teologia del laicato[74]. Le connotava come teologie dell’azione, ma, a questo riguardo, è da dire che esse non scadono mai nel pragmatismo. Al contrario, sono pervase da un senso escatologico e persino da una spiritualità che sfocia non di rado in quella sana dimensione mistica che accompagna e giustifica un maturo e consapevole agire del cristiano nel mondo. Si può ritrovare anche qui quella sintesi che ha animato anche la teologia successiva precedentemente considerata, la stessa che ritroviamo al fondo della teologia della pace di J. Comblin[75].

Un riferimento particolare merita l’altro recente grande tentativo di sintesi che è stato fatto dalla teologia della liberazione, nelle sue più svariate forme. Non fosse altro perché il concetto della prassi vi riveste un’importanza determinante. A ben considerare le cose, è proprio la stretta correlazione tra il dogma e la prassi che costituisce la grande novità metodologica del “fare teologia” da parte dei teologi del III Mondo. Anche se bisogna subito aggiungere che tale correlazione non sempre è espressa ovunque in termini identici, né che si registra un bilanciamento dappertutto perfettamente equilibrato tra i due poli in gioco, che stanno al discorso teologico come due fuochi stanno ad un’ellisse.

Il rapporto tra aspetto dogmatico e aspetto pastorale rimanda al dibattuto problema teologico (e in genere epistemologico) del rapporto tra teoria e prassi. Le teologie dei III Mondo parlano in genere di un “primato della prassi”. Non vogliono con ciò sottovalutare l’aspetto teoretico (e in genere dogmatico) del discorso di fede, ma piuttosto sottolineare le implicanze pratiche e quindi testimoniali e profetiche del “fare teologia”. Qualche anno prima della conferenza dell’episcopato latino-americano di Medellìn (1968), che riprende questo nucleo forte della teologia della liberazione e lo propone come valido per tutta la chiesa[76], Gustavo Gutièrrez riassumeva i vari modi di intendere la teologia sotto questi titoli: la teologia come sapienza, come sapere razionale e come riflessione critica sulla prassi[77].

Il primo modo di fare teologia risale ai primi secoli della chiesa. È strettamente legato alla vita spirituale. Ha a suo attivo un collegamento fecondo tra riflessione e vita cristiana e a suo passivo una sorta di svalutazione del mondo e della vita presente. Il secondo modo di intendere la teologia è in atto all’epoca in cui si opera la sfortunata scissione tra spiritualità e teologia. Soprattutto con la Scolastica, la teologia diventa sempre più un sapere scientifico, perdendo quella sintesi vitale che aveva ancora in Tommaso d’Aquino. Il terzo modo di fare teologia è quello che Gutièrrez chiama «riflessione critica sulla prassi alla luce della Parola di Dio» ed è considerato tipico della teologia della liberazione. L’autore afferma che all’origine di un simile cambiamento metodologico hanno contribuito, tra gli altri, i seguenti fattori: 1) la riscoperta della carità come centro della vita cristiana; 2) la riscoperta della spiritualità come un nuovo modo di approccio del cristiano al mondo; 3) la sottolineatura degli aspetti antropologici della rivelazione; 4) la scoperta della vita stessa della chiesa come luogo teologico; 5) la sollecitazione teorica e pratica venuta dal marxismo; 6) in genere la scoperta dall’azione e, di conseguenza, della prassi storica come punto di partenza di ogni riflessione teoretica[78]. Gutièrrez pertanto conclude:

«tutti questi elementi sono serviti a cogliere meglio come la comunione col Signore significhi, necessariamente, una vita cristiana che abbia il suo centro nell’impegno concreto e creatore di servizio agli altri. Ci hanno portato pure a riscoprire o a esplicitare la funzione della teologia come riflessione critica»[79].

Si tratta di una riflessione critica non tanto nel senso di una giustificazione epistemologica, ma nel senso di una riflessione che confronta criticamente la prassi della chiesa e della società con le esigenze primarie della Parola di Dio[80].

1.3.4 Le beatitudini come correttivo teologico

In definitiva, la prassi riveste un carattere tutto particolare. Non genera tuttavia i concetti teologici fondamentali, che non sono per questo ad essa subordinati, come qualcuno erroneamente sostiene. Nella prassi si opera invece criticamente e ciò avviene alla luce della Parola di Dio. Lo stesso Hugo Assmann, che ha scritto un libro intitolato significativamente Teologia dalla prassi della liberazione, precisa il rapporto tra riflessione critica e fede nella centralità di Cristo, con queste parole:

«una “teologia della liberazione” decisa a riflettere sulla prassi storica del presente e a riscattare, in funzione di questa, i processi di prassi significativa del passato giudeo-cristiano - focalizzando la prassi radicale espressa nella morte di Cristo - costituirà una costante di criticità indispensabile nella lotta di liberazione»[81].

Ogni tentativo sereno di valutare criticamente, senza pregiudizi, e senza preoccupazioni ideologiche, l’assunto di fondo da cui partono le diverse “teologie della prassi” non potrà non tener conto del fatto che il criterio ultimo è sempre la Parola di Dio. Alcuni esempi lo dovrebbero dimostrare in maniera inconfutabile.

Con determinazione e chiarezza si esprime sul rapporto fede-prassi l’esponente maggiore della Black Theology, J. H. Cone. A proposito della teologia, egli scrive:

«come molti teologi, io credo che la teologia cristiana consiste nel parlare di Dio. Ma è anche qualcosa di più ed è questo “di più” che rende cristiana la teologia. La teologia è un discorso sul carattere liberante della presenza di Dio in Gesù Cristo quando chiama il suo popolo all’essere per la libertà in questo mondo. Compito del teologo, come membro del popolo di Dio, è di chiarire ciò in cui la chiesa crede e ciò che la chiesa fa in rapporto alla sua partecipazione all’opera liberatrice di Dio nel mondo. Svolgendo questo compito il teologo agisce nei ruoli di esegeta, profeta, maestro, predicatore e filosofo»[82].

Come si può notare, anche il metodo teologico della Black Theology è fondamentalmente lo stesso della teologia della liberazione. Anche qui si tratta infatti di partire da una prassi liberante dell’intero popolo di Dio, ma che partecipa all’opera liberatrice di Dio nel mondo. La liberazione è innanzi tutto liberazione dalle oppressioni e dai soprusi di cui i neri sono fatti aggetto. È liberazione dalla violenza come una delle forme strutturali del peccato. È una liberazione fondata sull’antropologia teologica[83]. La libertà umana è teologicamente fondata su quella di Dio e pertanto non può essere soppressa da nessuno al mondo[84]. Sicché la prassi liberante, che accomuna le teologie del terzo Mondo, è dunque principalmente una prassi cristiana, come sottolinea Segundo Galilea, e in quanto tale, è anche teologia pastorale[85]. Essendo teologia pastorale, è prassi di liberazione[86].

Del complesso rapporto tra prassi e teoria in teologia parlava anche J. Carlos Scannone in un’opera edita in Germania da K. Rahner nel 1977, dal titolo significativo Teologia liberante[87]. Il suo intervento coincideva con quanto scriveva successivamente C. Bussman, che però enfatizzava il primato della prassi[88]. Scannone partiva da due importanti domande: 1) come può una determinata prassi essere articolata come teologia universale, senza diventare ideologia?; 2) come può la prassi della liberazione essere anche teologia della liberazione? La sua risposta si appoggiava a due dati della teologia tradizionale: la formulazione di Calcedonia (relativa alle due nature di Cristo come realtà non mescolate, né separate, ma unite) e la dottrina dell’analogia. Poteva così affermare che la sintesi non è dialettica, ma analettica[89], per cui, similmente a ciò che avviene nella rivelazione, il dato teologico potrebbe essere indicato come revelabile (ciò che è da rivelare) e l’elemento pratico come manuductio[90] (l’assistenza con la quale Dio guida l’agiografo).

In analogia a quanto succede con Cristo e con la chiesa, Scannone poteva parlare di tre dimensioni della prassi (dimensione teologale, antropologico-esistenziale e politica), che si presentano con tre livelli di razionalità (razionalità teologica, filosofica ed empirica). Affermava che il legame tra questi tre livelli non può essere di natura integralista (deducendo le altre due razionalità da quella teologica), ma è sempre una interazione (Interaktion) reciproca e non riduttiva (nel senso che l’una non dissolve l’altra, ma l’una viene corretta e modificata dall’altra). Sicché arrivava ad affermare che in una “prassi particolare” riesce l’incarnarsi di una teoria universale, tanto da formulare un “universale situato”.

Scannone si rifaceva a Blondel, nel parlare di una dimensione che trascende il rapporto teoria-prassi: quella di una fede che nasce sempre come risposta alla Parola di Dio. Sicché per riconoscere una prassi corretta da una erronea, occorre riferirsi alla prassi di Gesù e a quella del popolo di Dio credente, a quella che egli chiamava ortopraxie[91]. Nel caso poi di differenti prassi all’interno del popolo di Dio, come nel caso dell’America Latina (riassunte sotto tre denominazioni: visione gerarchico-clericale, visione elitaria-rivoluzionaria e visione complessiva), la scelta cade sulla terza, perché

«questa terza linea riguarda il popolo credente come comunità organica, perché riconosce sia l’autorità dei suoi pastori che anche la differente missione delle elites. Ma soprattutto evidenzia il suo carattere come soggetto collettivo, nel quale gli uomini poveri e semplici assumono un posto preminente»[92].

È una posizione che si ricongiunge alla teologia europea e soprattutto alla “teologia politica” di J. B. Metz, il quale già nel 1966 vedeva il cosiddetto problema ermeneutico della teologia non nel rapporto tra teologia sistematica e teologia storica, ma nel rapporto tra teoria e prassi, tra comprensione della fede e prassi sociale[93], al punto di parlare successivamente del “primato della prassi”, ma sempre e comunque collegata alla sequela di Cristo[94].

Tutto ciò conferma che la «riflessione critica sulla prassi alla luce della fede» è denominatore comune delle teologie del terzo Mondo, come pure delle teologie europee ad esse collegate e che tale prassi non può non essere che una prassi di liberazione degli oppressi, di qualunque continente essi siano[95]. Gli autori ne parlano espressamente e ne fanno oggetto di un’analisi che merita di essere approfondita, perché è spesso causa di incomprensione e di accuse da parte di altri teologi. Si mette infatti spesso l’ortoprassi in contrapposizione all’ortodossia come se l’una potesse esistere indipendentemente dall’altra. Dal «primato della prassi» si passa poi in alcuni casi - a nostro avviso, incautamente - al primato dell’ortoprassi, a discapito dell’ortodossia, ignorando che si tratta di due livelli diversi, anche se inscindibili. Il primato della prassi tocca il metodo, quello dell’ortoprassi i contenuti. Il passaggio è illegittimo perché confonde tra metodo e contenuto e conduce sul piano squisitamente dottrinale (l’ortodossia) un discorso che è fondamentalmente di metodo.

Se tale slittamento di piani ha offerto il pretesto ad accuse di vario genere da parte degli avversari delle teologie del terzo Mondo, bisogna anche dire che in più di un caso, soprattutto agli inizi del loro sviluppo, tali teologie non si erano sufficientemente premunite contro il rischio di prestare il fianco a tali critiche. Non sembra che avessero enucleato con sufficiente chiarezza un sistema organico che permettesse di inquadrare l’ortoprassi nella stessa ortodossia. A scanso di equivoci, andrebbe invece detto che l’ortodossia richiede necessariamente l’ortoprassi e che questa allora è veramente tale, cioè prassi corretta, quando corrisponde non a questa o a quella teologia, ma all’ortodossia dei contenuti centrali della Rivelazione, così come sono analizzati dall’Antropologia, dalla Cristologia e dall’Ecclesiologia. Sono punti non secondari, né disquisizioni accademiche. Molte delle garanzie richieste dalla componente magisteriale della chiesa hanno riguardato proprio questi ambiti.

I due documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardanti la teologia della liberazione, ai quali abbiamo già accennato, hanno un intento soprattutto chiarificatore[96]. A differenza di quanto accade con altre tendenze teologiche ritenute dottrinalmente erronee, come ad esempio il modernismo, non c’è una condanna in toto della teologia in oggetto, ma solo di alcuni suoi aspetti. La stessa scelta lessicale di Istruzioni sottolinea l’intento di intervenire per precisare e puntualizzare più che di condannare. D’altronde si è già evidenziata persino una certa recezione da parte del magistero anche del valore complessivo (spirituale, esistenziale e politico) della liberazione[97]. È un valore che riguarda non solo l’Antica ma anche la Nuova Alleanza, come si evince dalla seconda Istruzione, che individua proprio la liberazione nell’annuncio del vangelo ai poveri da parte di Cristo e nell’opera scaturente dal suo mistero pasquale[98]. Sul piano ecclesiologico, ne deriva che anche la chiesa è per sua natura chiamata un’azione di autentica liberazione. Sebbene ci siano stati «manchevolezze» e, «ritardi», quest’opera non è nuova, ma ha segnato la prassi di quanti nella storia del popolo di Dio sono stati più fedeli al vangelo di Gesù, a cominciare dai santi. Parlando della chiesa la Congregazione della Dottrina della fede afferma:

«i suoi membri hanno coscienza delle proprie manchevolezze e dei ritardi in questa ricerca. Ma una moltitudine dei cristiani, fin dal tempo degli Apostoli, ha impegnato le proprie forze e la propria vita per la liberazione da ogni forma di oppressione e per la promozione della dignità umana. L’esperienza dei Santi e l’esempio di tante opere al servizio del prossimo costituiscono uno stimolo ed una luce per quelle iniziative liberatrici, che al giorno d’oggi si impongono»[99].

La prassi della liberazione che la chiesa ha già compiuto e quella che deve ancora compiere legittimano l’adozione del suo termine anche in campo teologico:

«Presa in se stessa, l’espressione “teologia della liberazione” è un’espressione pienamente valida: essa designa una riflessione teologica incentrata sul tema biblico della liberazione e della libertà e sull’urgenza delle sue applicazioni pratiche»[100].

Dov’è allora il problema? Le censure delle Istruzioni non riguardava di certo tutta la “teologia della liberazione” in quanto tale, ma alcune forme che sembravano oscurare il carattere “integrale” della liberazione stessa, parlandone principalmente in termini socio-politici. Ma a questo punto, con una certa sbrigatività, prendendo spunto anche da qualche teologo più pragmatico che critico‑speculativo, e sotto la spinta di componenti ecclesiali di tendenza conservatrice, alcuni sono arrivati a negare legittimità a qualsiasi teologia della liberazione. Hanno scavalcato anche i pronunciamenti di sostanziale accettazione, pur con tutte le chiarificazioni intervenute, della “liberazione integrale” di Paolo VI, Giovanni Paolo II e dell’intero l’episcopato latino-americano[101]. Hanno ravvisato in essa solo un intento e un progetto politico, quello marxista, presentando come esplicita condanna ed estendendo in modo indebito a tutti i teologici e a tutta la teologia della liberazione le osservazioni critiche, «sulle deviazioni e sui rischi di deviazioni, pericolosi per la fede e per la vita cristiana, insiti in certe forme della teologia della liberazione»[102]. La Congregazione aveva invece ritenuto suo dovere “istruire” teologi e cristiani in genere, con un pressante invito alla vigilanza. Al giorno d’oggi, venuto meno il “pericolo” marxista, il problema appare molto più ridimensionato, mentre le “deviazioni” sono sembrate anche attribuibili ad un’applicazione teologica non sempre sufficientemente critica di una visione particolare della prassi, della storia e della società.

La seconda Istruzione, tuttavia, non ripudia il concetto di «prassi della liberazione», ma ne fa argomento dell’intero capitolo V, pur con la sottolineatura che si tratta di «prassi cristiana» scaturente dalla «Dottrina sociale della chiesa». Il titolo intero è infatti: «La dottrina sociale della chiesa: per una prassi cristiana della liberazione». Evitiamo qui ogni questione relativa alla locuzione «Dottrina sociale» e riteniamo che, comunque la si chiami, essa indica come sempre più vincolante per il cristiano una responsabilità storica, di natura socio-politica oltre che economica. Il corpo dei principi etici ad essa correlati costituisce comunque quel «Magistero sociale» che è frutto dell’esperienza del popolo di Dio e dell’approfondimento magisteriale che ne è seguito, soprattutto in questi due ultimi secoli[103].

L’idea della prassi della liberazione è ben presente, anche se talora con diverse terminologie, in questo insegnamento sociale della chiesa. Al pari di altri concetti “nuovi” per il patrimonio tradizionale magisteriale (come, ad esempio, «primato della persona umana», «diritto al lavoro», «diritti fondamentali», «debito estero», «sciopero») anche la prassi (sociale e storica) è un’idea mutuata dalla scienze sociali e non appartiene alla tradizione lessicale della chiesa. Ciò vale anche per tutte le altre categorie sociologiche, entrate ormai nel linguaggio magisteriale e nella riflessione morale. Sono categorie che hanno mostrato risvolti teologici, aventi natura di principio, oltre che di indole pratica. Sicché, ad esempio l’alienazione, analizzata dal marxismo inizialmente come estraniamento di sé del lavoratore oppresso, oggi è vista in tutte le sue espressioni nefaste di coartazioni e impedimenti pischici e storici che distolgono l’uomo dalla realizzazione del piano di amore salvifico di Dio nei suoi confronti[104]. Nell’insegnamento sociale magisteriale l’alienazione diventa così un concetto non tanto polivalente, ma una categoria pluristratificata, che va dall’impedimento di «fruire della propria umanità», all’incapacità di aprirsi alla relazione piena con l’altro, fino alle remore storiche di assecondare la «capacità di trascendenza» insita nell’animo umano[105].

Al pari della prassi, anche le strutture, la partecipazione, la democrazia, l’inculturazione e la stessa rivoluzione, ammessa quale estrema ratio (anche se oggi, a ragione, ad essa si preferisce la «resistenza passiva»), sono tutti concetti mutuati da altre fonti, di per sé non cristiane[106]. Ciononostante fanno parte del linguaggio e della riflessione ecclesiale magisteriale. La teologia della liberazione recepisce il termine liberazione, che come più volte si è detto esprime in realtà la redenzione, una redenzione che abbraccia tutte le dimensioni dell’uomo. In ogni caso, se la prassi di liberazione è riconosciuta nell’annuncio del vangelo da parte di Gesù essa è determinante anche per la chiesa. Il rapporto può essere ritrovato in testi che menzionano innanzi tutto l’agire di Gesù:

«la prima predicazione di Gesù è per proclamare la liberazione degli oppressi. Morendo sul Calvario Cristo ci libera dal peccato affinché godiamo la vera libertà piena (cf. Gal 5, 13), poiché il peccato, radice di ogni ingiustizia ed oppressione, rappresenta un ripiegamento egoista su noi stessi, un rifiuto ad amare gli altri e quindi ad amare Dio stesso. La pienezza della liberazione è nella comunione con Dio e con gli uomini tutti»[107].

Menzionano però immediatamente il suo carattere vincolante per l’agire della chiesa:

«Anche la chiesa, continuando la funzione profetica del suo fondatore, deve rendere sempre più viva e operante questa liberazione dei poveri, degli oppressi e degli emarginati, cooperando a “costruire un mondo, in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità, possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini e da una natura non sufficientemente padroneggiata”»[108].

È un compito che riguarda il popolo di Dio nel suo insieme, ma anche i presbiteri in particolare, soprattutto in quelle terre di missione dove le oppressioni sono più gravi e più diffuse, guardandosi dal cadere in visioni ideologiche, che sono comunque da evitare :

«Cristo morto e risorto, infatti, libera l’uomo dal peccato e dalle sue conseguenze di oppressione, egoismo e ingiustizia sul piano individuale e sociale; ricompone la comunione e offre la salvezza a tutti. Sull’esempio di Cristo, la chiesa proclama questa stessa liberazione e si impegna ad aiutare l’uomo perché la conquisti in tutti gli ambiti della propria esistenza. È necessario che nei territori di missione i sacerdoti abbiano una coscienza chiara e precisa su questo problema e conoscano con esattezza gli elementi essenziali per una teologia della liberazione conforme al magistero della chiesa, al fine di dare contributi validi a livello di pensiero e di azione, senza cadere in ideologie di parte»[109].

Le riserve, che erano già state espresse dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, non impediscono dunque in questo, come in altri testi autorevoli, di riprendere e consacrare i temi teologici fondamentali, incluso quello dell’amore preferenziale per i poveri, detto anche «opzione preferenziale»[110]. Si tratta di un amore non generico, ma costante e fattivo, che prevede anche il cosiddetto processo di coscientizzazione, grazie al quale gli oppressi prendono coscienza del loro stato e iniziano il cammino che li porta a liberarsi: Anche in questo processo l’azione dei presbiteri è collegata al compito pastorale dell’annuncio del vangelo:

«Per un fruttuoso esercizio pastorale della liberazione, della promozione umana e della giustizia, i sacerdoti procurino di conoscere compiutamente la dottrina sociale, le direttive e le scelte pastorali della chiesa. Sappiano essere vicini alla loro gente, quando è oppressa da chi detiene la ricchezza e il potere, in un rapporto di solidarietà, accoglienza e anche coscientizzazione, di modo che non soggiaccia passivamente alle situazioni di ingiustizia sociale. I pastori non si arrestino di fronte alle difficoltà inevitabilmente connesse con questo genere di pastorale»[111].

Il valore di affermazioni come queste è nel fatto che in una prassi cristiana di liberazione è rivolto un pressante appello a privilegiare le persone invece delle strutture[112], a valorizzare adeguatamente il principio si solidarietà e quello di sussidiarietà[113], a preferire la via della nonviolenza[114], facendo opera di trasformazione culturale oltre che educativa[115]. Non si tratta di esortazioni generiche, ma piuttosto di un preciso dovere pastorale, connesso a quello dell’annuncio del vangelo. Si potrebbe dire che la prassi della liberazione discende dal vangelo ed è una parte della medesima evangelizzazione.

È proprio quest’ultima affermazione che ritroviamo al centro di ogni riflessione sulla redenzione come liberazione dell’uomo da ogni tipo di oppressione. Intorno ad essa ruota la teologia della liberazione anche nella sua forma più nota di teologia del continente latino americano. Il vero “punto di partenza” della teologia della liberazione è, come ormai gli stessi teologi interessati hanno chiarito, non una generica prassi che adotta particolari chiavi di interpretazione sociale, ma l’esperienza credente che guarda la realtà alla luce della fede. Già G. Gutiérrez aveva precisato la natura dell’atto primo della teologia della liberazione, non intentendolo genericamente come prassi, ma piuttosto come contemplazione della Parola di Dio nel suo impatto con la prassi[116], mentre Leonardo e Clodovis Boff l’avevano individuato nell’incontro con il Cristo nei poveri (momento contemplativo), per passare alla conseguente scelta preferenziale e alla condivisione solidale con essi (momento pratico)[117]. La riflessione più recente su quello che è stato chiamato “il problema del metodo», e che tiene conto delle due Istruzioni sulla teologia della liberazione, sembra comunque opportunamente chiarire che altro è il suo luogo ermeneutico (i poveri), altro è il luogo teologico dove si compie un discernimento. Questo avviene sempre alla luce della fede e dell’esperienza ecclesiale, tiene in debito conto il magistero stesso e considera il  valore evangelico dei soggetti in causa e della conseguente prassi da adottare[118].

Ci sembra un’osservazione pertinente e comunque del tutto coerente con quanto è stato già da noi espresso in precedenza sull’argomento. Ma ciò costituisce anche il nerbo della teologia qui considerata, che, proprio in forza di ciò, non è rimasta travolta dalle macerie del muro di Berlino, per la semplice ragione che se essa non nasce da un principio storico immanente, ma dal principio dell’agire di Dio e di Cristo. È un principio di fede che guarda continuamente alla realtà per giudicarla alla luce di quella stessa prassi e non di un’altra presa in prestito da una qualsiasi visione intramondana della stessa storia. Il crollo del muro di Berlino, che emblematicamente esprime la fine del “socialismo storico” ha certamente segnato la fine di un modo di concepire la liberazione degli oppressi, ma non la loro speranza né il bisogno di libertà.. Non sono finite le mille forme di violenza e di oppressione che ancora li affligge, e – ciò che per noi maggiormente conta per noi credenti nell’attualità della redenzione - non è crollata, anzi è riemersa con vigore, l’urgenza di portare avanti il progetto di umanità nuova collegato al popolo delle beatitudini.

A ragione dunque è tempo di «ricostruire la speranza nel tempo dell’oscurità»[119], recependo le correzioni e indicazioni che vengono dalla nuova situazione venutasi ormai a creare non solo in America Latina, ma tra tutti i poveri della terra, oggi più che mai ancora più impoveriti e ancora più numerosi di prima.

Ci sembra che a partire dalle ultime precisazioni non sarà difficile indicare nelle beatitudini un correttivo teologico efficace per fugare il sospetto non ancora sopito che ogni forma di teologia della prassi sia inquinato ideologicamente e costituisca un serio pericolo per la fede. Le beatitudini infatti sono una categoria biblica e tracciano innanzi tutto il cammino della sequela Christi, indicato nel sentiero della pace, perché collegano la prassi cristiana alla prassi nonviolenta e liberante di Gesù. Derivano l’amore preferenziale per i poveri e con i poveri dall’agire di Jahvè nell’Antica Alleanza e all’agire di Cristo nella Nuova. Le beatitudini non solo correggono meravigliosamente le eventuali sfasature di ogni teologia della prassi, ma sono anche un pungolo continuo per l’insegnamento sociale della chiesa, perché costituiscono un richiamo continuo alla logica paradossale del Vangelo. Esse attingono direttamente nella prassi di Dio e del suo Messia l’ortoprassi del cristiano e dell’intera comunità ecclesiale e spingono ad andare verso quei soggetti storici attuali che incarnano i destinatari del lieto annuncio di Gesù.

Con le beatitudini la fede è fede in Dio liberatore degli oppressi. Ciò avviene in un atteggiamento spirituale che ripensa anche a Maria come a colei che tra i “poveri di Jahvè” fu la più fedele a Dio e la più fedele al suo popolo[120]. Anche per questa ragione, si può invocare la madre di Gesù non solo come madre dei poveri, ma anche come la madre della solidarietà, la quale solidarietà è la manifestazione storica e quella socialmente più rilevante della prassi di Dio. Per questa ragione la chiesa intona continuamente il suo canto, il Magnificat, per esprimere con la sua gratitudine anche la sua solidarietà e la sua identificazione con gli umili e gli oppressi che Dio innalza e consola, visita e rende felici.

Questa nuova prospettiva ripropone il ruolo fondamentale dell’agire della chiesa disegnato secondo l’agire di Dio, di Gesù, di Maria e degli apostoli. Grazie alla prassi delle beatitudini appare più evidente il sottinteso di tutte le teologie del terzo Mondo e delle teologie della prassi, e cioè che la libertà dell’uomo, e conseguentemente la liberazione, rientrano nella retta dottrina sull’agire di Dio. La libertà e la liberazione non sono solo semplici direttive pragmatiche, ma sono dati dottrinali, perché costituiscono l’indispensabile presupposto di ogni discorso teologico e in tal senso appartengono necessariamente all’ortodossia.

Alle beatitudini, come alla prassi, è collegato un secondo grande tema, comune alle varie teologie qui accennate, quello dei poveri, che costituiscono i soggetti centrale delle beatitudini e gli interlocutori preferenziali della teologia. Si tratta di coloro che concretamente sperimentano le condizioni negative che impediscono loro di realizzare sul piano sociale e storico ciò che sono già sul piano teologico: destinatari del Regno, figli ed eredi di Dio. Nella società la loro dignità non si può esprimere pienamente, perché sono impediti da fattori economici, sociali, culturali, razziali, sessuali. La chiesa deve diventare per loro luogo di liberazione, non solo nell’annuncio della lieta notizia delle beatitudini del Signore, ma anche nell’offrire spazi pastorali adeguati e tendenti al loro riscatto e alla loro piena reintegrazione. Del resto, in quanto popolo di Dio, la chiesa è popolo di tali poveri, sicché i poveri ne costituiscono la sua base sociale. Ne sono un “luogo ermeneutico” privilegiato; in un certo senso sono un “luogo teologico”, in quanto destinatari preferenziali delle beatitudini[121] pur rimandando  teologico privilegiato. La chiesa compie la scelta preferenziale per loro, ma non semplicemente sull’onda delle urgenze del momento storico, ma perché i poveri sono prediletti da Dio e sono icona vivente di Cristo.

Si afferma spesso che l’ecclesialità dei protagonisti delle beatitudini riassumibili sotto la categoria dei “poveri” non è esaustiva, cioè non esclude altri dalla chiesa. È vero, ma non si deve dimenticare che la loro è un’ecclesialità teologicamente importante, dal momento che la chiesa è Popolo dell’Alleanza e quindi luogo dove si realizzano la dignità e il valore degli oppressi. Il povero, riscoperto come ogni uomo che soffre sotto forme diverse di privazione e di oppressione, ha un particolare rapporto con Cristo, che ha voluto identificarsi con «l’ultimo dei suoi fratelli più piccoli» (Mt 25)[122].

Riteniamo che la prassi delle beatitudini abbia un valore teologale (cioè di riferimento all’agire storico di Dio e dell’azione del suo Spirito nel suo popolo), oltre che teologico (cioè dottrinalmente legittimo) e che ad essa si possano ricondurre le diverse forme della teologia della liberazione. Siamo persuasi che verso questa converga anche la teologia della pace, in quanto teologia che nasce dal cuore del vangelo e scaturisce dalla proclamazione delle beatitudini[123]. Infatti la teologia della pace è in rapporto con la teologia della liberazione come una faccia della medaglia con il suo rovescio. Se i poveri del mondo hanno già cominciato a produrre una loro teologia dal rovescio della storia, la “loro” teologia della liberazione non può essere limitata ad un contesto regionale. Bisognoso di liberazione è anche il mondo dei più ricchi, che ha preteso per secoli di essere il diritto della storia, ma che oggi più che mai manifesta tutte le sue lacune e la sua arroganza. Non è solo l’arroganza dei sazi[124] ad essere stata smascherato in questi nostri ultimi decenni, ma anche l’insicurezza e la povertà di idee, la carenza di valori e persino di speranze di questo stesso mondo. Il mondo in cui ci troviamo ha bisogno di un supplemento d’anima e la teologia della liberazione può contribuire a fornirglielo, convergendo con gli esiti della teologia della pace[125]. Quest’ultima deve prestare, a sua volta, alla cristianità opulenta una riflessione sulle cause della fame e della violenza, per rimuoverle con metodicità, tenacia e amore. In questo modo la teologia della pace e la teologia della liberazione potranno essere congiunte in una sola teologia che è quella della vita, perché è quella dell’amore: l’amore di Dio comunicato in Cristo al nostro mondo e a noi diffuso attraverso il suo Spirito, un amore che anche noi siamo chiamati a diffondere.

1.3.5 Le beatitudini come prassi di vita in controtendenza

L’agire liberante e l’agire della pace si pongono in maniera radicalmente alternativa all’agire individualistico, che abbiamo visto sempre più diffuso e penetrante nel nostro mondo occidentale[126]. A nessuno infatti sfuggono l’enfatizzazione dei bisogni dell’individuo e le tendenze individualistiche presenti in mille forme nella nostra “civiltà”, un trend generale che alcuni fanno risalire alla radice stessa “razionalità” della nostra cultura moderna. La “razionalità” nata all’ombra della soggettività pensante e per sua natura autocentrata nell’ego, ha prodotto una soggettività che anche quando è costretta a ricorrere all’altro, lo considera sempre  e solo in funzione di se stesso e non come un tu in grado di metterlo in discussione, di offrire un vero confronto e quindi un motivo di crescita nel superamento di se stesso. Deriva da qui la morfologia pur sempre egotipica dell’altro colto di volta in volta come antagonista, avversario o compare di affari. A fronte di una simile impostazione della relazione che non è vera e propria relazione, perché le manca la dimensione della trascendenza, si propongono di solito antidoti tamponanti, ma inefficaci: dal moralismo alla filantropia nelle sue varie forme storiche. Resta però inalterato e inattaccabile l’individualismo di fondo e quella cultura egotipica che caratterizza il mondo occidentale, che del resto si radica in una convinzione che assurge ad essere metafisica: l’essere è singolarità e autosufficienza. Bisognerà raggiungere e cambiare proprio questo nocciolo, se si vuole scoprire il valore dell’altro come interpellanza, appello “etico”, ed esistenziale, avente valore universale e concreto[127].

Sembra a prima vista solo un nuovo approccio etico, ma a qualcuno ha fatto intravedere la possibilità di una terza tipologia ermeneutica dell’uomo nel mondo: quella che si pone al di là dell’integrismo e dell’individualismo, al fine di ricollocare l’uomo di questa nostra epoca in un nuovo orizzonte di senso. Ciò comporta il superamento dell’ipoteca della cultura postmoderna, che ha teorizzato la fine di un senso complessivo, per limitarsi a vedere solo i frammenti di senso, parcellari e costitutivamente inadatti non solo a offrirne, ma anche a pretenderne uno di tal genere. Dal “rapporto sul sapere”, redatto da Jean-François Lyotard nel 1979 per il governo canadese e dal titolo La condizione postmoderna, molti hanno condiviso la sua interpretazione della culturale contemporanea opposta alla modernità e alla sua razionalità, avente ancora almeno la pretesa di un’unitarietà. Contro tale pretesa, stigmatizzata  - non senza una generalizzazione che a noi non sembra sufficientemente critica - come tendenza all’«organizzazione gerarchica» e al «fondazionalismo», l’autore segnalava una sempre più pervasiva «polimorfia» dei segmenti del reale. Indicava le conseguenze sul piano conoscitivo in una frammentazione che divarica sempre più i campi del sapere ad essi corrispondenti e invocava una nuova razionalità, l’unica capace di comprendere ciò che stava succedendo, una razionalità non univoca, ma plurivoca; non unitaria, ma diversificata. Gli esempi storici addotti da Lyotard, per indicarne il disfacimento, venivano tuttavia gravati da un’interpretazione che pregiudizialmente li indicava come tre grandi «meta-racconti». Erano quello dell’illuminismo, proteso a un’emancipazione del genere umano; quello dell’idealismo, che pensava di cogliere il senso della realtà nel dispiegamento dello Spirito e quello dello storicismo, collegato all’ermeneutica di un senso complessivo. Di conseguenza il filosofo indicava nella diversificazione e nella frammentazione, le vere dinamiche costitutivi del reale, con tutte le conseguenze in termini di pluralità e d’instabilità sempre ritenute irriconducibili a una qualsiasi gerarchia unitaria.

L’impostazione di Lyotard non può approdare all’altro come valore, né come tu trascendente l’io. Ciò richiederebbe ancora una relazione non nominale, ma reale, in nome di una costitutiva, seppure storicamente sfuggente, solidarietà di fondo. Ma in un universo postmoderno il reale non è né può pervenire alla soglia della solidarietà, per la semplice ragione che l’altro mi è totalmente dissimile, anzi è colui, che rigorosamente parlando, non deve essere nemmeno rapportato a me se non nei termini del diverso e del lontano. Resta tale nella sua inaccessibilità, che fa ricordare quella delle costellazioni e delle galassie dell’universo. Soltanto che queste hanno almeno una sorta di richiamo verso un’unità iniziale e/o finale, l’uomo postmoderno invece no. Egli non ha perduto la sua nostalgia dell’unità, ha semplicemente scoperto che tale richiamo è del tutto insensato, smascherando l’inconsistenza delle sue meta-narrazioni, ad un tempo causa ed effetto di un qualche ingannevole pensiero unitario.

La visione di Lyotard è, a dir poco, inquietante. L’uomo vi si ritrova come smarrito, mentre avanza tra forme aliene, sulle quali gli è proibito sollevare persino una qualsiasi domanda. Sono aliene e basta. I segmenti del reale rimandano non all’alterità ma alla costitutiva e insanabile difformità. Non per nulla Lyotard ha intitolato la sua opera maggiore Le différend (1983), il differente. Ma quale razionalità è ancora possibile se i capi del reale non solo sfuggono, ma sono qualitativamente irriconducibili alla relazione? L’autore ha parlato a riguardo di razionalità non più monologica ma paralogica, non verticale, ma trasversale, senza poter coerentemente indicare uno strumento valido ad attraversare un simile frammentato “universo”, che sembrerebbe non potersi più chiamare tale, data l’idea dell’unità che esso ancora esprime. La nostra conclusione è che la «ragione trasversale» ipotizzata da Lyotard per una simile impresa è di per se non sufficientemente chiarita. Sembrerebbe anzi contraddittoria con le premesse. E tuttavia, pur indicando una simile aporia, che diventa sempre più acuta nella misura in cui il sistema della deframmentazione si irrigidisce, ci sembra di poter indicare nell’assunto di fondo del postmoderno lo sviluppo della stessa modernità in quanto progressivo movimento di autoreferenzialità. Il pensiero post-moderno non è un congedo dal moderno. Ne svela solo il vizio di fondo e la sua assurdità: non si regge alla lunga nessun essere che si ritenga da se autoreferente ed esaustivo di senso. L’essere è sempre relazione e il frammento non fa eccezione. L’essere è relazione e come tale anche il frammento, soprattutto questo è non solo appello metafisico verso l’unità, ma è comprensibile solo se sia data almeno come ipotesi una qualche unità alla quale riferirlo.

Noi partiamo, come si sa, da quest’assunto di fondo: la relazione è il dato costitutivo del reale e quindi dell’essere. La frammentazione non fa altro che confermare lo smarrimento in cui viene a trovarsi l’essere umano che ha concentrato solo su di sé la sua attenzione, fino a definirsi a partire da sé e restando prigioniero di sé. La sua non è nostalgia verso un’improbabile unità, ma è la via che egli percorre alla ricerca di sé. Come ogni sasso o meteorite che sia, in viaggio nel cosmo, rimanda a una materia dalla quale proviene e verso la quale continua a navigare per millenni, la stessa che gli dà i parametri dello spazi e del tempo, così l’essere umano nel suo continuo navigare intorno al senso riceve senso proprio per il fatto che viene e va verso un tutto, grazie al quale anche il suo frammento si situa e si interroga. Il suo viaggio è alla ricerca dell’Altro e del Tu di ogni tu, ma è tale perché anche Lui, il Senso di ogni senso si è mosso ed è andato alla ricerca del mio frammento e di ogni altro frammento. Li ha ricongiunti ne ha fatto una chiesa. Questa visione complessiva, che sfocia in una concezione ontologica del reale è l’unica che può reggere la pretesa etica che l’altro solleva verso ogni io.

Riferendosi alla cultura moderna e alle sue diverse ricostruzioni, se ne fa interprete A. Rizzi, quando scrive:

«dentro la condizione postmoderna, la fede cristiana e il suo pensiero sono chiamati a sviluppare una comprensione del significato positivo della vicenda dell’Occidente: a ripensare la verità umana al di là del sacro e della ragione, o almeno, al di là del la loro pretesa fondativa. Chiamo eticità questo spazio oltre la fondazione sacrale o razionale, e chiamo terzo uomo la figura antropologica che lo abita. Dirò allora che una teologia europea della liberazione deve anzitutto mettere a tema l’eticità come luogo del vivere e convivere umano al di là della società sacrale e della società razionale»[128].

L’autore situa questo spazio al di là del legame con le comunità organiche e della separatezza contemporanea[129]. Intravede una terza possibilità, il terzo uomo: l’uomo aperto all’alterità, in atteggiamento solidale verso ogni suo altro. Il “terzo uomo” è definito come superamento del polo sacrale (medioevale) e del polo razionale (evo moderno) e come scavalcamento di un’altra doppia integrazione: l’uomo organicamente integrato in un tutto (come nell’idealismo) oppure individualmente decentrato (come nel postmoderno). L’alternativa è l’essere-in-relazione. Grazie alla relazione il “terzo uomo” è autofondato in corrispondenza della sua “trans-soggettività” e ciò gli conferisce un valore universale[130]. Su questa base antropologica è intravista la possibilità di una teologia europea della liberazione.

È un approccio certamente condivisibile da parte di chi vuole arrivare alla prassi come agire motivato eticamente e non solo razionalmente. A nostro modesto avviso, richiede però una revisione, che dal versante cristiano, è non solo etica, ma anche dogmatica. Nel senso che occorre sottoporre a una serena e approfondita analisi critica la nostra concezione dell’agire dell’uomo in quanto teologicamente informato. Ciò è richiesto da diversi motivi. In primo luogo, perché l’antropologia relazionale esige uno strumentario analitico adeguato allo spiazzamento prodotto dal pensiero post-metafisico[131], così come esige un’elaborazione più puntuale di una teoria della comunicazione non meramente funzionale, ma coessenziale all’antropologia[132]. In secondo luogo, perché l’agire umano esige di essere contestualizzato e confrontato con la relazione teologica fondamentale che è quella che egli ha con Dio.

In questa prospettiva la prassi umana risente dell’agire di Dio ed è da esso condizionata. Ciò offre ulteriori spazi per un’eventuale teologia della comunicazione, che, del resto, investe anche settori che sono la struttura portante dell’edificio teologico: la rivelazione, la cristologia e l’ecclesiologia[133]. Infine, ed è ciò che ci interessa più da vicino, la derivazione della prassi umana dall’agire di Dio ci mette a diretto contatto con l’agire di Gesù e, quindi, con la prassi delle beatitudini. Ci mette in comunicazione con un agire particolare, che certamente è mosso dalla solidarietà e che va persino oltre la stessa solidarietà, facendoci recuperare il valore di una prassi che, dal punto di vista antropologico, è antecedente e qualitativamente più avanzata di ogni altra prassi

 

E)  L’amore sorgente e compimento dell’agire cristiano
2 CAPITOLO
L’amore sorgente e compimento dell’agire cristiano

2.1 L’amore che viene da Dio

Come abbiamo già affermato, le beatitudini costituiscono il cuore del vangelo. Sono la felice ed inaudita notizia della sorprendente gratuità di Dio, una gratuità che viene da lontano e che tocca le persone e le cose a noi più vicine. Tocca l’intimo di ciascuno e le strutture sociali nelle quali l’essere umano vive e con le quali interagisce. È insomma l’annuncio che lo riempie di stupore: ogni essere umano è amato e benedetto da Dio. Ciascuno e, di conseguenza, tutti, ma in particolar modo quelli che hanno più bisogno di questo lieto annuncio: i senza speranza, quanti non hanno alcuno che si occupi di loro, i diseredati, gli impoveriti e gli infelici di ogni sorta.

È l’annuncio che li fa sentire amati con un amore autentico, non blaterato, né reclamizzato, non fittizio né strumentale, non per ciò che essi dovrebbero essere, ma per quello che sono; non nonostante, ma proprio a causa della propria situazione di minorità e di bisogno. Tutto questo costituisce il vangelo di salvezza e di grazia, di liberazione e di speranza. Costituisce il vangelo della pace: una pace piena, che finalmente riconcilia con il proprio cuore, mentre consente di fare esperienza dell’abbraccio di Dio. Riconcilia con gli altri, con i diversi, non più nemici, né concorrenti, né avversari, ma tutti figli dello stesso Padre; tutti redenti dallo stesso sangue di Cristo, tutti radunati e sospinti dallo stesso Spirito. Ciò costituisce il lieto annuncio della speranza, la speranza che un mondo più fraterno è più solidale è finalmente cominciato. È iniziato e si va compiendo con l’abbraccio di Dio, perché l’amore vero è un amore concreto, è l’amore che mentre abbraccia solleva da terra, è l’amore che corre a soccorrere il figlio caduto, per prendersi cura di lui.

In questa premessa si possono ritrovare i nessi teologici fontali tra i termini che sono sempre da correlare con l’amore che viene da Dio e con la proclamazione di questo evento nelle beatitudini: la pace, la giustizia, la carità. La pace, che è riconciliazione e annuncio di salvezza (evangelium pacis), tende necessariamente a ristabilire rapporti interumani basati sulla giustizia, perché fondati in Dio nella verità, (evangelium liberationis). Costituisce anche l’irruzione in questo nostro mondo dello stile di Dio, attraverso la vicenda e la realtà umano-divina di Cristo. Per cui è anche e soprattutto annuncio dell’amore, vangelo della carità (evangelium caritatis).

Cercando di evidenziare questa triplice connessione, il popolo di Dio deve mettersi in ascolto della Parola del suo Signore, avendo dinanzi un brano di Paolo che sembra essere paradigmatico per la nostra ricerca:

«State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace» (Ef 6,14-15; cf anche Is 40,3.9).

Un vangelo di pace, dunque, che “propaga” rapporti basati sulla verità, tendendo a ristabilire la giustizia tra gli uomini; con ai piedi lo zelo, cioè il fuoco della carità. Una carità che spinge infaticabilmente i piedi, perché brucia ardentemente nel cuore. È la «caritas Christi» che «urget nos», è la carità di Cristo che preme da dentro, attraverso la vivificante e incessante opera dello Spirito Santo, passando dal cuore ai piedi:

«poiché l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5,14-15).

Con una simile fondazione biblica il tema può essere riferito ai seguenti punti:

1)l’abbraccio che solleva e dà la pace; 2) l’ingiustizia da combattere e la giustizia da restaurare; 3) le vie della carità come vie dell’autentica liberazione.

2.2 L’abbraccio che solleva e dà la pace

Ogni riflessione teologica sull’amore  sfocia, prima o dopo, nella teologia della pace. Nasce dalla consapevolezza che il mondo ha bisogno d’amore perché ha bisogno di pace. Parte da un principio completamente contrapposto a ciò che ritiene il razionalismo, quando crede che il mondo sia completamente autosufficiente[134]. Il cardine intorno al quale ruota la riflessione sull’amore è la certezza che ogni creatura è frutto dell’amore di Dio e come tale deve essere accolta e tutelata. Diventano così determinanti le parole della sapienza:

«Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?» (Sap 11, 23-25).

Di fronte all’altro che odia, che pecca, che uccide, l’amore è sempre capace di ritenere che l’unica cosa che si possa fare è quanto ha fatto e continua a fare Dio con noi: è la prassi di Dio, «salvare, cioè abbracciare e sollevare con amore redentivo»[135]. Il punto teologico che qualifica la nostra riflessione sull’agire del singolo cristiano come della comunità nel suo insieme è la fede non in un qualsiasi Dio, ma nel Dio della rivelazione, che coltiva sempre e comunque pensieri d’amore perché «pensa progetti di pace», quegli stessi che Gesù adempiva quando passava sulle polverose e, e insanguinate strade della Palestina, e che chiama il popolo che lo segue ad adempiere in ogni tempo, in sinergia con Lui. Proprio Lui, Gesù, faceva spazio nei sui pensieri e nelle sue scelte al vero intento del Padre.

La vita di Gesù era tutta in quel progetto riassuntivo dei «progetti di pace e non di sventura» (Ger 29,11) che egli vedeva prendere forma ogni giorno di più, nella sua stessa sorte: la sorte di chi offriva pace e raccoglieva violenza, sovrabbondava di amore e riceveva odio e rigetto. Di chi, come abbiamo già visto, vedeva compiersi in quel ripudio e in nella sua drammatica fine, l’identificazione suprema con la pace. La sua fine suggellava la vita di chi era stato il primo e fondamentale «artefice di pace». In che modo? Attraverso le sue successive scelte,  che pur restando sempre opera di riconciliazione con Dio e tra gli uomini, gli procurano anche una crescente ostilità. Ma perché tutto ciò? Certamente a causa della qualità della sua pace (pace autentica, schietta, concreta, pace che rispettava le differenze e le riconduceva ad unità). A motivo di questa qualità della “sua” pace, e che egli coniugava sempre con la giustizia e la misericordia, con la gratuità e l’essenzialità, Gesù avvertiva che non tutti la declinavano secondo questi valori e perciò non ci nascondeva gli inevitabili conflitti e persino le divisioni che proprio la pace avrebbe potuto comportare:

«Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre» (Lc 12,51-53);

La spada era ovviamente la linea di demarcazione tra il pensare come Gesù e il pensare secondo l’ottica del mondo, il coltivare i progetti di pace del Padre e il coltivare i progetti di sempre, progetti di quieto vivere e di potere (sia a livello familiare, che a livello sociale, a livello religioso e a livello ecclesiale). La linea di demarcazione passava attraverso la spada della Parola di Dio, perché la denuncia del formalismo e dell’abuso del potere civile e religioso, dell’ingordigia e dell’ambizione delle classi emergenti, era in sintonia con la tradizione profetica, che vedeva il compimento del progetto di Dio non nelle attività cultuali di un tempio (Ger 7,4; 8,11), né in un’osservanza puramente esteriore e formale della legge, ma nell’amore all’alleanza di Dio (Is 48,18) e nell’amore verso il prossimo (Is 58,6 ss).

L’agire di Gesù era pertanto misericordioso e amorevole nello stesso tempo. La sua redenzione era vera liberazione, essendo l’atto che abbracciava e sollevava nello stesso tempo. Si compiva in lui, diventato il buon samaritano che soccorreva l’umanità intera, ciò che è stato scritto dell’amore, come responsabilità di un io per un tu (M. Buber). In Gesù si trattava, ben inteso, di una responsabilità liberamente assunta e quindi motivata dall’amore come puro dono e il “tu” con cui egli continuamente si rapportava era il Tu del Padre e il tu di ogni essere umano, che di quel Tu primordiale è sempre espressione e sacramento.

Nel nostro tentativo di disegnare un agire della chiesa conforme alle beatitudini, diremo che l’amore cristiano, la carità, non può che ripercorrere questa stessa via tracciata dal Maestro, perché l’amore dà sempre i suoi frutti e questi sono gli stessi frutti della pace: aiutare, educare, guarire, elevare, redimere[136]. Sono frutti espressi da verbi che indicano anche l’attività di Gesù, ma sono anche tutti passaggi obbligati di ogni prassi cristiana e di ogni prassi della chiesa. Si tratta di attività positive che di per sé non portano conflitti: mirano anzi alla piena realizzazione di ogni essere umano e persino di ogni essere vivente. E tuttavia la loro positività non impedisce che talora proprio contro coloro che le portano avanti si scateni l’incomprensione e persino l’odio e la violenza. Perché mai? La risposta ci può venire dal nostro secondo riferimento, che sulla scia della Evangelii Nutiandi ci fa intendere la realizzazione della carità come prassi pastorale fondamentale nei termini dialettici dell’ingiustizia da combattere e la giustizia da restaurare[137].

2.3 L’ingiustizia da combattere e la giustizia da restaurare

Si tratta di due aspetti appartenenti alla stessa predicazione e diffusione del vangelo della carità che prende corpo come prassi di pace. Questa, come abbiamo già visto, diventando efficace e elargendo i suoi frutti, produce la giustizia. In altre parole, solo il ristabilimento della giustizia porta alla pace ed è espressione della carità. O, come recita l’espressione latina, molto più descrittiva e precisa: pax opus iustitiae, la pace cioè non solo effetto, ma anche opera della giustizia: insomma la pace vera prassi della giustizia. Tutto ciò è stato già detto in linea di principio. Occorre dedurne le conseguenze operative pastorali. Il popolo di Dio infatti è incamminato su un cammino di pace, perché procede su un cammino di amore preferenziale per gli infelici. Sulla strada della sequela si sente interpellato dalla domanda: «per chi vale il discorso della montagna?»[138]. È un interrogativo serio, che esige una risposta altrettanto precisa, che non può che essere che questa e non una semplice esortazione moralistica. La comunità cristiana è chiamata a convertirsi continuamente a Cristo. Non in un senso vago e generico, ma nella radicalità della sua sequela. Una sequela che è condivisione e continuazione della prassi di Gesù, per realizzare il progetto del Padre. Ciò significa radicalità, cioè superamento della logica umana.

Gesù ha chiamato proprio i suoi discepoli ad essere perfetti (termine che può essere oggi meglio tradotto con radicali)[139], nel senso che essi debbono seguire con totale fiducia e con pieno abbandono la logica delle beatitudini e le direttive del discorso missionario[140]. Ciò costituisce il loro vero specifico (lievito che fermenta la pasta e sale che insaporisce di vangelo i rapporti interumani), ma fa anche oltrepassare quella che è stata, a ragione, chiamata religione borghese e morale accomodante.

In generale, occorre ribadire che, così come succede con l’amore, non ha senso parlare di impegno per la pace se non si è mossi dalla pace. È pur vero che nel mondo, a cominciare da quello a noi più vicino, ci sono ancora coloro che non si rassegnano alla violenza dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri, dei detentori della parola su coloro che subiscono e tacciono. Spesso però si tratta di reazioni momentanee, che raramente varcano la soglia dello sfogo individuale o della protesta personale, per lo più episodica. Alla stessa maniera anche gli ideali utopici, ma non per questo illusori, di una convivenza umana fraterna e solidale rischiano di risultare sterili, perché sono aspirazioni di singoli che non hanno ancora cominciato a condividere le loro utopie. Oppure, nel tentativo di essere socializzati in alcune forme tutt’altro che condivisibili, come quelle compromissorie del collateralismo politico, sono stati logorati nell’esercizio di un potere che di fatto ha tradito l’ispirazione cristiana e talora anche la pura e semplice legalità oggettiva.

Che cosa resta da fare ancora? Resta la cosa più difficile, ma anche la più importante: socializzare la protesta contro l’ingiustizia, rendere comunitaria l’instaurazione della giustizia, scegliendo l’educazione alla legalità come una delle vie privilegiate attraverso le quali storicizzare la speranza dei poveri della terra. Dare carne storica e respiro sociale, restituendole il suo valore collettivo, a una fede che è stata privatizzata. In definitiva: deprivatizzare la fede, e condividere una progettualità che assuma i “progetti di pace” come progetti concreti e realistici. Socializzare la speranza, nella convinzione che l’amore di Dio è un fatto personale e pubblico e che la sua salvezza è una realtà individuale e politica nello stesso tempo. Carità personale e pubblica, individuale e politica, esistenziale e storica. È quanto affiora con maggiore evidenza dalla riflessione sulle vie della carità.

2.4 La via della carità via dell’autentica liberazione

Tutto il discorso fin qui condotto non nasce da un’opzione ideologica, né dall’adesione a un qualche filosofia o concezione teorica della realtà lontana dalla rivelazione e dal vangelo di Gesù. È lontano dalla verità, e alla lunga cade anche in malafede, chi si accosta a questa problematica con questo continuo sospetto, che paradossalmente non è altro che sistematico pregiudizio ideologico, anche se di segno contrario. Così come si allontana dalla fonte primaria del vangelo chi cerca motivazioni essoteriche al suo impegno per la pace e per la giustizia, trascurando le sue radici nella carità di Dio. Al contrario, proprio essa, quando e assecondata come azione dello Spirito Santo, diventa solidarietà che urge nel cuore e nella mente e mette impazienza persino ai piedi:

«Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”. Senti? Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore in Sion» (Is 52,7-8).

La comunità cristiana, che vive la radicalità del vangelo, è per sua natura missionaria in questo senso: annuncia la lieta notizia di rapporti solidali, liberanti e perciò riconciliati. Corre ad annunciare il vangelo dell’amore. Compie un’opera di raccolta di quanti sono mossi non solo da intenti di pace, ma anche dalla volontà di socializzarli, condividendoli con tutti, ma in particolar modo con i più colpiti dalle tante forme in cui si esprime la violenza: con i più poveri e i più deboli della società in cui viviamo. La solidarietà umana, radicata nella carità di Dio, è ciò verso cui si muove, ma è anche ciò che la smuove. La prassi di solidarietà del cristiano avviene nel più vasto contesto della solidarietà del popolo di Dio per tutta l’umanità e per l’intera creazione. È un agire che trova nelle beatitudini un nuovo paradigma interpretativo della realtà. Può così superare l’etica razionale, perché assume la radicalità del vangelo e asseconda la spinta in avanti verso una migliore qualità della vita.

Mentre asseconda l’agire dello Spirito, la prassi cristiana progetta e realizza un’effettiva educazione alla pace. La formazione stessa resta caratterizzata dall’ottica delle beatitudini, perché finalizzata a sensibilizzare tutti, in particolare i giovani, a forme di intervento e di “servizio” più sistematico verso i più bisognosi e dimenticati. Ma ciò significa anche una formazione volta al superamento nonviolento degli immancabili conflitti, inculcando il rispetto verso l’ambiente e proponendo scelte dettate dalla sobrietà e dalla semplicità. In definitiva, la comunità cristiana, mossa dall’amore, accetta di mobilitarsi per la pace, per fedeltà a Cristo e alla sua vocazione, anche quando  la pace fosse solo testimonianza della verità e del valore della carità contro ogni altra evidenza. Attraverso la prassi della pace la comunità cristiana dimostra il suo coraggio di credere veramente all’amore. La sua solidarietà  è espressione storica di esso.

2.5 L’etica razionale e la vita secondo lo Spirito

Nell’acquisizione ecclesiale recente l’insegnamento magisteriale sulla prassi che stiamo indicando come prassi delle beatitudini, anche se non è reperibile sotto questa locuzione linguistica, è però da cercare come concetto più generale in altre espressioni, tra le quali riveste particolare importanza l’agire in nome della solidarietà, della pace e della giustizia. Su questi e su “valori” similari ad essi, che abbiamo già visto presenti nel Vaticano II, c’è un’indubbia crescita tematica. Si tratta di valori che ricorrono con frequenza in molte prese di posizione in materia sociale non solo nelle encicliche degli ultimi papi e in particolar modo di Giovanni Paolo II, ma anche in autorevoli dichiarazioni di episcopati nazionali o continentali. Sembrano, tuttavia, risentire ancora dell’impostazione che ha caratterizzato il magistero pontificio ed ecclesiale cattolico di questi ultimi decenni, proteso in primo luogo ad una difesa appassionata e tenace dei diritti individuali della persona. Certamente quest’ottica di natura personalistica costituisce un notevole passo in avanti rispetto al clima di contrapposizione frontale tra la difesa dei diritti individuali del razionalismo illuminista del secolo scorso e le affermazioni di natura moderata se non tradizionalista del mondo ecclesiastico dell’epoca.

Non ci si deve tuttavia nascondere che questa impostazione non è priva di giustificazioni storiche, e talora ideologiche. La presenza del marxismo storico nei paesi di oltrecortina, prima del suo più recente tracollo, e la percezione di una sorta di pericolo sempre incombente dal “collettivismo” hanno provocato un approfondimento teologico di natura teoretica e una fioritura di indicazioni pratiche e pastorali su valori relativi soprattutto alla persona e al suo vivere nel mondo.

Ne offre un esempio più che evidente il Catechismo della Chiesa Cattolica, al quale ci riferiamo, dato il suo valore di una sorta di summa dottrinale autorevole. Esso contiene una vasta articolazione soprattutto per ciò che riguarda la suddivisione della IIIa parte, che sviluppa il tema della vita del cristiano e dei suoi compiti. L’impostazione risente ancora della visione accennata, che mentre insiste sui diritti individuali, non approfondisce in uguale misura quelli riguardanti i popoli e il vivere associato in genere. La pur doverosa insistenza sui diritti-doveri del singolo non mostra un equilibrato bilanciamento in quelli che si potrebbero chiamare i diritti della sfera collettiva. Non che essi siano del tutto carenti, ma risultano essere ancora a metà strada tra l’appello alla generosità e le affermate esigenze della giustizia. Ciò è più chiaro nei temi per noi fondamentali della solidarietà e della pace.

Rispetto alla prima, in sintesi si può affermare che nel magistero la solidarietà sembra ancora un concetto oscillante tra le virtù individuali e la responsabilità comunitaria. Scorrendo i testi che ne parlano, viene da domandarsi se la solidarietà sia da collocarsi nell’ordine etico o in quello biblico-sistematico. Vale a dire, se la solidarietà non appaia alla fine una virtù di natura sociale, che il singolo è chiamato a realizzare con un’attività “ideale” esterna a sé, piuttosto che essere, come dovrebbe, un’esigenza scaturente da un ordine “reale”, quello informato dalla teologia delle beatitudini. Non sempre affiora a sufficienza che la solidarietà sia motivo e metodo di una prassi da noi individuata come corrispondente alla visione del mondo e della storia dalla prospettiva di Gesù Cristo e al di dentro del dinamismo del suo Spirito. La stessa formulazione che talora parla di “valori” può suscitare l’impressione che si tratti di un mondo di ideali, più che di un insieme, sebbene sconvolgente, di nuovi dati reali: che abbracciano la fondamentale relazione Dio-uomo, vissuta attraverso l’annuncio evangelico sui diversi piani della relazione (persona-comunità, popolo-popoli, uomo-cosmo).

Anche tenendo presenti le correzioni apportate, si può affermare che nel Catechismo della Chiesa Cattolica[141] i tanti riferimenti al “prossimo” sembrano, da un lato, ancora propendere per la solidarietà come sbocco di un’attività individuale che si manifesta verso dei destinatari esterni[142], le cui offese devono essere riparate[143], anche perché «chi ama il suo simile ha adempiuto la legge» (Rm 13,8). Dall’altro, la solidarietà scaturisce da precise premesse teologiche. In questo secondo senso esiste anche una solidarietà non solo e non già tra uomo e uomo, ma anche tra tutte le creature, in forza della stessa comune origine creaturale[144]. Per questa ragione l’intero genere umano forma un’unità. Sicché «questa legge di solidarietà umana e di carità ci assicura che tutti gli uomini sono veramente fratelli»[145]. Un motivo ulteriore di solidarietà come comune appartenenza e interdipendenza viene indicato, seppure brevemente, nella natura stessa della chiesa in quanto comunione dei santi. È la comunione nella carità ripresa dal testo paolino del «nessuno vive per se stesso e nessuno muore per se stesso» (Rm 14,7) e dall’altro che afferma «se un membro soffre tutte le sue membra soffrono insieme» (1Cor 12,26-27). In questo contesto il Catechismo della Chiesa Cattolica, raccogliendo l’insegnamento sociale, parla di «solidarietà con tutti gli uomini, vivi o morti, solidarietà che si fonda sulla comunione dei santi»[146]. Ma ciò non è che l’esplicitazione della più profonda solidarietà che Dio ha attraverso Cristo con ogni uomo e con ogni popolo, e che si trova più compiutamente formulata in altri testi autorevoli, come la Dives in misericordia[147], che aggiunge la considerazione del mondo come villaggio globale. L’uomo, infatti,

«ha visto crollare o restringersi gli ostacoli e le distanze che separano uomini e nazioni, grazie ad un accresciuto senso universalistico, ad una più chiara coscienza dell’unità del genere umano e all’accettazione della reciproca dipendenza in un’autentica solidarietà, e grazie infine al desiderio - e alla possibilità - di venire a contatto con i propri fratelli e sorelle al di là delle divisioni artificialmente create dalla geografia o dalle frontiere nazionali o razziali»[148].

Nel Catechismo la solidarietà umana è designata anche amicizia o carità sociale, con accentuazioni che fanno di nuovo slittare il concetto verso forme di natura più individuale, ma non senza alcune correzioni. Infatti il principio di solidarietà in quanto «esigenza diretta della fraternità umana e cristiana» richiama a non continuare a cadere nell’errore purtroppo diffuso della dimenticanza degli altri[149], particolarmente dei popoli più poveri, come ricordava già la Redemptor Hominis [150]..

In questo contesto la solidarietà riguarda beni spirituali e materiali, a qualsiasi altro livello della vita associata: tra una classe e l’altra, o tra i lavoratori[151] fino alla collaborazione tra le varie nazioni:

«(essa) si esprime innanzitutto nella ripartizione dei beni e nella remunerazione del lavoro. Suppone anche l’impegno per un ordine sociale più giusto, nel quale le tensioni potrebbero essere meglio riassorbite e i conflitti troverebbero più facilmente la loro soluzione negoziata»[152].

La convinzione è che i problemi socio-economici non possano essere risolti che attraverso il concorso di tutte le forme di solidarietà: solidarietà dei poveri tra loro, tra ricchi e poveri, tra lavoratori, tra imprenditori e dipendenti, tra le nazioni e tra i popoli. C’è però un assunto, che sembra andare al di là di ciò che il tono “interclassista” potrebbe far credere. Esso recita: la solidarietà è un’esigenza di ordine morale e ciò vale per tutti i livelli finora considerati[153]. Ciò fa comprendere l’importanza dell’interdipendenza tra solidarietà e pace e, in genere, tra sviluppo dei popoli, liberazione e solidarietà tra le nazioni. A questo riguardo, riprendendo l’insegnamento della Populorum Progressio, Giovanni Paolo II poteva così sintetizzare i due aspetti fondamentali della solidarietà:

«in ordine allo sviluppo a livello mondiale, deve formarsi una solidarietà della stessa estensione e profondità, che stringa tra loro tutti i popoli della comunità mondiale e i popoli che si trovano vicini o affini a raggio regionale: in ogni caso con un intento di aiuto ai popoli più poveri e in via di sviluppo. Questi non devono essere privati della loro identità e cultura, ma nello stesso tempo devono essere incoraggiati a impegnarsi attivamente nella loro liberazione dalla condizione di sottosviluppo e di ritardo sulla via del progresso economico e socioculturale, vincendo lo stato di passività e di fatalismo nel quale a volte si trovano. La solidarietà è fondata, da una parte, sull’interdipendenza tra tutti i popoli; d’altra parte la solidarietà è una virtù apparentata con la carità, che ne è l’ispiratrice e la generatrice»[154].

Ricompare la liberazione, in stretto rapporto con la solidarietà. La liberazione è anche nel Catechismo, integrale. È liberazione dal male o dal peccato[155], ma è anche estensione di tutti gli effetti della salvezza della croce di Cristo, che tende pertanto ad essere duratura («Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi»: Gal 5,1; perché «dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà»: 2Cor 3,17). La liberazione riceve così, al pari della solidarietà, un’attualità che rivive la vera liberazione dall’Egitto[156], come memoria permanente[157] e che è gravida di conseguenze sociali, fino a invocare l’aiuto di tutti perché ciò avvenga per i paesi poveri:

«È necessario sostenere lo sforzo dei paesi poveri che sono alla ricerca del loro sviluppo e della loro liberazione»[158]

In conclusione, dalla solidarietà dipendono sia la liberazione che la pace. Per questa ragione la solidarietà è oltre che una virtù morale anche un vero e proprio atto politico[159]. L’agire della chiesa come l’agire del cristiano realizza attraverso di essa il progetto di Dio e lo asseconda. È un pensiero che si trova formulato con forza in un testo successivo, che è però in linea con l’insegnamento autorevole che stiamo considerando:

«oggigiorno la Chiesa si fa eco di questo appello provocatorio che Dio rivolge a Caino, quando gli chiede conto della vita di suo fratello Abele: “Che hai fatto! La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!...” (Gen 4, 10). Questo versetto duro, quasi insopportabile, riferito alla situazione dei nostri contemporanei che muoiono di fame, non è una esagerazione ingiusta o aggressiva; queste parole indicano una priorità e vogliono giungere alle nostre coscienze»[160].

2.6 Obbedienza teologale e disobbedienza civile?

Dalla ricerca fin qui condotta la prassi del cristiano, in quanto prassi delle beatitudini, appare frutto della solidarietà ed è strettamente correlata con essa. Anche la sua natura sembra essere molto complessa nell’insegnamento sociale magisteriale, a partire dalla sintesi che ne fa il Catechismo. In una prima accezione, la prassi di pace è ricondotta alla ricerca dell’armonia familiare e sociale, per cui si evidenzia l’importanza della famiglia nell’iniziazione alla solidarietà e alle responsabilità comunitarie[161]. Così come è ricondotta all’adoperarsi per la convivenza pacifica, nella quale i cittadini hanno anche il dovere di collaborare con i poteri civili per il bene della società[162]. È menzionato il dato tradizionale dell’obbedienza, fino al servizio della patria, derivante dal «dovere di riconoscenza e dall’ordine della carità». Esso non è però del tutto acritico. Pur non arrivando a formulare esplicitamente come servizio alla patria quello verso quanti la patria trascura, come anziani, handicappati, emarginati, anche per il Catechismo, come per il Concilio e la dottrina magisteriale successiva si profila l’obiezione di coscienza nei casi in cui la legge umana entra in conflitto con quella di Dio[163].

Si tratta del rifiuto di obbedienza all’autorità in nome dell’obbedienza all’autorità suprema di Dio. È una scelta e una prassi di vita e di pace insieme e viene ripresa anche nell’enciclica Evangelium vitae, in riferimento alle leggi contrarie alla vita nascente[164]. A giustificare questa prassi singolare e coraggiosa, si riparte dal principio formulato nel Vaticano II[165], enunciando il principio generale dell’«obbedienza a Dio piuttosto che agli uomini». È un principio che formulato dal Catechismo nella «distinzione tra il servizio di Dio e il servizio della comunità politica» trova una sua espressione più sistematica in altri testi autorevoli[166], fino a prevedere diverse forme di dissenso in nome di un più profondo consenso alla vita e alla sua positività[167].

A noi sembra che l’obiezione di coscienza una prassi scaturente dallo spirito delle beatitudini. La scelta della vita, infatti, avviene di pari passo con la convinzione di una sorta di capovolgimento dei valori “comuni”. Essere capaci di scegliere anche ciò che va contro corrente, non per ribellione preconcetta, ma per un amore più grande, significa scorgere negli uomini, prima ancora che nelle cose, il valore positivo che riesce a cogliere solo chi guarda da una prospettiva più alta. È la prospettiva di Dio e del suo regno. Opzioni di questo genere, in nome di una diversa percezione, che da noi chiamata “teologale”, avvengono in una prospettiva da intendere secondo il paradosso già evidenziato: ciò che è piccolo e insignificante agli occhi degli uomini ha il massimo significato agli occhi di Dio. Ma vale anche il contrario: ciò che gli uomini stimano alto ed elevato, soprattutto quando ciò avviene con parametri superficiali ed effimeri, è invece piccolo agli occhi di Dio e quindi anche dei suoi figli. La prassi delle beatitudini consente inoltre la scelta della vita sempre e in ogni luogo, perché nasce nell’amore di Dio e tende sempre a testimoniarlo con i fatti. L’obiezione di coscienza alla guerra e ad ogni tipo di servizio preparatorio ad essa è in questa logica una scelta non solo per la pace ma per la prospettiva di Dio e secondo la prassi di Gesù.


 F) SEQUELA E PRASSI DEL POPOLO DI DIO


3 CAPITOLO
Sequela e prassi del popolo di Dio

Iniziando questa sezione varrà la pena ricordare ciò che scriveva J. Audinet a proposito del divario tra riflessione e prassi:

«Il divario tra discorso e realtà non viene questa volta dall’ignoranza o dall’errore degli esseri umani. È dato per scontato che esso derivi da una insufficienza del lavoro teologico stesso. Donde le critiche frequenti fatte al discorso teologico classico: non adatto, sorpassato, datato di un’epoca e di un contesto culturale determinati»[168].

È per noi di grande interesse notare come la cosiddetta non “incidenza pratica” della teologia non è in primo luogo una mancata applicazione alla “realtà” di ciò è corretto nella teoria, ma piuttosto è il risultato di una riflessione teologica sbagliata. La prima e la seconda sezione del nostro corso avrebbe dovuto già mettere in luce che le vere carenze sono quelle di impostazione generale e che se la prassi della chiesa è deficitaria, ciò si deve, in primo luogo, ad una insufficiente comprensione dell’agire di Dio e dell’agire di Cristo. Le “pratiche” della chiesa non possono che essere carenti quando è carente la teologia. Al contrario, una teologia pratica, che imposti correttamente il suo esercizio, è pur sempre l’attuale “discernimento della verità in una storia”[169]. In quanto tale, fornisce all’agire della chiesa i corretti parametri per una prassi mossa e orientata dalla prassi di Dio.

Ma prima di affrontare questa tema chiediamoci: a che cosa può tendere una teologia pratica? Risponde lo stesso Audinet:

«Il compito che allora si impone è quello di mettersi alla ricerca di un discorso teologico per il nostro tempo, di un linguaggio corrispondente alle nuove situazioni sociali e culturali. È questa la posta in gioco di una nuova pratica teologica, il cui primo lavoro consiste nel conoscere le situazioni alle quali essa vuol riferirsi proprio in quanto nuove. Da ciò il fatto inatteso a volte, di lavori che per fare opera teologica, consacrano l’essenziale del loro sforzo allo studio di ciò che non sembra rientrare nel campo della teologia. Questa, come il cuculo, sembra fare il nido nel nido degli altri»[170].

La sociologia, la politica, la psicologia, ma anche la simbolica, l’analitica, l’antropologia - così come tutte le altre discipline che hanno a che fare con l’uomo - risultano essere coinvolte e il teologo non può certamente continuare a dipanare i suoi pensieri prescindendo da esse. La teologia post-conciliare ha fatto non pochi progressi, proprio grazie all’ausilio delle cosiddette scienze umane. Vale però l’avvertenza che esiste ed esisterà sempre una inadeguatezza fondamentale tra il parlare di Dio dal versante delle scienze umane e il parlare di Dio dal versante teologico. Questo non può prescindere dalla fede e la fede è un modo radicalmente diverso di avvicinarsi a Dio. Evitando il fideismo, che della fede è solo una caricatura, la teologia cercherà sempre il punto d’inserzione della fede nei contesti in cui essa va vissuta ed indicherà gli ambiti fondamentali attraverso i quali deve passare tale coniugazione.

La nostra riflessione ha già toccato l’importanza e la caratterizzazione dell’agire nell’antropologia (I sezione) e nella teologia (II sezione), deve cercare ora di indicare gli attraversamenti necessari dell’agire della chiesa secondo le modalità, le opzioni e le caratteristiche che sono precedentemente emerse. Indicheremo le attività fondamentali del popolo di Dio, inserendole, in continuità e senza scollamenti inutili, nel più vasto complesso dell’agire di Dio e dell’agire di Cristo. Se il modello storico-liberante ci è sembrato quello realmente rispondente al progetto e alla prassi di Dio, denuncia profetica e progettualità testimoniale sono, negativamente e positivamente, i compiti irrinunciabili dell’agire cristiano. Ciò riguarda l’agire personale e l’agire comunitario. Lo stesso popolo di Dio è impegnato in una simile prassi che, come vedremo, non nasce dal nulla, ma s’innesta e si articola in quella modalità triplice che è diventata punto di riferimento di ogni teorizzazione pastorale: la martyrìa, la koinonìa e la diakonìa. Tre modalità di agire della chiesa che corrispondono a tre modalità di essere dell’intero popolo di Dio: la dimensione profetica, quella sacerdotale, e quella regale. Si è soliti indicare di ciascuna di essa alcune ulteriori specificazioni con conseguanti determinazioni pratiche. Sicché la martyrìa si esprime nell’annuncio e nella formazione; la koinonìa nella celebrazione e nel coordinamento, la diakonìa nella cura pastorale vera e propria (in tedesco Seelsorge) e nel servizio sociale. Talora il modello completo viene visualizzato secondo uno schema che parte da tre elementi fondamentali dell’agire della chiesa: a) martyrìa, b) koinonìa, c) diakonìa. Ad esse corrispondono per a) l’annuncio e la formazione; per b) la celebrazione e il coordinamento; per c) la cura d’anime e l’attività sociale[171]:

Come si noterà, le tre dimensioni principali dell’agire del popolo di Dio sono ulteriormente specificate e costituiscono una valida mappa di orientamento. Si potrebbero integrare con quanto si diceva precedentemente riguardo alle attribuzioni teologiche sino a farle discendere direttamente da esse, arrivando così allo schema complessivo:

Dimensione profetica

Dimensione sacerdotale

Dimensione regale

 

martyrìa

koinonìa

diakonìa

 

 

annuncio

 

formazione

 

celebrazione

 

coordinamento

cura

d’anime

attività

sociale

 

           

 

Lo schema è dal punto di vista formale ineccepibile. Ha il fascino di una buona integrazione tra il dato tradizionale (il triplice ufficio di Cristo partecipato alla chiesa) e l’aggiornamento pastorale (l’attività di coordinamento attribuito alla componente sacerdotale e l’attività sociale). Ha il limite di recepire in modo acritico sia le basi teologiche che l’aggiornamento stesso, senza analizzarli nei loro orientamenti e nelle scelte di fondo. “Attività sociale” (in tedesco propriamente Sozialarbeit) può voler dire tutto: dai pellegrinaggi a Lourdes ai pacchi dono di Natale. Così come la voce celebrazione può coprire anche le messe a ripetizione (su ordinazione per defunti) o quelle nostalgiche secondo il rito di Pio V.

Lo schema va allora corretto, se non addirittura riscritto. Deve includere la componente ineludibile del giudizio esercitato sempre dalla parola di Dio sullo stesso agire della chiesa e deve, di conseguenza, includere il discernimento come via privilegiata alla conversione. Deve inoltre contenere le conseguenze delle opzioni espresse dalla parola di Dio come opzioni ugualmente partecipate al suo popolo. Non basta parlare di testimonianza senza qualificarla. Così come non basta parlare di attività sociale senza una scelta preferenziale per i poveri e con i poveri.

Con queste premesse e tirando le conseguenze di quanto già asserito, senza voler intaccare la triplice dimensione profetica, sacerdotale e regale, anzi riconoscendovi una certa contiguità con la triplice funzione della chiesa (martyrìa, koinonìa, diakonìa), sembrerebbe più proponibile uno schema così concepito:

 

ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO

(L’amore che salva nella prassi di Gesù)

 

 

 

 

euangelìa

eleutherìa synklerìa

annuncio

giudizio

guarigione

risurrezione

riconciliazione

convivialità

attività

kerygmatica

 

attività

liberatrice

 

attività

convocatrice

 

 

La prassi del popolo di Dio

evangelizzazione profetica

progettualità testimoniale

anticipazione escatologica

formazione critica ed autocritica

 

ministerium visitationis

 

ministerium consolationis

 

ministerium medicationis

 

ministerium attestationis

 

impegno

per la vita

 

impegno

per la pace

 

salvaguardia

del creato

 

difesa degli

oppressi

 

fraternità contemplante

 

significanza esistenziale

 

trasparenza sacramentale

 

condivisione materiale

 

 

 

Alcune chiavi per leggere lo schema

Euangelìa significa “buona notizia”. È il lieto annuncio del vangelo. L’attività della chiesa non deve mai dimenticare il carattere benefico e gioioso (questo è il senso del prefisso eu) della notizia angelìa che essa reca al mondo. Se di testimonianza (martyrìa) si tratta, questa è attestazione di un fatto nuovo e inaudito: l’amore gratuito e soccorrevole di Dio verso quanti normalmente sono ritenuti e si ritengono esclusi dal circuito della salvezza, dai canali della gioia. L’evangelizzazione passa attraverso le tante vie della predicazione e della formazione. Ma deve essere anche precisato che entrambe non possono essere né indottrinamento, né insegnamento morale o intellettuale. Si tratta, invece, di un messaggio che mentre discerne la volontà di Dio, pronuncia anche un giudizio preciso sul mondo e sulle vicende umane. La formazione mira ad una coscientizzazione che sia doverosamente critica, ma anche tendente alla continua conversione, e quindi autocritica.

Il termine eleutherìa viene da eleutherèin, che significa rendere liberi, affrancare. Proprio perché recano l’annuncio della gioia, l’agire di Dio e la prassi di Gesù sono liberazione in senso pieno. Sono affrancamento da tutto ciò che rende l’uomo meno uomo. Restituiscono all’oppresso la sua dignità, danno il coraggio di continuare a vivere, guariscono le ferite dell’animo. Il servizio che la comunità cristiana deve prestare non può deviare da questa via maestra della prassi di Dio. Conformemente al suo modello, va alla ricerca e visita (ministerium visitationis), sa consolare e confortare gli affranti (ministerium consolationis), guarendo le ferite della condizione umana (ministerium medicationis) e rinvigorendo i fratelli con la certezza che Dio ci è vicino (ministerium attestationis). Da qui nasce l’esigenza di una pastorale concreta che privilegi l’impegno continuo per la liberazione di tutto il creato, oltre che di tutti gli esseri umani e di tutto l’essere umano, con una particolare preferenza per i più infelici[172], e in una continua ricerca di un’effettiva giustizia, da conseguire con i mezzi nonviolenti e convincenti della pace.

L’impegno è dei singoli, ma anche di tutta la comunità. È infatti synklerìa, parola che indica la comunanza nella stessa sorte e che può ben affiancare l’altra, la koinonìa. È il dono e il carisma di una fraternità che si riscopre ogni giorno nella preghiera e nello spezzare il pane, ma che sa condividere anche i beni materiali, oltre che quelli spirituali, per dare trasparenza ai segni sacramentali e per non rendere irrilevanti le speranze di cui è custode.

Il seguito dell’esposizione parte da questi presupposti, approfondendo alcuni gangli fondamentali meritevoli di una maggiore attenzione teologica. Evidenzia il primo nel rapporto sempre esistente tra la prassi e il progetto, il giudicare e l’agire, individuandolo come nocciolo dello stesso dinamismo salvifico. Per questa ragione, sia la prassi kerygmatica che quella sacramentale devono restare ancorate il più possibile a tale sintesi originaria tra azione e parola, tra gesto e significato, tra annuncio di gioia ed atto realmente salvifico.

Il secondo strato di questo nocciolo, che essendo radicato nell’agire di Dio è teologale, prima ancora che teologico, asseconda le opzioni di Dio. Per questo la prassi cristiana si deve continuamente contestualizzare tra i suoi poli già individuati nella prima parte della nostra riflessione: tra mistica e politica, al punto che la missione deve contemplare la fattibilità di una pedagogia degli oppressi.

Diventa allora strutturale all’annuncio un’animazione sociale, che non è puntello di un sistema che comunque bisogna appoggiare, perché da esso si ricevono dei privilegi, ma è semmai spina nel fianco di una società che privilegia i più forti e più abbienti. È formazione critica per una lettura dei fenomeni sociali che rifugge le ideologie, e tuttavia non può rinunciare a scegliere ogni giorno quelli che l’agire di Cristo ha preferito nel suo discorso della montagna. In questo modo la prassi dell’animazione sociale diventa essa stessa formazione ed informazione biblicamente fondata e socialmente efficace.

Tutto questo costituisce materia del presente capitolo, mentre i successivi approfondiranno il rapporto da instaurare tra pedagogia e teologia degli oppressi.

3.1 Giudicare ed agire, parti di un unico dinamismo salvifico

Tutte le nostre premesse ci conducono a vedere il giudicare e l’agire come parti di un unico dinamismo salvifico. Ci portano alla conclusione che il concreto reale (la realtà come dato che troviamo prima di noi e davanti a noi) ed il concreto vissuto (la realtà come esperienza diretta) fanno parte di un unico concreto progettuale. Nella rivisitazione della storia, revisioniamo il grado di corrispondenza di questa al progetto di Dio e alla dinamica ascensionale della risurrezione. Tale discernimento non è mai, né può esserlo, il giudizio dell’”esperto”, che valuta dall’esterno e consiglia o attiva i correttivi necessari. Vivere è già giudicare, e giudicare è già progettare, perché è un continuo confronto con quello sfondo complessivo, nel quale il discernimento si situa come prassi che, informata da determinati valori, tende all’attuazione di essi.

In quest’unico dinamismo, giudicare ed essere giudicati vanno di pari passi. Il giudizio sulle cose è infatti anche un giudizio su se stessi. Al di là del proprio cuore, si riscopre il vero cuore del mondo, così come al di là del reale visibile si riscopre e si persegue il reale invisibile. Né questo cessa di essere reale, solo perché invisibile. Del resto, le scienze umane mettono in luce ogni giorno di più che non c’è un discernimento critico da una parte ed un’attività pratica dall’altra. Agire e discernere significano anche che discernere è già agire. Ma si può affermare anche il contrario? Possiamo dire che agire è anche discernere?

Non è una questione oziosa e va impostata correttamente, perché non si svenda né l’agire, né il discernere; né la prassi, né il giudizio. Se per agire intendiamo un’attività tipicamente umana, questa include per sua natura non solo la comunicazione, ma anche la solidarietà, il vero agire. L’agire, a sua volta, non è mai il puro e semplice reagire, o la prassi per la prassi, è anche un giudizio, ed è questo giudizio di se stessi e del proprio fare che ci rende più maturi.

Nessuno si può nascondere che oggi il giudizio e la prassi sono diventati più problematici di prima. La complessa ed aggrovigliata interconnessione esistente tra le innumerevoli componenti che determinano il vivere associato e collettivo mettono sempre più al riparo gli “agenti” storici, i responsabili delle situazioni nelle quali viviamo e soffriamo. Alla responsabilità del singolo subentra la corresponsabilità diffusa e sfuggente dei tanti; a quella delle persone subentra quella delle imprendibili strutture. Ma ciò cambia forse le cose o ci esonera dal giudizio? Per nulla. Oggi più che mai dobbiamo essere in grado di leggere i segni dei tempi nelle tendenze e negli orientamenti storici, in maniera analoga a come facciamo con l’interpretazione degli orientamenti esistenziali.

Anche la nostra esistenza è complessa perché ci scopriamo contraddittori e incostanti. Ciò però non esclude che leggiamo in essa le tendenze e le opzioni fondamentali. Su queste dobbiamo puntare il nostro obiettivo, così come nella società dobbiamo interpretare le tendenze complessive ed intervenire con senso profetico e pratico nello stesso tempo. Certamente la lettura dei segni dei tempi, quando contempla insieme la visitazione di Dio e la rivisitazione della nostra esistenza alla luce della sua visita, è sempre un momento privilegiato di crescita e di salvezza. Si potrebbe dire, biblicamente, che attinge al tempo qualitativamente salvifico per noi, al kairòs.

Guardare con occhi nuovi le cose non è possibile senza sapere di essere guardati ed amati. Dal concreto invisibile passiamo al concreto trasformato nella misura in cui vediamo il concreto trasfigurato. La trasformazione senza la trasfigurazione è attivismo senza anima, come la trasfigurazione che non diventa trasformazione della realtà, è intimismo senza consistenza storica. La sintesi tra trasfigurazione e trasformazione è quanto di meglio ci possa essere per il credente. Infatti chi presagisce che nella sua stessa profondità il reale è diverso da quanto non sembri a prima vista, farà di tutto perché si manifesti qual esso è, così come l’artista intuisce la figura nel tronco sofferto o in una radice contratta di un albero e la trasforma in opera d’arte.

La complessità dei segni dei tempi va ulteriormente gravata da situazioni ambivalenti sia negli agenti che nel loro agire e nei loro progetti. Così, ad esempio, in una società come quella del Meridione, o in generale del Sud o delle periferie del mondo, gli stessi soggetti storici del cambiamento non sono sempre individuabili con facilità. Alcune volte l’accomodamento a situazioni di violenza e di emarginazione, dovuto certamente ad una lenta e progressiva introiezione della violenza subita, costituisce un serio ostacolo a ciò che si chiama cambiamento e trasformazione. La società che emargina riesce, in non pochi casi, anche a rendere stabile l’emarginazione. Produce non solo le catene, ma anche i fabbri che costruiranno sempre nuove catene. Altre volte le violenze diventano parte integrante di un sistema, di una struttura asimmetrica che produce gratificazione per alcuni (pochi) e miseria senza fine per altri (molti). Hanno luogo allora le cosiddette violenze strutturali. Rimuoverle sembrerebbe mettere in sommovimento l’intera impalcatura; spezzare le tante emarginazioni e porre fine alle tante violenze significa porre fine anche agli utili e agli interessi di altri che proprio su quelle prosperano.

Cosa può fare allora il popolo di Dio? La risposta non può essere che una, anche se va poi ulteriormente precisata nei singoli momenti e nelle tappe progressive: individuare un orientamento liberatorio e profetico; assecondarlo, vagliandolo alla luce della Parola di Dio, se già esiste; crearlo, anche a costo di essere pionieri, se esso ancora non c’è. In tale vaglio la fede e la prassi progrediscono di pari passo ed investono, concentricamente, tutti i livelli vitali. Nella situazione della vita si comincia a cercare la persona; nella situazione della persona si cerca Dio e il suo progetto; nelle tante situazioni personali si cerca ciò che è comune e ciò che è movimento progressivo e liberante e nel movimento liberante comunitario e collettivo si cerca ciò che meglio risponde all’appello di Dio e al dinamismo ascensionale in cui ci ha immesso il Risorto.

3.2 Prassi kerygmatica e prassi sacramentale

È sintomatico il fatto che dal linguaggio ecclesiale ed ecclesiastico di questo decennio sia quasi scomparso l’aggettivo profetico. La chiesa di questi ultimi anni continua - giustamente - a insistere su termini come “comunione”, “evangelizzazione”, “missione”. Parla insistentemente anche della necessaria testimonianza che ogni cristiano deve dare nel mondo. Ribadisce che il carattere sacerdotale, di cui ogni membro del popolo di Dio è insignito, esige da ciascuno, compresi i laici, l’offerta di tutte le realtà terrene, così come il carattere regale domanda che le stesse realtà siano ordinate in vista del progetto di Dio e della conseguente utilità di tutti gli esseri umani. Tuttavia ha quasi dimenticato che il cristiano è anche profeta e in quanto tale ha dei corrispondenti compiti dentro e fuori della comunità ecclesiale. A noi sembra che una tale dimenticanza costituisca un grosso limite teologico e che la riscoperta della evangelizzazione, in quanto tale, non possa essere disgiunta da una serena quanto coraggiosa ripresa dell’assunto teologico della dimensione profetica che caratterizza ogni battezzato. La lezione del Vaticano II torna anche in questo caso di grande attualità:

«Non vi è dunque nessun membro che non abbia parte nella missione di tutto il Corpo, ma ciascuno di essi deve santificare Gesù, nel suo cuore e rendere testimonianza di Gesù con spirito di profezia»[173].

Il testo richiama esplicitamente ciò che dice dei laici la costituzione sulla chiesa Lumen gentium:

«Cristo, il grande Profeta, il quale e con la testimonianza della vita e con la virtù della parola ha proclamato il Regno del Padre, adempie il suo ufficio profetico fino alla piena manifestazione della gloria, non solo per mezzo della Gerarchia, la quale insegna in nome e con la potestà di Lui, ma anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni e li forma nel senso della fede e nella grazia della parola ( cf. At. 2,17-18; Ap. 19, 10), perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale. Essi si mostrano figli della promessa, se forti nella fede e nella speranza mettono a profitto il tempo presente ( cf. Ef 5, 16; Col. 4, 5) e con pazienza aspettano la gloria futura ( cf. Rom. 8, 25). E questa speranza non la nascondano nell’interno del loro animo, ma con una continua conversione e lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro gli spiriti maligni” (Ef 6,12) la esprimano anche attraverso le strutture della vita secolare»[174].

Il testo continua accostando la funzione del laico nella storia a quella dei sacramenti:

«Come i sacramenti della Nuova Legge, alimento della vita e dell’apostolato dei fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una nuova terra ( cf. Ap. 21, 1), così i laici diventano efficaci araldi della fede delle cose sperate (Cf. Eb. 11, 1), se senza incertezze congiungono a una vita di fede la professione della fede»[175].

Il Concilio precisa infine che la missione profetica del laico passa attraverso la testimonianza della vita e della parola, anteponendo la prima alla seconda:

«Questa evangelizzazione o annunzio di Cristo fatto con la testimonianza della vita e con la parola, acquista una certa nota specifica e una particolare efficacia, dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni del secolo»[176].

La profezia è allora una dimensione fondamentale dell’esistenza cristiana. Ritornarvi è un dovere per tutta la comunità ecclesiale, così come è necessario farvi continuo riferimento tanto nell’attività kerygmatica verso i lontani, che in quella formativa verso i vicini.

3.3 Prassi cristiana tra mistica e politica

La testimonianza con la vita è la prima e la migliore forma della euangelìa. Ma testimoniare non vuol dire solo professare pubblicamente la propria fede. Prima ancora che un termine forense, così come noi spesso l’intendiamo, la martyrìa è un termine cristologico, è martyrion, è sequela. La confessione della fede è riconoscere Cristo nella persona di Gesù[177], ma non può limitarsi a proclamare «Signore, Signore»[178]. Ciò non è bastato nemmeno per Pietro, la cui confessione di fede teorica non costituiva ancora la disponibilità a seguire Gesù sulla strada verso Gerusalemme. Rendere testimonianza non è dunque solo affermare con la bocca «tu sei il Cristo» (Mc 8,29). Ma è molto di più: è disponibilità a giocarsi tutto per seguirlo, persino la propria vita:

«Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà. Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?”» (Mc 8,34-36).

La martyrìa non può essere pertanto semplice attestazione della verità, ma è molto di più: è fare la verità.[179] Una verità che può assorbire totalmente il presente, ma può ipotecare anche il futuro, mettendolo a repentaglio. Così è successo anche in questi nostri ultimi anni, per alcuni che hanno preso sul serio insieme con la crocifissione e la risurrezione di Cristo anche la crocifissione e risurrezione del popolo di Dio.

Due soli esempi, mons. Oscar Romero e padre Ignacio Ellacuría. Il primo, a chi gli ricordava i rischi che correva, a motivo del suo instancabile impegno per il suo popolo di poveri, soleva dire: «se mi uccideranno, so che risusciterò nel mio popolo salvadoregno». Fu assassinato il 23 marzo del 1980. Nel suo Diario si trovano passaggi come questo:

«Domenica 22 aprile [...] Di sera ho celebrato la santa messa nella parrocchia della Resurección [...] Il tema della predica è stato: “La comunità parrocchiale continua, sospinta dal soffio del Cristo Risorto, la missione della Chiesa che Cristo le ha affidato”. Questa missione suppone croce e martirio, come testimoniava la tomba di padre Navarro, parroco assassinato nella sua stessa parrocchia. Ma è un dolore che viene assunto nella trasformazione nella vittoria di Cristo risorto, così come Lui ha assunto la sua croce e le sue umiliazioni nel merito glorioso della sua risurrezione»[180].

La testimonianza e il relativo martirio non tocca evidentemente solo i responsabili delle singole comunità, ma proprio come la storia dell’America centrale di questi ultimi decenni dimostra, tocca anche le comunità come tali, i suoi catechisti, i laici impegnati, le suore e quanti praticano un servizio anche solo di attenzione, prima ancora che di liberazione[181].

Certamente una cosa è parlare di martyrìa nelle comunità cristiane dell’Europa altra cosa è parlarne in paesi provati dalla persecuzione e dal martirio reale. Padre Ignacio Ellacuría, assassinato con altri testimoni[182] il 16 novembre 1989 a causa del suo impegno teologico per la liberazione del popolo salvadoregno, in una pubblicazione apparsa solo dopo la sua morte, aveva parlato dell’intera chiesa dei poveri come di un popolo crocifisso:

«Per popolo crocifisso qui intendiamo quella collettività che forma la maggioranza dell’umanità e deve la sua situazione di crocifissione a un ordinamento sociale promosso e sostenuto da una minoranza che esercita il suo dominio in funzione di un insieme di fattori che, nel loro insieme e per la loro incidenza storica, devono essere considerati peccato»[183].

La sua assimilazione del popolo oppresso dalla miseria alla crocifissione di Cristo nasceva dalla necessaria attenzione alla storicità dell’annuncio del regno, dell’annuncio della buona novella. Un annuncio che, per essere autentico, sa congiungere cristologia ed ecclesiologia, sequela e politica:

«Per capire cos’è il popolo di Dio, occorre guardare attentamente la realtà che ci circonda, la realtà del nostro mondo dopo duemila anni di esistenza della Chiesa, dopo duemila anni dalle parole di Gesù che annunciavano l’approssimarsi del regno di Dio. Questa realtà è fatta dall’esistenza di una gran parte dell’umanità letteralmente e storicamente crocifissa da oppressioni naturali e, soprattutto, da oppressioni storiche e personali»[184].

La salvezza non è mitologica. Non è nemmeno pura salvezza intimistica. È tuttavia una realtà che investe l’esistenza personale fin nelle sue fibre più intime, così come investe la nostra co-umanità, l’essere insieme, l’uno con l’altro. Ciò significa la dimensione collettiva (politica) della salvezza:

«Considerare una collettività soggetto della salvezza non solo non è estraneo alla Scrittura, ma addirittura trova in essa il suo senso originario. Per esempio, un individuo può costituirsi servo di Jahvè solo in quanto membro del popolo di Israele (J. Jeremias), perché la salvezza è offerta primariamente al popolo e nel popolo»[185].

Ma tornando alla nostra situazione, occorre dire che noi apparteniamo a quell’altra parte dell’umanità, quella che ancora commette il peccato sociale. Con un’aggravante: viviamo oggi in un’epoca storica che ha visto la delusione dei grandi progetti collettivi mentre le nuove mode impongono termini e programmi come privatizzazione ed economia di mercato. Ecco uno dei nuovi idoli da cui ci si aspetta automatica e inarrestabile salvezza: l’economia di mercato. Non ci rendiamo conto, che così facendo, non siamo avanzati nemmeno di un passo verso quella che è stata, a ragione, chiamata religione borghese. E così può accadere ancora che il nostro messaggio invece di essere liberante sia tranquillizzante ed accomodante. Esigiamo rigorosità, invece di radicalità, mentre facciamo appello continuamente alla conversione del cuore, dimenticando la trasformazione delle strutture da strutture di peccato e di oppressione a strutture di salvezza e di condivisione[186]. Vogliamo costruire la civiltà dell’amore lasciando immutata l’economia di mercato? Possiamo davvero cambiare l’uomo senza pretendere che cambi la società? È invece tempo di quella conversione del cuore borghese, di cui parlava, inascoltato, J. B. Metz, che vi vedeva una “rivoluzione antropologica”, in quanto:

«i cittadini del primo mondo devono liberarsi non dalla loro impotenza, ma dalla loro superpotenza, non dalla loro povertà, ma semplicemente dalla loro ricchezza, non dalla loro penuria, ma dal loro totale consumismo, non dalla loro sofferenza, ma dalla loro apatia...»[187].

La vera conversione dunque, quando vuol essere autentica e non semplice escamotage per mantenere i propri privilegi, non può appellarsi alla mera conversione del cuore, ma dovrà essere conversione integrale. La predicazione non può né deve ignorarlo, se non vuole ridursi a parenesi esortativa che non smuove l’esistenza, né riesce a cambiare la società. Può consolarsi pensando di cambiare gli animi. In verità, ci si accorgerà ben presto che non ha cambiato nemmeno quelli.

3.4 Missione e pedagogia degli oppressi

La conversione integrale presuppone una predicazione integrale. Se una larga parte dell’umanità è tuttora crocifissa, quale compito si apre davanti a chi si vuole realmente convertire e vuole continuare nell’oggi la liberazione di cristio? Prendiamo ancora in prestito alcune domande di padre Ignacio Ellacuría:

«Questa realtà risveglia nello spirito cristiano una domanda ineludibile che ne abbraccia molte altre: cosa significa per la storia della salvezza e nella storia della salvezza il fatto di questa realtà storica che è la maggioranza dell’umanità oppressa? Può essere considerata storicamente salvata anche se continua a portare su di sé i peccati del mondo? Può essere considerata salvatrice proprio perché porta su di sé il peccato del mondo? Che rapporto ha con la Chiesa in quanto sacramento di salvezza? Questa umanità sofferente costituisce qualcosa di essenziale al momento di riflettere sulla natura del popolo di Dio e del Chiesa?»[188].

Il lavoro pastorale, e in genere qualsiasi teologia pratica, non può prescindere da quella metodologia pedagogica primaria che abbiamo già considerato essere la pedagogia di Dio e di Gesù Cristo. Non solo deve avere come traguardo la solidarietà liberante e comunitaria, ma deve praticare quella stessa solidarietà nell’adempimento del suo compito missionario. La missione stessa qui diventa pedagogia e la pedagogia assume i requisiti di una prassi teologale, che ha Dio non solo come ispiratore primo e ultimo, ma attualizza nell’oggi la sua comunicazione che è sempre e comunque liberazione e vocazione alla comunità, perché vocazione alla vita con la Trinità.

La missione è, di conseguenza, l’assunzione di questa pedagogia primaria che annuncia la liberazione praticandola, e diffonde il messaggio della solidarietà vivendola come impulso primo e modulo continuo. Ogni altra pedagogia, quella dell’uso dei mezzi più opportuni e più comprensibili per l’uomo di ogni epoca, non può che innestarsi su questo primo tracciato e non può entrare in conflitto con esso, perché ciò significherebbe non solo svendere il contenuto dell’annuncio ma la sostanziale infedeltà al messaggio e all’artefice ed operatore primo del vangelo.

L’assunzione della propria responsabilità non deve assecondare la tendenza, che talvolta si riscontra nella chiesa, a vivere la diaconia come luogotenenza: come se Dio se ne fosse andato, delegando, soprattutto alla gerarchia, l’ordinaria amministrazione, o come se Cristo fosse diventato capo onorario della sua comunità, lasciando in essa un capo “visibile”, che poi sarebbe il capo effettivo. Né il papa deve essere considerato “vice-Cristo”, né i ministri con ministero ordinato i luogotenenti amministratori dell’invisibile. Per quanti hanno l’ufficio del governo l’appellativo, pur antico, di essere “vicari di Cristo” non può assolutamente giustificare una visione teologicamente dicotomica, che divide la dimensione storica e quella escatologica, la realtà mistica e quella visibile e societaria del popolo di Dio. Se la socialità non è semplice aggregazione, ma comunità e partecipazione alla comunione intratrinitaria, la Trinità rimane autrice e attrice primaria della vita della chiesa di ogni tempo.

La missione è per questo motivo innanzitutto una presa di coscienza: l’essere chiamati e salvati insieme con gli altri e per gli altri da Dio. Egli continuamente ci chiama e ci salva, egli ci manda perché il nostro metodo non diverga dal suo e la nostra pedagogia sia ancora la sua stessa pedagogia: farsi prossimo e assumere solidalmente non solo i pesi, ma anche la croce dell’altro e la sua ansia di liberazione.

3.5 Prassi dell’animazione sociale

Ciò che abbiamo qui indicato come prassi dell’animazione sociale deve essere ben inteso. Animazione sociale non può voler dire una qualsiasi forma di aggregazione, senza ulteriore qualificazione. Il discorso deve sempre restare nell’alveo e secondi i principi più generali dell’attività kerygmatica e di quella liberante. Ogni comunità deve poter individuare gli ambiti in cui l’intervento è più urgente. Deve compilare una mappa di priorità, sulla base della conformazione sociologica del territorio e della tipologia umana con cui ha a che fare. Altro è ciò che si deve fare, ad esempio in una parrocchia rurale dove regni ancora l’analfabetismo (primario o di ritorno), altro è ciò che occorre intraprendere in una periferia di una metropoli dove i problemi sono quelli della disgregazione, dell’indifferenza, dell’anonimato, della tossicodipendenza, dell’alcolismo.

L’aiuto fornito da tutti gli strumenti, dalla sociologia alla psicologia, dagli assistenti sociali fino all’opera preziosa del volontariato, deve poter rientrare in una progettualità operativa, che sia unicamente finalizzata a che le persone siano più persone, che gli esseri umani siano più uomini. Non deve tendere a farne dei proseliti, o dei futuri clienti delle nostre diverse organizzazioni ecclesiali, ma in primo luogo deve avere l’obiettivo della crescita delle persone.

La domanda che si affaccia è come coniugare insieme l’evangelizzazione con l’animazione sociale, evitando gli errori di facili strumentalizzazioni e di ambigue commistioni. Si può rispondere che l’equilibrio non è dato in antecedenza, ma è la risultante di una continua ricerca. La comunità cristiana ha gli strumenti idonei per un discernimento da operare ininterrottamente. Alla luce della Parola di Dio condurrà un’autorevisione serena e realistica del lavoro già compiuto, delle difficoltà incontrate e delle nuove situazioni che si sono venute a creare e che non erano preventivate. In genere quanto più le forme di aggregazioni sociali crescono, tanto più si deve favorire un loro effettivo sganciamento dall’attività pastorale vera e propria. Non per abbandonarle al loro destino, ma perché queste tendono, per loro natura, ad assumere conformazione e ruoli in maniera autonoma. Tendono e devono essere aiutate a darsi strutture democratiche di autogoverno. Agli operatori pastorali veri e propri basterà - e non è cosa da poco - che i cristiani restino, da testimoni convinti e competenti, nelle strutture aggregative. Non è questa forse la funzione del sale negli alimenti e del lievito nella pasta? L’efficacia di entrambi è innegabile, eppure sia l’uno che l’altro cominciano ad agire nel momento in cui scompaiono visibilmente.

Ma è ugualmente vero che in situazioni in cui tutto è ancora da costruire, l’attività pastorale dovrà farsi carico di una funzione di sostegno, se non addirittura di supplenza, per ciò che ancora non esiste con strutture e capacità autonome. Niente di male. Occorrerà semplicemente chiarire che tale funzione è provvisoria e mira a rendere autonomo ciò che può e deve agire autonomamente.

In genere, si può affermare che l’azione pastorale conserva pur sempre caratteristiche aggregative proprie. Sono quelle dovute alle forme associative che operano al suo interno: i vari raggruppamenti esistenti o da attivare: da quello dei catechisti, a quello liturgico, dal gruppo delle famiglie a quello dei cresimandi, a quello ovviamente costituito dal consiglio pastorale. In tali forme aggregative la comunità cristiana ha una sua autonomia propria. Ma proprio in queste forme autonome deve manifestarsi una capacità di relazione che si qualifichi come testimonianza cristiana da vivere al collettivo. Con le modalità provenienti dalla sua stessa ecclesialità, quella da noi chiamata sunklerìa, la comunanza alla stessa sorte, si esprime nella capacità alla contemplazione in quanto preghiera comunitaria e disponibilità all’ascolto della parola di Dio. Si esprime ancora attraverso una solidarietà che tocca i beni spirituali e quelli materiali. Solo in questa maniera la stessa celebrazione sacramentale avrà una sua effettiva trasparenza: una corrispondenza tra i gesti compiuti in chiesa e gli atti quotidiani nel mondo ordinario, e inoltre una significanza reale tra ciò che è rappresentato dal simbolo liturgico e quanto è alluso dai segni cultuali.

Schematizzando le varie impostazioni teologiche tra prassi pastorale, funzione del parroco (o altro animatore pastorale) e attività sociale, si possono elaborare diversi modelli.

CHIESA E SERVIZIO

 Modello n. 1

una chiesa di servizi

 Modello n. 2

una chiesa che è servizio

 

Elementi teologici

La chiesa è stata fondata da Cristo per la salvezza delle anime.

Suo compito è amministrare i sacramenti, mezzi di salvezza.

Elementi teologici

La chiesa è popolo di Dio segno e strumento di alleanza.

La risurrezione di Cristo è in essa dinamismo di liberazione per ogni uomo e per tutti gli uomini

Conseguenze pastorali

Offre tuttavia altri servizi per mantenere il suo posto nel mondo e attraverso questi annunciare il vangelo (scuole, ospedali, istituti etc.).

Delega ai laici l’impegno politico, sebbene intervenga discretamente e lo condizioni.

Chiede ai fedeli obbedienza cieca e ai non cattolici collaborazione per le sue opere.

Pratica la carità attraverso le strutture appositamente predisposte.

Conseguenze pastorali

È al servizio della liberazione e predica il vangelo con la parola e con la prassi, rifacendosi all’esempio di Gesù.

Esercita il discernimento profetico, attraverso l’annuncio di rapporti solidali e attraverso la denuncia delle ingiustizie.

Rinuncia ai privilegi e agli appoggi politici e tuttavia pratica la “politica” di Dio: la preferenza e la liberazione degli oppressi.

Pratica l’amore tanto al suo interno come condivisione, che all’esterno come difesa dei diritti dei singoli e dei popoli.

 

I due modelli qui confrontati devono essere considerati modelli di base per forme più elaborate e composite. Il primo esprime comunque quella tendenza generale rintracciabile nelle due impostazioni teologiche che abbiamo chiamato giuridico-gerarchico e misterico-carismatico. Pur nella differente ecclesiologia che le contraddistingue rispetto alla concezione della chiesa in sé stessa, l’impostazione giuridica e quella misterica convergono in ciò che caratterizza i rapporti della chiesa rispetto al mondo. Finiscono con il ritenere intoccabile, o almeno irrilevante, lo status quo di rapporti precedentemente ereditati. Al più arrivano a congetturare una sorta di automatica conversione delle strutture sociali, solo dopo la conversione degli animi.

Il secondo modello non vuole, a differenza del primo, offrire dei servizi. Pone la chiesa stessa e la stessa esistenza cristiana sotto il segno del servizio. Si rifà all’agire di Dio, in genere, e a quello di Cristo, in particolare, per proclamare ed effettuare la liberazione. Concepisce l’agire politico già implicito nella sua carica profetica e liberante. Vi ritorneremo successivamente.

PARROCO - COMUNITÀ - COLLOCAZIONE DEI LAICI

 

Modello n. 1: Parroco “tuttofare”

 

Parroco

 

Parola di Dio

Sacramenti

Presidenza

 

Attività profetica

(quasi inesistente)

Attività liturgica

(per lo più tradizionale e ritualistica)

Attività amministrativa

(gestione delle offerte, dei locali, dei pellegrinaggi, dell’”assistenza”)

 

Ruolo dei laici

 

Passivo

Passivo

Collaborazione materiale

 

 

 Modello n. 2: Modello “conciliare”

Parola di Dio

(riferimento costante per tutti i soggetti ecclesiali e per ogni attività)

Celebrazione eucaristica e altri sacramenti

(per la comunità e nella comunità)

 

Comunità

 

Parroco

(con il suo proprio ministero)

 

Collaboratori stabili

(secondo il proprio ministero e carisma)

Altri membri della comunità

(secondo il proprio ministero e carisma)

 

Attività profetica

 

Attività liturgica

 

Attività amministrativa

 

Altre attività ...

 

 

Quei modelli sopra considerati sono generatori di differenti e contrapposti “atteggiamenti pastorali” anche nell’ordinaria gestione di una comunità parrocchiale. L’annoso problema della corretta impostazione dei rapporti tra parroco-collaboratori e laici in genere si può dire che costituisca un reale problema solo nel modello numero 2, lì dove il parroco ha superato l’ideologia clericale e ritiene centrale non la sua persona ma il mistero che celebra (Parola e Sacramento). Nel modello numero 1 è invece ovvio che il parroco è capofila di ogni attività non solo liturgica, ma anche amministrativa e gestionale.

Gli schemi esaminati possono costituire non solo delle carte nautiche per verificare la propria ecclesiologia, ma anche degli indicatori per capire verso dove tende il proprio agire pastorale. Sono stati concepiti come schemi orientativi generali che ciascuno deve riscrivere sulla base della sua esperienza e delle sue acquisizioni teologiche personali. Chiudono comunque questo capitolo che verificando le attività fondamentali del popolo di Dio, vuole offrire anche l’occasione di una verifica non solo teologica, ma anche pastorale.


 

4 CAPITOLO
Prassi pastorale come prassi delle beatitudini

I modelli precedenti vogliono trasferire sul piano grafico la differente concezione teologica tra impostazioni pastorali contrapposte. Anche nel caso dell’animazione sociale, si può dire che i due schemi principali restano, almeno per la nostra area geografica, quello clericale e quello conciliare. Lo schema conciliare parte dalla centralità della Parola di Dio e della celebrazione eucaristica, per farne la fonte e il culmine della vita cristiana, come di tutta l’evangelizzazione[189]. In questo schema, la cui validità è certamente indiscutibile, rimane tuttavia in ombra quella dimensione liberatrice della comunità credente senza della quale il popolo di Dio non assume in pieno la prassi di Gesù. Al fine di chiarire questo aspetto che, come già accennavamo precedentemente, può ricongiungere la teologia della liberazione alla teologia della pace, occorrerà ritrovare l’importanza della liberazione degli oppressi nella stessa descrizione teologica del popolo di Dio.

4.1 Strutturazione sociale del popolo delle beatitudini

Sempre più frequentemente si sente l’espressione che «la pratica ecclesiale ha strutturalmente una dimensione sociale»[190]. Ciò vale non nel senso della teologia rinascimentale che ribadiva il valore della chiesa come società, in contrapposizione controversistica alla chiesa come realtà nascosta. Vale piuttosto nel senso della teologia dell’incarnazione. Parlando di effetti sociali prodotti dalla stessa pratica della fede, occorre dire che si tratta di effetti che comunque sono presenti, anche nel caso di una fede vissuta intimisticamente e secondo forme tradizionali, le quali, a prima vista, sembrerebbero del tutto disinteressarsi della società. E tuttavia, anche nel caso di una prassi lontana da quel modello ecclesiologico definito precedentemente modello storico-liberante, l’agire del cristiano e della comunità cristiana non è mai socialmente asettico e politicamente neutrale. Lo conferma in modo incontestabile l’esperienza storica. Infatti, sebbene la prassi ispirata dal modello giuridico-gerarchico e da quello misterico-carismatico non incida sulla realtà nella direzione della prassi liberante di Cristo, ciò non vuol dire che non abbia conseguenze sociali. Né si può cercare una soluzione nella direzione di una desocializzazione della comunità cristiana. Occorre, al contrario, vagliare la natura degli effetti della sua presenza nel mondo. Del resto che la chiesa abbia una sua rilevanza nella società deriva direttamente e immediatamente dal fatto che anche tutto ciò che le è proprio (gesti rituali, dottrina, pratiche, strutture e organizzazione) sono di natura pubblica e non possono non avere un’incidenza sociale.

Si può sintetizzare in diverse maniere la natura sociale della “pratica ecclesiale”. Si può riscoprire la natura storica della fede nella più autentica tradizione giudaico-cristiana, in cui la predicazione del regno di Dio è stata sempre collegata con la tendenza a organizzare la società nella giustizia. Più in generale, il rapporto con Dio è stato sempre congiunto, come si è detto più volte, con una nuova impostazione relazionale con il prossimo.

Inoltre, la socialità del popolo di Dio è implicita nella sua ecclesiologia, di qualunque impostazione teologica essa sia. Certamente ha ragione chi afferma che

«la pratica ecclesiale della fede ha degli effetti sociali, siano o no voluti per se stessi»[191].

Lo dimostrano non solo le tante associazioni e iniziative nate nel solco della prassi e della gestione della carità, ma la stessa attuale incidenza della presenza capillare di strutture legate al mondo della fede Ciò non vuol ancora dire che si tratta sempre di un’incidenza come quella da noi auspicata. In molti casi si è trattato e si tratta di una pur necessaria forma di supplenza ad ataviche o strutturali deficienze sociali e organizzative dello stato. In moltissimi casi di una presenza che assume le forme assistenziali di una cura diretta e immediata di quanti la società civile trascura. Anche per queste ragioni, la prassi della chiesa ha assunto sempre più la fisionomia di offerta e gestione di servizi. In realtà si deve coraggiosamente ammettere che solo in pochi casi tale prassi è rimasta effettivamente profetica ed è stata innovativamente determinante. Ciò è accaduto sia perché l’accordo della chiesa con gli organi sociali e statali creava una proficua simbiosi di scambio per entrambi, sia perché una prassi innovativamente politica è molto più scomoda e più difficilmente gestibile. Per questo la si delega, in genere, a persone e gruppi minoritari. Accade sovente che di fronte a questi “cani sciolti” ci siano inizialmente resistenze, censure e atteggiamenti di eccessiva prudenza, salvo il dover ammettere successivamente che proprio costoro hanno rappresentato il meglio del vangelo e costituiscono il migliore esempio di prassi cristiana.

A fronte di quest’esperienza già acquisita e per evitare il ripetersi di errori storici già commessi, si avverte oggi più che mai l’esigenza di ritornare a una prassi delle pratica credente che sia sufficientemente critica ed autocritica. Critica verso le forme di ingiustizia, di oppressione, di disuguaglianza generate dalla società dalla quale si è favoriti ed autocritica rispetto ai propri errori e alla tentazione ricorrente di accordarsi con i vincitori e con la classe dominante. Può essere questo «uno dei nuovi servizi che la Chiesa è indotta ad assumersi?» Quale?

«Quello della critica dell’organizzazione ingiusta, basata sulla disuguaglianza, ed oppressiva della società?»[192].

Può essere uno dei servizi. Meglio sarebbe se esso fosse l’unico, vero servizio intorno al quale possano ruotare tutti gli altri. Non perché gli altri siano tutti da comprimere o rendere funzionali, ma perché sono, invece, da giudicare a partire da questo discernimento, scaturente dalla stessa evangelizzazione. Solo se l’evangelizzazione è autoevangelizzazione, è veramente credibile. C’è di più: solo allora è veramente fedele al Vangelo al quale si richiama. L’autoconversione è il movimento spirituale, esistenziale ed ecclesiale che realizza quella che si deve chiamare autoevangelizzazione. È un processo che si può sintetizzare nell’espressione convertirsi a Cristo per convertire la chiesa.

È un itinerario in cui ciascuno può fare la sua parte, collegandosi continuamente alle proprie radici ecclesiali, coniugando il principio della conversione personale con quello della conversione collettiva. Il metodo del convertirsi nella chiesa e come chiesa si prefigge di offrire il proprio contributo per convertire la chiesa. In questa maniera si evita la pretesa di convertire gli altri, perché insieme ci si mette in stato di conversione. Solo così si può vivere seriamente e serenamente l’autoevangelizzazione, a partire dalla quale si può finalmente parlare dell’evangelizzazione degli altri. Nel processo attraverso cui il popolo di Dio diventa soggetto, perché l’autoevangelizzazione sia credibile, occorre chiarire sempre meglio, anche i contenuti e il metodo della evangelizzazione. Nella soggettivizzazione del popolo di Dio la contrapposizione talora esistente tra diverse funzioni e diversi soggetti ecclesiali (pastori e presbiteri, operatori pastorali e altri soggetti oggi operanti, religiosi e gruppi, movimenti ed associazioni), si può superare solo se ciascuno di essi si pone in stato di conversione.

In questo processo, l’evangelizzazione della società si deve effettuare anche sui contenuti trasmessi, che non possono divergere da quelli evangelici, sì da passare dalla tanto reclamizzata “pace del cuore” a una effettiva pace collegata con la giustizia e con la crescita della corresponsabilizzazione dei cristiani. Ma ciò ha notevoli effetti anche sulla scelta degli strumenti, che non possono essere in contraddizione con il vangelo, fino a poter parlare di evangelizzazione anche degli strumenti adoperati. Di essi alcuni devono essere accantonati perché contrari al vangelo (propagandismo, burocratismo, formalismo, trionfalismo, ricerca di potere, alleanze con i potenti ecc.), e si deve ritornare a un metodo che sia il più vicino al metodo di Gesù e degli apostoli (povertà, semplicità, comunicazione personale e diretta, critica alle forme oppressive dell’uomo ecc.).

4.2 Il popolo di Dio che riconcilia la storia

Per compiere un’autoevangelizzazione liberante c’è bisogno di una crescita ecclesiologica che porti a una concezione della chiesa non solo come popolo di Dio, ma anche come soggetto storico. Allo stato attuale della teologia, l’espressione è pienamente legittima, anche se non sono state tirate tutte le conseguenze che tale concezione porta inevitabilmente con sé. Sulla validità dell’espressione soggetto storico applicato al popolo di Dio basta citare la Commissione teologica internazionale, la quale ha precisato:

«Secondo l’intima intenzione della costituzione conciliare Lumen Gentium, intenzione non contraddetta dalla riflessione postconciliare, l’espressione “popolo di Dio” adoperata unitamente ad altre denominazioni per indicare la Chiesa, mira a sottolineare il carattere sia di “mistero” sia “soggetto storico” che in ogni circostanza la chiesa attualizza e “realizza” in modo indissociabile»[193].

È stata così confermata e ribadita l’unità tra i due principali aspetti ecclesiologici qui in gioco: il legame del popolo di Dio con Cristo e, tramite lui, il suo radicamento nel mistero trinitario di Dio. Questo duplice carattere teologico è fondamento della soggettività storica della chiesa:

«ora proprio perché si riferisce a Gesù Cristo e allo Spirito, il nuovo popolo di Dio si costituisce nella sua identità di soggetto storico”[194].

La dimensione storica della chiesa rimanda qui non all’evento della sua fondazione da parte di Gesù, ma alla sua particolare identità storica, per cui il popolo di Dio sa di essere convocato e mandato da Dio. La commissione precisa la natura della missione in questi termini:

«in quest’ottica, la missione, che costituisce il fine storico del popolo di Dio, provoca un’azione specifica, che nessun’altra azione umana può sostituire, azione insieme critica, stimolatrice e realizzatrice del comportamento degli uomini, nel cuore dei quali ognuno gioca la propria salvezza. Sottovalutare la funzione propria della missione e quindi ridurla non può che aggravare i problemi del mondo»[195].

Le precisazioni ulteriori indicano il carattere particolare di tale soggettualità storica del popolo di Dio, anche al fine di non giustificare alcun integrismo, sostituendo a progetti e attività intramondani autonomi, un insieme di progetti e un’esistenza tutta propria della chiesa. Riprendendo la spiritualità della lettera a Diogneto, le espressioni del documento citato non lasciano adito a dubbi :

«A tale proposito i membri del popolo di Dio non costituiscono un gruppo particolare che si differenzierebbe dagli altri gruppi umani sul piano delle attività con cui gli uomini, quali che siano, “umanizzano” il mondo. Per i membri del popolo di Dio, come per tutti gli altri uomini, esistono solo le condizioni ordinarie e comuni della vita umana che tutti, secondo la diversità della loro vocazione, sono chiamati a condividere in solidarietà»[196].

L’idea qui riportata ci sembra quella più fedele al testo e allo spirito conciliare. Se i cristiani devono lavorare “dall’interno” del mondo per la “santificazione” del mondo, devono farlo fermentandolo di spirito evangelico e contribuendo a

«rendere visibile Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della la loro vita e col fulgore della fede, della speranza e della carità»[197].

Ma ciò significa una corresponsabilità alle sorti del mondo stesso, in piena solidarietà con quanti già cercano di migliorarlo. Il popolo di Dio appare, anche per questa ragione, soggetto storico, perché agisce nella storia e per la storia umana, operando per la sua maturazione e fruttificazione nel senso voluto da Dio, ma non contrapponendosi agli altri o in concorrenza con loro, ma condividendo ciò che di valido è presente nel mondo.

4.3 Stranieri a casa propria e a casa propria in terra straniera

Il discorso finora sviluppato significa anche il pieno diritto di cittadinanza che il popolo di Dio ha nella stessa storia e il suo continuo movimento di trascendenza nei riguardi di essa. Da un lato, infatti, il popolo di Dio avverte la comune corresponsabilità e la solidarietà di tutta la vicenda storica umana, ma, dall’altra, sa che la storia rimare ancora in costruzione e che uno scarto qualitativo intercorre sempre tra ciò che essa è oggi e ciò che ancora deve diventare. Ciò ci riporta al paradosso già formulato nella Lettera a Diogneto, detta arche Discorso a Diogneto, dal nome del destinatario di questo splendida scritto paleocristiano, giunto a noi anonimo.

Illustrando la vita e le convinzioni dei cristiani l’autore scriveva oltre la metà del primo secolo, che essi

«pur vivendo in città greche o barbare - come a ciascuno è toccato - e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l’esempio di una vita sociale mirabile, o meglio - come dicono tutti - paradossale. Abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri; ogni nazione è la loro patria, e ogni patria è una nazione straniera [...]. Vivono nella carne ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi»[198].

I commentatori riportano anche i testi biblici sottostanti al paradosso. Relativamente alla vita non secondo la carne e alla cittadinanza del cielo, sono citati 2Cor 10,3 e Rm 8,12-13 e Fil 3,18-20. Ma a questi si potrebbero aggiungere molti altri, come il paradosso giovanneo «essere nel mondo, ma non del mondo» ( cf. Gv 15,19; 17,14-16) e la concisa ma efficacissima asserzione di Eb 13,14: «Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura». Del resto anche la lettera agli Ebrei, richiamando, lo stato pellegrinante degli appartenenti al popolo di Dio già nell’Antico Testamento, affermava:

«nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra» (Eb 11,13).

Ma ciò non faceva che attualizzare la stessa coscienza di pellegrinaggio di Abramo: «Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi» (Gn 23,4) e del popolo di Dio in genere. Si tratta di una coscienza ininterrotta e generale, che il popolo di Dio non ha mai dimenticato, come dimostrano alcuni salmi, composti in differenti epoche storiche. Cosi, ad esempio, il Sal 39,13 prega con intensità: «Non essere sordo alle mie lacrime, perché io sono un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri». Il Sal 119,19 confessa: «Io sono straniero sulla terra, non nascondermi i tuoi comandi». Vi è sullo sfondo la lapidaria affermazione di Dio in Lv 25,33:

«Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri ed inquilini».

Il posto d’onore che la pratica dell’accoglienza e dell’ospitalità ha sempre avuto nella comunità cristiana nasce da queste premesse. Dall’esperienza del passaggio e dell’esilio deriva una particolare sensibilità del popolo di Dio verso chi vive in esilio e si trova a condividere il suo passaggio. Anche lo straniero poteva celebrare la pasqua del Signore in Israele, pur con le condizioni di Es 12,48. L’ospitalità, caldamente raccomandata anche nel Nuovo Testamento, ha un fondamento teologico suggestivo e impegnativo: l’ospite segna il passaggio di Dio, è un suo messaggero. La Lettera agli Ebrei insiste:

«Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).

L’accoglienza dell’altro come messaggero di Dio, la convinzione che siamo tutti stranieri e concittadini nello stesso tempo sono pertanto la base di una spiritualità che tenta di conservare l’indole peregrinante di tutto il popolo di Dio. Una spiritualità che è tuttavia consapevole che non solo il soggetto, ma l’intera compagine ecclesiale è soggetto storico. È un’idea che, sviluppata e approfondita meglio di quanto si possa fare qui, potrebbe forse offrire la soluzione al problema riguardante la simultanea e convergente soggettivizzazione dell’esistenza singola e dei gruppi sociali, soprattutto di quelli più poveri e più bisognosi di dimostrare a se stessi e agli altri la loro effettiva dignità di figli di Dio. Buona parte della teologia contemporanea europea ha tentato finora, di percorrere la strada della valorizzazione dell’esistenza individuale, sì da giustificare in primo luogo «il credente come soggetto di storia», cosa che è stata giudicata negativamente da altri[199]. Nulla però vieta, come è stato già osservato, di operare una sintesi tra il valore di soggetto della singolarità personale e quello della realtà collettiva recuperabile all’interno della teologia del popolo di Dio. Non è un’occasione soltanto teorica, ma può essere anche un autentico kairòs”: riuscire a saldare insieme la responsabilità che ciascuno ha di compiere in solitudine le proprie scelte[200] con la scelta ecclesiale di una promozione reale del soggetto collettivo. Ma ciò ci apre all’ultima sezione del nostro discorso, relativamente alla pedagogia e teologia degli oppressi.

4.4 Dalla pedagogia degli oppressi alla teologia degli oppressi

Ad una riflessione teologica, che cerchi di cogliere il valore della storia, non sminuendo né il valore dell’intervento di Dio e nemmeno il valore dell’agire del singolo e del popolo credente, non sfuggirà che le soluzioni proposte non sono generalmente capaci di sopportare quella dimensione teo-antropologica della storia medesima che fa sì che essa sia contemporaneamente sotto l’influsso dell’agire di Dio e sia opera della prassi dell’uomo[201]. La qualificazione della prassi nella storia come teologale[202], non pone Dio e l’uomo in antitesi, ma vede la storia stessa nel contesto della grazia e della collaborazione umana, della vocazione di Dio e della risposta umana. Essa ci consente di parlare di una realtà teo-antropologica[203] della storia, facendoci ravvisare in essa un progetto complessivo, che viene da Dio, e l’insieme di atti che nascono nella capacità prototipicamente umana della prassi, che risponde al Suo appello. L’alternativa allo storicismo e al positivismo, siano essi di natura scientifica che di natura mitologica greca o indiana, può essere costituita solo da una concezione che inglobi il progetto e l’esecuzione, il fine e i mezzi, per pervenire ad un obiettivo. Che includa anche l’interazione tra Dio e uomo e tra uomo e uomo. Come giustamente ritengono anche altri[204] questa visione della storia coglie la prassi come intenzione realizzata, cioè come tensione verso e pro-gettarsi in avanti dello spirito, in una fattibilità prospettica che è azione, ma proprio perché tale, è intimamente collegata ad un’idea. Se la storicità è allora un ritmo ininterrotto di «progetto-esecuzione, idea-realizzazione, che costituisce la cellula dell’uomo»[205], la storia salvifica, non può essere compresa al di fuori di una progettualità complessiva, quella divina, comunicata e affidata alla collaborazione umana, e per quanto qui ci interessa, ad esseri umani associati in una comunità che Dio stesso convoca come luogo e strumento di salvezza. Una salvezza che abbraccia la storia e in essa proprio l’uomo come suo collaboratore, che in obbedienza al suo piano salvifico, sia intelligente e partecipe.


 

[1]Riteniamo che non si trovi nessuno che non sia d’accordo con questa chiara formulazione dell’inscindibile interconnessione tra il pensare e l’agire e che troviamo felicemente formulato nel testo seguente: «Mi sembra che, almeno nella nostra maniera di lavorare in teologia, noi non possiamo separare l'ortodossia dalla ortoprassi. Non possiamo separare: non possiamo dire “una è più importante dell'altra”; a volte non si può dire questo. Se io chiedo: cosa è più importante, dormire o mangiare? Impossibile da dire, se non mangiate dormirete definitivamente. Le due cose sono necessarie per la vita umana, e in questo caso è lo stesso. La confessione, l'affermazione teorica, affermare la verità, è un punto molto importante. Allo stesso tempo dobbiamo “fare la verità”, come è detto nel vangelo di Giovanni. Fare la verità, non soltanto pensarla o dirla, ma farla. Ortodossia e ortoprassi sono le due dimensioni della vita cristiana» [G. Gutiérrez, «Le teologie del Sud», in Mosaico di pace, 4 (1993/2) 18-22, qui 20].

[2]Gv 3,20-21: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

[3]«Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”» (Gv 14,6).

[4] «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,13-16).

[5]In Gesù avveniva l'identificazione che Michea, faceva tra il messia e la pace, quando preannunciandone la venuta affermava: «e sarà lui la pace» (Mi 5,4). Così come si trova in alcune accurate traduzioni di questo passo, il Messia è la Pace e non piuttosto egli porterà la pace. Cfr. Das Neue Testament, la traduzione adottata dalle conferenze episcopali di lingua tedesca, che traduce: «Und er wird der Friede sein».

[6]A questo proposito cfr. Initiation à la pratique de la théologie. L’opera, diretta in francese da B. Lauret e F. Refoulé, porta la data del 1982. È stata tradotta in italiano come. Iniziazione alla pratica della teologia, voll. 1-5, Queriniana 1986. È a questa edizione che faremo riferimento. Si trattava di una nuova iniziazione, che riprendeva, superandola decisamente, la prima initiation théologique, di impostazione tomista, pur con aggiornamenti biblici e patristici, che era apparsa ai primordi degli anni cinquanta e aveva ottenuto un grande successo editoriale. Il titolo generale Iniziazione alla pratica della teologia, opportunamente lasciato anche nell’edizione italiana, contiene due lemmi che la teologia di questi ultimi anni ha ulteriormente ripreso, pur non avendoli ancora adeguatamente approfonditi: l’iniziazione e la pratica della teologia. Se il primo concetto è di prevalente dominio della liturgia, ciò non vuol dire che esso resti solo in quell’ambito. L’iniziazione è molto di più che l’introduzione accurata e graduale a una pura e semplice pratica cultuale.

[7] Mi permetto di rimandare ancora a G. Mazzillo, «Legittimità di una teologia dal contesto», in Vivarium 1 n.s. (1993) 51-63.

[8] In questi termini di ministero e di autentica vocazione e perfino missione viene considerato il lavoro teologico dal testo Congregazione Per La Dottrina Della Fede «La vocazione ecclesiale del teologo, 26.6.1990», in: Il Regno/Documenti 25 (1990\15) 469ss. Cfr. anche Presbyteri 24 (1990/8), che porta il titolo significativo: Teologi una vocazione dallo spirito.

[9] K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 69.

[10]Presagire deriva da prae (innanzi) e sagio - ire, che vuol dire fiutare , avere i sensi, o lo spirito, penetranti.

[11] W. Post, «Theorie und Praxis», in K. Rahner (ed.), Herders Theologisches Lexikon 7, 263-268.

[12] In realtà il primo termine indica l’esaminare il secondo l’investigare.

[13] Cfr. Ivi, 265.

[14] I passi citati sono Topica (145) e Metafisica (1025 b 25 ss):  cfr. W. Pannenberg, Epistemologia e Teologia, Queriniana, Brescia 1975, 219, che rimanda a E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung II/2,5 ed., 1963.

[15] Sull’intera questione  cfr. M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, Jaka Book, Milano 1985. L’autore racconta anche le incomprensioni incontrate da Tommaso, che per aver ribadito il carattere scientifico della teologia, fu guardato persino con scetticismo e sospetto da quanti ritenevano una tale legittimazione scientifica un deprezzamento della teologia. Tra questi lo stesso papa Gregorio IX, autore di una lettera sui teologi di Parigi dei quali lamentava una «commistione adulterina con la dottrina dei filosofi» (Cfr. Ivi, 47-48). A Parigi e a Napoli Tommaso poté continuare a insegnare ugualmente, anche se i suoi oppositori dopo la sua morte (1274), riuscirono a far condannare gli “errori” del suo pensiero. I sospetti continuarono per circa un mezzo secolo, quando ad opera di Giovanni XXII la dottrina di Tommaso fu pienamente riabilitata ai principi rivelati di Dio.

[16] La Summa Theol. nell’art. 2 della I quaestio afferma esplicitamente che la teologia è una scienza subalterna ai principi della scienza di Dio. Ma Pur comprendendo tanto l’aspetto teorico e quello pratico, «la teologia è più teorica che pratica perché, di fatto, si occupa più delle cose divine che degli atti umani» (Ivi, art. 4).

[17] Ordinatio I, n. 297.

[18] Lutero, WA TR 1, n. 153 (citato da W. PANNENBERG, Epistemologia..., op. cit., 222).

[19] Lutero, WA 40, 2, 328, 17, così annota ancora Pannenberg, che sottolinea il taglio esistenziale e pastorale del concetto di teologia come scienza pratica (Ivi).

[20] G. Alsted,  Methodus sacrosanctae theologiae, Hannover 1623.

[21] Per Schleiermacher, Troeltsch e Barth cf. W. Pannenberg, Epistemologia…, cit. 242-262.

[22] Cf. . W. Pannenberg, Epistemologia…, cit. 264ss.

[23] Il pensiero di Hegel sulla prassi (cfr. Vorrede zu den Grundlinien der Philosophie des Rechts) è, a ragione, presentato come differente tanto da quello di Platone, che da quello di Fichte. Per il filosofo greco la prassi era superata continuamente dall’idea, e dunque dalla teoria, ad essa preesistente e ad essa ogni prassi continuamente si riferiva. Per Fichte la teoria costruisce , dandole concrezione oggettuale, la prassi.

[24] VI, 3-4.

[25] Cfr. Summa Theol. II, I, q. 3, a. 2; q. 111, a. 2; II, I, q. 57 a. 4.

[26] M. Blondel, L’azione. Saggio di una critica della vita e d’una scienza della prassi, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1993 (l’originale è del 1893).

[27] Ivi, 65.

[28] J H. Newman, Saggio di una grammatica dell’assenso (1970), così citato da G. Reale / D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi 3, La Scuola, Brescia 198911, 532.

[29] Così la tesi 2, citata da E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung I, Suhrkamp, Frankfurt a M., 1980, 311.

[30] «Werden die theoretischen Bedürfnisse unmittelbar praktische Bedürfnisse sein? Es genügt nicht, daß der Gedanke zur Verwirklichung drängt, die Wirklichkeit muß sich selbst zum Gedanken werden». La citazione è tratta da Zur Kritik der Hengelschen Rechtsphilosophie, in K. Marx - F. Engels, Werke I, Berlin 1968, 386.

[31] V. I. Lenin, «L’”estremismo” malattia infantile del comunismo», in Opere XXXI, 96 (citato da F. A. Del Val, «Prassi», in M. Martini (ed.), Dizionario di filosofia contemporanea, Cittadella, Assisi 1979, 44.

[32] M. Blondel, L’azione. Saggio..., op. cit., 579.

[33] Ivi.

[34] Alcune affermazioni dell’Umani Generis, del 1950 e allusioni dell’enciclica Pascendi (Ds 3477, 3481) sembrano prendere di mira il pensiero di Blondel, il cui equilibrio fu peraltro reso precario da Laberthonnière: Solo successivamente si chiarì che però Blondel non cadeva sotto la censura del magistero ( cfr. Lettera di Montini a Blondel: La vie intellectuelle 17 (1945) 40). Sulla posizione di Blondel a proposito della cosiddetta apologetica dell’immanenza  cfr. K. H. Schelkle, «Apologetik. IV Immanenzapologetik», in Herders-Theologisches Lexikon 1, cit., 165-167.

[35] Sono fondamentali di W. James, Pragmatismo, del 1907 e J. Dewey, Esperienza e natura, del 1925.

[36] Cfr. E. Durkheim, La scienza sociale e l’azione, Il Saggiatore, Milano 1972.

[37] Cfr. L’interazionismo simbolico, in particolare: G. H. MEAD, Mente, sé e società, Barbera, Firenze 1966.

[38] Cfr. J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo I. Razionalità nell'azione e razionalizzazione sociale, Il Mulino, Bologna 1986;

[39] Cfr. J. Thibaut- H. Kelley, The social psichology of groups, New York 1959.

[40] Cfr. R. F. Bales, Interaction process analysis, s.l., 1953.

[41] Cfr. J. L. Moreno, Principi di sociometria, il Mulino, Milano 1964 e T. Newcomb, The acquaitance process, New York 1961. Cfr. ancora M. Sherif, L’interazione sociale, il Mulino, Bologna 1972.

[42] Cfr. J. Moltmann, Che cos’è oggi la teologia?,Queriniana, Brescia 1991, 6ss.

[43] Ivi, 7.

[44] Per una informazione relativa alle grandi religioni e alle culture ad esse connesse  cfr. G. Mazzillo, L’uomo sulle tracce di Dio, ESI, Napoli 2005 e Aa.Vv. Le religioni del mondo, Paoline, Roma 1984.

[45] Cfr. H. Waldenfels, Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 276-291.

[46] Cfr. R. Panikkar, Culto e secolarizacion. Apuntes para una antropología litúrgica, Ediciones Marova, Madrid 1979.

[47] G. Van Der Leew, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975, 192.

[48] Anche Buber fa un diretto riferimento a quel coacervo ancora indistinto eppure interessante in cui presso alcuni popoli si coglie la relazione: «Questo carattere relazionale proprio degli inizi, ma che si protrae per lungo tempo, di tutti i fenomeni essenziali, facilita pure la comprensione di un elemento spirituale della vita primitiva; è tra i più seguiti e trattati, anche se non ancora sufficientemente afferrato, dalla scienza contemporanea. Si tratta di quella forza del tutto misteriosa rintracciata sotto molte forme nelle credenze o nella scienza (la stessa cosa sotto questo riguardo) di numerosi popoli primitivi; di quel Mana od Orenda, da cui si risale fino al bramanesimo nel suo significato originario e poi fino alla dynamis e alla charis del papiro magico e delle lettere degli apostoli» (M. Buber, Il problema dell'uomo, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1990, 16).

[49] V. Maconi, «Le religioni dei popoli privi di scrittura», in G. Castellani (ed.), Storia delle religioni 1, fondata da P. Tacchi Venturi, UTET, Torino 19706, 257‑258.

[50] Cfr. C. Leslie (ed.), Uomo e mito nelle società primitive. Saggi di antropologia religiosa, Sansoni, Firenze 1978, 235ss.

[51] Cfr. N.S. Booth, «Esempio 9: Religioni africane», in Aa.Vv., Le religioni del mondo, op. cit., 161‑165.

[52] Cfr. J. Fonda, «Le religioni dell’India», in G. Castellani (ed.), Storia delle religioni 5, op. cit., 275ss.

[53] Cfr. M. Lelong, «Comunità musulmana», in Grande Dizionario delle Religioni, diretto da P. Poupard, Piemme/Cittadella, Casale Monferrato (AL)/Assisi 19902, 363‑365.

[54] Riportiamo un parere, che è anche una breve sintesi storica, in margine al convegno patrocinato dall'Unesco, a Valenzia, dal 28 al 30-1-1998, avente come tema di fondo la responsabilità:  F. Volpi, «terzo millennio. Il decalogo è questo», in La Repubblica (80-1-1998) 36. Nel tema più generale della carta dei nuovi doveri, a cinquant'anni dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, l’autore scrive: «Quando nel 1948, all'indomani del conflitto mondiale e della scoperta dei crimini del nazionalsocialismo, fu stesa la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, la preoccupazione dominante era di rafforzare le protezioni dell'individuo contro gli eccessi del potere politico e i totalitarismi. Ampliando i principi della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, allora si intendevano tutelare le libertà fondamentali dell'individuo in modo che il contratto sociale fosse bene rispettato. Già qualche anno più tardi, tuttavia, la preoccupazione che si nota è diversa: si comincia ad avvertire come pericolo non solo l'eccesso di forza, ma anche la debolezza del Leviatano, cioè la sua capacità di soddisfare i nuovi diritti economici e sociali a cui gli individui aspirano in misura crescente. Documenti come il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Onu, 1966), la Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati (Onu, 1974) o la Dichiarazione sui diritti umani e sullo sviluppo scientifico e tecnologico (Onu, 1982) mostrano un'attenzione rivolta non più tanto alle libertà fondamentali quanto a diritti di natura economica, sociale e culturale. Al capitalismo selvaggio, in cui lo Stato tutela soltanto le libertà fondamentali e garantisce il libero gioco della concorrenza, si contrappone la rivendicazione di questi ultimi diritti invocando l'intervento attivo dello Stato per soddisfarli. Appare a questo punto evidente che i diritti possono essere garantiti solo individuando e impegnando il soggetto cui imputare i corrispettivi doveri»

[55] Cfr. H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt a. M. 1966.

[56] Parlando della creazione, questi afferma che Dio vult habere alios condiligentes (vuole avere altri che amino insieme con lui): Duns Scoto, Opus Oxoniense, III d. 32 q. 1 n. 6.

[57] C’è una tesi, a riguardo, così formulata:  «compi quanto è in tuo potere quando l'esistenza altrui dipende dal tuo intervento». Cfr.  H. JONAS, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990 (ed.orig. tedesca 1979).

[58] La parte propositiva del libro citato di A. Rizzi vuole aprire una riflessione sulla solidarietà come principio intorno al quale far ruotare il discorso della liberazione.

[59] Cfr. G. Mazzillo, La teologia..., op. cit., 31ss.

[60] Sulla filosofia ritorneremo in seguito. Per la Sociologia  cfr. P. Donati, «Relazione sociale», in F. Demarchi, A. Ellena e B. Cattarinussi (edd.)., Nuovo Dizionario di Sociologia, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1987, 1721‑1729.

[61] Cfr. J. Comblin, Antropologia cristiana, Cittadella, Assisi 1987.

[62] J. I. Gonzalez Faus, «Antropologia, persona e comunità», in I. Ellacuria - J. Sobrino (edd.), Mysterium Liberationis..., op. cit., 570‑593.

[63] Si è parlato così della necessità di «deprivatizzare la fede», oggi affetta da un imborghesimento dovuto al clima culturale incentrato sul soggetto e sui suoi esclusivi diritti. Cfr. J. B. Metz, La fede..., op. cit.

[64] Cfr. A. Rizzi, L’europa..., cit., 46ss.

[65] Cfr. G. Frosini, La fede e le opere. Le teologie della prassi, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992; e A. Fierro, Introduzione alle teologie politiche, Cittadella, Assisi 1977.

[66] Cfr. «Dire Dio dopo Auschwitz, durante Ayacucho. Dialogo tra Jürgen Moltmann e Gustavo Gutierrez», in Mosaico di pace 4 (1993/2) 11-26.

[67] Cfr. G. Frosini, La fede ..., op. cit., 145.

[68] Cfr. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, particolarmente 559ss. L’autore menziona quattro movimenti di percorso: dialettico, antropologico, politico, ecumenico-planetario.

[69] Sulla possibilità e le modalità di un’effettiva cooperazione umana con Dio in quanto prassi storica  cfr. C. Molari, «Introduzione all’edizione italiana», in I. Ellacuria - J. Sobrino (edd.), Mysterium liberationis. I concetti fondamentali della teologia della liberazione, Borla/Cittadella 1992, 12ss: «rapporto tra speranza storica e regno di Dio».

[70] La lettura e l’interpretazione dei segni dei tempi avviene infatti, per il Vaticano II, non solo alla luce del Vangelo, ma anche alla luce dell’esperienza umana. Cfr. GS n. 4 (EV/1, 1324) con n. 46 (EV/1, 1466).

[71] Cfr. J. B. Metz, La fede nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978.

[72] Il libro (vedi bibliografia) s’intitola infatti Mystik und Politik ed è stato curato da Schillebeeckx, ma raccoglie contributi non solo di autori europei come Kuno Füssel, Helmut Peukert, Herbert Vorgrimmler, Jürgen Moltmann, Dorothee Sölle, ma anche di autori latino-americani come il Card. Paolo Evaristo Arns, Gustavo Gutièrrez, Leonard Boff ed altri.

[73] Cfr. J. Comblin, Verso una teologia dell’azione, Ave, Roma 1967.

[74] L’ambito regionale esaminato è prevalentemente quello francofono e i titoli e gli autori riportati sono diventati significativi al di là di quell’area geografica: G. Thils, Théologie des réalités terrestres, t. I - Préludes, Desclée, Bruges-Paris 1947; t. II - Théologie de l’histoire, Desclée, Bruges-Paris 1949; M.-D. Chenu, Le Saulchoir: una scuola teologica, Marietti, Casale Monferrato 1982; E. Mounier, Feu la chrétienté, Seuil, Paris 1950; Y.-M. J. Congar, Jalons pour une théologié du laïcat, Cerf, Paris 1953.

[75] J. Comblin, Teologia della pace, 2 voll., Paoline, Roma 1966

[76] Qualcuno parla di Medellín come dell’atto di battesimo della teologia della liberazione. Cfr. S. Galilea, La teologia della liberazione dopo Puebla, Queriniana, Brescia 1979, 6.

[77] G. Gutiérrez, La teologia della liberazione. Prospettive, Queriniana, Brescia 19814. L’opera originale uscì in spagnolo a Lima nel 1971.

[78] G. Gutiérrez, La teologia della liberazione, op. cit., 11-25.

[79] Ivi.

[80] «Una teoria critica, alla luce della fede animata da un intendimento pratico e, di conseguenza, indissolubilmente unita alla prassi storica»Ivi, 21.

[81] H. Assmann, Teologia della prassi di liberazione, Cittadella, Assisi 1974, 79.

[82] J. Cone, Il Dio degli oppressi, Queriniana, Brescia 1978, 22-23.

[83] Per questo motivo Antony Burns, ex schiavo, poteva gridare: «Dio mi ha creato uomo, non schiavo; mi ha dato gli stessi diritti di quell’uomo che ha rapinato e sequestrato per sé» (Lettera di Anthony Burns to the Baptist Church at Union, Fanquier Co., Virginia, cit. da J. Cone, Il Dio degli oppressi, op. cit., 21).

[84] Sicché John Cassandra poteva affermare: «Mi hai trattato come un mulo, ma ne sono uscito uomo». Citato da J. Cone, «Contesto sociale della teologia: libertà storia e speranza», in Aa.Vv., Teologie dal Terzo Mondo, Queriniana, Brescia 1974, 21.

[85] «[Una teologia] che potremmo chiamare pastorale [...] Il suo punto di partenza preferenzialmente sono la vita della chiesa, l’azione pastorale, l’impegno dei cristiani, la realtà umana in cui la chiesa esercita la propria missione, in questo caso la vita e la prassi della chiesa sono un «luogo teologico», ossia una base per elaborare e pensare il messaggio di Gesù. Pertanto l’azione pastorale e la prassi cristiana sono «l’atto primo» mentre la riflessione teologica è «l’atto secondo» che illumina e orienta l’azione» (S. Galilea, La teologia della liberazione dopo..., cit., Queriniana, Brescia 1979, 14-15).

[86]Anche per E. Dussel la teologia è prassi di liberazione «(in ebraico habodah, in greco diakonia: servizio liberatore trans-ontologico), prassi non solo politica, ma anche erotica e pedagogica: teologia del povero, della donna oggetto sessuale, del figlio alienato». (E. Dussel, «Dominazione-liberazione: un discorso teologico diverso», in Concilium 10 (1974) 47- 72, qui 67s.).

[87] C. Scannone, «Das theorie-praxis-Verhältnis in der Theologie der Befreiung», in K. Rahner (Hgb.), Befreiende Theologie, Stuttgart 1977, 77-96.

[88]“Poiché l’analisi della situazione dell’America Latina, che implica di per sé già la prassi, era il punto di partenza per una riflessione teologica, il rapporto tra riflessione teologica e prassi riceve una nuova determinazione; la prassi riceve per questo il primato, in quanto da una parte la teologia inizia con la riflessione critica della prassi, dall’altra perché obiettivo di tutto non è una nuova teologia, ma una nuova prassi» (C. Bussman, Befreiung durch Jesus? Die Christologie der lateinamerikanischen Befreiungstheologie, München 1980, 29).

[89] Cfr. B. Lakebring, Hegels dialektische Ontologie und die thomistische Analektik, Ratingen 1968.

[90] Cfr. M. Cordin, Le chemin de la théologie selon Thomas d’Aquin, Paris 1974, part. cap. 4.

[91] Per altri approfondimenti sul tema  cfr. J. C. Scannone, Sein und Inkarnation. Zum ontologischen Hintergrund der Frühschriften M. Blondels, Freiburg-München 1968.

[92] J. C. Scannone, «Das theorie-praxis-Verlätnis inder Theologie...», op. cit., 93.

[93] J.B. Metz, «Die Theologie der Welt und die Askese», in R. V. Bismark / W. Dirsks, Neue Grenze I, Stuttgart-Deten 1966, 171-174;  cfr. Id., Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969.

[94] J. B. Metz, La fede, nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978.

[95]La liberazione tocca i diversi livelli enunciati da Dussel, interessa il povero in generale, il nero e l’emarginato, come pure la donna in quanto si trovasse a soffrire l’oppressione. Anche in questo ambito, che meriterebbe una considerazione a parte, valgono in generale gli stessi principi della prassi liberante, fondata su un’analisi critica della società e di una certa interpretazione androcentrica del cristianesimo e delle sue fonti. Un’introduzione ai temi di fondo sul ruolo e la figura della donna in teologia e in particolare nella Bibbia, si trova in W. Schottrof - W. Stegemann, Traditionen der Befreiung 2. Frauen in der Bibel, München/Berlin.

[96] Le istruzioni, alle quali si è fatto già riferimento, sono due: la prima, intitolata Libertatis nuntius, del 6.8.1984 (EV/ 9, 866-887) e la seconda, dal titolo Libertatis conscientia, del 22.3.1986 (EV/10, 196-370). Al fine di contestualizzare meglio il contenzioso, sarà utile far riferimento anche alla lettera con la quale il Cardinale Ratzinger, prefetto della stessa congregazione, domandava spiegazioni a L. Boff sul suo libro ( cfr. Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante, Borla, Roma 1983), la risposta dell’autore e il comunicato sul colloquio da lui avuto in Il Regno 29 (1984) 17/514, 537-556. La difesa di G. Gutiérrez alle contestazioni mossegli dalla stessa congregazione nel marzo del 1983 è reperibile invece in Il Regno 29 (1984) 19/516, 620-628.

[97] Cfr. Libertatis conscientia, op. cit., n. 44, EV/10, 250-251.

[98] Ivi, nn. 49-50: EV/10, 256-257.

[99] Ivi, n. 57: EV/10, 269-270. Cfr. anche tutto il cap. IV: «La missione liberatrice della Chiesa».

[100] Libertatis nuntius: EV/9, 884.

[101] Sull’intera questione cfr. G. Silvestre, Teologia della liberazione. Storia, Problemi, Conflitti, Prospettive e speranze, Editoriale Progetto 2000, Cosenza 1996.

[102]Libertatis nuntius, Introduzione: EV/9, 867.

[103] Sulla questione di principio e per una prima informazione sulla materia, cfr. G. Piana, «Magistero sociale», in F. Compagnoni, G. Piana, S. Privitera (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Morale, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, 681-708, soprattutto la parte II «Possibilità e limiti della "dottrina sociale della chiesa», ivi, 691-702.

[104] Si parla di "alienazione", per contestarne la sua causa attribuita alla religione, ad esempio in Cfr. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, n. 15; Giovanni Paolo II, Dominum et Vivificantem, n. 38; ma se ne ammette anche l'esistenza , indicando nell'evangelizzazione la forza liberante capace di spezzarla: «All'interrogativo: perché la missione? noi rispondiamo con la fede e con l'esperienza della chiesa che aprirsi all'amore di Cristo è la vera liberazione. In lui, soltanto in lui siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento, dalla schiavitù al potere del peccato e della morte. Cristo è veramente "la nostra pace", (Ef2,14) e "l'amore di Cristo ci spinge", (2Cor5,14) dando senso e gioia alla nostra vita» (Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, n. 11. Cfr. anche ivi, n. 54).

[105] Giovanni Paolo II, Centesimus annus n. 41: «È necessario ricondurre il concetto di alienazione alla visione cristiana, ravvisando in esso l'inversione tra i mezzi e i fini: quando non riconosce il valore e la grandezza della persona in se stesso e nell'altro, l'uomo di fatto si priva della possibilità di fruire della propria umanità e di entrare in quella relazione di solidarietà e di comunione con gli altri uomini per cui Dio lo ha creato. È, infatti, mediante il libero dono di se che l'uomo diventa autenticamente se stesso, e questo dono è reso possibile dall'essenziale "capacità di trascendenza" della persona umana. L'uomo non può donare se stesso ad un progetto solo umano della realtà, ad un ideale astratto o a false utopie. Egli, in quanto persona, può donare se stesso ad un'altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che è l'autore del suo essere ed è l'unico che può pienamente accogliere il suo dono».

[106] Del resto, la chiesa dei primi secoli poté costruire basiliche utilizzando componenti e strutture di templi pagani, mentre la riflessione teologica costruiva interi sistemi e summe di pensiero utilizzando categorie e strumenti di analisi prese dal mondo greco‑romano oppure dal mondo arabo. Non si comprenderebbe perché la chiesa stessa non dovrebbe poter far ricorso a quei concetti esposti precedentemente. Il problema è certamente fino a che punto con gli strumenti non si assimilino anche i contenuti. Qui il discorso è ancora ulteriormente da approfondire, ma deve essere fatto con una serena e non prevenuta riflessione, onde evitare due estremi: il processo all’intenzione che vede nell’altro solo la malafede e l’acquisizione acritica e il rifiuto della correzione, quasi che si fosse in possesso di un’infallibilità teologica, contro l’infallibilità magisteriale.

[107] Pontificia commissione "Iustitia et pax", La chiesa e i diritti dell'uomo, 10-12-1974, n. 56: EV/5, 932.

[108] Ivi, n. 57: EV/5, 933.

[109] Congregazione Per L'evangelizzazione Dei Popoli, I sacerdoti diocesani delle chiese di missione, 1-10-1989, n. 9 «Liberazione, promozione umana e scelta preferenziale dei poveri»: EV/11. 2544.

[110] Libertatis conscientia, n. 68: EV/10, 286; cfr. anche Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 47 (EV/10, 2696ss.), sull’impegno responsabile nella solidarietà e nell'amore preferenziale per i poveri. Al numero precedente si parla della teologia della liberazione e si mette in guardia contro le sue possibili visioni unilaterali.

[111] Congregazione Per L'evangelizzazione Dei Popoli, I sacerdoti..., cit., EV/11, 2550.

[112] Libertatis conscientia, n. 75: EV/10, 301.

[113] Ivi, n. 73: EV/10, 297.

[114] Ivi, n. 79: EV/10, 307.

[115]Ma quest’ultimo punto è ciò che, con altre parole, la chiesa Latino‑americana ha chiamato coscientizzazione e su cui ritorneremo: Ivi  cfr. nn. 80; 93‑94: EV/10, 308; 328-329.

[116] G. Gutiérrez, Bere al proprio pozzo, Queriniana, Brescia 1984.

[117] L. e C. Boff, come fare teologia della liberazione, Cittadella, Assisi 1986.

[118] È lo stesso principio che si rinviene in J. C. Scannone, «Fare teologia in America Latina. Il problema del metodo», in SpecialeSial, I° fascicolo, Teologia in America Latina. Storia, attualità e prospettive  Sial 20 (1997/supplemento al n. 6) 21-28, qui 23: «pertanto è necessario un attento discernimento di fede [...] fatto alla luce della Scrittura, della tradizione e del senso della fede del popolo fedele e del magistero, discernimento sulla cui autenticità giudica autenticamente lo stesso magistero».

[119]Ivi, 29.

[120] Cfr. su questo punto la Redemptoris Mater, n. 37: EV/10, 1373.

[121] Ci sembra condivisibile ciò che scrive, a questo riguardo, Scannone: «così si riscopre la centralità di questo amore [per i poveri] non solo nella Scrittura, nella tradizione e nella vita della Chiesa, ma anche nella teologia, nella sua autocomprensione, nella sua ermeneutica e nel suo metodo. Non si può però affermare che il mondo dei poveri sia luogo teologico nel senso tradizionale dei loci theologici, se non nel senso che i poveri, come destinatari preferenziali non esclusivi dell'annuncio evangelico, fanno parte del dinamismo di tali loci. Quanto alla prassi, si può ammettere che quella della Chiesa (ma non qualsiasi prassi) sia un locus theologicus, in quanto concrezione e manifestazione della sua fede. Però se si prendono tali espressioni in generale, conviene parlare di "luogo ermeneutico" e non di "luogo teologico", poiché quello ermeneutico necessita di discernimento prima di essere valido per la teologia» (J. C. Scannone, «Fare teologia..., cit., 23).

 

[122] Ovviamente, interpretiamo con quasi tutta la tradizione, compreso l'insegnamento sociale degli ultimi papi l'ultimo i fratelli più piccoli  con i poveri e in genere con gli infelici nei quali Gesù si identifica e non con i discepoli di Gesù, come invece si trova in  H. J. Holtzmann, Die Synoptiker,  Tübingen 1901 e  S. C. Ingelaere, «La parabole du jugement dernier (Mt 25,31-45)», in: RHPR 1 (1970) 23-60.

[123] Cfr. G. Mazzillo, Teologia fondamentale, in L. Lorenzetti (a cura di) Dizionario di teologia della pace, cit., 67-77.

[124] Così suonava in tedesco un’opera, per altri versi discutibile, di J. R. Galbraith, Die Arroganz der Satten. Strategien für die Überwindung del weltweiten Massenarmut, Bern/München 1980.

[125] La convergenza appare ancora più netta se si prendono in considerazione le correzioni apportate da alcuni teologi della liberazione alle loro precedenti concezioni, non ancora chiarite rispetto a metodi di analisi e di intervento sulla società. Così ad esempio, risulta corretta in G. Gutiérrez la parte relativa alla fraternità e lotta di classe, così come si trovava nella prima edizione, ma che oggi ha recepito elementi terminologici e metodologici dell'inseganemento sociale della chiesa, e in particolare dell'enciclica di Giovanni Paolo II Laborem exercens. Cfr. G. Gutiérrez, Teologia de la liberación. Perspectivas. Con una nueva introducción: mirar lejos, Lima 1990. La parte in oggetto è stata modificata anche nel titolo in "fede e conflitto sociale".

[126] Cfr. G. Mazzillo, La teologia..., op. cit., particolarmente 84-95.

[127] Cfr. A. Rizzi, L’europa e l’altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991.

[128] Ivi, 58.

[129] Id., «Tra nostalgia e crisi: il terzo uomo», in Rassegna di teologia 23 (1982) 10-25.

[130] Cfr. Ivi, 58-59.

[131] Cfr. sull’intero discorso qui accennato e sulle soluzioni proposte i dieci saggi del grande teorico della comunicazione Jürgen Habermas: Id., Il pensiero post-metafisico, Laterza, Bari 1991.

[132] Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo 1. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, / 2. Critica della ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna 1986.

[133] Cfr. E. Arens (ed.), Habermas e la teologia, Queriniana, Brescia 1992.

[134]Cfr. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori 1993, 61-62.

[135]Ivi, 63.

[136] M. BUBER, Ich und Du, Heidelberg 1983(11.a), 22.

[137]Cfr. Evangelii Nutiandi (esortazione apostolica di Paolo VI, del 1975 n. 31, dove il tema del vangelo da portare agli uomini (e quindi della carità di Dio) è sapientemente accostato a quello della pace e della giustizia: «Tra evangelizzazione e promozione umana, sviluppo, liberazione ci sono infatti dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell’ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare. Legami dell’ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l’autentica crescita dell’uomo?» (EV/5, 1623).

[138]Cfr. G. LOHFINK, Per chi vale il discorso della montagna? Contributi per un'etica cristiana, Queriniana, Brescia 1990.

[139] «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).

[140]Ivi, 49ss.

[141] Le correzioni sono state approvate dal papa il 15.8.1097, con la Lettera Apostolica "Laetamur magnopere", ne teniamo conto seguendo l’opuscolo Catechismo della Chiesa Cattolica. Corrigenda di contenuti, Libreria Editrice vaticana, Città del vaticano, a correzione dell’edizione omonima del 1992 (indicata con la sigla CCC). 

[142] Cfr. ad esempio n. 1931 del CCC: «Il rispetto della persona umana non può assolutamente prescindere dal rispetto di questo principio: “I singoli” devono “considerare il prossimo, nessuno eccettuato, come ‘un altro se stesso’, tenendo conto della sua vita e dei mezzi necessari per viverla degnamente”. Nessuna legislazione sarebbe in grado, da se stessa, di dissipare i timori, i pregiudizi, le tendenze all'orgoglio e all'egoismo, che ostacolano l'instaurarsi di società veramente fraterne. Simili comportamenti si superano solo con la carità, la quale vede in ogni uomo un «prossimo», un fratello.

[143] Cfr. 1459 del CCC.

[144] Cfr. CCC, n. 344: «Esiste una solidarietà fra tutte le creature per il fatto che tutte hanno il medesimo Creatore e tutte sono ordinate alla sua gloria: Laudato si, mi Signore, cun tutte le tue creature…».

[145] Cfr. CCC, n. 361: è citato Pio XII, ma anche il testo conciliare Nostra Aetate 1.

[146] Ivi, n. 953; cfr. anche n. 1849.

[147] «Anche l'uomo non credente saprà scoprire in lui l'eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come pure l'armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell'uomo, alla verità e all'amore. La dimensione divina del mistero pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità. La croce collocata sul Calvario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, emerge dal nucleo stesso di quell'amore di cui l'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è stato ratificato secondo l'eterno disegno divino. Dio, quale Cristo ha rivelato, non rimane soltanto in stretto collegamento col mondo, come creatore e ultima fonte dell'esistenza. Egli è anche Padre: con l'uomo, da lui chiamato all'esistenza nel mondo visibile, è unito da un vincolo ancor più profondo di quello creativo. È l'amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo» (Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 7).

[148] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 10. Cfr. anche n. 14.

[149] Si lamenta infatti «la dimenticanza della legge della solidarietà umana e della carità, legge dettata e imposta tanto dalla comunità di origine e dall’uguaglianza della natura ragionevole, propria di tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, quanto dal sacrificio offerto da Gesù Cristo sull’altare della croce» (CCC, n. 1939).

[150] «Il principio di solidarietà, in senso largo, deve ispirare la ricerca efficace di istituzioni e di meccanismi appropriati: si tratti del settore degli scambi, dove bisogna lasciarsi guidare dalle leggi di una sana competizione, e si tratti anche del piano di una più ampia e più immediata ridistribuzione delle ricchezze e dei controlli su di esse, affinché i popoli che sono in via di sviluppo economico possano non soltanto appagare le loro esigenze essenziali, ma anche progredire gradualmente ed efficacemente. Su questa difficile strada, sulla strada dell'indispensabile trasformazione delle strutture della vita economica non sarà facile avanzare se non interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del cuore» (Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, n. 16, cfr. anche Id. , Laborem exercens, 1).

[151] Cfr. Giovanni Paolo II, Laborem exercens, nn. 8, 20.

[152] CCC, n. 1940.

[153] Cfr. CCC n. 1941.

[154] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 1.

[155] Cfr. CCC nn. 1964; 1237.

[156] CCC, n. 1221.

[157] CCC, n. 1363

[158] CCC, n. 2240. La già citata Sollicitudo rei socialis  menziona, a questo riguardo, un «obbligo morale come “dovere di solidarietà”» (ivi, 9; cfr. anche nn. 21, 23, 26, 33). La mancanza di solidarietà contribuisce a mantenere in vita dipendenza, imperialismo, e tutto ciò che è frutto del male ed è chiamato «struttura di peccato»  (ivi, n. 33).

[159] È esemplare quanto troviamo ancora nella Sollicitudo rei socialis, che certamente corregge le incertezze di altri testi, affermando: «Quando l'interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come “virtù”», è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che le cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama del profitto e quella sete del potere, di cui si è parlato. Questi atteggiamenti e “strutture di peccato” si vincono solo -- presupposto l'aiuto della grazia divina -- con un atteggiamento diametralmente opposto: l'impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a “perdersi” a favore dell'altro invece di sfruttarlo e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto» (ivi, n. 38). Sulla descrizione della solidarietà tra singoli, gruppi, e nazioni cfr. ivi soprattutto i nn. 39 e 40. Sul rapporto tra solidarietà e liberazione cfr. il n. 46: «Così il processo dello sviluppo e della liberazione si concreta in esercizio di solidarietà, ossia di amore e servizio al prossimo, particolarmente ai più poveri: «Là dove vengono meno la verità e l'amore, il processo di liberazione porta alla morte di una libertà, che non ha più sostegno». La solidarietà verso i poveri, da scegliere in modo preferenziale si trova nel n. 47. Cfr. anche Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, nn. 59, 60, 69, Id., Centesimus annus, n, 10, 15, 16, 22, 28. In un contesto di critica al capitalismo e all’individualismo cfr. anche nn. 41, 49. Cfr. anche Id., Veritatis splendor, n. 100 (solidarietà come liberalità) e Id., Evangelium vitae n. 76 (solidarietà come reciproca donazione), n. 93 (differenti forme di solidarietà) Cfr. anche Giovanni Paolo II,  Ut unum sind, 43 (solidarietà nel servizio all’umanità).

[160] Pontificio Consiglio “cor unum”, La fame nel mondo una sfida per tutti: lo sviluppo solidale, 4 ottobre 1996, n. 2.

[161] CCC, n. 2224.

[162] CCC, n. 2238.

[163] «Il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni della autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell’ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo» (n. 2242).

[164] «Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (Rm13,1); (1Pt2,13), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At5,29). Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza al comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse «non fecero come aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es1,17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro comportamento: «Le levatrici temettero Dio» (Es1,17). È proprio dall'obbedienza a Dio - al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità - che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza che «in questo sta la costanza e la fede dei santi (Ap13,10)» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 73).

[165] L’obiezione di coscienza al servizio militare è già nella Gaudium et spes, sebbene con qualche cautela (GS 79: «Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l'uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana» EV/1, 1595), è valutata positivamente e «benedetta»  in Paolo vi, Populorum progressio (n. 74, EV/2, 1119) ed è ritenuta come più consona al vangelo nel Sinodo dei Vescovi sulla pace e la giustizia (n. 22).

[166] «Occorre affermare innanzitutto che l'obiezione di coscienza si radica non nell'autonomia assoluta del soggetto rispetto alla norma e tanto meno nel disprezzo della legge dello stato, ma nella coerente fedeltà alla stessa fondazione morale della legge civile. L'obiezione di coscienza, infatti, di fronte a una legge dello stato attesta il valore prioritario della persona e della sua giusta libertà, afferma la necessità che ogni norma civile sia coerente con il valore morale e richiama a tutti, e in primo luogo a ogni cristiano, che bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. L'obiezione di coscienza è, dunque, qualcosa di estremamente serio, avendo il suo fondamento nello stesso modo di pensare l'uomo, la sua dipendenza da Dio e il suo rapporto con lo stato e con le sue leggi. Si collega a una precisa antropologia personalistica, rifiuta ogni concezione totalizzante dello stato, punta decisamente sull'intima connessione tra legalità e moralità e assume una connotazione morale, anzi religiosa. In questo senso la forma più alta di obiezione di coscienza nella tradizione cristiana è stata quella dei martiri, i quali hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Dio in contrasto con la legge degli uomini» (Cei - Commissione Ecclesiale «Giustizia E Pace», Educare alla legalità, 04-10-1991, n. 14: Enchiridion Cei Supplementi, 131.

[167] «È in questo spirito ed in riferimento a tali correnti culturali odierne che si possono ravvisare, qua e là, certe formulazioni di diritti nuovi, che le legislazioni dovrebbero riconoscere: il diritto al dissenso, ossia la facoltà teorica e pratica, per il cittadino, di porre un'obiezione di coscienza di tipo civile. Mentre l'obiezione di coscienza di tipo militare si appella al decalogo ("Non uccidere"), il dissenso di carattere sociale invoca, a sua volta, il diritto e il dovere sia di non essere d'accordo con l'ideologia totalitaria del proprio gruppo, sia di praticare (una volta esaurite tutte le possibilità di ricorso ai mezzi legali) la disobbedienza civile a certe leggi, sulla base del principio sempre riconosciuto: “È meglio obbedire a Dio che agli uomini”» (Pontificia commissione "Iustitia et pax", Riflessioni nel decimo anniversario della «pacem in terris», EV/4, 2436). Cfr. anche Assemblea ecumenica di Basilea, «Pace nella giustizia»: documento finale, Enchiridion  Oecumenicum  Supplementi, 1154. Sull’intera problematica cfr. A. cavagna (a cura di), I cristiani e l’obiezione di coscienza al servizio militare, Dehoniane, Bologna 1992.

[168] J. Audinet, «Quali “pratiche” per la teologia?», in B. Lauret - F. Refoulé (diretto da), Iniziazione alla pratica della teologia 5. Pratica, Queriniana, Brescia 1987, 12.

[169] Ivi, 8.

[170] Ivi, 12.

[171] Una simile struttura si può trovare, ad esempio, in R. Zerfaß, Der Selbstvollzug der kirche in Wort, Sakrament und Sozialem Dienst. Eine Einführung in die Grundfragen der Praktischen Theologie, Dispense ad uso degli studenti, Würzburg 1982, 16.

[172] Cfr. le osservazioni di C. Boff in J. Pixley - C. Boff, Opzione per i poveri, Cittadella, Assisi 1987, cc. 6-13.

[173] PO 2: EV/1, 1244.

[174] LG 35: EV/1, 374.

[175] Ivi.

[176] Ivi.

[177] «Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi» (Mc 8,38).

[178] «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7,21-23).

[179]“Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,21).

[180] O.A. Romero, Diario, La Meridiana, Molfetta (BA) 1991, 190-191.

[181]Cfr. Pax Christi Internazionale, Diritti umani in America Centrale. El Salvador - Guatemala - Honduras - Nicaragua, EMI, Bologna 1989.

[182] Non sono ancora trascorsi che pochi anni, eppure di martiri come lui quasi non si sente più parlare. Vogliamo ricordare accanto al suo nome, anche i nomi degli altri uccisi nella residenza del Centro Monsignor Romero dell’università centroamericana José Simeón Cañas. Sono i cinque gesuiti J. Ramón Moreno, Armando López, Segundo Montes, Ignacio Martín Baró, Joaquín López e la cuoca Julia Elba con la figlia Celina.

[183] I. Ellacuria, «Il popolo crocifisso», in I. Ellacuria - J. Sobrino (a cura di), Mysterium Liberationis..., op. cit., 692.

[184] Ivi, 682.

[185] Ivi, 692.

[186] «In tema di conversione, l’alternativa “prima la conversione personale o prima la conversione delle strutture?» è una falsa alternativa. Non ci sono propriamente da un lato le strutture e dall’altro le persone in relazione, bensì relazioni umane strutturate. Sarebbe illusorio pretendere di ottenere risultati di strutture “giuste” senza modificare, o prima di modificare la moralità delle coscienze. Ma non meno illusorio sarebbe il pensare ad una vera conversione delle persone, lasciando tra parentesi per un tempo futuro il problema delle strutture della convivenza reale» (S. Bastianel, «Strutture di peccato. Riflessione teologico-morale», in Id. (a cura di), Strutture di peccato. Una sfida teologica e pastorale, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1989, 37-38).

[187] J.B. Metz, Jenseits bürgerlicher Religion. Reden über die Zukunft des Christentums, Kaiser-Grünewald, München/Mainz 1980, 100.

[188] I. Ellacuria, «Il popolo... «, op. cit., 682.

[189] PO 5: EV/1, 1253. Ma  cfr. anche LG 17: EV/1, 327: nell’eucaristia il popolo di Dio si ritrova convocato in Cristo, e «prega insieme e lavora, affinché l’intera pienezza del cosmo si trasformi in popolo di Dio, Corpo di Cristo e tempio dello Spirito santo».

[190] V. Cosmao, «Servizi della società», in B. Lauret - F. Refoulé (diretto da), Iniziazione alla pratica della teologia 5, op. cit., 258.

[191] V. Cosmao, «Servizi...», op. cit., 261.

[192] Ivi, 270.

[193] Commissio Theologica Internationalis, Themata selecta de ecclesiologia occasione XX anniversari conclusionis concilii oecumenici Vaticani II, 7 ottobre 1985, 3.1: EV/9, 1688; sulla eJkklhsiva come traduzione greca dell’ebraico qahal cfr. ivi, 1.2: EV/ 9, 1674.

[194] Ivi, 3.2: EV/9, 1691.

[195] Commissio Theologica Internationalis, Themata..., op. cit., 3.2: EV/9, 1693.

[196] Ivi, 3.4: EV/9, 1696.

[197] LG 31: EV/1, 363.

[198] «Discorso a Diogneto», in G. Corti (a cura di), I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 1966, 364-365.

[199] Così suona anche il titolo di un’interessante approfondimento del pensiero di Bultmann e delle obiezioni a lui mosse dalla “teologia politica”, in A. Rizzi, Il credente come soggetto di storia, Borla, Roma 1978.

[200] Ivi, 5: «La fede cristiana è il coraggio e la forza del credente di assumersi nella solitudine della decisione la responsabilità del suo agire» (Bultmann).

[201] In una diversa direzione, da noi condivisa per la sua impostazione di fondo, sembra si muova invece la soluzione che Rizzi individua a partire da Bultmann. È il tentativo di cogliere biblicamente una integrazione tra agire divino ed azione umana, cogliendo la tipicità dell’agire dell’uomo proprio in quanto credente, come obbedienza della fede, e l’agire di Dio nella realtà del suo appello rivolto storicamente all’uomo: «Obbedienza è l’“opera” attraversata dall’“atto”, come risposta al mondo attraversato dall’idea creatrice. Creazione come chiamata e obbedienza come risposta fanno rispettivamente l’unità del mondo e l’unità del soggetto e, congiuntamente, l’unità del soggetto con il mondo» (ivi, 109).

[202] Cfr. G. Mazzillo, La teologia come prassi di pace, op. cit., 37 e passim.

[203] Il termine può anche non essere felice. È scelto solo come abbreviazione di teologico e antropologico.

[204] Cfr. P. Vanzan, «La teologia...», op. cit., 12-13 e A. Rizzi, Cristo verità dell’uomo. Saggio di cristologia fenomenologica, AVE, Roma 1972, 35-37.

[205] A. Rizzi, La grazia come libertà. Per un’attualizzazione del trattato di antropologia teologica, Dehoniane, Bologna 1975, 27.