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Seconda parte del

Corso sul Gesù storico di 

G. MAZZILLO, Gesù e la sua prassi di pace, Meridiana, Molfetta (Ba), 1990 

Testo ad esclusivo uso degli studenti

 

CAPITOLO VII
DAL SUPERAMENTO DELLA «STORIA DELLE FORME»  AD UNA «BIOGRAFIA TEOLOGICA» DI GESÙ     

7.1. La contraddizione della «nuova domanda» su Gesù all’interno della «Storia delle forme»

Gli autori che hanno raccolto l’invito di Käsemann a riaprire la questione sul Gesù storico, hanno tutti prodotto, come si è visto nel capitolo precedente, opere o saggi che riescono ad attingere nei vangeli elementi storici importanti sulla predicazione e sulla prassi di Gesù. Sebbene nessuno osi ormai più affermare che si possa scrivere una biografia di Gesù, alcuni tratti non secondari relativi alla sua vita oggi sembrano essere un patrimonio comune, una base pressoché indubitata anche per chi affronta l’argomento su un piano cristologico[1]. Ma queste ricostruzioni parziali non sono esenti da problemi. Allo stato attuale delle conoscenze storiche odierne su Gesù, si può affermare che la domanda da esse sollevata non riguarda i contenuti, ma piuttosto il metodo con il quale si è pervenuti a questi risultati.

Coerente fino alla fine con le premesse metodologiche della «Storia delle forme», Bultmann aveva già ravvisato questa difficoltà metodologica, quando reagendo alla «nuova domanda» dei suoi discepoli, ne sconfessava la legittimità, e vi vedeva il pericolo di ricadere nella ricerca storica precedente e già superata[2]. Una tale illegittimità è ribadita nel suo libro Jesus, che viene ad affiancare gli altri testi sullo stesso argomento dei maggiori teorici della storia delle forme[3], ma solo per riaffermare che non il Gesù in sé ma «il complesso di pensieri sottostante allo strato più antico della tradizione è l’oggetto dell’esposizione«[4]. A differenza dei suoi discepoli, Bultmann esclude anche la possibilità di intitolare la trattazione Predicazione di Gesù e di parlare di Gesù come Predicatore. Di Gesù, afferma, si può parlare solo tra virgolette, giacché Gesù indica solo il fenomeno storico di cui si tratta. Questo non può essere altro che la tradizione più antica. Sicché il Gesù storico è solo la premessa, da supporre come fatto antecedente alla tradizione, ma per sé inattingibile sia per ciò che riguarda il come sia per le modalità del fatto medesimo. Per queste ragioni, accusa di incoerenza i tentativi compiuti da alcuni suoi discepoli, allo stesso modo con cui anche Käsemann si era espresso contro Jeremias, che avrebbe oltrepassato il limite impostogli dalla «Storia delle forme».

7.2. La barriera invalicabile della Storia delle forme

Il punto di partenza metodologico che Bultmann e Käsemann ritengono illegittimo valicare è il fatto che ogni passo evangelico, ogni pericope, è ritenuto il frutto di una credenza teologica. Essendo impregnata teologicamente, ogni singola pericope ha un valore funzionale, perché deriva da particolari interessi e circostanze vitali (il Sitz im Leben) della comunità dove essa ha un suo contesto e la sua origine. Se, ad esempio, la comunità aveva un problema di correzione fraterna, ha redatto un logion di Gesù relativo a questo problema. Non che abbia in ogni caso semplicemente inventato ex novo un discorso di Gesù, quale quello riportato nel cap. 18 di Matteo, ma, riferendosi a un qualcosa di Gesù conservato nella tradizione, ha ricostruito intorno a questo nucleo un discorso vero e proprio, un logion. La stessa origine del logion, anonima e storicamente irricostruibile nei suoi singoli passaggi e nella sua evoluzione, rende impossibile l’accesso alle parole effettivamente pronunciate da Gesù e ai suoi gesti, che sono anch’essi funzionali alla stessa situazione della comunità primitiva.

Secondo la Storia delle forme, la ricerca può solo dimostrare alcune caratteristiche letterarie, tipiche di ciascuna «forma», la struttura e l’impianto formale di tali «generi letterari», ma non ciò che è storico. Mancano in queste «forme» proprio quei caratteri indispensabili per la ricostruzione storica: l’irripetibilità e la puntualità di un fatto, che è sempre come un punto individuabile attraversato due coordinate, quella spaziale e quella temporale. Per loro natura le «forme» letterarie evangeliche sono invece di tipo sociologico e sono anonime e ripetitive. Mancano dell’esattezza e della documentabilità di cui ha bisogno la storia.

Chi prenda sul serio la base teorica e metodologica qui esposta, vedrà preclusa davanti a sé ogni possibilità di effettiva ricerca storica a partire dai testi di cui disponiamo. Sono testi dove la confluenza di pericopi, già di per sé sociologicamente problematiche, è avvenuta attraverso il lavoro redazionale di autori mossi da un’intento teologico particolare. La teologia ha plasmato e riplasmato più volte testi, che restano pertanto storicamente inattendibili. In conclusione, la pregnanza teologica, che comunque risale a dopo la pasqua, non ci consente di accedere a fatti avvenuti prima della pasqua. È una sorta di barriera che può cercare di oltrepassare solo chi è incoerente con le premesse della Storia delle forme.

2.1. Verso un superamento della teoria della «Storia delle forme»?

È merito di due fratelli l’aver rotto l’incantesimo e sfatato  l’immunità di cui la teoria in questione godeva e complessivamente ancora gode, indicando le contraddizioni, già stigmatizzate da Bultmann, in cui cadono i suoi seguaci ed evidenziando alcuni suoi punti deboli. In un libro, scarsamente citato, e pressoché sconosciuto persino a quanti si sono occupati dopo di loro dell’argomento, Rupert e Wolfgang Feneberg hanno provocatoriamente parlato nel 1980 di Vita di Gesù nel Vangelo[5].

Gli autori hanno un punto di partenza comune: vogliono riaprire il discorso della possibilità di scrivere, dopo Bultmann e i suoi seguaci, la vita di Gesù, non nonostante i vangeli o a prescindere da essi, ma al contrario a partire dal vangelo, perché ritengono che il vangelo è la vera e l’unica fonte dove attingere la vita di Gesù.

È possibile una tale impresa? Gli autori ritengono di sì, a condizione di rivedere la Storia delle forme in alcuni presupposti che normalmente sono ritenuti intoccabili. Sono del parere che questa teoria abbia il merito di aver dato importanza al «quadro» della vita di Gesù, ma abbia tuttavia il demerito di aver sempre presupposto la frammentazione e il relativo assemblaggio di tante singole pericopi, condannandole inesorabilmente ad un’origine anonima e quindi astorica. A causa delle sue premesse, affermano, la Storia delle forme non può dare una valutazione univoca sull’apporto dei singoli evangelisti, né sulla loro personalità letteraria. Tutto diventa fluido ed incerto e gli stessi risultati della Storia delle forme sono spesso contraddittori, e quindi arbitrari. Così, ad esempio, all’iniziale, comune riconoscimento del valore storico di Marco, seguì, ad opera di Wrede e di altri, una svalutazione quasi completa, riparata successivamente dall’apprezzamento dell’evangelista come personalità letteraria di scrittore[6].

Per tutte queste ragioni, R. Feneberg ritiene maturi i tempi per un superamento della teoria della Storia delle forme, relativamente alle singole, piccole pericopi dei vangeli. Questo metodo parte dal presupposto, mai dimostrato, che ogni singola unità letteraria costituisca una struttura chiusa che risale ad una propria tradizione, differente da ogni altra, che avrebbe dato origine alle restanti pericopi. L’applicazione fa registrare una discordanza talora notevole tra gli esegeti proprio per la ricostruzione della storia di queste piccole forme. Ora i risultati cambiano radicalmente se si avanza l’ipotesi che ogni singolo vangelo non è un collage di tante pericopi, aventi ciascuna una sua storia, ma è esso stesso, nel suo insieme e in quanto unità letteraria completa, una lunga pericope. Partendo da questo nuovo presupposto, si arriva alla conclusione che gli evangelisti non hanno redatto il vangelo, nel modo comunemente ammesso, cioè ripescando i dati della tradizione, selezionandoli, accostandoli e ritoccandoli in base alla propria individuale impostazione teologica, ma hanno già trovato nella tradizione il «genere letterario del vangelo».

Il vangelo  è pertanto una forma letteraria complessiva, ma avente tutte le caratteristiche delle piccole unità letterarie. È anch’esso una forma sociologica, nel senso che è espressione di una modalità comunicativa sorta e cresciuta da sé nel contesto della vita di una comunità che si era trovata dinanzi al problema di dover unire insieme l’annuncio di Cristo e la vita di Gesù, il kerygma e la sua biografia[7].

Le differenze tra la Storia delle forme classica e questa versione radicalmente corretta dei Feneberg sono profonde. Per la prima, il genere del vangelo è una forma letteraria particolarissima, senza precedenti, né consequenti. Sarebbe stata inventata da Marco, che avrebbe fatto uso del materiale della tradizione secondo le modalità già viste. Per i Feneberg, invece, il genere del vangelo è già presente nella tradizione ed ha un suo Sitz im Leben proprio. I singoli vangeli non sono pertanto redazioni che si avvicinano e si allontanano in riferimento ad uno sviluppo discorsivo storico sulla vita di Gesù (historischer Wortlaut), ma piuttosto un’unità letteraria contenente una «biografia teologica» di Gesù, che comunque era già preesistente ai singoli evangelisti.

In questo modo, i Feneberg riescono a spiegare i tanti punti insoluti della Storia delle forme, tra i quali: l’unità e la diversità tra origine e sviluppo delle pericopi, la sorprendente convergenza del materiale sinottico e giovanneo sul materiale della passione, la storicità del racconto eucaristico, così come questo è riportato nei testi sinottici. Il tentativo sembra essere anche a noi di fondamentale importanza, perché ci consente di motivare criticamente e letterariamente la continuità teologica in cui possiamo cogliere il Gesù storico. Per i nostri autori, tale continuità appare nitidamente, come vedremo, alla luce del Sitz im Leben della celebrazione della pasqua giudaica, che fa da sfondo storico e teologico al racconto della passione.

7.2. La biografia teologica, unica alternativa al biografismo  psicologico

Gli sforzi, pur fruttuosi, di quanti, accettando le premesse della Storia delle forme, sono pervenuti ad alcuni capisaldi storici della vita di Gesù, sono, secondo i Feneberg, in contraddizione con il metodo stesso di quella teoria. Per noi la necessità della nuova domanda e le conclusioni alle quali i postbultmanniani sono arrivati costituiscono una conferma dell’idea fondamentale dalla quale muovono anche i Feneberg: non si può leggere la storia di Gesù al di fuori di un contesto teologico. Chi non accetta la storicità di questo dato essenziale, si trova di fronte esclusivamente a spezzoni storici, che anche se ormai unanimemente riconosciuti, sono però differentemente interpretati. Non di rado per dar ragione dello sviluppo storico effettivo contenuto in questi fatti, gli autori devono ricorrere ad espedienti di vario genere, che sembrano essere a metà strada tra un’impostazione etico-esortativa e un riaffiorante, anche se inconfessato, psicologismo. In molti altri casi invece, la disparità sui risultati storici manifesta le lacune e i limiti del metodo di partenza.

L’esempio più vistoso può essere costituito dal dato non secondario della coscienza di Gesù sulla sua morte. Per Bornkamm, nell’ingresso di Gesù a Gerusalemme c’è solo la decisione di dovere tirare le conclusioni della sua vita[8]. Schürmann si pone la domanda come Gesù abbia vissuto e compreso la sua morte[9] e la mette in rapporto alla sua coscienza escatologica. Gnilka ritiene, a ragione, che non c’è opposizione tra il modo più antico di comprendere la morte di Gesù da parte della comunità e la volontà e l’agire di Gesù: c’è piuttosto un’unica «direzione di pensiero»[10]. Anche Jeremias scorge tratti indubitabili della coscienza di Gesù circa l’imminente incombere della morte[11], così come Kasper ed altri ritengono estremamente verosimile che Gesù la prevedesse dal precipitare degli avvenimenti intorno a lui[12]. La lapidaria affermazione di Bultmann sull’impossibilità di sapere come Gesù avesse compreso «la sua fine, la sua morte» non ha avuto seguito. Eppure si deve dire che le diversità degli autori citati non sono che pochi esempi di una pluriformità di vedute, che proprio perché non saldano tale coscienza della fine ad un teologia di Gesù e in Gesù, devono ricorrere a criteri di verosimiglianza, talora psicologizzanti, oppure alla coscienza apocalittica dell’ultima crisi tra eoni contrapposti, che avevamo già visto in Schweitzer e in altri. Eccone un esempio:

«Dobbiamo supporre che egli (Gesù) abbia previsto e dovesse prevedere una fine violenta della propria vita. Chi si propone come lui si è presentato deve mettere in conto le conseguenze più estreme»[13].

Il giudizio di R. Feneberg, che ritiene che cadano nello psicologismo tutti i tentativi di attingere la coscienza di Gesù sulla sua morte, è in qualche modo da attutire. Su un piano di correttezza logica, oltre che metodologica, sembra avere ragione. Tuttavia i risultati ai quali gli autori arrivano, pur essendo parziali, sembrano accostarsi in ogni caso ad un’effettiva coscienza di Gesù, che non è solo da leggersi in uno schema di verosimiglianza psicologica, ma anche in una contestualità teologica, alla quale essi arrivano per altra via, dandola spesso per scontata, e quindi non sottoponendola ad un’ulteriore analisi. Così ad esempio, anche Kasper, dopo le parole citate, fa riferimento al contesto escatologico, in cui Gesù si muoveva, così come faceva lo stesso Jeremias e, in un impianto più sistematico, anche Schillebeeckx[14].

Condividiamo, invece, pienamente l’opinione dei Feneberg, quando affermano che bisogna considerare come primaria la forma del vangelo. Si tratta anche per noi di una forma teologica, che ci consente di uscire dal dilemma di Schweitzer: esistono solo due riposte alla questione di Gesù: o quella letteraria (di Wrede) o quella escatologica (di Schweitzer). Il dilemma viene superato nel momento in cui si dà valore a tutto il vangelo come forma teologica, come raccordo tra la predicazione kerygmatica e la realtà storica di Gesù di Nazareth.

Su questa base, diventa praticabile la strada di una ricostruzione storica di Gesù, non nel senso che noi scriviamo una sua biografia, ma nel senso che noi la ritroviamo nel vangelo, in quanto forma letteraria unitaria. Questa

«è espressione di una vita di fede di una comunità, che non poteva essere se non quella giudaica. Come tale esisteva prima di Gesù. Costituiva il reticolo (Raster) di domanda e di interpretazione per la sua stessa vita e per la riflessione conseguente. Gesù si è identificato, in modo diverso dagli altri, in questa fede. Ha fatto coincidere la sua vita con la fede espressa in questa forma. La particolarità della sua vita non consiste in questa forma a lui precedente o sottostante, ma nella totalità della sua accettazione. E precisamente ha identificato la sua vita in quest’espressione di fede e non solo nel suo contenuto(...) Non ci fu prima una vita di Gesù e poi una sua immagine. Parlando in termini di storia delle forme, c’è prima un’immagine, che solo dopo viene ad essere riempita e impregnata dalla vita di Gesù. Da Gesù non proviene la forma, ma ‘solo’ il suo riempimento. Di conseguenza, si può a ragione affermare che l’immagine della sua vita nei vangeli è Gesù stesso. È la sua immagine e, come tale, è realmente storica»[15].

Con queste parole, viene affermata con decisione la storicità dell’immagine di Gesù riportata nei vangeli. Essa non è più il risultato di un’operazione redazionale e dottrinalmente posteriore a Gesù, ma è la sua stessa immagine teologico-esistenziale, quella che egli stesso ha plasmato, dando un nuovo contenuto ad una forma biblico-giudaica a lui antecedente. Possiamo pertanto attingere nel vangelo una biografia dogmatica di Gesù, espressa attraverso quella forma teologica con la quale egli ha fatto coincidere la sua vita, la sua decisione suprema, il suo soffrire ed il suo morire.

7.3. Nella celebrazione del «pesaq» la chiave ermeneutica della  storia di Gesù

Di che forma teologica si tratta? I Feneberg ritengono che data la centralità del racconto della passione e considerando il valore quantitativo oltre che qualitativo di quel materiale evangelico, che registra una convergenza sorprendente dei quattro racconti, dobbiamo cercare proprio qui la chiave di volta di tutta la biografia teologica di Gesù. La passione, affermano, è articolata intorno alla celebrazione della pasqua ebraica, del pesaq, con la sua struttura fondamentale, consistente a) nella rievocazione degli haggadà (le opere salvifiche di Dio verso il suo popolo) e b) nella cena, come comunione con lui e come festa della comunità mentre si mangiava l’agnello. Sono due momenti che ritroviamo, anche se in ordine inverso, esattamente nel racconto della passione, che consta a) del racconto della celebrazione del banchetto pasquale (che diventa l’ultima cena)  e b) del racconto delle opere salvifiche operate da Dio attraverso la passione, la morte e la risurrezione di Gesù.

Questa rilettura del materiale evangelico centrale (istituzione dell’eucaristia, passione, morte e risurrezione) è suggestiva. Ma ci si chiede immediatamente: può essere suffragata da prove critiche, che superino la suddivisione minuziosa operata in genere dalla Storia delle forme? Quali argomenti si possono addurre a favore di questa ipotesi?

Nel libro, che stiamo esaminando, le prove non mancano. La prima è di carattere generale e rimanda a procedimenti teologico-letterari similari, già evidenziati e normalmente accettati per alcune sezioni dell’Antico Testamento. Come può dimostrare l’analogia con le ricerche sul Pentateuco, si afferma, ci sono anche nel racconto evangelico elementi che, pur essendo differenti e distinti, sono teologicamente in una struttura unitaria molto solida. Ad esempio, la tradizione sinaitica della teofania e dell’alleanza e quella delle gesta storiche esodali, pur essendo distinte, confluiscono nell’unica celebrazione del Pesaq e diventano un corpo compatto. Alla stessa maniera, elementi distinti quali la celebrazione eucaristica (situata nella notte) e la via di Gesù fino alla morte (situata nel giorno seguente) sono parti costitutivamente inseparabili nel vangelo, perché corrispondono ai due elementi strutturali della celebrazione della pasqua antica: il banchetto e la celebrazione delle gesta salvifiche di Dio.

Per poter affermare tutto ciò, bisogna superare la teoria della Storia delle forme che ritiene il banchetto eucaristico e il racconto della morte di Gesù staccati tra loro perché risalenti a due situazioni vitali della comunità distinte e separate: la spiegazione dell’origine della celebrazione eucaristica e quella dell’origine del battesimo. Secondo questa spiegazione quelle situazioni cultuali sono alla base di due sezioni che solo più tardi sono state cucite insieme nell’opera redazionale degli evangelisti, ma che originariamente costituivano due racconti separati, cioè il racconto della notte, per l’istituzione eucaristica e il racconto del giorno, per la giustificazione del battesimo. Un confronto con questa posizione metterà meglio in luce l’unità, che noi riteniamo invece  esistente e fondamentale tra il racconto della notte e quello del giorno.

2.4. Non una nuova pasqua, ma la pasqua con nuovi contenuti

A sostegno della separazione dei due racconti, Schille ritiene che l’anamnesi eucaristica abbia una sua tradizione precisa che fa riferimento a «quella notte». Lo dimostrerebbe il racconto dell’istituzione eucaristica fatto da Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Paolo sottolinea di aver trasmesso ciò che, a sua volta aveva ricevuto, facendo un chiaro riferimento a un dato della tradizione, e ponendo immediatamente il gesto di Gesù relativo al pane e al vino «nella notte in cui veniva tradito» (1 Cor 11, 23-26).

 I dati letterari relativi alla struttura unitaria del racconto della notte sono impressionanti. Riguardano la triplice predizione di Gesù e le somiglianze del testo sinottico con quello dell’antichissimo scritto della Didaché.

Gesù preannunciò: 1) il tradimento di Giuda (Mc 14, 20); 2) la fuga dei discepoli (Mc 14, 27) e 3) il rinnegamento di Pietro (Mc 14, 30). Le tre predizioni si verificarono inesorabilmente prima che spuntasse il nuovo giorno. Giuda consegnò Gesù, dopo la sofferta preghiera di lui nell’orto di Getsemani (Mc 14, 43-45). «Tutti» coloro che erano con Gesù al momento del suo arresto «lasciandolo, fuggirono» (Mc 14, 50). Pietro lo rinnegò tre volte, prima che il gallo, che annunciava la fine della notte, facesse in tempo a cantare due volte (Mc 14, 66-72). Sicché la fine della notte si presenta accompagnata dall’amaro singhiozzare di Pietro, che ricordatosi dell’ironica e affettuosa premonizione di Gesù, «piangeva dirottamente» (Mc 14, 72), mentre il racconto riprende sottolineando che è un nuovo giorno, è il mattino (Mc 15, 1), quello della condanna e della via di Gesù verso il Golgota.

Le somiglianze tra il racconto sinottico relativo all’anamnesi eucaristica e la preghiera eucaristica della Didaché sono anche notevoli. A Mc 14, 21, in cui Gesù parla di sé come del Figlio dell’uomo (immagine apocalittica), dicendo: «guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito!» corrisponde Didaché 10, 6, con accenti escatologici ed un invito al proprio autoesame: «Venga la grazia e passi questo mondo! Osanna al Dio di David! Chi è santo di avvicini, chi non lo è si converta. Maranathà. Amen». Al logion sulla vite «In verità vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14, 25) corrisponde, nella Didaché, il ringraziamento per la vite di David: «Ti ringraziamo o Padre nostro, per la santa vite di David tuo servo, che ci hai fatto svelare da Gesù Cristo tuo servo» (Did 9, 2). Così gli appelli di Gesù alla vigilanza e alla preghiera (Mc 14, 38) hanno chiari riscontri nella Didaché: «Vigilate sulla vostra vita, le vostre lampade non si spengano e le cinture non si sciolgano dai vostri fianchi, ma state pronti, perché non conoscete l’ora nella quale il nostro Signore verrà» (Did 16).

Le testimonianze bibliche esaminate ci consentono certamente di affermare l’unità strutturale del racconto dell’istituzione eucaristica. Ciononostante, la sola anamnesi eucaristica non spiega la forma presa dal racconto considerato. La celebrazione eucaristica può, al più, spiegare la sua origine, ma non la forma che questo ha assunto. L’unità riscontrata in ciò che viene chiamato il «racconto della notte» non esclude una superiore unità tra questo e l’altro successivo, il «racconto del giorno». Anzi solo se si coglie quest’ulteriore unità, si può avere una ragione della forma dell’uno e dell’altro. A ciò aggiungiamo, a nostra volta, che l’eucaristia e la via di Gesù al Calvario sono unite non solo narrativamente, ma anche teologicamente. Le predizioni di Gesù sulla dispersione dei discepoli fanno da contrappunto all’istituzione eucaristica, del segno più grande che ci possa essere sull’unità tra Gesù ed i suoi e tra i suoi al loro interno. La via solitaria di Gesù verso il calvario ricorda quella mancata vicinanza dei suoi che Gesù aveva cercato con tutti i mezzi. Ne sono prova la volontà di Gesù di celebrare con loro quella pasqua, particolarmente evidenziata da Luca («Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione»: Lc 22, 15); l’insistenza verso Pietro, Giacomo e Giovanni perché restino svegli, pregando con lui (Mc 14, 37.40.41-42) e la stessa istituzione eucaristica.

Nel cammino di Gesù si compie inoltre quanto egli aveva già anticipato nelle predizioni e nel segno del pane spezzato e del vino versato proprio nella notte. Non si può pertanto artificiosamente separare il racconto del giorno da quello della notte, perché un’inscindibile continuità teologica lega entrambi.

Ma anche se si volessero rifiutare queste ultime considerazioni perché più schiettamente teologiche, non pensiamo ci siano argomenti irrefutabili contro la spiegazione unitaria dei Feneberg. Approfondendo i tratti della continuità teologica e letteraria da essi evidenziata, questa si può cogliere ancora a vari livelli. Il primo, più immediato e diretto, è la continuità tra l’anamnesi eucaristica della comunità e la celebrazione eucaristica di Gesù. Quella di Gesù è una celebrazione particolare che unisce la nuova pasqua agli antichi riti del Pesaq ebraico. Riprende la stessa forma, ma ne trasfigura i contenuti. Gesù fa coincidere la sua via dolorosa, la sua morte e la sua incrollabile fiducia nella vittoria su di essa, con le opere salvifiche di Dio, come venivano raccontate e riattualizzate negli haggadà, ma fa coincidere nello stesso tempo la cena pasquale ebraica con quella eucaristica celebrata con i suoi e fa coincidere questa con l’anticipazione del suo imminente destino, attraverso il pane spezzato e il vino versato.

2.5. Punti basilari per una «biografia teologica» di Gesù

I due saggi dei Feneberg, dei quali si è finora preso in considerazione soprattutto il primo (relativo alla storia delle forme), vengono a confermare e a documentare ulteriormente quanto andiamo affermando dall’inizio del nostro lavoro: la inseparabilità a livello storico tra la vita di Gesù e la sua interpretazione teologica. La biografia di Gesù, che non può certamente essere scritta secondo le modalità moderne di esattezza cronologica e topografica, può essere nondimeno attinta nei suoi tratti fondamentali attraverso quella forma teologica che è il vangelo, nella misura in cui si dà valore storico proprio a questa forma teologicamente pregnante, che non appanna la storicità di Gesù, ma la manifesta. Non essendo più un quadro teologico cristiano, postpasquale, ma una cornice giudaico-cristiana, il vangelo ci permette di cogliere i momenti evolutivi di una storia che, saldata al suo contesto teologico originario, ha uno sviluppo esterno ed uno sviluppo interno. L’approdo a questo risultati non può essere smentito dall’accusa che così si sfocia nelle ricostruzioni biografiche di Gesù da altri effettuate. In queste infatti mancava l’elemento essenziale, la storicità della fonte, che essendo ritenuta «dogmatica», era scartata come tale. L’alternativa era di ricercare vie d’approccio di valore molto dubbio, perché o basate su ricostruzioni psicologiche arbitrarie o su supposizioni letterarie critico-ricostruttive.

Lo sviluppo esterno ed interno che si coglie nella vicenda evangelica di Gesù è un tutt’uno con la sua identità teologica e la sua autocoscienza messianica. In questo contesto, è allora possibile cogliere non solo il fatto dell’esistenza di Gesù, ma anche il come di questa. È l’obiettivo del secondo saggio, di Wolfgang Feneberg, il quale ricostruisce le varie tappe della messianicità di Gesù nell’orizzonte della torah, della Legge, e del regno di Dio. Poiché ci riserviamo di intervenire sull’argomento nel capitolo successivo, possiamo concludere questo con l’evidenziazione di alcuni punti basilari, indispensabili per una comprensione storica di Gesù.

Il primo, che ci sembra assolutamente irrinunciabile, è l’autocoscienza che Gesù ha della sua missione, che anche se si andrà chiarendo successivamente per ciò che riguarda le sue modalità, è presente almeno dal battesimo in poi. Il secondo è il legame tra questa missione e il mondo giudaico-teologico in cui Gesù opera. Egli ha di mira non solo la rifondazione della torah, ma anche quella del popolo di Dio, verso il quale la sua volontà di riaggregazione è ugualmente fondamentale. Un terzo elemento basilare è la congiunzione operata da Gesù, prima ancora che dai discepoli, tra il regno di Dio e la sua persona nel compimento della sua storia. Di conseguenza, come quarto punto, ribadiamo l’identificazione di Gesù con il servo di Dio e con l’agnello sacrificale, in un’ermeneutica che collega la fedeltà al Padre e la fedeltà al suo popolo.


 

 

CAPITOLO VIII
LA PRASSI DI GESÙE LE SUE MOTIVAZIONI TEOLOGALI

8.1.  La nuova ricerca su Gesù tende ad una «biografia teologica»

Al punto in cui siamo nella nostra ricerca ci domandiamo che cosa realmente si opponga a ciò che è stata chiamata una «biografia teologica» di Gesù, intendendo con questa espressione una ricostruzione della vita di Gesù che parta dalle sue motivazioni bibliche e dai suoi convincimenti più profondi.

A prima vista, l’ostacolo sembrerebbe l’esplicito rifiuto degli autori di una specifica ermeneutica teologica di Gesù, sempre per le stesse ragioni: il carattere astorico del dato evangelico. Così, ad esempio, Bornkamm può dichiarare che la storia di Gesù

«è tanto trasformata nella tradizione in una testimonianza (s’intende di fede) su Cristo, al punto che non ci è lecito interrogarci su ciò che essa abbia significato per lo stesso Gesù, le sue decisioni, ed il suo intimo sviluppo»[16].

Ciononostante, proprio Bornkamm, come del resto molti altri dopo di lui, riconosce la non irrilevanza di quest’evento (Ereignis), ricostruito, successivamente, attraverso una serie di indicazioni, che costituirebbero uno schizzo storico di Gesù, con elementi sicuri o avvenimenti e tappe fondamentali della sua vita.

A questi appartengono, in primo luogo, ciò che R. Fabris chiama «cartella anagrafica di Gesù»[17], comprendente, con certezza: 1) il nome: Jeshù, abbreviazione di Jehoshùa; 2) i genitori: Joseph e Myriam; 3) il tempo della nascita: l’epoca del re Erode (in genere si parla del 5/6 a. C.)[18]; 4) lo stato civile: celibe; 5) la professione: carpentiere. Sul luogo di nascita si discute, anche se in genere la propensione è per Nazareth e non per Betlemme, giacché l’informazione della nascita in questa città, data di Matteo e Luca, è ritenuta funzionale ad interessi teologici. Vuole evidenziare la discendenza davidica di Gesù e la somiglianza della sua nascita con le altre nascite di precedenti modelli biblici (Isacco, Giuseppe, Mosè, ecc.).

Ai dati ritenuti certi di questo schizzo storico di Gesù, si aggiungono alcuni riferimenti esterni, come, ad esempio, il suo rapporto con Giovanni il Battezzatore e il ruolo avuto dalle autorità che sancirono la sua condanna a morte (Ponzio Pilato e le  autorità giudaicche). Ma si aggiungono anche dati interni, cioè relativi all’originalità dell’insegnamento di Gesù, all’impressione da lui suscitata nei suoi ascoltatori, al carattere particolare della sequela e del discepolato, ai quali egli chiama, al modo con il quale egli si pone di fronte al patrimonio biblico-religioso del giudaismo e a coloro che in esso avevano seri problemi, come i peccatori, i pubblicani, il «popolo della terra». Ciò che invece in questi autori resta storicamente inaccessibile, o almeno problematico, è, come si è già visto, la coscienza di Gesù circa la sua morte e la sua missione in genere, tema strettamente collegato con la coscienza messianica e, perciò argomento tabù, oppure trattato con estrema cautela.

Ciononostante, anche coloro che, secondo i canoni della Storia delle forme, esplicitamente negano che si possa attingere la coscienza che Gesù aveva di se stesso, finiscono di fatto con il tratteggiarne una, legandola all’annuncio del regno di Dio, alla continuità e discontinuità di questo annuncio con quello apocalittico dell’epoca e soprattutto con la predicazione di Giovanni Battista.

Siamo dinanzi a una situazione abbastanza singolare. Da un lato, si esclude un’interpretazione teologica da parte di Gesù sulla sua persona e sulla sua identità; dall’altro, si delinea un profilo dottrinale piuttosto preciso del suo insegnamento e del suo stesso agire. Non ci si rende conto abbastanza che proprio quell’insegnamento costituisce uno schema ermeneutico nel quale l’identità teologica di Gesù non può essere separata dal suo messaggio, la sua autocoscienza non si può disgiungere dall’interpretazione religiosa che sorregge la sua predicazione e quindi il suo pensiero. L’avevano già ammesso, anche se piuttosto implicitamente, quei discepoli di Bultmann che avevano situato la predicazione di Gesù nel suo agire, nello stile della sua vita e della sua condotta, fino a considerare il suo annuncio nelle due accezioni principali, già presenti nei profeti: i gesti comportamentali e la chiarificazione dei gesti, insomma l’agire e la sua spiegazione, la prassi e la parola. E tuttavia già questo indica l’ammissione di un contesto teologico nell’inestricabile rapporto che intercorre tra l’agire e le sue motivazioni. È un rapporto stretto e intenso, che non può essere spiegato solo su un piano pedagogico o didascalico, perché implica un coinvolgimento totale della vita di Gesù con il suo messaggio, sicché questa e quello non dovrebbero essere mai separati.

È molto vicino a questa concezione, unificante l’agire e l’interpretazione, la coscienza e l’autocoscienza di Gesù, R. Fabris, il quale parla di un progetto di Gesù, la cui chiarificazione avviene nel confronto con la missione del Battista e a partire dal battesimo in poi:

«Da allora il regno di Dio irrompe con forza nella storia degli uomini chiamati ad una decisione radicale (Mt 11, 12-13; Lc 16, 16). Accogliere il regno di Dio vuol dire prendere posizione di fronte a Gesù e al suo annuncio salvifico perché la sua persona è talmente implicata con il suo progetto che egli può riferirsi all’immagine battesimale per esprimere il suo impegno di fedeltà totale a Dio e di solidarietà estrema con gli uomini (Mc 10, 38; Lc 12, 50). Questo è ora il ‘suo battesimo’. In questa prospettiva anche il rito battesimale, segno di penitenza, al quale egli si è sottoposto...e che ha segnato una svolta nel suo progetto storico, diventa espressione della sua condivisione del destino dei peccatori»[19].

In conclusione, se la predicazione di Gesù non può essere isolata dalla sua prassi, non può esserlo nemmeno dalla sua autocoscienza, giacché questa sarebbe del tutto immotivata. Si contraddirebbero inoltre tutte le più elementari norme sia dell’agire, che dell’interrelazione, secondo le quali il progetto è sempre una sintesi dinamica tra coscienza, possibilità storiche ed avvenimenti. Ma è anche una continua verifica e un costante rimbalzo verso stesso soggetto delle reazioni e delle modifiche che il suo atto comunicativo (qui la predicazione) suscita. Ora, nemmeno in questo caso Gesù si è sottratto alla logica dell’incarnazione: accettando il dinamismo interrelazionale, la sua autocoscienza è da considerarsi profondamente legata al suo agire e al re-agire di coloro che ne restavano coinvolti. Ciò riguardava in primo luogo i discepoli più vicini a Gesù, con i quali egli condivise la coscienza che aveva della sua missione e quindi, in ultima analisi, la sua “cristologia».

Ma, in questo modo, si dovrà prima o dopo convenire con ciò che scrive R. Feneberg, il quale ritiene che i vangeli appartengano alla cristologia esplicita, e non più implicita, a motivo della coscienza teologica di Gesù. Sicché

«Gesù ha ripensato a se stesso. Ebbe una teoria della sua vita e con ciò una cristologia esplicita. Naturalmente questa non esisteva al di fuori o al di sopra della prassi, quindi in modo astorico, ma ebbe un suo sviluppo solo insieme con essa»[20].

Con ciò, pensiamo di aver indicato anche una base teorica per comprendere le varie modalità espressive della prassi di Gesù. Esse corrispondono ad alcune tappe fondamentali della sua vita, secondo alcune «forme» o schemi di interpretazione teologica, reperiti nella Scrittura e rivissuti e rielaborati dalla sua coscienza. Sono, nondimeno, più modalità che tappe storicamente delimitate ad alcune fasi storiche precise. Sono infatti in ordine di progressivo approfondimento e radicalizzazione, ma si possono tutte ricondurre all’ermeneutica della fedeltà a Dio e della solidarietà con gli uomini, un’ermeneutica che potremo alla fine compendiare come prassi di pace. Questa si esprime attraverso una prassi profetica e convocatrice, una prassi di misericordia e di liberazione e una prassi diaconale ed oblativa

8. 2. Prassi profetica e convocatrice

L’agire di Gesù è certamente da contestualizzare nella situazione storico-geografica del tempo, ma avvertendo che l’interpretazione di tale contesto avviene in Gesù attraverso le categorie religiose nelle quali egli si muoveva e con le quali viveva. Come riconosce la maggior parte degli autori già citati, Gesù, pur agendo come profeta e come maestro, si distingue da tutti i profeti e da tutti i maestri d’Israele per una sua originalità e peculiarità, tanto da far dire a qualcuno che siamo davanti a un’immediatezza senza confronti e senza precedenti[21]. Come però accennavamo, la forza e l’immediatezza di questa originalità sono tratti di un’interpretazione teologica che non può risalire che a Gesù e alla sua stessa prassi. Questa si colloca a diversi livelli, ma intercetta e attraversa realtà che sono di carattere biblico ed etico, profetico e politico. Tocca, in primo luogo l’interpretazione circa il popolo di Dio che vive nella Palestina dell’epoca. A ciò dovremo ora fare riferimento per meglio comprendere l’agire di Gesù, i suoi interlocutori e le concrete situazioni nelle quali egli era venuto a trovarsi.

8. 2.1. L’impiantazione dell’impero e la predicazione del regno di Dio

La Palestina del tempo di Gesù vedeva convivere in maniera conflittuale, di una conflittualità che talora esplodeva esteriormente, ma spesso ribolliva internamente, strutture di dominatori e situazioni di adattamento da parte dei dominati, idealità religiose ed opportunismi e calcoli politici[22]. Ridotte forzosamente ad essere province dell’impero, la Galilea e la Giudea erano entrate in un circuito amministrativo, economico e militare, che non solo era molto più grande di esse, ma minava inesorabilmente la loro compagine socio-religiosa, perché aveva innescato un processo disgregante che scatenava una profonda crisi strutturale e teologica.

A livello economico ed agrario, si diffondeva sempre più la proprietà latifondiaria, che soppiantando i piccoli appezzamenti di terreno, faceva aumentare il numero dei braccianti a giornata.

Il censimento condotto agli inizi del primo secolo da Publio Sulpicio Quirino aveva come scopo la compilazione di un catasto avente per oggetto persone e proprietà per una loro accurata tassazione. Produceva effetti economici molto nocivi su una popolazione di per sé già abbastanza povera ed effetti ancora più devastanti sulla stessa anima religiosa dell’israelita.

Il censire la terra come proprietà dell’imperatore significava infrangere uno dei cardini della struttura socio-religiosa ebraica, che ascriveva la terra alla proprietà di Dio, il quale la dava in usufrutto al suo popolo. Quanti avevano responsabilità politiche e religiose in Israele si erano invece piegati alla nuova situazione imposta dal dominio romano. Avevano cercato di trarre da ciò tutti i benefici possibili. Tra costoro c’erano naturalmente i collaboratori attivi alle operazioni di esazione, l’aristocrazia sacerdotale, i sadducei, la famiglia di Erode ed i circoli a lui legati. A questi sono da aggiungere i latifondisti, che, d’accordo con l’autorità romana, potevano ampliare e migliorare la coltivazione della terra, ed infine i grandi commercianti.

I detentori del potere religioso e giudiziario, raccolti nel Sinedrio, godevamo di un’autonomia fittizia, che se accontentava i suoi membri, scontentava ogni giorno di più il popolo che si sentiva sfruttato e tradito. Sicché, mentre l’impero e le sue strutture s’impiantavano, cresceva il disorientamento di quella gente, che era chiamata ’am ha-arez, il popolo della terra e che al tempo di Gesù indicava gli incolti e la gente semplice e modesta, cui si aggiungevano quanti nella nuova situazione avevano perso i loro pochi beni o la loro identità socio-religiosa.

Di fronte all’impiantarsi dell’impero e al rispettivo sgretolarsi dell’identità e delle speranze di un popolo siffatto, l’agire di Gesù si va delineando come sovrana, libera e decisiva predicazione del regno di Dio e dei suoi irrinunciabili diritti.

Si tratta di un regno la cui originalità sulla bocca di Gesù è ben sottolineata dai commentatori, che mettono in luce l’inafferrabilità e l’immediatezza della sua presenza[23], ma anche il suo inarrestabile venire, a favore dei piccoli, dei poveri e dei lontani[24]. A ciò sono tuttavia da aggiungere le modalità implicate in quest’annuncio, i caratteri con i quali il regno viene attraverso la prassi di Gesù, la quale ad essi si ispira e da essi resta modellata.

8.2.2. Prassi di gratuità e di solidarietà

La predicazione del regno avviene, in primo luogo, nella e attraverso la prassi di Gesù, che è essa stessa messaggio di gratuità e contestazione della logica dell’accumulazione e del profitto.

In una situazione che sul piano etico-economico stravolge il cuore della torah, perché favorisce il profitto, l’accumulazione e l’opportunismo, il messaggio e la prassi del regno di Dio ne contestano l’impostazione complessiva perché sono prassi ed annuncio del dono e della gratuità. È la prassi di una povertà, che mentre si esprime in Gesù con il fatto che egli non ha nemmeno dove posare il capo (Lc 9, 58; Mt 8, 20)[25], si radica nella sua strabiliante certezza di avere Dio per padre. L’invito a scorgere l’agire provvido ed amorevole di Dio nel nutrire gli uccelli del cielo e nel vestire i gigli dei campi (Mt 6, 26-32; Lc 12, 22-31) non è pertanto panacea consolatoria ed alienante per i derelitti, è piuttosto denuncia e profezia contro chi si affanna, dicendo:

 «Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?...Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi... Poi dirò a me stesso: Anima mia hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia» (Lc 12, 17-19).

Su colui che ragiona così, nella logica della tesaurizzazione e con la soddisfazione dell’avidità appagata, la parola di Gesù si abbatte con la virulenza delle più dure profezie: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12, 20).

Gesù vuole inoltre sottolineare che la prassi della solidarietà, legata alla coscienza dell’agire di Dio nei confronti dell’uomo, è indispensabile per poter far parte del regno ed esprimere la sua novità e le sue caratteristiche. Perciò egli condanna l’ingordigia di chi banchetta lautamente tutti i giorni, lasciando Lazzaro fuori della porta (Lc 16, 19-30) e di chi si occupa esclusivamente di problemi di eredità e di garanzie economiche (Lc 12, 13-15; Mt 6, 25);  stigmatizza l’altalenarsi di chi non sa mai decidersi tra il servizio al denaro, chiamato mammona, e il servizio a Dio (Mt 6, 24; Lc 16, 13).

Il regno esige una prassi di gratuità e di condivisione, quella stessa con la quale Gesù va incontro ai peccatori e agli afflitti, ai poveri ed ai sofferenti. L’appello di Gesù non è prevalentemente etico, ma è un invito ad entrare nel circuito della sua prassi, che è poi quella del regno di Dio che viene. In quest’ottica acquistano una nuova luce parole come queste: «Ebbene io vi dico: procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché quando verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16, 9). Per questa ragione Gesù non esita ad andare a casa di quel pubblicano di nome Zaccheo nel quale sono chiari i segni di un’inversione di tendenza, cioè dall’avidità alla convivialità; dall’abuso di potere con frode, a scopo di lucro, alla condivisione solidale. Lo dimostrano inequivocabilmente gli impegni che costui assume solennemente davanti a Gesù e ai convitati: «Ecco, Signore, io dò metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto»  (Lc 19, 8). Nella condivisione e nella solidarietà, praticata e richiesta da Gesù ritroviamo la sua volontà aggregatrice dell’intero suo popolo.

8.2.3. La prassi che riaggrega un popolo diviso e disperso

8.2.3.1.  Situazione all’epoca di Gesù

Il quadro della società palestinese che Gesù si trova davanti è senza dubbio avvilente. All’avidità delle classi emergenti e alla penetrazione subdola dell’opportunismo e del calcolo dei più ricchi, fa riscontro, come si diceva, un diffuso disagio tra i più poveri, la cui identità di popolo di Dio attraversa momenti di crisi dovuta anche alla risposta assolutamente inadeguata da parte della classe sacerdotale, dei rabbini e dei dotti del tempo. La sua coscienza teologica gli consente di scorgerne le contraddizioni e di proporre una nuova riaggregazione.

Gesù aveva di fronte differenti scuole rabbiniche, che si diversificavano in una miriade di interpretazioni della torah, e che si possono disporre a ventaglio tra due estremi, un’ermeneutica rigorista, risalente a Shammai, ed una moderata, che faceva capo a Hillel. Ciò aveva per risultato la proliferazione di molteplici partiti religiosi e politico-religiosi, ma anche la confusione e la divisione del popolo. Come anche Ben-Chorim riconosce, la particolarità dell’insegnamento di Gesù non consiste nel fatto che egli abbracci l’interpretazione di Hillel e la diffonda, poiché la sua interpretazione è talora umanizzante, talora rigorista[26]. Egli si pone piuttosto al di fuori e al di sopra del dibattito, perché afferra, ci sembra, il vero capo del problema: l’urgenza e la radicalità di una riconvocazione del popolo d’Israele.

La coscienza messianica si manifesta in lui attraverso questa prima forma di ermeneutica teologica: l’impellenza di una raccolta escatologica del qehal Jahvè, cioè del popolo di Dio. Dicendo ciò, noi non ricadiamo nello psicologismo delle vite di Gesù precedenti a Bultmann, né nell’interpretazione dell’«escatologia conseguente» di Schweitzer. Infatti non ricorriamo a spiegazioni di tipo psicologico, dicendo, come Schweitzer, che Gesù si sarebbe sbagliato nell’attendersi un’irruzione imminente del regno di Dio e ne avrebbe ripensate le condizioni fino a considerare la sua morte indispensabile per forzarne la venuta. Riscopriamo piuttosto i tratti teologici di quella biografia teologica di Gesù, che può essere riletta solo alla luce delle forme ermeneutiche sotto le quali egli considera la sua missione. I vangeli ci testimoniano senz’ombra di dubbio questa volontà convocatrice di Gesù, mentre i risultati dell’indagine storico-sociale della Palestina dell’epoca ci parlano di alcune cifre, anche se approssimative: circa seimila farisei, quattromila esseni e un numero ancora più ridotto di sadducei, di fronte ai sei-settecentomila membri del «popolo della terra».

È a quest’ultimo che Gesù pensa e al quale si indirizza, perché lo vede sbandato come gregge disperso, in cui ognuno va per la sua strada come «pecore senza pastore» (Mc 6, 34; Mt 9, 36; cf. Nm 27, 17; Ez 34, 5; 1 Re 22, 17). Il vangelo sottolinea ripetutamente lo sguardo di attenzione e di misericordia di Gesù per questo popolo[27], che accorre intorno a lui come era accorso alla predicazione del Battista. Marco parla della compassione di Gesù per la folla che lo segue da tre giorni e non ha nulla da mangiare (Mc 8, 1-2). Matteo e Marco mettono in risalto il moto di commozione che coglie Gesù nel vedere la gente che lo ha preceduto a piedi lungo la riva del lago, per poterlo ascoltare (Mt 14, 13-14 e Mc 6, 34). Troviamo ancora in Matteo la composizione di queste «folle» (ochlòi), (cf. Mt 15, 29-31.36), che però talora sono indicate anche con il termine al singolare (òchlos) (M 15, 32.33). Si tratta di un popolo in cui ci sono zoppi, storpi, ciechi, muti e molti altri, che Gesù guarisce, ma si tratta anche di un popolo assettato di ascoltare la sua parola.

Non è un’iperbole letteraria, ma una sottolineatura teologicamente importante quest’informazione:

   «Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui» (Mc 3, 7-8).

È teologicamente importante l’annotazione della sequela di quel popolo: «lo seguì» (da acoluthein), in parallelismo con il «venne da lui», perché sono gli stessi verbo che indicano la pronta reazione degli apostoli e di quanti Gesù chiama ad essere suoi «compagni di strada», concetti impliciti nel verbo acoluthein.

8.2.3.2.    Le folle e il popolo di Dio

I luoghi evangelici in cui compare il popolo, nelle diverse accezioni di «folla», «le folle» o «popolo» (corrispondenti a ochlos, ochloi, e «laos) sono molto numerosi. La traduzione italiana scambia spesso questi termini che, a rigore, anche se non sempre presentano una netta distinzione, nondimeno possiedono sensi differenti. Volendo dare delle indicazioni generali su queste differenze, si può dire che il senso oscilla tra quello narrativo (la folla o le folle = la gente), sociologico (la popolazione), politico (il popolo d’Israele e gli altri popoli) e teologico (il popolo di Dio), che non di rado è presente almeno indirettamente in alcuni dei sensi precedenti.

Siamo dinanzi a un senso più che altro narrativo lì dove si parla di folla che fa ressa e si accalca da ogni parte, come, ad esempio, nel caso dell’emorroissa (Lc 8, 42), o della folla che accompagna il feretro del figlio della vedova di Naim (7, 11) o della folla sobillata a chiedere la liberazione di Barabba e la morte di Gesù (cf. Mt 27, 20; Mc 15, 11; Lc 23, 1, che ha «moltitudine», plethos). Il senso tende però a diventare sociologico, quando invece si parla del «popolo» come di un’unità a sé stante, come quando si dice che si teme un suo tumulto (Mt 26, 5; Mc 14, 2; Lc 22, 2; Mt 14, 5; Mt 26, 5) o che viene sobillato da Gesù (Lc 23, 5). Con maggiore chiarezza si può individuare un senso politico e religioso insieme nei contesti dove compaiono i «popoli» al plurale, per indicare le genti (éthna, o laòi) (Mt 11, 17, che riprende Is 56, 7 e Lc 2, 31, che riprende Is 52, 10).

Nella restante maggior parte dei casi la situazione diventa più complessa. Il popolo può essere un’entità chiaramente biblico-teologica. È il «popolo di Dio» salvato in conformità con le antiche promesse (Mt 1, 21; Mt 2, 6; Mt 4, 16; Lc 1, 68; Lc 2, 11; Lc 2, 32) o il popolo rimproverato da Gesù, come dai profeti, perché manifesta un cuore duro e lontano dal suo Dio (Mt 13, 15; Mt 15, 8). Anche se a prima vista sembra debba subire l’ira di Dio (Lc 21, 23), è il popolo per il quale Gesù muore (Gv 11, 50; Gv 18, 12) e perciò è ancora chiamato alla salvezza.

Lo troviamo pertanto intento ad ascoltare la parola di Giovanni, sulla cui identità esso si interroga e dal quale tuttavia si lascia battezzare (Lc 3, 7.10; Lc 3, 15; Lc 3, 21), ma è intento più frequentemente ed intensamente ad ascoltare Gesù (Lc 7, 1; Lc 8, 42; Lc 19, 48; Lc 20, 1.9.45). A questo popolo Gesù parla, perché lo vede assetato di ascoltare la sua parola e perciò le maggiori controversie con i suoi oppositori avvengono alla sua presenza (Mc 2, 2; Mt 14, 13-14; Mc 6, 34; Lc 20, 26.45). La disponibilità del popolo all’ascolto, tanto da pendere dalle labbra di Gesù si manifesta quando egli parla nel luogo più qualificato, nel tempio (Lc 19, 48; Lc 20.1; Gv 8, 2). La sua frequentazione di Gesù, sottolineata soprattutto da Luca, sembrerebbe connotarne l’identità teologica. L’esistenza e la vita del popolo di Dio, suggerisce il Vangelo, dipendono direttamente dalla parola del «Signore», cioè Gesù, subentrato ai profeti e superiore ad essi, che parlavano a nome del Signore, cioè di Jahvé. Sembrerebbe confermarlo anche quel brano di Marco che presenta Gesù circondato dal popolo, seduto ad ascoltarlo e che Gesù riconosce come la vera sua famiglia, prendendo lo spunto dal fatto che sono sopraggiunti i suoi consanguinei (Mc 3, 31-35).

Il senso concettuale del popolo pertanto oscilla tra l’accezione teologica e narrativa lì dove se ne parla come un’entità temuta dai potenti, perché in qualche modo fa da sentinella all’autenticità profetica di Gesù, così come aveva fatto nei confronti del Battista (Mt 14, 5; Mt 26, 5; Mc 14, 2; Lc 22, 6). Ha un’identità più teologica, quasi liturgica, quando loda Dio per ciò che vede compiersi in Gesù (Mc 2, 12; Mt 2, 8; Lc 18, 43), così come era in preghiera nel tempio al momento dell’offerta di Zaccaria (Lc 1, 10). Ciò che Gesù compie avviene «davanti a Dio e a tutto il popolo» (Lc 24, 19) ed è, come si è detto, per la sua liberazione e salvezza.

Sembrerebbe un popolo che segue Gesù, e dovrà seguirlo -suggerisce forse l’evangelista - fino al calvario, giacché la folla composita che gli sta dietro sulla via dolorosa ricorda l’umanità peccatrice e dolorante che correva da lui ad ascoltarlo sulle rive del lago. Ora che l’ora della croce è scoccata, dietro Gesù troviamo «un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna», cui è imposta la sua croce (Lc 23, 26), ma troviamo anche, intenta a seguirlo (il verbo è di nuovo acoluthein) una gran moltitudine di popolo (plethos toù laoù), in cui ci sono le donne che fanno lamento e persino i due malfattori che stanno per essere giustiziati (Lc 23, 27-32). Di questi ultimi uno seguirà Gesù, in quello stesso giorno, fin nella sua dimora del Paradiso (Lc 23, 39.43).

Sembra essere, infine, del tutto ambivalente ciò che riferisce Luca a proposito di un popolo, e qui il tono si fa più discorsivo, che «sta a guardare» Gesù ormai pendente dalla croce, quasi a sottolinearne, - si direbbe - se non proprio l’indifferenza, la curiosità, che lo avrebbe spinto fin là (Lc 23, 35). Ma dello stesso popolo (questa volta indicato con ochloi), Luca afferma di lì a poco che, avendo visto il modo con cui Gesù era morto, se ne tornava a casa percuotendosi il petto, in un atteggiamento quasi liturgico-penitenziale (Lc 23, 48).  Ciò solleva naturalmente il dubbio se l’interpretazione dello «stare a guardare» sia da intendere solo in un senso narrativo o se piuttosto, come ci sembra, in un senso più teologico: cercare di scorgere in quella morte l’agire di Dio attraverso la persona di Gesù. Non è da escludere un’allusione alla fondamentale ambivalenza delle masse e degli uomini di ogni tempo di fronte alla croce del Signore: la compunzione del cuore e la conversione, oppure una sostanziale indifferenza che pur asseconda una sorta di morbosa curiosità.

Per ciò che riguarda complessivamente la coscienza di Gesù sul popolo di Dio, si deve, in conclusione, ritenere che egli aveva ben chiaro il concetto del qehal Jahvé della Scritture, ma confrontandolo con la realtà dell’epoca, vedeva anche l’urgenza non tanto di un intervento come quello del Battista, ma di una sua riconvocazione e di un suo profondo rinnovamento interiore. Il suo parlare quasi senza tregua a quel popolo e a coloro che Gesù associa a sé nella predicazione, al di là di tutti i problemi letterari sollevati dalle raccolte dei discorsi, manifesta questa sua volontà convocatrice. In questo contesto riceve anche significato la vocazione dei «dodici», che oggi comunemente si mette in rapporto alle dodici tribù d’Israele, la cui unità e conversione stanno sommamente a cuore a Gesù[28]. Attraverso tale convocazione egli predica il regno. Esso è venuto ed è già in mezzo agli uomini (Lc 17, 21). Il tempo è compiuto, perciò occorre convertirsi (Mc 1, 15; Mt 4, 17). È la raccolta escatologica dove pubblicani e peccatori, prostitute ed emarginati da un lato, ma anche farisei e sadducei, esseni e zeloti, dall’altro, vengono tutti convocati ad una radicale conversione per entrare, rinnovati, nello stesso regno[29].

Gesù avverte l’impellenza della raccolta escatologica del regno, alla quale lega la coscienza della sua messianicità, anche perché i responsabili d’Israele non pensano che a pascere se stessi. Egli riprende l’invettiva di Ezechiele che denunciava: «Per colpa del pastore si sono disperse (le pecore) e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura (Ez 34, 5-6)». Anche la denuncia di Gesù è netta: chi si comporta così «è un mercenario e non gli importa delle pecore» (Gv 10, 13). Gesù avverte di essere venuto per radunare il gregge che è del Padre: «Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio» (Gv 10, 29-30).

Gesù riconvoca solennemente il popolo di Dio disperso (Mt 11, 28-30) e accusa quanti non compiono il loro dovere verso il popolo di Dio, di inettitudine e rapina: «Chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte è un ladro e un brigante» (Gv 10, 1). Sono parole che non possono essere fraintese in senso spiritualistico, perché testimoniano una forte prassi di aggregazione, che si basa sulla coscienza di un profondo legame con il Padre. Lo dimostra il fatto che queste parole furono intese in un senso così concreto da alcuni giudei che si erano sentiti investiti dalla denuncia di Gesù, che essi «portarono di nuovo le pietre, per lapidarlo» (Gv 10, 31).

8.3. Prassi della misericordia e della liberazione

È singolare nel Vangelo il movimento crescente e contrapposto tra l’amore misericordioso ed aggregante di Gesù, che si va sempre più affinando e precisando fino al dono della propria vita, e l’ostilità sempre più dura e minacciosa, fino a diventare omicida, di quanti detenevano il potere nella Gerusalemme di allora.

Gesù aveva iniziato a realizzare sua la missione messianica cominciando ad annunciare il vangelo dopo l ‘arresto di Giovanni ordinato da Erode e nel triangolo costituito da Cafarnao, Betsaida e Corazin (Mc 1, 14-15; Mt 4, 12-17; Lc 4, 14-15), più a al Nord di Nazaret, sulla punta settentrionale del lago di Tiberiade. Il fatto che Gesù non si sia recato dalla sua città di Nazaret direttamente a Gerusalemme, ma si sia spinto verso il Nord, ci indica la coscienza della continuità, ma anche del superamento che egli ha rispetto alla missione del Battista. Mostra anche la sua intenzione convocatrice del popolo di Dio, a partire da quella regione che era a confine con i pagani, sicché si potesse realizzare la parola profetica di Isaia: «il popolo che sedeva nelle tenebre ha visto una grande luce, e per coloro che sedevano nella regione ed ombra di morte è sorta una luce» (cf. Is 8,23-9,1 come riporta Mt 4, 12-15, ma cui allude anche Lc 1, 78-79).

Di là Gesù si reca fino a Cesarea di Filippo, nella regione pagana di Tiro e Sidone (Mt 16, 13; Mc 8, 27), dopo aver espresso la sua amarezza per la poca accoglienza di città come Cafarnao, Corazin e Betsaida. Ciò lo porta ad affermare che proprio Tiro e Sidone sarebbero state, al confronto, più sensibili e si sarebbero convertite (Mt 11, 20-23; Lc 10, 13-15). In questa regione, distante da Cafarnao circa 40 chilometri, hanno luogo la domanda di Gesù sulla sua identità rivolta ai discepoli, la risposta di Pietro e il primo annuncio della passione (Mc 8, 27-33; Mt 16, 13-23; Lc 9, 18-22).

Ma proprio qui si intravede un primo ganglio della coscienza messianica di Gesù e la sua decisione di andare a Gerusalemme, pur nel contesto della risposta di Pietro, che lo riconosce come Messia.

«A partire da questo avvenimento,  -  scrive W. Feneberg -  c’è una doppia risposta di Gesù, la cui seconda parte è tematizzata solo da Matteo: è deciso che io debba andare volontariamente incontro alla morte, che come servo di Dio debba portare i peccati di molti (cf. Mc 10, 45); ma per adesso mi dedico alla fondazione (Gründung) del vero Qahal. La formazione dei discepoli e un nuovo modo di esprimersi in parabole - diventare come i bambini, il perdono, non darsi alcuna preoccupazione, il Padre misericordioso - segnano questa via di circa 150 chilometri, che Gesù ha rifatto da Cesarea di Filippo in direzione di Gerusalemme. Qui l’aspetta la città santa. È la città del Messia»[30].

Ma Gerusalemme è anche il luogo del tempio.  Proprio per questa ragione è il crocevia obbligato di ogni transazione civile, religiosa ed economica. Ma è anche il luogo che visualizza le tante contraddizioni e tensioni presenti in Israele. In questa città è palese più che altrove il divario tra la crescente ricchezza delle caste legate al potere politico e religioso e l’impoverimento di un popolo lasciato in balia di se stesso e delle suggestioni di gruppi nazionalisti estremisti. Ma a Gerusalemme le aspirazioni più genuine delle classi popolari sono verso una purificazione ed una restaurazione in senso messianico delle istituzioni religiose. Mentre, come si è accennato, a ciò corrisponde, nelle classi elevate una situazione di commistione e compromesso con il potere, con casi evidenti di corruzione, intrighi e ipocrisie istituzionali.

In questo tipo di amministrazione il popolo geme dappertutto sotto un giogo di pesanti fardelli legati sulle sue spalle dalle autorità civili e religiose. Le invettive di Gesù a questo riguardo fotografano, come molti personaggi delle sue parabole, la società del tempo. Qui sono da trovare, infatti, un giudice iniquo e arrogante che si sottrae ripetutamente al suo dovere di compiere giustizia ad una povera vedova (Lc 18, 1-8); un fattore che si garantisce il futuro favorendo i suoi clienti con la manomissione degli atti amministrativi (Lc 16, 1-13); i nuovi ricchi, spensierati e spendaccioni che ammazzano il tempo banchettando lautamente, mentre i nuovi poveri, come Lazzaro, aspettano che si svuotino fuori della porta i contenitori dei rifiuti, per mangiare gli avanzi (Lc 16, 19-31). Nella regione di Gerusalemme e dintorni non mancano ancora, si diceva, diatribe teologico-dottrinali senza fine[31].

Chi detiene il potere della scienza non solo non lo mette a servizio degli umili, ma si abbandona ad atti sistematici di indottrinamento forzoso e perfino di plagio verso gli sprovveduti. Le parole di Gesù a questo riguardo sono collocate da Matteo, molto significativamente, dopo la purificazione del tempio. Sono di una chiarezza e di una forza inaudite:

«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi ed i farisei. Quanto vi dicono fatelo ed osservatolo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23, 2-3).

E poco dopo, apostrofandoli direttamente, esclama:

«Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi» (Mt 23, 15).   

La proposta di Gesù è invece liberante. Il suo insegnamento non è quello di una scuola tra le altre, ma si può indicare in un rapporto personale e dinamico tra lui ed i suoi discepoli. Egli supera ogni discussione, che spesso era solo accademica, sulla gerarchia dei comandamenti, proponendo non un altro comandamento, ma il suo modo di vivere la torah: l’amore che diventa fedeltà e sequela. Tutta la torah ruota intorno all’amore e non avrebbe ragion d’essere, senza di essa (Mc 12, 29-33; Mt 22, 36-40; cf. anche Gv 15, 9-17).

A chi chiede di poter accedere all’esperienza nuova e radicale dell’amore di Dio attraverso l’amore dell’uomo, Gesù propone come al «giovane» ricco di Matteo l’unica strada possibile, quella che egli ha tracciato: lasciare tutto e seguirlo (Mt 19, 20-22; Mc 10, 20-22; Lc 18, 22-23). In questo modo si realizza l’unità di intenti e di destino tra lui e quanti sono diventati suoi compagni di strada, quell’unità profonda che è il fondamento e la giustificazione ultima dell’amore (Gv 15, 1-8).

In questa nuova ottica, Gesù riporta la “legge” al suo nocciolo essenziale: la giustizia, la misericordia, la fedeltà. Riporta l’uomo al cuore di sé stesso: alla fiducia, all’amore, al perdono. Per questa ragione il modo di intendere la torah da parte di Gesù avviene su due piani: la radicalizzazione della stessa legge, perché egli ne coglie l’anima profonda che l’ha generata e la sua umanizzazione, perché la vede sempre a beneficio dell’uomo e mai contro l’uomo. Può affermare ripetutamente «Avete inteso che fu detto agli antichi...», ma può aggiungere ogni volta «ma io vi dico...», perché sa di non abolire ma di dare spessore e compimento alla stessa torah (Mt 5, 17-48). La chiave di volta del suo insegnamento è nell’essere perfetti, come il Padre è perfetto (Mt 5, 48), giacché non viviamo più nella logica del servo o nel timore dell’uomo religioso, ma viviamo nella logica dei figli (Mt 6, 5-18).

Sarebbe errato ritenere la posizione di Gesù rispetto alla legge come semplice liberalità o maggiore tolleranza, perché egli in effetti esige un cambiamento radicale di prospettiva. Capirne le tensioni ideali che lo muovono significa entrare nella sua prassi di misericordia e di amore incondizionato verso i disprezzati e i derelitti, a differenza non solo dei farisei, che insistendo sulla legge ne hanno dimenticato il cuore ed hanno dimenticato l’uomo (Mt 23, 23; Lc 11, 42; Mc 7, 6-17; Mt 15, 1-20), ma anche degli zeloti e degli esseni, la cui intransigenza li rendeva sprezzanti verso gli erranti ed i pubblicani. Gesù può perciò affermare un principio che contiene, in maniera lapidaria, ciò che egli pensa della legge. Questa ha valore salvifico per l’uomo, non può schiacciarlo, ma, al contrario, lo deve liberare, immettendolo in un circuito di vita e di benedizione che è quello di Dio: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2, 27), o , come traduce Ben-Chorin, «Il sabato è dato a voi e non voi siete dati al sabato»[32].

È ancora la pratica di una misericordia liberante che giustifica la convocazione dei poveri del popolo della terra, ai quali non si sarebbero mai rivolti né i dottori della legge (chabherim), né i farisei (perushim). Ciò apparirà ancora più rivoluzionario, se si pensa che in costoro il disprezzo verso l’‘am ha-arez era tale che essi consideravano, come riferisce Ben-Chorin, il matrimonio tra uno della loro casta e una ragazza del popolo della terra alla stessa stregua dei rapporti di bestialità aborriti dalla Scrittura[33].

L’annuncio del vangelo ai poveri non deve perciò destare scandalo in nessuno (Mt 11, 5-6; Lc 7, 22-23). Le beatitudini (Mt 5, 1-12; Lc 6, 20-23) con il seguito del suo discorso programmatico ed il suo modo di agire dimostrano che Gesù è cosciente dell’importanza di questo fatto per la sua missione (Lc 4, 16-21). Anche in questo caso la sua prassi è informata alla misericordia che libera gli oppressi. Egli non vuole offrire semplicemente sollievo a chi soffre ed è economicamente, culturalmente o moralmente oppresso, ma propone un nuovo modo di guardare alla vita, alla società, perché propone un modo nuovo di guardare a Dio e a se stessi. È come se dicesse: «Voi che soffrite e siete disprezzati e poveri, affamati e dimenticati, state in piedi e camminate a testa alta, perché il regno di Dio appartiene a voi!»[34].

La misericordia di Gesù, sembra il filo rosso che percorre trasversalmente tutto il Vangelo. Storicamente, nessuno più dubita che sia una delle caratteristiche della sua predicazione e del suo agire. La prassi di misericordia si esprime in motivazioni teologiche che hanno il loro centro nell’atteggiamento misericordioso di Dio. Gesù si sente in piena comunione con il Padre proprio per la sua prassi di misericordia e di liberazione. Egli trasalisce di gioia indicibile, nel constatare che il vangelo viene compreso da quei piccoli e poveri ai quali egli ha inteso rivolgersi (Mt 11, 25-27). Interviene con tutta la sua autorità per precisare che è venuto per i malati che hanno bisogno del medico (Mc 2, 16-17; Mt 9, 9-13; Lc 5, 30-31). Illustra l’amore misericordioso e liberante di Dio con le più toccanti parabole che siano state mai pronunciate (Mt 18, 12-14; Lc c. 15). Interviene a favore dei bambini (Mc 10, 13; Mt 19, 13-15; Lc 18, 15-17; Mt 21, 15-17) considerati incapaci di rapportarsi a Dio e alla torah fino al giorno della loro iniziazione alla lettura della legge, quando diventavano «figli del comandamento» (bar-mitzvàh). Difende la peccatrice e ne elogia la sua conversione e l’amore nei suoi confronti (Lc 7, 36-47; Mc 14, 3-9; Mt 26, 6-13). Salva dalla lapidazione l’adultera, prendendo le sue difese (Gv 8, 1-9ss). Valorizza la donna (Mc 1, 29-31 e paralleli; Lc 13, 10; Gv 4, 1-21; Gv 20, 11-15) ed ammette, cosa inaudita per l’epoca, le donne alla sua sequela e al suo discepolato (Lc 8, 1-3; Lc 10, 38-42)[35]. Cerca un ultimo, estremo contatto con Giuda nell’ora del tradimento (Mt 26, 21- 25.48-50; Lc 22, 47-48). Perdona i suoi crocifissori (Lc 23, 34). Ha comprensione e parole di salvezza per il «ladrone» che pende accanto a lui sulla croce (Lc 23, 39-43).

Oltre a provare misericordia per il popolo, come già si è visto, e per i tanti sofferenti ivi presenti, egli aveva anche voluto allestire per loro una sorta di banchetto messianico, in un luogo deserto, dove la gente era accorsa ad ascoltarlo (Mc 6, 35-44; Mt 9, 15, 21; Lc 9, 12-17; Gv 6, 4-14). Aveva voluto «ardentemente» mangiare la Pasqua con i suoi, nell’ora suprema della sua vita, nell’imminenza della dispersione dei discepoli e della sua consegna ai crocifissori (Lc 22, 14-18).

Sono tutti momenti che ci manifestano il mondo interiore che muoveva Gesù. Ci additano non solo e non tanto i tratti umani del suo carattere, ma le sue intime convinzioni e le sue ragioni teologiche autentiche. In forza di queste, si può dire che dal tempo della confessione di Cesarea di Filippo, Gesù va operando un collegamento che diventa sempre più chiaro, sempre più ineludibile tra la sofferenza e la sorte del suo popolo e la sofferenza e la sorte della sua persona. In lui la prassi misericordiosa della liberazione è così legata alla sua persona e alla teologia che la sorregge, da essere prassi diaconale, cioè prassi di servizio e, alla fine, prassi oblativa, cioè la prassi di chi si offre interamente, fino a dare la sua vita per gli altri.

8.4. Prassi diaconale ed oblativa

Il modello di un esercizio di potere come arrivismo, sistemazione personale e dominio sugli altri era ben presente nella Palestina dell’epoca e rischiava di contagiare anche i discepoli di Gesù. Luca ce li presenta intenti a discutere animosamente su chi di loro fosse il più grande, proprio mentre Gesù parlava della sua fine imminente. A questo punto Gesù smaschera la logica del dominio che si ammanta spesso della virtù della beneficenza e propone un modo nuovo di esercitare una qualsiasi autorità. Dice:

«I re delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così. Ma chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi, come colui che serve» (Lc 22, 23-27).

 L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù mentre dà un esempio sconcertante di questa nuova prassi del servizio nella scena della lavanda dei piedi (Gv 13, 1-15). Quel suo gesto è accompagnato da un insegnamento che gli apostoli non potranno mai dimenticare. Egli allora si sedette, quasi a ribadire questa volta il suo ruolo di maestro e commentò:

«Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (Gv 13,12b-17).

L’atteggiamento critico di Gesù davanti al potere esercitato dai grandi della terra muove dalla consapevolezza che se esso viene dall’alto, come si dice, non può non essere esercitato che a beneficio degli uomini, altrimenti viene dal maligno. Per questo motivo, nessuno può fermare la sua missione, perché questa viene dal Padre. Gesù inizia a predicare subito dopo l’arresto di Giovanni Battista (Mc 1, 14), dimostrando che l’Erode di turno della storia, anche se può fermare e perfino uccidere un profeta, non può arrestare la Parola di Dio, il correre della buona novella. Quando Erode Antipa vorrebbe sbarazzarsi di lui, facendogli pervenire minacce di morte, Gesù risponde dicendo che egli deve compiere la sua opera fino a quando non avrà terminato e che deve andare per la sua strada, non esitando a chiamare il re «quella volpe», appellativo che all’epoca significava «sanguinario» più che «furbo» (Lc 13, 32).

È da leggere nella stessa ottica il tanto citato (spesso a sproposito) logion del «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12, 13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20, 20-26). Alla domanda se sia lecito o no pagare il tributo, postagli dagli erodiani (collaborazionisti con l’impero) e dai farisei (che pur essendo contro l’impero, vorrebbero sfruttare abilmente l’occasione propizia per incolparlo e processarlo), Gesù risponde facendosi mostrare la moneta del tributo. Su di essa c’è l’effigie dell’imperatore con l’iscrizione che a lui si riferisce. Ad un ebreo era vietato dalla “legge” farsi qualunque effigie «di ciò che sta su in cielo o giù sulla terra, nell’acqua o sotto terra» (Dt 5, 8). Adottare monete con l’effigie e l’iscrizione dell’imperatore in una terra considerata di Dio e data al proprio popolo era una contraddizione stridente, una bestemmia per gli ebrei osservanti come i farisei. La controdomanda di Gesù è vòlta ad evidenziare questa contraddizione: «Di chi è l’immagine e l’iscrizione?». La risposta non può essere che «di Cesare». «Allora restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Ma che cosa apparteneva a Cesare? E che cosa appartiene a Dio? Cesare era un intruso in quella terra, in quella religione. Doveva essere ridimensionato al suo ruolo, giacché aveva preteso di essere Dio, come alludevano sia l’immagine che l’iscrizione della moneta. Ben lo sapevano i cristiani lettori del Vangelo di Marco, che subivano ogni genere di persecuzione perché negavano a Cesare un culto che si deve dare solo a Dio. Tale diniego deve essere ricondotto - suggerisce il Vangelo - alla volontà di Gesù.

In conclusione, anche in questo caso, e sopratutto qui, l’agire di Gesù ci riporta al suo progetto messianico più profondo: restituire a Dio ciò che gli appartiene: il suo popolo disperso, la sua terra dominata, il suo culto inquinato. In questo contesto va anche intesa la purificazione del tempio (Mc 11, 15-17; Mt 21, 12- 13; Lc 19, 45-46) e la conseguente attività messianica, con la predicazione e le guarigioni ivi operate (Mt 21, 14).

In tutto ciò i rischi che Gesù corre sono tanti. Egli ne è coscienze e prende le sue contromisure, come appare evidente da altri riferimenti evangelici relativi alla sua prassi messianica. Il fraintendimento più grossolano in cui poteva incorrere il suo agire agli occhi dei suoi discepoli e delle folle che lo seguivano, era quello di pensare che egli volesse e persino dovesse prendere in mano le redini di un messianismo politico-rivoluzionario, rispondendo alle attese del popolo con una sorta di golpe politico-popolare. Diventare insomma un vero re d’Israele, visto che l’altro re non era che un fantoccio di re, lontano dal cuore e dall’anima d’Israele. Gesù è cosciente di correre questo rischio, date le attese semplici ed immediate dei suoi ascoltatori. Perciò deve ripetutamente intervenire su questo punto, fino a respingere nettamente l’idea di impadronirsi di un potere terreno, sfruttando l’ondata di favore popolare dopo il banchetto messianico (Gv 6, 15).

Anche in questo momento Gesù smaschera la vecchia tentazione affacciatasi fin dall’epoca del ritiro nel deserto, agli inizi della sua attività pubblica. Era quella di mostrare la sua potenza e di esercitare un potere capace di risolvere ogni difficoltà materiale:

«Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo   piede”. Gesù gli rispose: “Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo”. Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”. Ma Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”» (Mt 4, 3-10; cf. anche Lc 4, 1-13).

Gesù respingerà la stessa tentazione, che si era presentata sotto forma diversa, pochi istanti prima di morire (Mt 27, 39-37; Mc 15, 29-32; Lc 23, 35-38). Proprio allora l’iscrizione che sarcasticamente lo indica come «re dei Giudei» e gli scherni degli astanti riproporrà quella di prima: «mostra quello che tu sei! Manifestati come re e tutti saranno con te!».

È un dilemma esistenziale: apparire come colui che regna o come colui che incarna le profezie del profeta perseguitato e del servo sofferente di Jahvé? Gesù non ha dubbi. Quando vengono a proporgli di diventare re, non può essere più esplicito: «voi mi cercate non perché avete visto dei segni» (non avete capito chi realmente io sia e che cosa io voglia), «ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati...Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il figlio dell’uomo vi darà» (Gv 6, 26-27).

Il discorso del pane è fondamentale per comprendere la missione di Gesù. Egli non sarà un distributore di pane, né sfrutterà l’ondata di simpatia che il miracolo della cosiddetta «moltiplicazione dei pani» gli ha suscitato attorno. Il banchetto messianico, ivi sotteso come giustificazione teologica (cf. Is 65, 13-14), è il punto di partenza per presentare se stesso come il pane. Gesù vuole diventare il pane del suo popolo. Offrirà non pane a buon mercato, ma la sua esistenza, spezzata come il pane, per la salvezza di tutti, e il suo sangue costituirà la nuova alleanza, una nuova e definitiva fonte di aggregazione. La sua è perciò una prassi che si può chiamare diaconale ed oblativa, oltre che convocatrice, misericordiosa e liberante.

Gesù ha davanti agli occhi la situazione del suo popolo, descritta con molta vivacità da un salmo con queste parole: «I malvagi divorano il mio popolo come il pane» (Sal 14, 4). Capovolge la situazione e si presenta come il pane che sarà mangiato dal suo popolo e che conferisce la salvezza e la vita: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51), perché, aggiunge, «la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6, 55).

Il racconto dell’istituzione dell’eucaristia realizzerà queste sue parole, le drammatizzerà liturgicamente nella luce tragica e gloriosa della crocifissione ormai imminente. È il momento di andare fino in fondo su questa strada. È l’ora di aggregare nel patto del suo sangue una Chiesa che sta nascendo umanamente disgregata. Nella notte del tradimento, come già si è detto nel capitolo precedente, Gesù raduna i suoi e dà per la loro unità tutto ciò che può donare. Cerca, crea unità nel momento della fuga e della dispersione. Nell’ora delle tenebre il pane spezzato e il sangue versato illuminano di gloria discreta e regale una Chiesa che nasce nell’angoscia, nell’incertezza, ma alla quale Gesù, dopo il dono del pane, darà sulla croce anche il suo Spirito. Come infatti interpreta una certa esegesi, teologicamente bene informata, Gesù muore sulla croce non solo semplicemente “spirando” (come sembra dire Luca), ma facendo dono del suo Spirito: «E chinato il capo, donò il suo Spirito» (Gv 19, 30).

Il dono del suo Spirito, si aggiunge, è da contestualizzare con l’indicazione che dal suo costato ferito scaturiscono acqua e sangue. Da qui, l’interpretazione teologica ritiene che la comunità dei seguaci nasce dunque dalla croce, con i sacramenti fondamentali del battesimo e dell’eucaristia, ma nasce soprattutto con l’ultimo dono di Gesù, il più grande, il suo Spirito. Per il suo popolo egli dà veramente tutto. La sua regalità è nell’atto di questo supremo sacrificio e ciò non può essere che la suprema evidenziazione di tutta la sua prassi e dei motivi che l’hanno sorretta. Per questo motivo il suo regno «non è di questo mondo», nel senso che non è nella logica e nella prassi dei regni di questo mondo, non può essere paragonato ad essi, né tanto meno a quello rappresentato da Pilato, che si impone con la forza e la violenza delle armi (Gv 18, 33-38). Gesù dimostra come si deve regnare nel regno di Dio e cosa vuol dire diventare pane per il proprio popolo. Con la sua croce pone il segno profeticamente più alto della critica al potere, a un potere che non è servizio, ma asservimento degli altri ed indica la strada del servizio e del dono che arriva ad offrire anche la vita per i propri amici (Gv 15, 13-15).

Cosa può giustificare un sacrificio così grande, un’offerta così totale, una critica così radicale? Sono le convinzioni profonde di Gesù, le motivazioni teologiche che lo hanno spinto. Ma è anche, contemporaneamente, l’avvenuto collegamento tra il regno di Dio e la sua stessa persona. Gesù sa ormai, dal tempo della decisione di salire a Gerusalemme, che la sua vita e il regno di Dio sono inscindibilmente uniti nell’unico atto dell’oblazione e dell’offerta di sé. Con questo dono egli realizzerà la riaggregazione salvifica del popolo di Dio. Egli interiorizza e fa suoi i modelli biblici che offrono una chiave ermeneutica per comprendere il rifiuto e la sofferenza che sta per abbattersi su di lui. Anche in questo caso, come vedremo nel capitolo seguente, la sua prassi è teologicamente fondata e il suo modo di porsi dinanzi alla ineluttabilità della condanna, prima, e durante la stessa esecuzione, poi, dimostra in Gesù la presenza di un preciso progetto, che è parte costitutiva della sua «biografia teologica».


 

 

CAPITOLO IX.
LA MORTE DI GESÙ COME FEDELTA’ AD UN PROGETTO DI PACE

9.1. Il progetto, punto d’incontro tra passato e futuro

Abbiamo già analizzato nel I capitolo la natura della conoscenza storica. Qui gioverà ricordare che questa è di indole antropologica, avendo una sua caratteristica del tutto particolare che esige l’affinità partecipe e la riflessione critica. Sono due aspetti di un unico dinamismo conoscitivo che comprende nel coinvolgimento esistenziale e che riorganizza il dato attraverso il circolo ermeneutico. In questo modo si comprende la differenza tra l’interprete ed i personaggi storici dei quali ci si occupa e si coglie ciò che ad essi ci accomuna.

Se ci chiediamo che cosa giustifichi questo dinamismo di partecipazione e di distacco, arriveremo facilmente alla conclusione, che, trattandosi di una realtà umana intrisa di temporalità, alla base c’è il tempo stesso, che consta di passato, di presente e di futuro. Sarebbe però un errore considerare queste tre modalità del tempo come semplici successioni cronologiche, quasi scansioni di tappe che si succedono l’una dopo l’altra, e nulla più. Anche il tempo, e soprattutto il tempo, va considerato antropologicamente, giacché una sua concezione meramente cosmologica ci precluderebbe ogni accesso al passato e al futuro. Le uniche possibilità restanti sarebbero un ricorso al passato solo per inventariarne i relitti e un ricorso al futuro solo come freddo calcolo delle probabilità. In un’accezione rigorosamente cosmologica del tempo, non ci sarebbe storicità, ma solo collezione di pezzi storici da antiquariato. Forse non ci sarebbe nemmeno questa, perché anche il collezionare cimeli antichi presuppone un interesse ed un’affinità per ciò che si va raccogliendo.

Il tempo certamente trascorre e la sua scansione non è cosmologicamente arrestabile da parte dell’uomo. Qualcosa accomuna l’uomo e il tempo che passano ed anche l’uomo paga il prezzo della sua cosmologica materialità, non potendo mai disporre delle leggi che ne regolano il suo nascere ed il suo morire, e quindi il suo inevitabile fluire. Ma immaginare il tempo come trappola mortale che corrode ogni cosa è ancora mitologia, così com’era mitologico il pensiero greco dell’immodificabile fato. Forse non andremo lontano dalla verità, dicendo del tempo ciò che Gesù ha detto del sabato: non l’uomo è fatto per il tempo, ma il tempo è fatto per l’uomo. L’uomo che pure è cosmologicamente sempre in balia di esso, tuttavia ne può disporre e ne dispone, con modalità proprie che sono sorprendenti.

9.2.Visione antropologica del tempo e valore del passato

In una visione antropologica passato, presente e futuro costituiscono un intreccio tale da consentirci di gettare continuamente dei ponti tra l’uno e l’altro, sicché dal presente possiamo andare a ritroso al passato, dal passato ritornare al presente e da questo spingerci persino verso il futuro. Ecco i tratti della storicità. Essa consente un sistema comunicativo tale che ciò che è accaduto diventa, attraverso la memoria, rilevante per ciò che accade e sta per accadere e ciò che accadrà diventa ugualmente determinante, attraverso il progetto, per ciò che accade nel momento attuale. Memoria e progetto impastano la temporalità umana del presente ed il presente prepara, anticipandolo, il futuro.

Essendo attività tipiche dell’uomo, la memoria ed il progetto includono tanto la sua coscienza conoscente, che la sua intenzionalità anticipatrice. A prima vista, sembrerebbe che il presente coinvolga solo il futuro, in ciò che la coscienza vive come conoscenza e tensione anticipatrice. Gettandosi in avanti, pro-gettando, la coscienza anticipa finalità da conseguire e strumenti per potervi arrivare. Ciò di cui ha bisogno è l’accuratezza e il rigore dell’analisi del presente e la proporzione tra le mete prefissate ed i mezzi adoperati. L’uomo vive di presente e di futuro, o meglio vive il presente in vista del futuro e commisura il suo progetto alla fattibilità dell’oggi. Che c’entra il passato?

Se il futuro è la molla che attiva il dinamismo della storicità, il passato costituisce il contesto, la materia base dalla quale si plasma il progetto. Il passato è, per così dire, l’insieme delle radici, che reggendo il tronco e i rami del presente, consentono la fruttificazione del futuro. Senza futuro il tempo cadrebbe nell’eterna ripetizione fatalista; ma senza passato non ci sarebbe nemmeno futuro. Il progetto, in tutte le sue forme, ivi inclusa la progettazione esistenziale, non potrebbe avvenire, perché sarebbe non solo senza radici, ma senza consistenza. Mancando la memoria, l’uomo non sarebbe che un segmento insensato, un brandello di essere, che non saprebbe mai dove sta andando, perché non sa da dove viene. Né potrebbe immaginarsi una qualsiasi meta, perché anche l’anticipazione cosciente di una meta esige la memoria, almeno come luogo vago e lontano di cui un giorno si è sentito parlare.

9.3. Il progetto come mediazione comunicativa e sorgente della  storicità

Ma a ciò è da aggiungere che se mancassero il progetto e la sua esecuzione, non ci sarebbe ugualmente futuro. La cangiante ed inarrestabile serie dei movimenti cosmologici già in atto proseguirebbe in maniera inarrestabile, come un convoglio vuoto e senza conducente che va verso l’ignoto, per essere lentamente inghiottita dall’entropia. I cambiamenti intercorsi prima del punto zero non arriverebbero mai al livello della storicità, essendo solo fasi intermedie di un moto obbligato da leggi deterministiche o, al più, come ritiene una certa fisica atomica, da nuove combinazioni e riaggregazioni casuali.

La storicità inizia lì dove inizia l’uomo, un uomo che non è un pezzo del cosmo, relitto abbandonato alla corrente dell’insuperabile mutamento, ma parte cosciente di una totalità, con la quale interagisce e comunica attraverso la memoria ed il progetto. In quest’accezione, la storicità è molto di più che la pura e semplice autorealizzazione dell’individuo, che dell’“altro”, esistente intorno a lui e prima di lui, usa in modo strumentale solo i pezzi che gli consentono la sua propria costruzione, come farebbe un bambino con il gioco del meccano.

La singola persona, nonostante l’inevitabile esistenziale solitudine con la quale si pone di fronte alla sua storia, afferra i legami che la congiungono a quest’alterità che trova intorno a sé, a ciò che in quanto passato le dà sostegno ed appiglio e in quanto presente la protegge e l’avvolge.

In sintesi, la storicità include la possibilità d’intervento sul divenire, per farne uno strumento di progetti nuovi, costruiti creativamente sulla base del passato. La capacità di leggere la propria vita in funzione del futuro, afferrando le nuove possibilità che si dischiudono nella comunicazione con il passato e con il presente, risiede nella coscienza. Chiunque vive da uomo, vive questa storicità.

Questi elementi minimali di fenomenologia della storicità devono essere tenuti presenti anche nel caso di Gesù di Nazareth. Essi diventano indispensabili nel momento in cui ci apprestiamo a vedere più da vicino il suo progetto d’esistenza e la sua coscienza di fronte alla morte.

Una contestualizzazione della vicenda di Gesù nella fenomenologia della storicità è stata fatta magistralmente da A. Rizzi, al quale si rimanda per gli eventuali approfondimenti[36]. L’autore ne presenta le linee essenziali e entra nel merito di alcune questioni che tale visione della storicità solleva. Ma ha anche il merito di prendere sul serio il testo evangelico ed in genere il Nuovo Testamento, ai fini di una ricostruzione storica di Gesù. Pur partendo da altre premesse, legate alla conoscenza «per connaturalità» dei fatti del passato e con le quali sostanzialmente ci ritroviamo[37], egli arriva alle stesse conseguenze che abbiamo visto nei fratelli Feneberg. Come loro, ritiene il dato scritturistico non solo attendibile, ma indispensabile per comprendere la storia di Gesù. E tuttavia il suo studio differisce dal loro, cui del resto è anteriore, perché non si cimenta direttamente con le premesse della «storia delle forme», ma con tutta la problematica relativa alla storicità in genere e a quella di Gesù e dell’uomo in particolare.

Dal canto nostro, attribuiamo a tale convergenza una notevole importanza. Facendo riferimento agli autori postbultmanniani, abbiamo anche potuto notare come elementi di convergenza su punti non secondari affiorino poi di fatto nell’impostazione storica complessiva che gli autori propongono su Gesù. Così come vi sono sorprendentemente vicini alcuni tratti evidenziati in opere provenienti dall’ambito giudaico.

Tenendo presenti tutti questi presupposti, vogliamo ora vedere più da vicino in che maniera la coscienza di Gesù si collochi tra una memoria, che non poteva essere che teologica e quel progetto teologale che abbiamo già considerato nel suo stesso esplicarsi attraverso la prassi. Qui la memoria teologica e il progetto teologale di Gesù vengono ora a intersecare il progetto di Dio e quello degli oppositori di Gesù, quelli che la sua prassi liberante e destabilizzante di un certo potere aveva esasperato. La sua morte sembra apparire, in questo contesto, un crocevia dove s’incontrano il progetto di Dio, il progetto di Gesù di fronte alla sua morte e il progetto di coloro che vogliono proprio quella morte. Egli legge negli avvenimenti la volontà del «Padre», non però secondo una concezione greca, cui era del resto alieno, con un’accettazione passiva e fatalista, ma scorgendo in essi la riproposizione attualistica di forme e modelli biblico-teologici. In questo modo, il passato diventa per lui memoria teologica ed il futuro diventa progetto teologale che non indietreggia ma va fino alla fine, aprendosi un varco oltre la morte stessa.

9.2. Il progetto di Gesù tra memoria e promessa

 9.2.1. La nozione del tempo e della storia nel mondo di Gesù

Il mondo in cui vive Gesù è il mondo giudaico. A condizionare la sua prassi non sono solo le circostanze storiche e socio-ambientali che abbiamo già visto, ma anche il contesto culturale e teologico con il quale egli interagisce. La sua concezione della storia e del tempo, inquadrata in quel mondo, ci riserva qualche sorpresa. Come si evidenzia oggi da più parti[38], la concezione cosmologica del tempo, come una serie di segmenti che si susseguono e a ciascuno dei quali va attribuito ogni accadimento, è del tutto lontana dal mondo biblico e dall’epoca di Gesù, così com’è distante anche dalla nostra concezione. Per noi occidentali ciò che è accaduto nel passato può essere riferito a un punto, contrassegnato dalla doppia coordinata spazio-temporale, ed ogni punto è qualitativamente simile all’altro, perché immaginiamo lo scorrere del tempo come un asettico fluire, in una sorta di contenitore riempito da fatti. Una simile visione del tempo è sostanzialmente quantitativa, giacché lo coglie come astratta unità di misura. Per l’ebreo il tempo era invece una nozione qualitativa, nel senso che ogni epoca era diversa dall’altra nella misura in cui rispondeva ad alcuni requisiti particolari conferitigli da Dio.

Molto sinteticamente, si può esprimere tutto ciò dicendo che «c’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare» (Qo 3, 4) e che ciascun tempo va valutato e va preso per come esso è, per non correre il rischio di danzare quando invece bisogna fare cordoglio o di lamentarsi quando invece è venuta l’ora della gioia.

L’uomo non dispone dell’intima qualità di ogni “tempo”, e tuttavia è chiamato continuamente a comportarsi in conformità con esso, perché questo, comunque esso sia, è sollecitato dall’agire di Dio. Integrando infatti la concezione talora pessimistica di Qoelet, influenzata dall’ellenismo, con quella potentemente profetica precedente, si perviene alla conclusione che Dio è all’opera nella storia, per convocare e salvare il suo popolo, anche a costo di purificarlo attraverso la prova dell’esilio e dell’apparente suo abbandono.

Gesù condivide questa concezione del tempo, per cui diventa per lui teologicamente rilevante saperne discernere la qualità, leggendone i segni ed invitando i suoi ascoltatori a fare altrettanto:

   «Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12, 54-56; cf. Mt 16, 2-3;).

Il discernimento del tempo è determinante per entrare in rapporto salvifico con esso. Gesù ritorna più volte su questa vigilante attenzione da coltivare nei riguardi del tempo, perché la sua qualità potrà essere riconosciuta solo dai suoi segni, come l’albero dai frutti (Mt 7, 15-20; Lc 6, 43-45), così come dalle gemme del fico si comprende l’approssimarsi dell’estate (Mc 13, 28-29; Mt 24, 32-33; Lc 21, 29-31).

Il regno è in mezzo agli uomini perché «il tempo è compiuto» (Mc 1, 15). Gesù ne indica i segni (Mt 11, 4-6; Lc 7, 22-23), mentre esprime tutto il suo rammarico per l’indifferenza che talvolta incontra, simile a quella dei bambini che si rifiutano di giocare sulla piazza sia quando si balla sia quando si cantano lamenti (Mt 11, 16-17; Lc 7, 31-35). Qui non c’è un’interpretazione errata dei segni, c’è il rifiuto netto di volerli leggere. Perciò c’è una chiusura allo stesso tempo salvifico. È ciò che Gesù chiama «bestemmia contro lo Spirito Santo» (Mc 3, 28-30; Mt 12, 31-32; Lc 12, 10).

Gesù è consapevole che il tempo da lui inaugurato è un tempo decisivo per la salvezza. La sua prassi ci dà l’esatta portata teologica dei suoi convincimenti. Se si può parlare di un progetto in lui, lo si deve considerare in quest’ottica dell’interpretazione del tempo, come momento decisivo e storicamente determinante per il suo popolo e per la sua stessa vita. Le tappe, attraverso le quali egli passa dalla convocazione escatologica dell’alta Galilea al alla consapevolezza teologica del valore di tutta la sua vicenda di sofferenza e di morte, sono già state illustrate nei loro caratteri generali. Qui resta da aggiungere, a partire da questa dimensione teologica del tempo, che il progetto di Gesù si colloca tra la memoria biblica e il compimento delle promesse messianiche.

9.2.2. Coscienza messianica e profezia di pace

La memoria biblica giustifica infatti l’attualizzazione che egli opera di quelle varie forme teologiche che in lui diventano teologali, perché sono riempite dei contenuti della sua vita e delle sue scelte. Se la prima di queste era la riconvocazione messianica del popolo di Jahvè, la seconda era l’identità incompresa e sofferta del profeta, la cui figura era nella sua coscienza unita a quella del figlio dell’uomo. Approfondendo tale modalità messianica, Gesù può identificarsi nel giusto sofferente e nel servo di Dio. Egli può dare così, come si è visto altrove[39], una attualizzazione radicale ed esistenziale alla memoria della pasqua e allo stesso banchetto in cui essa si rivive.

Grazie alla memoria biblica, Gesù recupera tutto il valore delle promesse in quell’unica promessa che era quella messianica. Egli ne conosceva i tratti con i quali i profeti l’avevano descritta. Poteva appellarsi non solo a questa o a quella profezia particolare, ma riferirsi al tenore complessivo che si rinveniva nei profeti e anche nella loro storia.

Si è già evidenziata l’ermeneutica apocalittica del tempo di Gesù, legata al messianismo giudaico e che era diventata oggetto di  ricerca nella vita di Gesù da Reimarus in poi. Questa, si è detto, era l’elemento determinante della sua coscienza messianica, fino al punto che Schweitzer pensava di individuare in quella coscienza escatologica ben precise  tappe psicologiche attraverso le quali questa sarebbe passata.

A noi sembra invece che se ci si limita alla sola coscienza apocalittica, si dà poco valore al messianismo in genere e ai caratteri complessivi del regno messianico colto e predicato da Gesù contestualmente al regno di Dio e infine identificato con esso. Di quei caratteri Gesù non solo era certamente era al corrente, come era al corrente delle varie tradizioni popolari che ormai lo infioravano, come, ad esempio, il ritorno di Elia, che egli individuava nella venuta del Battista (Mt 11, 12-14), ma li associava alla sua predicazione, alla sua prassi e in definitiva alla sua vita. Egli non può non pensare a sé se non come a colui che realizza le promesse messianiche, come appare dalla sua prassi di convivialità, di misericordia e di servizio. Il perdono predicato e praticato, la resistenza al male con il bene, le reiterate indicazioni a recare un messaggio, che risuoni innanzi tutto come pace[40] dimostrano che la sua coscienza messianica non poteva limitarsi a quella del «figlio dell’uomo» apocalittico, ma si accompagnava a un modo nuovo di intendere e di volere il regno che stava per venire.

Nel contesto delle beatitudini e della beatitudine cardine «Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5, 9) Gesù parla del regno di Dio e di coloro che vi appartengono. Essi sono chiamati, cioè sono realmente, figli di Dio perché facitori di pace (eirenepoioi), così come egli è stato in tutto il suo agire un realizzatore della pace messianica legata alle profezie e alla venuta del regno.

Gesù certamente coglie lo stretto legami biblico tra il regno di Dio e la prassi della pace come prassi di misericordia, di liberazione e di giustizia, aspetti dello shalòm tutti legati all’alleanza. Infatti nell’Antico Testamento il tema centrale dell’alleanza, e del conseguente regno messianico è sempre un regno di pace (Sal 72, 3-7). È in rapporto con la sedaqà (giustizia) di Dio che opera misericordia e salvezza e interviene a favore delle vittime dell’ingiustizia umana, sicché «effetto della giustizia sarà la pace» (Is 32, 17).

Perciò pace e giustizia sono spesso menzionate insieme, in un binomio che qualifica i tempi messianici. Ciò si trova, per esempio, in alcuni salmi, dove ricorrono anche la misericordia e la verità: «misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno, la verità germoglierà dalla terra e la giustizia di affaccerà dal cielo» (Sal 85, 11-12). Altrove la giustizia e il diritto dell’agire regale di Dio si associano alla grazia e alla fedeltà (Sal 89, 15; Sal 97, 1-2), perché il Dio dell’alleanza è «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6), secondo le parole con le quali egli stipula l’alleanza con Mosè. In Zaccaria pace e verità sono da amare insieme, in un contesto di salvezza messianica (Zc 8, 19; Zc 8, 7-8.12: la salvezza nasce da un «seme di pace»). Il messianismo fiorisce dalla pace perché l’alleanza si identifica con essa. Malachia la chiama «alleanza di vita e di pace» (Ml 2, 5), mentre alleanza di pace ricorre ancora in Nm 25, 12; Is 54, 10 e Ez 34, 25.

Il progetto di Gesù muove pertanto dalla memoria di questa alleanza di Dio con Israele ed in vista della realizzazione di un regno messianico che appare come promessa di pace, per la quale il credente prega, professando la fede nell’alleanza. Sicché di un «popolo giusto che mantiene la fedeltà» il profeta può esclamare: «il suo animo è saldo; tu (Dio) gli assicurerai la pace, pace perché in te ha fiducia» (Is.26, 2-3).

Uniformando il suo agire alla realizzazione della prassi messianica, Gesù è cosciente della novità del regno, che se viene nei termini apocalittici a noi noti dal discorso escatologico (Mc cap. 13; Mt cap. 24; Lc 21, 5-36), è tuttavia un appello a discernere la maturità del tempo e a gioire perché il regno irrompe nel mondo. «Alzatevi e sollevate la testa, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21, 28) è un annuncio e un proclama messianico: ripete il tenore delle beatitudini, nel capovolgimento da una situazione di persecuzione e di sofferenza in una situazione di gioia e di liberazione messianica.

A questo rinnovamento che il regno porta con sé si deve aggiungere anche la palingenesi, la rigenerazione totale, dell’intero cosmo (Is 66, 22; cf. Is cc. 60-62). Perché non leggere le immagini, che nel discorso escatologico di Gesù annunciano il tramonto di un mondo violento e peccaminoso, in funzione di una riplasmazione dell’intero creato, della quale egli ha coscienza?

Del resto, alla ristabilita armonia creaturale, tipicamente messianica, allude anche la scena di Gesù nel deserto, in compagnia con le fiere e con gli angeli, di Mc 1, 12-13. Tutto ciò che riguarda l’arrivo attraverso  Gesù dei tempi messianici testimonia una coscienza messianica come interpretazione teologica nello stesso Gesù. Pertanto una coscienza già gesuana, passata direttamente a quella della comunità primitiva e non una coscienza vuota riempita da una cristologia successiva, ma piuttosto una coscienza presente già in Gesù e dai contenuti tipicamente messianici.

Lo dimostra ancora il fatto che nelle Scritture il regno messianico era indubitabilmente un regno di pace, conformemente a tutte le profezie che parlavano del messia come di colui che avrebbe abolito le armi ed instaurato la pace: «Farà sparire i carri (di guerra) da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco da guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle genti» (Zc 9, 10), sicché ogni arma sarebbe stata trasformata in strumento di lavoro: «forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 9, 4).

In quest’ottica, non esagera chi scrive a questo riguardo: «Si annuncia un disarmo generale che non è imposto da nessun conquistatore umano, ma è voluto da Jahveh»[41]. È un disarmo, tuttavia, che realizza la pienezza della vita e della benedizione dello shalom,  i cui effetti benefici si estendono dal popolo eletto a tutti i popoli e allo stesso creato. Non parlavano forse i profeti di una nuova creazione, che con l’avvento del regno si sarebbe estesa perfino agli animali dei campi, agli uccelli dell’aria e ai rettili della terra (Os 2, 20)?

Questa nuova genesi era nella promessa messianica e Gesù, in quanto messia, ne deve avere avuto coscienza. Infatti per essere il messia, egli è anche re di pace, perché realizza profezie quali:

«Un bimbo è nato per noi, c’é stato dato un figlio...ed è chiamato: ... Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno che egli viene a consolidare e a rafforzare con il diritto e la giustizia» (Is 9, 5-6).

Il progetto di Gesù che rafforza la giustizia ed il diritto, in conformità con il progetto di Dio, a favore dei poveri e dei derelitti, è sostenuto da profezie come queste, così come è alla base della modalità da lui scelta per entrare in Gerusalemme (Mc 11, 1-11; Mt 21, 1-11; Lc 19, 28-40), una modalità in cui c’è indiscutibilmente quanto già scritto sull’ingresso del Messia: «Ecco viene a te il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9, 9).

Proprio nell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, Luca, quasi esplicitando l’acclamazione messianica che negli altri evangelisti è «Osanna al figlio di David» (chiaro appellativo messianico), la riformula con: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli», richiamando più direttamente la «gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini da lui amati» dell’annuncio della natività (Lc 2, 14). Come si può evincere da un confronto tra le due esclamazioni, la «pace in cielo» invocata dai discepoli non è da intendere in senso locale, ma piuttosto in senso teologico: «si realizza oggi la pace che Dio vuole nel cielo», così come «si fa festa in cielo per un peccatore pentito» (Lc 15, 7).

Dio dunque gioisce perché la misericordia si compie attraverso Gesù e la pace da lui voluta si diffonde tra gli uomini. Questi è infatti il Figlio, l’Eletto che bisogna ascoltare (Lc 9, 35; Mc 9, 7; Mt 17, 5). Egli porta agli uomini la pace delle beatitudini nella liberazione degli oppressi e realizza l’opera messianica della lieta notizia ai poveri (Lc 4, 16-18).

9.2.3. Un progetto di pace che incontra la morte

Così Gesù passò tra noi: con nel cuore le parole delle profezie messianiche, con questo suo mondo interiore che quasi gli esplodeva dentro e del quale il vangelo ci consente di cogliere di tanto in tanto alcuni sprazzi. Egli coltivava un progetto che sapeva non essere suo, e che tuttavia non si sarebbe realizzato senza la sua accettazione convinta e sofferta, maturata in quel suo cammino, strada facendo, insieme con i discepoli. La coscienza della sua identità, certa fin dall’inizio per ciò che riguardava il suo orientamento di fondo e la sua direzione esistenziale, si andava chiarendo nelle modalità storiche di quel suo passare tra gli uomini con le inevitabili incomprensioni, indifferenze ed ostilità da parte di alcuni e l’ammirazione incondizionata, ma anche i facili entusiasmi, i fraintendimenti e le delusioni di altri.

 In una «biografia teologica» è possibile ripensare ad un affinamento e approfondimento progressivo di quella missione di pace che Gesù avvertiva come sua. Ma è anche possibile cogliere il passaggio da un’oggettivizzazione di tale progetto ad una sempre più vicina, inesorabile e sempre accolta con amore, personalizzazione di esso. Gesù poteva trovare espresso il piano di Dio in parole come quelle di un profeta tragico eppure aperto alla speranza, qual era Geremia, che sebbene in un contesto di esilio e di sofferenza, spalancava davanti agli occhi di quanti amavano Jahvè il vero intento di lui: «Io conosco i progetti fatti a vostro riguardo ... progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29, 11).

Ma poteva parimenti trovare in un altro profeta come Michea l’identificazione della pace con lo stesso messia: «e sarà lui la pace», come si trova in alcune accurate traduzioni di Mi 5, 4[42].

Ma, in questo modo, Gesù passava da un coinvolgimento della sua prassi a quello della sua stessa sorte in quel progetto di pace che diventava sempre più il suo stesso progetto esistenziale.

Questo non era più la conseguenza del suo rifiuto e della sua condanna, ma si attuava e compiva proprio in quel ripudio e in quella drammatica fine.

La comunità cristiana primitiva era, dal canto suo, ugualmente convinta che Gesù aveva operato la pace ed era egli stesso pace. La lettera agli Efesini afferma che Gesù è la pace. «Egli infatti é la nostra pace» (Ef 2, 14). «Colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo un muro di separazione che era framezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). In una tradizione ininterrotta che va dai profeti alla coscienza di Gesù e al pensiero della prima comunità cristiana, si afferma che l’unto, il Cristo è all’origine della prassi della pace ed è la pace stessa.

Essendo facitore di pace in se stesso, nel suo corpo e attraverso la croce, Gesù Cristo ha ricoperto adeguatamente questo modello teologico, come testimonia Ef 2, 15-17. Paolo evidenzia una delle conseguenze storiche che a lui preme di più: la riconciliazione tra ebrei e pagani. Eppure il fondamento è lo stesso: non semplicemente la sua predicazione e il suo agire, ma Gesù è la nostra pace.

Se Paolo ha potuto indicare in Gesù il primo e fondamentale «artefice di pace» (poiòn eirenen) così, che cosa ha significato per Gesù operare la pace, se non questo divenire egli stesso pace? Osserviamo ancora per un momento la sua prassi. Essa è frutto di scelte, che, se sono riconciliazione con Dio e tra gli uomini, gli procurano anche una crescente ostilità, perché, come già visto, egli denuncia con coraggio il formalismo, l’abuso del potere civile e religioso, l’ingordigia e l’ambizione delle classi emergenti. Riprendendo le profezie di denuncia della falsa pace, che convive con la frode e l’ingiustizia (Ger 7, 4; 8, 11) egli ritiene, con la tradizione profetica che questa sia da realizzare non nelle attività cultuali di un tempio (Ger 7, 4; 8, 11), ma nell’amore all’alleanza di Dio (Is 48, 18) e nell’amore verso il prossimo (Is 58, 6 ss).

Proprio questa radicalità e questa critica intransigente hanno acuito l’ostilità intorno a Gesù fino al punto che egli ha avvertito l’imminenza della sua morte. Egli ha così operato l’ultimo collegamento teologico tra quel progetto umano di rifiuto da parte delle autorità giudaiche e il suo progetto esistenziale con cui aveva già fatto proprio il progetto di pace di Dio.

Non deve sorprendere l’affermazione di tale progressiva individuazione delle modalità esistenziali del messianismo che noi ravvisiamo nella coscienza di Gesù. Ciò non significa mettere in dubbio il dato della cristologia tradizionale che afferma l’unione ipostatica (la compresenza nell’unica persona di Gesù della sua duplice natura, umana e divina).

La dottrina classica della visione di Dio presente in Gesù, a motivo dell’unione ipostatica, è senza dubbio conciliabile con quest’ipotesi di un progresso della sua conoscenza e coscienza storica. Alla luce dell’ontologia esistenziale, si può vedere anche in Gesù, vero uomo, oltre che vero Dio, nella profondità della sua coscienza esistenziale una «determinazione di fondo» (Grundbestimmtheit) che attraverso le varie tappe della vita e le successive esperienze individuali diviene sempre più riflessa e tematica[43].

Per noi tale determinazione fondamentale è rappresentata dalla coscienza messianica di Gesù, la quale nei vangeli appare esistenzialmente decisiva dal momento del battesimo. Da quel giorno in poi si colgono alcune modalità tematiche che vanno specificando tale messianismo di Gesù come messianismo di pace, in tutto ciò che giustifica teologicamente la sua prassi secondo le caratteristiche già viste.

L’ultimo atto, il momento tematico decisivo e riassuntivo di tutti gli altri, è rappresentato per Gesù dalla sua prassi oblativa, che unifica il progetto di Dio sul messia, quello inesorabile dei capi dei Giudei sul suo ripudio e quello suo proprio di offrirsi per diventare pace per il popolo nel suo insieme, compresi i discepoli in fuga e i crocifissori.

Ciò ci fa concludere che Gesù vi ha visto la possibilità di realizzare la promessa messianica della pace non sottraendosi a quel progetto umano teso ad annientarlo, ma assumendolo e trasfigurandolo nel suo progetto e in quello di Dio. Egli era cosciente di non compiere più semplicemente delle opere o l’opera di pace, ma di diventare, attraverso la morte che si abbatteva su di lui, la stessa pace. Gesù si faceva pace per il suo popolo.

Le commosse parole con le quali saluta Gerusalemme, mentre le si avvicina, manifestano la coscienza di Gesù che i «pensieri di pace», che Dio aveva sempre nutrito per il suo popolo, sono stati da esso disattesi, giacché Gerusalemme continua ad uccidere i profeti. Ma questi pensieri di pace sono diventati i suoi stessi pensieri, sono la sua vita ed ora saranno anche la sua fine: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono stati mandati, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli, come una chioccia raduna la sua nidiata sotto le sue ali, e non avete voluto!» (Lc 13, 34; cf. Mt 23, 37).

9.3.Gesù «si consegna» per diventare nostra pace

9.3.1. Il modello del servo di Jahvè

Il modello profetico aveva offerto a Gesù la possibilità di essere l’interprete autentico di tutte le profezie. Ora gli dava anche la possibilità di associare la sua sorte a quella sofferta e drammatica di non pochi profeti. Gesù dice che quanti ne onorano le tombe dissociandosi verbalmente dai loro padri che li hanno uccisi ne colmano la misura, perché continuano ad uccidere, a flagellare e crocifiggere, termini tutti che anticipano il racconto della passione (Mt 23, 29-27; Lc 11, 47-49). Come gli operai della vigna, essi dopo aver perseguitato tutti i profeti mandati precedentemente, trascineranno «il figlio» fuori della vigna, fuori della città santa, e lo uccideranno (Mc 12, 1-12; Mt 21, 33-46; Lc 20, 9-19).

Gesù è dunque cosciente di ciò che sta per succedergli. Ma egli trova proprio nel paradigma del profeta perseguitato (cf. Ger 26, 20-23; 2Cr 24, 20-22), simile a quello, di natura sapienziale, del giusto sofferente (Sap 2, 18-20), lo schema teologico ermeneutico per intendere la sua fine imminente. A queste figure bibliche si aggiunge quella che spiega il senso ed il valore delle due precedenti: il servo di Jahvè. Costui realizza la salvezza, porta la pace messianica al popolo di Dio e diventa luce delle genti proprio attraverso la sua sofferenza e il rifiuto del suo popolo.

Sul servo di Jahvè, i cui quattro testi fondamentali sono rinvenibili in Is 42, 1-7; 49, 1-7; 50, 4-11; 52, 13-53, 12, non pochi autori sono d’accordo nel ritenerlo una figura centrale per la comprensione della passione di Gesù. Già gli evangelisti, che per noi riprendono un’interpretazione autentica di Gesù, citano, quasi ad illustrarla plasticamente, molti dettagli di questi testi e di altri simili[44].

In essi viene sottolineata l’ingiustizia della condanna e il rifiuto del servo di Dio, la sua innocenza e l’intensità della sua sofferenza, ma anche, e soprattutto, il valore salvifico di questa ingiusta persecuzione. Sono, è vero, testi che sembrerebbero aver inizialmente ipostatizzato in una sola figura le tante traversie storiche di Israele, che è il servo di Jahvè per eccellenza. Tuttavia nell’interpretazione della comunità cristiana, che riteniamo sia stata ancora prima quella di Gesù, essi si prestavano più di altri ad esprimere il carattere volontario dell’andare incontro alla propria sorte, anche da parte del messia, che così si identifica nella sorte del suo popolo. Ciò che ha fatto Gesù.

E tutto ciò a conclusione di una vita in cui, come il servo di Dio, Gesù non ha fatto altro che proclamare il diritto e la giustizia, liberando gli oppressi (Is 42, 3-4.6-7). Come lui, egli si consegna adesso alla morte, caricandosi delle sofferenze e delle colpe di tutti (Is 53, 4-7), tanto da apparire sfigurato e disfatto, fino a destare ribrezzo (Is 52, 14; 53, 2-3).

Ma proprio perché si offre alla ingiusta sentenza che lo elimina (Is 53, 8-10), «dopo il suo intimo tormento vedrà la luce» (Is 53, 11), radunando così il gregge che andava errando (Is 53, 6) e ottenendo in premio «le moltitudini» (Is 53, 12),

«perché dice il Signore, il liberatore d’Israele, il suo Santo, a colui la cui vita è disprezzata, al reietto delle nazioni, al servo dei potenti: “I re vedranno e si alzeranno in piedi, i principi vedranno e si prostreranno a causa del Signore che è fedele, a causa del Santo d’Israele che ti ha scelto’» (Is 49, 7).

In tutta questa vicenda e nella sua interpretazione teologica, perché di questo si tratta, sia Gesù sia la comunità primitiva hanno visto il reticolo che sorreggeva e spiegava la tragica sorte del Messia e la sua fedeltà al piano di Dio, il suo diventare vittima di pace e pace medesima tra Dio e il suo popolo e tra gli uomini tra di loro.

9.3.2. I giorni in cui sarà tolto lo sposo

Prescindendo dalle singole caratterizzazioni di ciascun evangelista, il Vangelo nel suo insieme contiene al centro della «biografia teologica» di Gesù non solo la coscienza della sua dolorosa fine, ma anche il suo volontario e motivato andarvi incontro.

Ancora agli inizi della predicazione, nella risposta ai discepoli di Giovanni e ai farisei, che gli chiedono spiegazioni sul carattere conviviale del suo agire e di quello dei suoi discepoli, egli parla della necessità di far festa, fino a quando lo sposo è presente, alludendo ad un momento in cui lo sposo, nel quale evidentemente s’identifica, sarà loro sottratto (aparthè) (Mc 2, 18-20; Mt 9, 14-15; Lc 5, 33, 34).

Il primo annuncio della passione avviene nel momento della confessione di Pietro (Mc 8, 31-32; Mt 16, 21; Lc 9, 22) e contiene, a quanto si dice, gli elementi fondamentali del kerygma: la riprovazione dei capi del suo popolo, la morte e la risurrezione «il terzo giorno». Il brano non deve essere necessariamente considerato un’interpretazione postpasquale, che la comunità avrebbe messo sulle labbra del Gesù storico. La teologia del servo di Dio giustificava la coscienza di Gesù di una vittoria sulla morte, così come anche una concezione apocalittica di Gesù conteneva nell’apparizione gloriosa del figlio dell’uomo (Dan 7, 13-14) un superamento della morte.

Ciò si può sostenere, precisando che l’espressione dei «tre giorni», dopo i quali egli sarebbe risorto, indicava all’epoca un breve lasso di tempo e non un computo esatto. L’intero logion può dunque appartenere a Gesù e viene quasi a precisare in che maniera lo sposo sarà tolto: attraverso il suo ripudio e la condanna a morte. Ma contiene, al contempo, la certezza che il suo compito messianico non sarà arrestato da quella morte, ma si realizzerà attraverso di essa.

Gesù afferma tutto ciò proprio ora che Pietro a nome degli altri discepoli l’ha riconosciuto come messia, dandogli l’occasione di pronunciare il più radicale paradosso che si conosca: chi vuol salvare la sua vita la perderà e chi perderà la sua vita la salverà (Mc 8, 35; Mt 16, 25; Lc 9, 24). Un paradosso che è nella logica del superamento della morte attraverso la prova.

Gesù non nasconde a se stesso e ai suoi che l’ora della sua violenta riprovazione sarà un fatto di cui si proverà paura e vergogna, come possono indicare anche le parole seguenti:

 «Chi, infatti, si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8, 38; Mt 10, 33; Lc 9, 26).

Si è soliti spiegare queste parole riferendole in generale alla necessità di una coraggiosa testimonianza da parte dei discepoli. Nulla però vieta di intenderle in un senso più immediatamente storico e contestuale al brano, che ricordando l’uomo dei dolori di cui si prova ribrezzo, di Isaia, sottolinea l’appello di Gesù a non provare vergogna e imbarazzo nel momento della sua sofferenza. A non fare, per esempio, come farà Pietro, che subito dopo la sua professione di Cesarea di Filippo, è energicamente richiamato dal maestro, perché gli vorrebbe impedire il viaggio a Gerusalemme.

La consapevolezza di Gesù sulla sua sorte appare subito dopo, nell’episodio della trasfigurazione (Mc 9, 2-10; Mt 17, 1-9; Lc 9, 28-36), che quasi è la visualizzazione dell’idea della gloria che appare attraverso la povertà e la sofferenza, alla presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono gli stessi discepoli che, stanchi e sgomenti, lo vedranno soffrire in preda all’angoscia, nell’orto degli ulivi (Mc 14, 33-42; Mt 26, 36-46; Lc 22, 39-46). Le parole che accompagnano la trasfigurazione e che invitano ad ascoltare il «figlio diletto» (Luca ha «l’eletto») non possono essere rivolte che a questi tre discepoli, gli unici presenti. Sembrano contenere lo stesso invito a restargli fedeli nell’ora della prova.

9.3.3. Gesù diventa pane di pace per il suo popolo

Il primo annuncio della passione era introdotto da un «si deve», «è necessario» (dèi). Il Figlio dell’uomo «doveva soffrire molto ed essere riprovato». Sbaglierebbe completamente chi ritenesse quest’affermazione di Gesù come esplicativa di una fatalità subita con rassegnato passivismo. Essa esprime al contrario la sua volontaria identificazione in quel progetto messianico di pace che abbiamo già tratteggiato e che passava attraverso l’utilizzazione delle categorie bibliche che attestavano la vita dalla morte e la redenzione liberante dalla sofferenza.

Il secondo annuncio della passione (Mc 9, 30-32; Mt 17, 22-23; Lc 9, 44-45) sembra chiarire la forza teologica del precedente «dèi» proprio nei termini del tempo decisivo per la salvezza nel quale occorre operare. Anche in questo caso il «Figlio dell’uomo», «che sarà consegnato nelle mani degli uomini», parla con parole che restano incomprensibili o sono fonte di disagio per i discepoli.

Il terzo annuncio sottolinea che Gerusalemme ormai è vicina e che nella città santa il «Figlio dell’uomo» sarà condannato a morte, dopo essere stato schernito e flagellato (Mc 10, 32-34; Mt 20, 17-19; Lc 18, 31-34).

I preannunci della passione scandiscono il cammino di Gesù insieme con i suoi discepoli su una via che viene ripetutamente ricordata, particolarmente in Luca, come cammino verso Gerusalemme, dove la via (di solito indicata nei vangeli con odos) diventa éxodos (Lc 9, 31), traguardo fisico e teologico, ma, proprio per questo, nuovo e definitivo esodo effettuato da Gesù per la salvezza del suo popolo.

Questi e tutti gli altri riferimenti[45], sottolineano la cosciente riappropriazione che Gesù fa del progetto messianico nel diventare egli stesso pace per il suo popolo e sono da comprendere alla luce del banchetto pasquale. Ne abbiamo già parlato come del banchetto che conferisce nuovi contenuti all’antica Pasqua, così come abbiamo visto i profondi legami che lo collegano alla passione[46]. Si deve qui aggiungere che il tema del sangue unitamente a quello del pane hanno un chiarissimo significato teologico. Gesù diventa pane per il suo popolo ed il suo sangue è sangue dell’alleanza. L’invito: «prendete, questo è il mio corpo» (Mc 14, 22) e «prendete e mangiate» (Mt 26, 26) non possono che significare: «questo è il mio corpo, che è dato (didòmenon) per voi» (Lc 22, 19).

Il riferimento è chiaramente a quanto sta per accadere con la consegna della sua persona prima, e della sua vita, dopo, «nelle mani degli uomini», di cui parlavano gli annunci della passione[47]. Sul calice del vino, Gesù proclama «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (Mc 14, 23). Matteo aggiunge, interpretando in tutta fedeltà , «in remissione dei peccati» (Mt 26, 28), giacché «questo calice - precisa Luca - è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22, 20).

 Le diverse sfumature dei sinottici non solo non contraddicono, ma esplicitano ulteriormente il carattere volontario della morte di Gesù e l’offerta della sua vita come pane e sangue di un’alleanza di pace. L’allestimento del banchetto pasquale voluto da Gesù, il suo porgere il pane spezzato ed il calice del vino, accompagnandolo con le parole «è il mio corpo» «è il mio sangue dell’alleanza», ed il logion conclusivo che parla di quel banchetto come dell’ultimo, prima del nuovo nel regno di Dio (Mc 14, 25; Mt 26, 29; Lc 22, 18) lo confermano una volta di più: Gesù sa che la sua vita non è solo segnata, ma è persa; e nonostante ciò, anzi proprio per questo, sa che essa sta per rifiorire secondo le modalità del regno di Dio.

La comunità cristiana, interpretando l’andare verso la morte di Gesù come dono volontario della sua vita, è fedele dunque a questa originaria ermeneutica di Cristo.

Paolo, che aveva ricevuto e trasmesso, ad esempio, il racconto del banchetto eucaristico (1 Cor 11, 23-25), trasmette anche questo dato del «Signore» parlando della sua morte come di un «dare se stesso» (paredòken eautòn), «per i nostri peccati» (Gal 1, 4); «in riscatto per tutti» (1Tm 2, 6); «per noi» (Tt 2, 14); aggiungendo anche la motivazione del suo amore: «per me» (Gl 2, 20; «per voi» (Ef 5, 2); per la Chiesa (cf. Ef 5, 25).

Il motivo dell’obbedienza di Gesù al Padre (cf., ad esempio, Fil 2, 8; Rm 5, 18-19) come atto di supremo amore è quello maggiormente esplicitato negli scritti giovannei. Qui si risale allo stesso amore (agape) che è Dio (1Gv 3.1; 4, 7.8.16) e che si manifesta nel Figlio (Gv 3, 16; 13, 1.34.35; 14, 21; 1Gv 3, 16; 4, 9-10) e si insiste sull’unità tra Gesù e il Padre, che per noi giustifica l’unità di intenti e di progetto (cf. Gv 4, 34; 6, 57; 8, 59; 5, 19.30; 8, 28).

In questo contesto Gesù sulla croce può esclamare «tutto è compiuto» (Gv 19, 20). La Lettera agli Ebrei vede in ciò il dono «perfetto», il darsi di chi è «reso perfetto», giacché ha offerto se stesso volontariamente, per solidarietà e per amore (Eb 5, 7-10; 7, 28; 9, 13-14).


 

 

CAPITOLO X. IL RISORTO VIVE CON I SEGNI DELLA PASSIONE

10.1. Bevendo fin in fondo l’ultimo calice

Il rituale del banchetto pasquale prevedeva che per quattro volte si innalzasse la coppa del vino a memoria delle quattro modalità storiche con cui Dio aveva  salvato e continuava a salvare il suo popolo[48]. «Vi ho condotti via»; «Vi ho salvati»; «Vi ho riscattati». Così suonano le prime tre acclamazioni che accompagnano il gesto e così si ritiene che Gesù abbia fatto fino a quel momento, alternando quella triplice libazione agli altri atti del rito, che prevedevano, a conclusione della cena, la frazione dell’ultima focaccia azzima (aphiqoman) con la formula di benedizione. È a questo punto che Gesù pronuncia le parole «questo è il mio corpo», distribuendo il pane spezzato dell’ultima mazzoth. Il rituale prevedeva ancora l’ultimo calice, quello che esprimeva l’elezione e l’appartenenza a Dio di Israele, in quanto suo popolo, con le parole: «Vi prendo come mio popolo, voi, figli d’Israele». Alla menzione salvifica per Israele corrispondeva una formula di maledizione sui popoli ritenuti nemici. Ciò che a noi sembrerebbe il brindisi augurale del quarto calice, diventava per gli ebrei un’impetrazione di giustizia, sconfinante nell’imprecazione. Infatti si ritiene che anche all’epoca di Gesù le parole sull’elezione fossero seguite dalla formula deprecatoria: «Riversa la tua ira sopra i popoli», con evidente riferimento ad alcuni testi biblici (Sal 79, 6-7; 69, 25; Lam 3, 66)[49].

Ma come era già successo altre volte, Gesù anche qui opera in un modo innovativo, che in realtà riporta il dato tradizionale alla visione di un Dio che è padre misericordioso per tutti. Nel discorso inaugurale di Nazareth Gesù aveva incentrato la sua attualizzazione della profezia nella predicazione del Vangelo ai poveri e nella prassi della misericordia per gli oppressi, evitando qualsiasi allusione al testo successivo di Isaia, che preannunciava che il messia avrebbe promulgato «un giorno di vendetta per il nostro Dio» (Is 61, 2; Lc 4, 16-21). Ora porta fino alle estreme conseguenze quel programma salvifico, trasformando la richiesta che si riversasse l’ira di Dio sui popoli in parole di salvezza e di benedizione per «i molti». Sicché Gesù afferma esplicitamente che il calice ora versato è la nuova alleanza, che in questa circostanza si può ben interpretare come segno di pace e di oblazione che manifesta un amore senza confini (Mc 14, 23-24).

Gesù non rinnega il rituale antico e ciò che vi è sotteso, ma è proprio a partire da quel rito, che egli può interpretare in un modo autentico i suoi contenuti teologici. Già la formula rituale pronunciata sul pezzo di pane azzimo, presentato inizialmente a quanti partecipavano alla celebrazione, era evocatrice di immagini di amarezza ed era pervasa da toni di invincibile fiducia e incrollabile speranza:

«Ecco il pane di miseria che i nostri padri hanno mangiato nel paese d’Egitto. Chi ha fame venga e mangi; chi ha bisogno venga e faccia pasqua. Quest’anno da schiavi, l’anno venturo da uomini liberi»[50].

Il dialogo tra il capo-famiglia e il più giovane dei partecipanti metteva in risalto l’attualità di ciò che si celebrava, secondo le indicazioni di Dt 6,20ss. Evocando la liberazione avvenuta dalla servitù egiziana, il capo-famiglia la attualizzava, con la coppa alzata, dicendo:

«...Ed è questa promessa che ci ha sostenuto, noi e i nostri padri! poiché non un solo nemico ha tentato di sterminarci, ma molti l’hanno fatto. Il Santo però -benedetto sia!- ci salva dalle loro mani».

Non andiamo lontano dalla verità storica, immaginando l’intensità con cui Gesù ha dovuto pronunciare queste parole.

La cosa paradossale fino all’assurdo in questa logica celebrativa di Gesù era ora il fatto che l’ebreo che celebrava la pasqua non era perseguitato dai nemici d’Israele, ma dal suo stesso popolo. Egli per loro e per «i molti», che vuol dire «tutti», celebrava ed offriva la sua vita. L’affermazione solenne, che ancora oggi risuona sulle labbra del capo-celebrante in uno dei momenti culminanti, esprime l’attualità della celebrazione in una forma didascalica, ma che ha del sublime:

«Di generazione in generazione, ognuno di noi ha il dovere di considerarsi come se fosse stato personalmente liberato dalla schiavitù di Egitto. È scritto infatti: Tu darai questa spiegazione a tuo figlio: è a questo fine che l’Eterno ha agito in mio favore quando mi fece uscire dall’Egitto (Es 13, 8). Non i nostri padri soltanto sono stati liberati, ma anche noi lo fummo. Il Santo -benedetto sia!- ci ha liberati con loro, com’è scritto: Egli ci fece uscire dall’Egitto per condurci qui e darci il paese promesso ai padri nostri (Dt 6, 23)...Ci ha condotto dalla schiavitù alla libertà, dalla desolazione alla gioia, dal lutto alla festa, dalla tenebre alla luce, dalla servitù alla salvezza. Cantiamo a lui un cantico nuovo, alleluja!»[51].

In questo contesto altamente evocativo, dove la celebrazione diventava vita e la memoria si trasformava in storia, Gesù ha compiuto gli adempimenti della pasqua, ne ha ravvivato e trasfigurato i contenuti e, a conclusione, ha potuto porgere il pane ed il vino identificandovi la sua sorte per la salvezza e non per l’ira sugli uomini e sui popoli.

Il calice dell’ira, di lì a poco, si riverserà solo su di lui. Come ci informano attendibilmente i vangeli, uscito, infatti, nel luogo detto Getsemani (Gat Shemanim, «torchio delle olive») ed essendosi un alquanto discostato dai discepoli che aveva voluto con sé (Pietro, Giacomo e Giovanni), prostratosi in preghiera, cominciò ad avvertire tutta l’amarezza di quell’ultimo calice, come lo chiama Ben-Chorin.

È il calice della passione, che è già iniziata, nella lucida consapevolezza di ciò che sta per accadere.

Lungo la via, ancora una volta, quell’ultima volta, il Maestro aveva affidato ai discepoli il senso di ciò succedeva: «Sta scritto percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse» (Mc 14, 27; Mt 26, 21) e le sue parole invitavano ancora a restare insieme, almeno a ritrovarsi dopo la dispersione, dopo il ravvedimento di Pietro (Lc 22, 31-33). Ma ormai la scuola stava per terminare e finiva proprio così, ingloriosamente, su quel sentiero percorso da un gruppetto di poveri, diventati allora ancora più poveri, perché sapevano che stavano per perdere tutto, l’amico e il maestro, il profeta ed il messia. Colui che li aveva tratti dal lago e dalle abituali occupazioni stava per andarsene e quegli uomini dovevano sentirsi umanamente falliti. Eppure, le parole di Gesù parlavano di quella Galilea, dove, egli, aveva aggiunto, una volta risorto, li avrebbe preceduti.

1.1. Una preghiera cui non c’è risposta ?

Ci sono momenti nella vita anche dell’uomo più religioso, in cui la preghiera diventa fatica, perché Dio sembra lontano ed assente e alle invocazioni, anche quelle più accorate, non c’è una risposta. È vero, non c’è una risposta immediata, perché la vita stessa, gli avvenimenti ed il tempo in seguito parleranno e nel futuro si chiarirà il progetto che ora solo Dio conosce, ma che in quel momento sembra abbandoni il credente in balìa degli avvenimenti e, ciò che è peggio, in balìa della sua stessa paura.

La preghiera di Gesù è realisticamente descritta nei termini di un’angoscia senza fine (Mc 14, 33-35; Mt 26, 37-39; Eb 5, 7-8) e raggiunge una tale intensità da arrivare, a quanto riferisce Luca, al sudore di sangue, un fenomeno che la letteratura medica conosce[52], e che è la conseguenza di un’emozione particolarmente intensa. Gesù è solo. I tre discepoli, gravati dal sonno e dalla tristezza, si sono assopiti. In quell’ora non gli sono di alcuno aiuto. Rimane solo di fronte alla sua sorte che sta per compiersi ed è notte. Quella notte ricorda la notte di Giacobbe, presso il guado del fiume, quando Dio, diventatogli nemico, combattè con lui, lasciando nel suo corpo il segno perenne di una lotta impari e nella sua storia il nome nuovo di Israele (Gn 32, 23-32). Come lui, che «lottò con l’angelo e vinse, pianse e domandò grazia» (Os 12, 5), Gesù chiede ripetutamente che gli sia risparmiato quell’ultimo calice, il calice dell’amarezza e dell’ira (Mc 14, 35-39; Mt 26, 39-42), lottando contro ciò che maggiormente pesa ad un credente: il silenzio di Dio.

Come Mosè, di cui aveva poco prima celebrato la liberazione, egli si trovava ora al varco di un mare diventato infido. Era venuto il momento del vero battesimo, quello per il quale era da sempre angosciato, finché non fosse avvenuto, battesimo di acqua e di fuoco (Lc 12, 49-50). Ma quell’acqua ricordava parole bibliche con cui il credente invocava di esserne salvato: «Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Affondo nel fango e non ho sostegno; sono caduto in acque profonde e l’onda mi travolge» (Sal 69, 2-3). In una situazione senza scampo, egli viveva la prova (il peirasmòs escatologico), per la liberazione dalla quale aveva pregato ed insegnato a pregare (Lc 11, 4). Il suo battesimo si compiva con l’acqua che travolge e che salva e con il fuoco che brucia e rinnova. Il giudizio di Dio, presentato spesso con l’immagine del fuoco (Is 30, 27-28.30), così come aveva predicato anche il Battista (Mt 3, 11-12), sembra che si debba abbattere solo su di lui e in questa situazione la sua preghiera non ha che un senso: «non lasciarci soccombere nella prova , ma liberaci dal male» (Mt 6, 13). Essa infatti ci è stata riportata con parole che ricordano, per molti aspetti il Padre nostro: «Abbà, Padre, tutto è possibile a te; allontana da me questo calice! Ma non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu!» (Mc 14, 36; Mt 26, 39; Lc 22, 42). Infatti ripropone il tema del Padre e dell’incrollabile fiducia in lui, del compimento della sua volontà, e della liberazione dalla prova.

Ma la risposta del Padre, che sembra tardare a venire, è proprio in quest’ultimo atto di coraggio, nell’accettare la sua volontà, perché questa non può che essere salvifica. Come l’uomo biblico travolto dalle acque della prova, Gesù avrebbe potuto dire «sono sfinito dal gridare, riarse sono le mie fauci; i miei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio» (Sal 69, 4). Ma con lo stesso salmo avrebbe nondimeno potuto concludere, come il servo di Jahvè, con parole di inamovibile fiducia, simile a quelle con cui aveva riattualizzata la pasqua, il passaggio, attraverso quel male oscuro e minaccioso, il male dell’ira, diventato valico verso la vita:

«Io sono infelice e sofferente; la tua salvezza, Dio, mi ponga al sicuro. Loderò il nome di Dio con il canto...Vedano gli umili e si rallegrino; si ravvivi il cuore di chi cerca Dio, poiché il Signore ascolta i poveri e non disprezza i suoi che sono prigionieri» (Sal 69, 30.31.33-34).

Con questa certezza nel cuore, che costituisce sempre la tacita e discreta risposta di Dio anche alla più disperata delle preghiere, Gesù deve essersi alzato da terra, dove spesso si era prostrato, alla maniera con la quale si pregava nel tempio. Egli è pronto ad affrontare ciò che accade e chiama i discepoli, quando sopraggiunge Giuda, che viene a consegnare «il figlio dell’uomo nelle mani dei peccatori» (Mc 14, 41-42; Mt 26, 45-46).

1.2. Ruolo di Giuda nel complotto ordito contro Gesù

Con Giuda è venuta per arrestare Gesù una folla (òchlos, con un senso qui chiaramente narrativo, indicante un gruppo di persone), armata di spade e bastoni, mandata dalle autorità giudaiche di Gerusalemme (Mc 14, 43; Mt 26, 47; Lc 22, 47). Giovanni aggiunge che era presente anche una coorte di soldati romani, che generalmente è interpretata come la guarnigione delle guardie del tempio, perché l’invio di altri soldati sarebbe dovuto avvenire tramite l’autorità romana. Ma questo sarebbe in contraddizione con tutto l’atteggiamento tenuto durante il processo da Pilato, che sembra completamente disinformato su Gesù.

In ogni caso, è però chiaro che se Gesù muore, è perché è condannato dall’autorità politica e religiosa. La responsabilità formale e giuridica soprattutto giudaica è stata talora messa in discussione[53], ma ciò non toglie che ciò che sta per avvenire sia l’epilogo di un complotto, ciò che abbiamo chiamato progetto téso ad eliminare Gesù. Anticipazioni di questa macchinazione non mancano nelle indicazioni evangeliche (Mc 3, 6 Mt 12, 14; Lc 6, 11), che parlano anche dei tentativi già precedenti per arrestare Gesù (Gv 7, 30.44; 10, 39), fino al punto che «i gran sacerdoti ed i farisei avevano dato ordine che se qualcuno sapesse dove si trovava, lo segnalasse perché l’arrestassero». L’arresto era pensato per la sua uccisione (Cf.Gv 5, 18). Se ciò non era accaduto, era, come si è visto, per paura del popolo, che vigilava su di lui perché «pendeva dalle sue labbra, ascoltandolo» (Lc 19, 47-48).

Viene solitamente ritenuto storico anche il ruolo decisivo di Giuda per l’arresto di Gesù, anche se sempre più frequentemente il suo comportamento è spiegato con la delusione di questo discepolo, che pure risulta essere stato eletto da Gesù insieme agli altri undici (Mc 3, 19; Mt 10, 4; Lc 6, 16). Quale delusione? Quella dell’agire di Gesù che in nessun mondo era un agire politico-nazionalista. Contrariamente alle aspettative di Giuda, dovute alla sua vicinanza agli zeloti[54], Gesù rifuggiva da ogni idea di capeggiare un sollevamento popolare e nazionalista. Per questo Giuda sembra l’abbia «consegnato», forse sperando di forzare la mano a Gesù, quasi per costringerlo a manifestare la sua identità e la sua gloria, sì da trionfare sui nemici d’Israele e mostrarsi come messia agli ebrei, che in questo caso egli riteneva che l’avrebbero senz’altro seguito.

Questa ricostruzione della vicenda di Giuda sembrerebbe a prima vista arbitraria, eppure ha il merito di dare una ragione più che plausibile della sua decisione di impiccarsi, quando Gesù è condannato e non si sottrae agli eventi (Mt 27.3-7), una decisione che Matteo sottolinea nella sua intensa drammaticità[55], ma sulla quale ha influito non poco il comportamento tenuto da Gesù con Giuda. I tre vangeli sinottici riferiscono infatti particolari del tutto singolari, quali il saluto e il bacio di Giuda. Matteo aggiunge l’appellativo di «amico» che Gesù scambia con lui, nella seguente forma letteraria: «Amico, fa’ ciò per cui sei venuto» (forma che sembra preferibile all’interpretazione della Vulgata: «amico, perché sei venuto?» (Mt 26, 59)[56]. Luca riferisce la reazione di Gesù con le parole: «Giuda, con un bacio consegni il figlio dell’uomo?» (Lc 22, 48). Nell’uno e nell’altro caso risulta evidente che Gesù tenta un estremo approccio con il suo discepolo Giuda, cercando di aprire una breccia nella sua cupa predeterminazione. E forse il tenore delle sue parole potrebbe voler dire: «Stai sbagliando tutto, gli avvenimenti ci sovrasteranno, eppure io ti offro l’ultima possibilità, ti considero anch’io un amico e siccome stai sbagliando, ti perdono!». Se tale interpretazione fosse esatta, allora anche il bacio di Giuda non sarebbe stato il segno più vile ed ipocrita di un «traditore», come spesso si pensa, ma il gesto di chi vuole giustificarsi con il Maestro per quella sua consegna, perché è convinto che egli presto si manifesterà nella gloria.

È solo un’ipotesi e come tale ci sembra possa affiancare tante altre, anche quella che pur sembrando altamente suggestiva, appare molto più forzata, la quale vede nel bacio di Giuda un’allusione all’idea ebraica, di tipo haggadico, della morte del giusto attraverso il bacio del Signore[57].

1.3. Le estreme conseguenze del discorso della Montagna

In ogni caso, il comportamento di Gesù non smentisce, ma conferma in pieno la sua prassi di misericordia che nasce da una prassi di pace. Egli vive fin in fondo quanto aveva proclamato nel Discorso della montagna. Resiste al male con il bene ed offre una possibilità di dialogo e di salvezza anche a colui che sta per consegnarlo. È una prassi di pace che viene immediatamente confermata come normativa anche per i suoi discepoli, nell’episodio che segue, in cui si vede uno di loro (per Giovanni sarebbe Pietro) brandire una spada, sì da ferire all’orecchio il servo del sommo sacerdote (Mc. 14, 47; Mt 26, 51; Lc 22, 50). Ma a questo discepolo, secondo la redazione di Matteo, Gesù rivolge un severo monito, coerente con tutta la sua vita e il suo insegnamento: «Riponi la spada al suo posto; perché tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (Mt 26, 52). Luca aggiunge che Gesù guarì l’orecchio del servo, dopo aver espresso il suo disappunto: «Lasciate! Fino a questo punto!» (Lc 22, 51), ad ulteriore conferma della prassi pacifica di Gesù.        

Molti ritengono l’episodio una leggenda, a causa della guarigione dell’orecchio e della contraddizione in cui incorrerebbe il racconto, narrando di Pietro che non viene affatto arrestato, ma può seguire, anche se a distanza, Gesù, fin nel cortile della casa di Caifa.

A noi sembra che il monito di Gesù riportato da Matteo, sebbene abbia la forma di un proverbio, corrisponda alla sua “mente” e sia da prendere sul serio, anche come indicazione relativa ai casi in cui si vorrebbe rispondere alla violenza con la violenza. Lo prova anche il brano successivo di Giovanni sulla reazione non violenta e tuttavia decisa di Gesù allo schiaffo, con il quale una delle guardie presenti lo ha percosso. Gesù dimostra che c’è sempre un’alternativa alla reazione violenta o alla rassegnazione passiva e vittimista. L’alternativa consiste nell’evidenziare l’ingiustizia ed il torto che l’altro sta commettendo, richiamandolo alla ragione, con il tentativo sempre da compiere, di tendere una mano, offrendo un cenno di comunicazione anche all’avversario. Le parole di Gesù in questo caso saranno: «Se ho parlato male, prova che è male, se bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23) e sono nella stessa linea del suo comportamento nei confronti di Giuda e del discepolo che ha usato la spada.

1.4. Un processo in cui i giudici restano processati

Dopo l’arresto, viene per Gesù il processo. Quello vero e proprio ha luogo senza dubbio davanti a Pilato. Ciò non impedisce che una sorta di istruttoria sia avvenuta anche nel Sinedrio. Le obiezioni sollevate contro la possibilità di tenerne uno, o almeno una parte, nella notte e contro la procedura adottata, in contraddizione con le prescrizioni legali giudaiche, non sono infatti di grande importanza. Le norme limitative, alle quali si fa riferimento, sono infatti successive all’epoca di Gesù, e del resto potrebbe essersi trattato, come si diceva, non vi vero processo, ma di un’audizione, motivata dalle dicerie su Gesù e dal suo comportamento tenuto nel tempio[58].

Dopo un primo ascolto da parte di Anna, suocero di Caifa, avvenuto subito dopo l’arresto, Gesù è condotto dal sommo sacerdote Caifa che interroga i testimoni sulle imputazioni relative alla legge, riassunte intorno all’avversione al tempio, fino a minacciarne la distruzione. I testi sottolineano la non concordanza dei «falsi testimoni», per mettere in luce apologeticamente, si afferma, l’iniquità commessa dalle autorità giudaiche contro Gesù. Considerando però alcuni atteggiamenti e logia di Gesù rispetto al tempio e alla sua relativizzazione, le accuse non sembrerebbero tanto false. Non era forse la sua una spiritualità che insisteva sul carattere radicale ed interiore dell’uomo, che condannava, in maniera profetica, un culto che onorava Dio con le labbra ma non con il cuore (Mc 7, 6; Mt 1, 8)?

 Non aveva egli cercato di spegnere i facili entusiasmi dei discepoli sulla magnificenza del tempio (Mc 13, 2; Lc 21, 5-6) ed aveva presentato la povera vedova come il migliore esempio di una religiosità che non dà il superfluo, ma l’essenziale, esprimendo così la superiorità dell’atteggiamento interiore sul tempio stesso e sul suo tesoro (Mc 12, 41-44; Lc 21, 1-4)? E di fronte alle domande della Samaritana non aveva delegittimato tutti i templi, affermando che «è venuto il momento di adorare Dio in spirito e verità» (Gv 4, 24-25)?

Le accuse su una sua relativizzazione del tempio avevano allora un fondamento. Se gli evangelisti le ritengono provenienti da falsi testimoni è perché conoscono il carattere pretestuoso e strumentale di tali accuse, per eseguire il progetto di eliminare Gesù. Vogliono sottolineare non solo l’equivoco in cui cadono quanti pensano a un vero e proprio piano di abbattimento della struttura del tempio da parte di Gesù, ma anche l’incapacità a recepire il nuovo portato da Gesù, perché «non si può mettere il vino nuovo in otri vecchi» (Mc 2, 22).  Forse le accuse contro il tempio erano anche insinuazioni pericolose su una presunta appartenenza di Gesù a circoli rivoluzionari che ritenevano il tempio ormai profanato e quindi del tutto invalido.

In tutto il processo, l’atteggiamento di Gesù colpisce per il suo silenzio, così come durante la preghiera nell’orto e durante l’arresto era emersa, ancora una volta, la sua prassi secondo le modalità viste (dialogale, misericordiosa e oblativa). Con i suoi discepoli egli ha tentato di dialogare fino all’ultimo, cercando solidarietà e condivisione in una ora difficile da accettare. Con il Padre il suo dialogo è diventato offerta della sua vita. Con quanti lo arrestavano Gesù ha affermato l’inutilità delle loro armi e la sua disponibilità a seguirli, senza opporre altra resistenza che non fosse quella dalla ragione e dell’innocenza. Ma ora che non c’è più possibilità di dialogo, perché i giochi sono ormai fatti e la sentenza è stata pronunciata prima ancora del processo, ora che la suprema autorità giudaica vorrebbe che egli parlasse, per dare una parvenza di legalità a ciò che avviene per una precisa macchinazione, Gesù si chiude in un ostinato silenzio. Non parla, come non parlerà davanti a Pilato e facendo ciò, fa apparire tutte le contraddizioni, le animosità e la trama omicida già ordita contro di lui. Con questo suo silenzio processa i suoi stessi giudici, mentre rivive le situazioni e le immagini dei carmi del servo di Jahvè, condotto a morte come un agnello muto al macello (Is 53, 7).

Davanti al sinedrio, costituito da circa settanta membri, tra notabili, anziani e scribi, il sommo sacerdote, che lo presiede, cercando di superare l’imbarazzo derivante dal silenzio di Gesù, gli rivolge la domanda, che Matteo riporta in una forma impegnativa e solenne, se egli sia il messia: «Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio» (Mt 26, 63; cf. Mc 14, 61; Lc 22, 67). La domanda, si sostiene, riassume due titoli, quello del messia e quello del Figlio di Dio, che Luca riporta sdoppiata in due quesiti successivi (Lc 22, 67.70). Ma le domande e le risposte affermative, anche se attraverso la circonlocuzione: «Tu stesso lo dici, voi stessi lo dite» sono ritenute storicamente problematiche, giacché si ritiene, al solito, che contenendo specifici titoli cristologici della comunità postpasquale, non possono essere stati sulla bocca né del sommo sacerdote, né di Gesù[59].

Domanda e risposta sull’identità teologica di Gesù si trovano in Marco in questa forma:

 «Di nuovo l’interrogava il sommo sacerdote e gli dice: “Sei tu il Cristo, il figlio del Benedetto?”. Ma Gesù disse: “Io lo sono, e vedrete il figlio dell’uomo sedere alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo”» (Mc 14, 61-62).

 Nella risposta si ravvisa una cucitura di due testi biblici: rispettivamente il salmo 110, 1 («Oracolo del Signore al mio Signore: “Siedi alla mia destra”») e Daniele 7, 13-14 («...ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui che gli diede potere, gloria e regno...»).

Condividiamo l’idea che, essendo il tenore della risposta di Gesù eminentemente biblica, e in linea con la sua coscienza messianica, essa possa essere storica ed effettivamente pronunciata da Gesù, perché proprio le due citazioni accostate insieme esprimono la sua consapevolezza di essere il messia e la certezza che sarà presto esaltato da Dio, ora che è rigettato dal suo popolo[60]. L’espressione «figlio di Dio» non può certamente avere sulle labbra del sommo sacerdote un valore dogmatico, quale quello del Verbo incarnato della successiva teologia cristiana. Indica il particolare rapporto di predilezione di Dio tanto nei confronti di Israele, che del suo «Cristo», cioè del suo unto (masiah in ebraico, christòs in greco). Nella risposta di Gesù si può tuttavia ravvisare uno spessore teologico che va oltre quello abitualmente inteso dall’espressione e che certamente all’epoca della redazione evangelica era ormai acquisito. Se di per sé l’autoproclamazione messianica non poteva essere motivo di condanna a morte, il tenore blasfemo agli orecchi del sommo sacerdote deve essere stato colto nell’allusione di Gesù a sedere prossimamente alla destra della Potenza (perifrasi che indica Jahvè) e nella sua pretesa di avere con Dio un rapporto del tutto particolare, certamente inammissibile per il garante dell’ortodossia giudaica.

Nel successivo interrogatorio di Pilato, l’unico ad avere competenza per pronunciare sentenze di morte, le accuse di tipo religioso sono tralasciate e cedono il posto a quelle di carattere politico-sovversivo. La storia registra casi di inflessibile durezza da parte di Pilato nei confronti degli zeloti e di altri, accusati di essere nemici di Roma e di fomentare discordia e ribellione contro il suo apparato bellico ed amministrativo.

 Chi gli consegna Gesù conta su questa rigidità, che però sembra all’inizio disattesa, sicché Pilato sembra riconoscerere l’innocenza di Gesù e comincia a tergiversare sul da farsi (Mc 15, 12-13; Mt 27, 22-23; Lc 23, 20-22; Gv 18, 28-31). Da abile politico, esperto nello scoprire e nell’ordire trame «conosceva infatti, che i gran sacerdoti l’avevano consegnato per invidia» (Mc 15, 10; Mt 27, 18). Il capo d’accusa principale, l’autoproclamazione di Gesù quale «re dei Giudei» non sembra lo preoccupi molto. Il silenzio di Gesù lo irrita, ma anche lo suggestiona. Le parole, riportate da Giovanni, pronunciate da Gesù, per sgombrare il terreno dall’equivoco di un regno politico-nazionalista, con la precisazione che il suo regno «non è di questo mondo» (Gv 18, 36), unitamente a tutto il comportamento di Gesù anche durante il processo, attestano la natura di una regalità che è servizio e che non è nella logica di questo mondo. Ma se ciò basta a scagionarlo, non basta a salvarlo.

Subentrano le ragioni di stato con la minaccia da parte di chi voleva la morte di Gesù di denunciare Pilato presso l’imperatore per connivenza o debolezza nei confronti di quanti attentavano il dominio romano in una sua provincia (Gv 19, 12). Sono le uniche ragioni che Pilato conosca, sicché egli consegna Gesù perché sia crocifisso.

1.5. «E lo crocifissero»

Gesù è condannato ad essere giustiziato attraverso la crocifissione, la pena di morte introdotta dai romani nella Palestina per delitti di insurrezione, o di brigantaggio armato. Era la pena peggiore che ci potesse essere. Al condannato veniva imposto sulle spalle il braccio orizzontale della croce, il patibulum, ed egli lo portava fino al luogo dove era già infisso a terra il braccio verticale, al quale il patibolum veniva innalzato con il corpo del crocifisso, fissatovi attraverso perni metallici conficcati nei polsi.

Nel caso di Gesù, il patibulum viene imposto sulle spalle dell’uomo di Cirene, che tornava dai campi, il padre di Alessandro e di Rufo (Mc 15, 21; Mt 27, 32; Lc 23, 26). Probabilmente si temeva che Gesù non avesse retto alla fatica, stremato com’era dalle conseguenze della flagellazione a sangue, che aveva avuto luogo precedentemente, attraverso il flagellum, dalle correggie di cuoio terminanti con ossicini di animale o sferette metalliche. Di questa e degli altri scherni cruenti e del dileggio dei soldati raccontano ancora i vangeli (Mc 15, 15-20; Mt 27, 26-31; Gv 19, 1-5).

Ma la via verso il Golgota è l’ultimo tratto di quella strada che Gesù percorse quando era tra noi. La «via dolorosa», come viene indicata ancora a Gerusalemme, è l’ultimo insegnamento del rabbi della Galilea. Non ci sono più i suoi discepoli, né le folle osannanti; c’è solo l’epilogo di una predicazione che avviene ora con il silenzio, il barcollare, i segni della debolezza e dell’angoscia che precede l’esecuzione. L’agnello di Dio è condotto al macello. Ora che il vociare degli uomini sale e gli scherni dei passanti si fanno sempre più insistenti, solo i bambini forse fuggono alla vista dell’uomo sfigurato dalle ferite e dal sangue, mentre alcune donne, andando controcorrente, trovano il coraggio di piangere sul profeta perseguitato e sul giusto angariato, accompagnandolo con l’uomo di Cirene e con i due ladroni condannati come lui. Quel tragitto, che in realtà non sarà durato a lungo, assume il valore di paradigma di ogni tragitto, quello della sofferenza che colpirà Gerusalemme e di ogni sofferenza che farà gemere l’uomo: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma su voi stesse e sui vostri figli!» (Lc 15, 27-28).

Una volta arrivati al luogo stabilito, cercano di somministrargli una bevanda avente effetto di droga, per attutire il dolore e ciò fa ricordare a qualcuno una citazione della Scrittura: «Date bevande inebrianti a chi sta per perire e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore» (Pr 31, 6). Gesù però la rifiutò. Lo crocifissero, come fecero con gli altri due ladroni e si spartirono le sue vesti, un gesto che con il dileggio dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani, fa ricordare le immagini tragiche del salmo 22 (Sal 22.8-9.19; cf.Mc 15, 22-25; Mt 27, 33-35; Lc 23, 33-34; Gv 19, 17-18).

I quattro evangelisti riportano il «titolo» della condanna: «Il re dei Giudei», che non poteva avere che un senso sarcastico e che tuttavia, come ricorda Giovanni, veniva invece ad esprimere la vera realtà di Gesù (Gv 19, 19-22; Mc 15, 26; Mt 27, 37; Lc 23, 38).

Sotto la croce di Gesù i sinottici ricordano che erano presenti alcune donne, quelle che l’avevano seguito dalla Galilea, mentre Giovanni menziona la presenza di Maria sua madre e la propria presenza. Ciò dà occasione a Gesù ormai morente di affidare l’una all’altro (Gv 19, 25-27; cf. anche per la presenza di altre donne Mc 15, 40-41; Mt 27, 55-56; Lc 23, 49).

Ma viene l’ora della morte. Essa sopraggiungeva di solito soprattutto a causa dell’asfissia provocata dal peso e dalla posizione del corpo o dalla paralisi prodotta dal tetano. Gli spasmi potevano protrarsi per molte ore. In Gesù sembra che tutto si sia compiuto in tre ore, dall’ora sesta, circa mezzogiorno, all’ora nona (circa le tre pomeridiane). I sinottici riportano quest’annotazione, così come registrano le ultime parole di Gesù. Luca annota ancora una preghiera di perdono per i crocifissori (Lc 23, 34). Giovanni parla del dono dello Spirito, come si è già visto, dopo le parole «Ho sete» (Gv 19, 28) e «Tutto è compiuto» (Gv 19, 30). Matteo e Marco riportano il grido di Gesù, che è insieme domanda d’angoscia e preghiera: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34; Mt 27, 46). In realtà è la citazione del salmo 22.

È un salmo che esprime bene l’animo di Gesù, che sembra rivivere le situazioni in esso descritte. L’angoscia con cui esordisce, la descrizione fosca della crescente ostilità degli uomini e di circostanze senza via d’uscita, diventano però nel corpo del salmo accorata preghiera, fino a mutare registro ed ad invitare quanti ancora temono Dio a lodarlo, perché egli al sofferente «non ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d’aiuto, lo ha esaudito» (Sal 22, 25). È un tema teologico, che mette insieme la sofferenza più cupa e la speranza più indomita, le stesse che avevamo già trovato nel servo del Signore e che nell’ora in cui il buio del cuore è più greve ancora di quello che invade la terra, dall’ora sesta all’ora nona (Mc 15, 33; Mt 27, 45; Lc 23, 44-45) squarcia le tenebre con l’affermazione convinta: «E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza» (Sal 22, 30). Luca coglie certamente il tenore complessivo e l’afflato di speranza del salmo, che si apriva con la domanda del perché dell’abbandono di Dio, quando prende a prestito le parole di un altra  citazione del salterio, per indicare i sentimenti con cui muore Gesù: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!» (Sal 31, 6). «E detto questo, spirò» (Lc 24, 46).

1.6. «E fu sepolto»

La morte di Gesù è seguita dalla sua sepoltura. L’informazione più antica che abbiamo sulla sua morte, sepoltura e risurrezione è costituita da ciò che Paolo annuncia, perché l’ha ricevuto, e perciò lo trasmette: «Che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve...» (1 Cor 15, 3-4). Il testo, scritto agli inizi degli anni 50, risale a poco più di due decenni dagli avvenimenti, perché la morte di Gesù, avvenuta, Venerdì 14 Nisan, sembra a molti doversi collocare nell’anno 30 d.C.[61] A questa testimonianza si possono affiancare tante altre, che non riferiscono solo la nuda notizia della crocifissione, come abbiamo visto nelle fonti pagane[62], ma ne danno anche un’interpretazione, vedendo nella morte un atto di donazione di Cristo, come si diceva a conclusione del capitolo precedente, e ravvisando nella risurrezione la risposta del Padre a quell’offerta, in sintonia con le speranze di colui che identificò la sua sorte nel servo del Signore.

Contrariamente alla consuetudine romana, che lasciava i corpi dei crocifissi appesi al patibolo, vigeva presso gli Ebrei la consuetudine di staccare i corpi dalla croce prima che calasse il sole, a motivo della impurità legale, che, secondo la Scrittura, si sarebbe estesa su tutto Israele, per colpa del cadavere pendente dal palo (Dt 21, 22-23). Il corpo di Gesù, morto prima degli altri due, fu così calato dalla croce e fu sepolto, grazie all’interessamento di un certo Giuseppe d’Arimatea, uomo sensibile alla predicazione di Gesù. Tutti gli evangelisti insistono sui particolari della sepoltura, della presenza di Giuseppe e delle donne, come testimoni, e della pesante pietra che chiude la tomba, per evidenziare la successiva realtà storica della risurrezione (Cf. Mc 15, 42-47; Mt 27, 57-61; Lc 20, 50-55; 24, 2; Gv 19, 38-42; 20.1). A ciò si aggiungono i dettagli relativi alle modalità della sepoltura medesima, che trovano riscontro negli usi dell’epoca.

Così Gesù è deposto nella tomba, conformemente a quanto scritto sulla sorte del giusto perseguitato e sul servo del Signore (cf., ad esempio; Is 53, 9).

2. «Non è qui,  ma è risorto»

Con la stessa sobrietà con la quale davano notizia della sua crocifissione e sepoltura, gli evangelisti riferiscono della avvenuta risurrezione di Gesù, allorquando le donne che erano state presenti alla sua morte e sepoltura, all’indomani del sabato, si recano al sepolcro per ungere il suo corpo. Particolarmente Marco si distingue per la sobrietà e per il modo con il quale racconta l’avvenimento (Mc 16, 1-8), che schematicamente si può riassumere in questi momenti: 1) le donne si recano al sepolcro e, lungo la via, manifestano la loro preoccupazione per la rimozione della pietra sepolcrale che chiude l’accesso alla tomba; 2) una volta arrivate, trovano la pietra rimossa; 3) entrate nel sepolcro, un giovane vestito di bianco reca loro l’annuncio che Gesù, il crocifisso, non è lì, ma è risorto; 4) le donne spaventate fuggono e non hanno il coraggio di riferire l’accaduto.

A sua volta l’annuncio consta di tre momenti: 1) la menzione della ricerca; 2) l’affermazione della risurrezione; 3) l’invio delle donne ai discepoli per riferire che Gesù li precede in Galilea, dove lo vedranno, come egli aveva predetto. La risurrezione medesima è raccontata con tre espressioni: 1) «si è rialzato» (eghèrthe, aoristo passivo di eghèiro, che traduce il verbo ebraico qum); «non è qui»; «ecco il luogo dove l’avevano deposto».

Tali espressioni, che costituiscono il cuore dell’annuncio della risurrezione, si trovano, anche se con alcune innegabili varianti, negli altri due sinottici (Luca tralascia soltanto la prova del luogo). Così vi si ritrova lo schema complessivo: l’andata al sepolcro delle donne, la pietra rimossa, l’annuncio da recare o effettivamente recato ai discepoli (Mt 28, 1-8; Lc 24, 1-9). Intorno a questo nucleo si trovano particolari discordanti, ma che non inficiano la realtà centrale annunciata. Sono: 1) il numero dei messaggeri (uno in Marco e in Matteo, due in Luca; 2) la posizione del messaggero/messaggeri, (all’interno del sepolcro in Marco e - sembrerebbe- anche in Luca, all’esterno in Matteo, che racconta di un terremoto, dell’angelo che rimuove la pietra, sedendovisi sopra e delle guardia lì presenti, tramortite dalla paura; 3) il seguito del racconto: in Matteo le donne incontrano Gesù (Mt 28, 9-10); in Marco corrono via e non riferiscono nulla; in Luca e Matteo annunciano la notizia ai discepoli.

2.1. La tomba vuota, le testimonianze e le apparizioni

Il racconto del sepolcro vuoto di Giovanni è ritenuto oggi più antico di quello di Marco[63]. Narra di Maria di Magdala, che recatasi al sepolcro, trova la pietra rimossa. Corre da Pietro e Giovanni a riferirglielo, pensando che qualcuno abbia traslato il corpo. I due discepoli corrono al sepolcro ed, una volta entrati e trovatolo vuoto, ritornano a casa.  Trovano tuttavia le bende a giacere e il sudario ripiegato a parte:

 «(Giovanni) chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra (keìmena ta othònia), e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende (metà ton othonìon keìmenon) ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa» (Gv 20,5b-10).

In effetti le bende più che essere «viste per terra» sono viste giacere, il che sembrerebbe suggerire che esse sono ormai vuote e non contengono il corpo di Gesù. Diventano pertanto almeno un segno che il corpo non è stato spostato (perché togliere le bende e cosa vuol dire «le bende giacenti» se non che esse erano come sgonfie?). Al contrario potrebbero indicare che il corpo del Signore risorto le ha lasciate lì. Solo con questa spiegazione ha senso ciò che il Giovanni narra sul fatto che il discepolo che le vide, appena le vide, credette.

 Immediatamente dopo, lo stesso Giovanni racconta di Maria in lacrime davanti alla tomba. Chinatasi a guardarvi dentro, vede due angeli, vestiti di bianco che le chiedono perché pianga. Avendo risposto, vede all’esterno Gesù, scambiandolo per l’ortolano, cui espone il motivo del suo cruccio. Sentendosi chiamare per nome, Maria riconosce immediatamente il Maestro, che le affida il compito di annunciare ai discepoli che egli sale al Padre, sicché Maria viene dai discepoli e riferisce l’accaduto (Gv 20, 1-18).

Nonostante la notevole disparità tra questo racconto sulla prima esperienza al sepolcro e quello dei sinottici, non devono sfuggire alcuni elementi comuni. Sono: l’andata al sepolcro di una donna; la constatazione che la pietra è rimossa; la presenza di messaggeri; l’annuncio della risurrezione, che qui è fatto implicitamente dallo stesso Gesù; l’invio ai discepoli. La struttura fondamentale del racconto è dunque la stessa, anche se ciò che lo precede ed accompagna ha personaggi e situazioni differenti. Riteniamo che è a questa struttura che bisogna far riferimento per cogliere il nucleo storico della prima esperienza della risurrezione. La risurrezione stessa, infatti, nell’atto del suo svolgersi non è mai raccontata. Anche la teofania-angelofania di Matteo (visualizzazione dell’agire di Dio, attraverso il terremoto, rimozione della pietra, venuta dell’angelo) (Mt 28, 2) non è nemmeno lontanamente assimilabile ad una cronaca sulla risurrezione, ma è solo l’evidenziazione di un fatto già accaduto. Non la storicità dell’evento nel suo svolgersi (Gesù che si alza dalla morte), ritenuto del resto incatturabile per gli stessi strumenti storici di cui disponiamo, ma la storicità dell’evento, come fatto storico realmente accaduto, è ciò che noi riteniamo ed è quanto asseriva già l’apostolo Paolo: «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1 Cor 15, 14). È la storicità di un evento documentabile in Paolo, in maniera lapidaria e per inciso, già all’affacciarsi del 50:

«(I fratelli della Macedonia e dell’Acacia raccontano come voi tessalonicesi vi siate convertiti) allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura» (1 Ts 1, 9-10).

 In un contesto di fede escatologica, aggiunge:

«Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui» (1 Ts 4, 14).

Precisando che la nostra vita è in ogni circostanza insieme con Cristo, Paolo parla di un nostro vivere con colui che è morto per noi, ma che ora vive per sempre:

«(Dio vuole la nostra salvezza per mezzo di Gesù Cristo), il quale è morto per noi, perché sia che vegliamo, sia che dormiamo (s’intende il sonno della morte), viviamo insieme con lui» (1 Ts 5, 10).

Il testo paolino, ritenuto la testimonianza storica più antica della risurrezione, che comunque segue di alcuni anni gli accenni della prima lettera ai Tessalonicesi, si trova nella prima ai Corinzi. Qui, l’apostolo in un contesto che riprende i termini di una trasmissione attendibile e non manomessa («vi ho trasmesso ciò che ho ricevuto»), come aveva fatto per il racconto dell’eucaristia, scrive, in maniera quasi protocollare, riferendo

 «che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato (perf. pass.di eghèiro) e che apparve (fu visto, ofthè, da orào) a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come ad un aborto» (1Cor 15,3-8).

Il testo paolino riportato fa un elenco di coloro ai quali Gesù si è mostrato, dopo essersi «rialzato». Le cosiddette «apparizioni» del Risorto, sono in realtà, unitamente ai racconti del sepolcro vuoto, la dimostrazione che l’avvenimento della risurrezione c’è stato ed è reale. Gli studiosi hanno messo in risalto le discordanze esistenti tra l’elenco paolino e quello del finale di Marco (Mc 16, 9-14) che nomina Maddalena, due discepoli incammino, gli undici) e le apparizioni degli altri evangeli. Giovanni parla di Maddalena alla tomba; dei discepoli, la sera di Pasqua, a Gerusalemme; dei discepoli con Tommaso, all’ottavo giorno; di Pietro ed altri discepoli, sul lago di Tiberiade, aggiungendo la triplice professione di amore verso Gesù (Gv 20, 14-18; 20, 19-23; 20, 24-29; 21, 1-22). Matteo racconta dell’incontro di Gesù con le donne andate al sepolcro e con gli undici in Galilea sul monte indicato (Mt 28, 9-10; 28, 16-20). In Luca gli incontri con il Risorto sono quello dei due discepoli ad Emmaus; un incontro con Simone, riferito dagli undici ed altri discepoli a Gerusalemme, al sopraggiungere dei due e l’incontro di tutti costoro in quello stesso momento, cui segue il discorso della missione e il racconto dell’ascensione (Lc 24, 13-53).

Come si può notare, il materiale che si riferisce agli incontri con il Risorto appare ancora più multiforme e discordante di quello relativo alla tomba vuota. Ciò appare ancora più evidente in confronto con le convergenze che invece si registrano, nei quattro vangeli, a proposito della passione. Tuttavia, la cosa non deve sorprendere più di tanto se si considera il fatto che mentre la passione era un’unità ben circoscritta nel tempo, meno di 24 ore, e con uno sviluppo drammatico contenibile in un solo racconto, la realtà che Cristo è risorto e che incontra i suoi discepoli si estende su un arco di tempo che sicuramente va oltre la settimana ed inoltre non si può afferrare e fissare con esattezza in un unico racconto.

I postbultmanniani mettono anche in rilievo che alcuni particolari ed accentuazioni narrative sono dovute ad interessi storici redazionali immediati. Così, si spiegherebbe il fatto che l’incontro con Pietro, così importante per la tradizione, sia appena accennato in Luca e manchi negli altri sinottici (mentre ha tutt’altra ambientazione in Giovanni) con la tendenza, in ambiente giudaico-cristiano a non voler mettere troppo in risalto Pietro, per le sue aperture univeralistiche[64]; mentre i dettagli sulle guardie alla tomba di Gesù di Matteo, sarebbero il segno evidente, secondo molti, della reazione alla diceria giudaica della sottrazione del cadavere. Le accentuazioni realistiche delle apparizioni (le ferite, il pesce arrostito mangiato da Gesù ecc.) dimostrerebbero, a loro volta, una preoccupazione antidocetista, volendo mettere in risalto la realtà corporea di Gesù, contro coloro che vi vedevano solo un’apparenza. Su questa scia si dà una spiegazione delle diversità e delle prospettive differenti di tali racconti.

9.2.2. La risurrezione, evento storico e realtà di fede

Si può concludere che simili spiegazioni possono essere plausibili, ma ciò non toglie la storicità dell’avvenimento raccontato, che parte da un’affermazione, «Gesù non è tra i morti» ed è suffragato da due constatazioni: il sepolcro vuoto e gli incontri che egli ha con i suoi discepoli. Se qualcuno insiste oggi sempre più sul fatto che la risurrezione in quanto tale esorbita dalla sperimentabilità storica, non sempre sposa la tesi bultmanniana di una derivazione dell’intera dottrina della risurrezione dai miti pagani simili, che pure contengono elementi che sembrerebbero avere alcune coincidenze con la risurrezione di Gesù[65]. Si deve senza dubbio difendere il fatto storico della risurrezione, rifiutando l’idea che essa sia solo il prodotto della fede dei discepoli di Gesù[66]. Il quesito se sia la fede all’origine della risurrezione o la risurrezione all’origine della fede non deve per ragioni logiche e storiche portare a concludere, con Reimarus e Renan, che la risurrezione sia effetto e non causa della fede nel Cristo. Ma non si può tuttavia pretendere che come fatto storico esso sia constatabile anche fuori di un contesto di fede. Come molti sottolineano, ci sembra a ragione, già i discepoli stessi hanno avvertito la difficoltà che quest’evento poneva, perché esso non è il ritorno allo stato di vita precedente, ma è l’esplosione di quella dimensione escatologica in cui Gesù aveva creduto anche durante la passione. Anche in noi tale avvenimento ha sempre bisogno della speranza e della fede, se non altro perché sia colto in tutto il suo spessore teologico.

«Cristo non è tra i morti, ma è vivo» ci ricorda un dato fondamentale della «biografia teologica» di Gesù. Il suo comparire e «stare in mezzo» ai suoi discepoli, inatteso ed improvviso, dopo la risurrezione, ci ricorda il suo stare in mezzo a loro della sua vita terrena. Come è accaduto nella proclamazione delle beatitudini e in tutte le altre circostanze in cui lo abbiamo visto per via o in casa nell’atto di insegnare o semplicemente di «stare con» i discepoli, Gesù esprime nei suoi incontri con loro dopo la risurrezione la sua particolare vicinanza ai suoi, sicché essi sono i suoi familiari, i suoi «consanguinei» (Mc 3, 31-35). Come allora e più di allora, può sedere o stare in mezzo a loro, come sottolineano i racconti degli incontri, che altro non sono che l’evidenziazione di quanto si trovava già in Matteo: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20).

9.2.3. Portando ancora i segni della passione

Tutto ciò costituisce la grandezza e la realtà della risurrezione, ma anche il fatto che essa non si possa afferrare se non nella fede. Chi crede in Gesù sa che l’evento della risurrezione è ancora in atto, perché egli «si è rialzato» dai morti per non morire mai più e pertanto è il vivente, come egli stesso dirà davanti all’autore dell’Apocalisse, che racconta il suo incontro con lui:

«Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: “Non temere, io sono il primo e l'ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e del soggiorno dei morti”» (Ap 1,17-18).

 Anche chi non è stato contemporaneo della morte di Gesù può afferrare il senso e la realtà di una presenza: quella di chi ha detto di essere presente «tutti i giorni fino alla consumazione del secolo» (Mt 28, 20).

Gesù storico è veramente storico e storico è l’evento della sua risurrezione. Eppure, per comprenderlo ed afferrarlo, dobbiamo fare continuo riferimento alla sua fede e alla fede di quanti «sono stati con lui». Solo questa ragione rende spiegabile il fatto che Gesù sia stato visto, dopo la risurrezione, solo da quanti avevano precedentemente creduto in lui e che ancora lo cercavano, anche se solo attraverso i resti del suo corpo, come Maddalena e le donne di Galilea, o attraverso il ricordo delle sue parole, come i discepoli sulla via di Emmaus, o solo e semplicemente attraverso l’angoscioso interrogativo su quale senso avesse la passione e la crocifissione del giusto.

Chi ancora, come loro, lo cerca, prima o dopo incontrerà Gesù, che recando i segni della passione, farà risuonare l’annuncio di quel mattino di Pasqua: il crocifisso, proprio lui è risorto!

Ma questo stesso annuncio non potrà non diventare testimonianza e prassi di pace. Il Risorto ha lasciato la sua pace a quanti sono riuniti nel suo nome e che egli ha salutato ripetutamente con l’augurio di pace (Lc 24, 36, Gv 20, 19.21.26). A loro conferisce il dono del suo Spirito, proprio ora che sono riuniti, perché non erano stati sotto la croce per poterlo ricevere (Gv 20, 21-23). Quello Spirito opera la riconciliazione e con esso sarà possibile continuare tra gli uomini a tentare di vivere la sua parabola d’amore a dare concretezza alla sua prassi di pace (Mc 16, 15-20).

 

 

 

 


 

[1] Cf., a titolo d’esempio, J. BLANK, Der Jesus des Evangeliums, München 1981, che accetta molti dei risultati suddetti per la sua Sulla “Historia Jesu”, ivi, 88ss.

[2] Cf. R. BULTMANN, Das Verhältnis der urchristlichen Christusbotschaft... cit. L’autore si esprime espressamente contro Fuchs, ivi, 461.

[3] K. L. SCHMIDT, Jesus Christus, in: Die Religion in Geschichte und Gegenwart, III (1929) 110-151; M. DIBELIUS, Jesus, Berlin 1939.

[4] R. BULTMANN, Jesus, München-Hamburg, 1964, 14.

[5] R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit. Rupert è autore della prima parte: “Storia delle forme e Gesù storico”; Wolfgang ha scritto la seconda parte: “Coscienza, sviluppo e pensiero di Gesù”.

[6] Ciò avvenne soprattutto dopo la pubblicazione di: W. MARXEN, Der Evangelist Markus, Göttingen 1956.

[7] R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit., 89ss.

[8] G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 142ss.

[9] H.SCHÜRMANN, «Wie hat Jesus seinen Tod bestanden und verstanden?», in: IDEM, Jesu ureigener Tod. Exegetische Besinnungen und Ausblick, Freiburg 1975, 16-65.

[10]  J. GNILKA, Wie urteilte Jesus über seinen Tod?, in: K.KERTELGE (Hg), Der Tod Jesu. Deutungen im neuen Testament, Freiburg 1975.

[11] J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, cit., 326ss.

[12] W. KASPER, Gesù il Cristo, cit.152ss

[13] Ivi, 158, dove l’autore condivide la spiegazione escatologica.

[14] Schillebeeckx, pur recensendo i diversi schemi ermeneutici della morte di Gesù distingue tra una sua “graduale certezza di una morte violenta” e la “questione inevitabile: quale senso diede Gesù alla propria morte”: cf. E: SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia di un vivent…e, CIT., 309ss.

[15] R. FENEBERG -W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit., 107.

[16] G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 49. La chiarificazione contenuta nella parentesi è mia.

[17] R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit., 85ss.

[18] Com’è noto, la singolare divergenza di 5/6 anni tra la data fissata dalla tradizione e quella effettiva è dovuta ai calcoli di Dionigi il Piccolo (497-540), che erroneamente fissò l’inizio dell’era cristiana all’anno 754 dalla fondazione di Roma; un autore che ebbe comunque molti meriti, tra i quali l’aver posto fine alla controversia della data della pasqua, che travagliò gli inizi della Chiesa. Cf. Lexikon für Theologie und Kirche III, voce Dionisius Exiguus, 336-337. Sulla data della nascita di Gesù e gli argomenti che la fanno anticipare a 5 o 6 anni prima a quella fissata da Dionigi, cf. IDEM, II, voce Chronologie des NT, 330-332; ma vedi anche R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit., 91ss, nota 31.

[19] R. FABRIS, Gesù di Nazareth, op, cit., 114-115.

[20] R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit., 125.

[21] Bornkamm parla di una “Unmittelbarkeit”, un’immediatezza così propria e tipica di Gesù, che questa non solo appartiene al quadro storico del Vangelo, ma lo ha segnato profondamente lasciandovi tracce indelebili. Cf. G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 52.

[22] Le contestualizzazioni storico-geografiche hanno notevole rilievo nella maggior parte delle opere già citate. Ciò che qui si riporta cerca di tener conto dei fattori sui quali esse convergono, con una particolare attenzione a quelli che sembrano nevralgici per la prassi di Gesù. Cf., a titolo d’esempio: R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit., L’ambiente di Gesù, ivi pp. 64-85; e Prese di posizioni di Gesù, ivi, pp. 135-149. Cf. anche A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, cit., soprattutto la III parte: La buona novella. Per la parte relativa alla convocazione operata dalla prassi di Gesù, cf. J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento I, cit., 194-205: Il raduno della comunità dei salvati. Cf. H. ECHEGARAY, La prassi di Gesù, Cittadella Ed., Assisi 1983, cui siamo debitori dell’espressione “prassi convocatrice” (ivi 10 ss.) e di alcune indicazioni tanto di carattere sociale che di carattere biblico.

[23] Cf. G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 57-84.

[24] Cf. R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit., 116-132 e la già citata III parte di A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, cit., 65ss. Per il “popolo della terra” cf. S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù, cit., 89.

[25] Pensiamo che le parole di Gesù siano ancora da prendere nel senso letterale. Gesù insegna mentre è in cammino e chiama e riceve i peccatori e i derelitti, strada facendo. La sua sequela non ha bisogno di un luogo, simile ad una casa o una sinagoga, dove egli possa insegnare, anche se Gesù è talora intento a farlo nell’una o nell’altra. La casa, che egli avrebbe avuto a Cafarnao, insieme con Pietro e Andrea e le rispettive famiglie (Cf. Mc 1.21.29.35; 2, 1-2; Mt 4, 13), è considerata da qualcuno come una vera e propria dimora di Gesù (cf. A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, cit., 56, che si appoggia a E. LOHMEYER, Das Evangelium des Markus, Göttingen 1967 e J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento, cit.). Si invoca a dimostrazione di ciò l’espressione di Mc 2, 15, che parlando di Gesù che siede a tavola con i pubblicani e peccatori, parla di una “casa di lui” (oikìa autoû). Non deve però necessariamente trattarsi della casa di Gesù, perché il pronome “di lui” può essere riferito alla casa di Levi, che, chiamato da Gesù, allestisce per i suoi amici, per Gesù ed i suoi discepoli un banchetto. Questa interpretazione è quella corrente e sembra più convincente, considerando il valore del gesto, innovatore ed inaudito per i farisei, di andare nella stessa casa del peccatore, come avviene anche nel caso di Zaccheo (Lc 19, 1-10), così come succederà per Pietro nei confronti del pagano Cornelio (At 10, 1-33).

[26] Cf. S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul nazareno, Morcelliana, Brescia 1985, 3ss. L’autore documenta che già per Hillel era centrale l’idea dell’amore del prossimo.

[27] L’atteggiamento di Gesù verso non è di commiserazione, dall’alto in basso, ma di misericordiosa compartecipazione ed accoglienza, come si può notare confrontando Mt 14, 14 , Mc 3, 34 (dove si racconta che Gesù “vide” le folle) e Lc 9, 11 che parla esplicitamente di un gesto di “accoglienza” (“avendole accolte = apodexàmenos”) da parte di Gesù. Del resto, anche il solo verbo “vedere” indica, al pari di “fissare lo sguardo”, “guardare intorno” ecc., molto di più che una percezione o un’annotazione narrativa. Esprime l’avvicinamento misericordioso e solidale, salvifico e amorevole di Gesù, come provano, ad esempio: Mc 10, 21.23; Mt 19, 26; Lc 18, 24 (il ricco); Lc 6, 10 (l’uomo dalla mano inaridita); Lc 19, 5 (Zaccheo); Lc 22, 61 (il pianto di Pietro); Gv 1, 38.42 (i primi discepoli).

[28] Sul legame tra i dodici apostoli e le dodici tribù d’Israele cf. Mt 19, 27-28 (i dodici troni del giudizio finale). Apc 21, 14 (i dodici basamenti della città escatologica), 1 Cor 15, 5 (apparizione del Risorto ai dodici, quando in realtà erano solo undici) e la preoccupazione di integrare il numero voluto da Gesu, come racconta At 1, 15-26, testimoniano l’importanza che tale numero ha per la comunità primitiva.

[29] Pubblicani e prostitute, credendo al Battista, sono passati avanti nel regno (Mt 21, 28-32). Gesù è celiato come “mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (L 7, 34). “Tutti” costoro si avvicinano a lui per ascoltarlo (Lc 15, 1). Il pubblicano pentito è elogiato, a differenza del fariseo autossufficiente (Lc 18, 9ss), così come è elogiato il capo dei pubblicani Zaccheo, per la sua conversione (Lc 19, 1ss). Sugli zeloti cf. cap. II, 1.2. Si è accennato al rapporto di Gesù con seguaci del Battista e alle differenze della sua predicazione e del suo agire da costoro, anche se anche a loro Gesù ha proposto la sua strada, come dimostra la presenza di suoi discepoli che provenivano da quegli ambienti. Anche i farisei e i dottori della legge non sono esclusi dal regno, quando mostrano segni di ravvedimento, comprendendo il primato dell’amore (Mc 12, 28-34).

[30] R. FENEBERG - W. FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, cit., 274.

[31] Si possono considerare un’eco di tali discussioni, vertenti spesso sulla gerarchizzazione dei comandamenti, le domande rivolte a Gesù sull’argomento, da parte dei dottori della legge (Mc 12, 28-34; Mt 22, 34-40) e dello stesso ricco (Mc 10, 13-17; Mt 19, 16-22; Lc 18, 18-25).

[32] S. BEN-CHORIN, Fratello Gesù, cit., 88. L’autore citando una sentenza simile, riportata nel Talmud (Joma 85b), commenta dicendo “il sabato è dato come un piacere e una gioia, e non come una camicia di forza imposta dalla legge”.

[33] Ivi, 89.

[34] Senza entrare nel merito di una discussione e della bibliografia sull’argomento delle beatitudini, che meriterebbe una trattazione a sé, basti qui ricordare i risultati dell’opera di J. DUPONT, Les Béatititudes, I-II, Paris 1969. L’autore escludendo un’interpretazione spiritualista, come si diceva nel nostro cap. II(1.1), mette in rapporto la proclamazione “beati voi” che Gesù fa ai poveri, non con una disposizione spirituale di questi, ma a motivo della “natura del regno di Dio che viene, nella disposizione di Dio, che vuole esercitare la sua regalità a favore degli svantaggiati. Le beatitudini sono innanzi tutto una rivelazione della misericordia e della giustizia, che devono caratterizzare il regno di Dio” (ivi, II, 15).

[35] In Lc 8, 1-3 le donne sono al seguito di Gesù subito dopo i Dodici: “era in cammino...e con lui i Dodici e alcune donne”. In Gv 10, 38-42 Gesù dice che Maria ha scelto la parte migliore, quella di sedersi ai suoi piedi per ascoltarne la parola.

[36] A.RIZZI, Cristo verità dell’uomo, cit.

[37] Cf. il nostro cap. II., 2.

[38] Cf. A.NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, op. cit, 103ss. che rimanda a G. VON RAD, The Message of the Prophets, London 1968.

[39] Cf. cap. VII., 2.4.

[40] I suoi discepoli sono espressamente mandati per una prassi e un messaggio di pace: “guarite gli infermi , risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni” (Mt 10, 8; Lc 9, 2-3; cf. Mc 16, 15-18), tutte opere esemplificative della stessa prassi di Gesù, che si può intendere come espressione concreta di un messaggio di pace di cui parla Matteo, che dà valore a l’uso ebraico di salutare le persone di casa con l’augurio messianico “Shalom!”: “Entrando nella casa, rivolgete il saluto (cioè l’augurio di pace, come aveva già tradotto la Vulgata)” (Mt 10, 11).

[41] ISAIA, (a cura di S. VIRGULIN), Ed. paoline, Roma 1974, 81.

[42] Cf., ad esempio, Das Neue Testament, la traduzione adottata dalle confereze episcopali di lingua tesdesca, che traduce: “Und er vird der Friede sein”.

[43] Cf., a riguardo ciò che scrive K. Rahner nella prefazione all’opera cit. dei Feneberg, p. 12ss. Ma cf., per l’impostazione generale, ciò che sull’ontologia esistenziale e la coscienza scrive M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tübingen 1979, 269ss.

[44] Ci sono infatti riferimenti non solo ai carmi, ma anche a Sal 22; Sal 69; e Sap 2, 18-20.

[45] Cf. “il battesimo che devo ricevere” (Lc 12, 50); il logion del servizio e della vita “da dare in riscatto per molti” (Mc 10, 45; Mt 20, 28); l’unzione di Betania, che prepara il corpo alla prossima sepoltura (Mc 14, 1-8; Mt 26, 12); gli accenni al calice (della passione) da bere (Mc 10, 38; Mt 20, 22); l’eliminazione del Battista, raccontata a Gesù dai discepoli di lui, e che ha chiari riferimenti premonitori per la sua stessa sorte (Mt 14, 3-12; Mc 6, 17-29).

[46] Cf. cap VII, 2.3ss.

[47] Mt e Luca hanno mellei e l’infinito, tradotto di solito con: «(il Figlio dell’uomo) sta per essere consegnato»; Mc usa semplicemente paradìdotai, «sarà consegnato».

[48] Cf. S.BEN-CHORIN, Fratello Gesù, cit., 242ss.

[49] Ivi, 220-221.

[50] R. ARON, Così pregava l’ebreo Gesù, Mondadori, Milano 1988, 145.

[51] Ivi, 147-148. Le evidenziazioni sono nostre.

[52] Si tratta della diapèdesi, che è la trasudazione del sangue o anche solo di cellule sanguigne attraverso le pareti vascolari, apparentemente indenni. Cf. Dizionario Medico USES, Firenze 1981 (3.a), 466.

[53] Cf. il nostro cap. II, 1.1.

[54] Il termine “iscariota” spiegato da alcuni come “colui che tradì” (ish-karya), indica invece, per chi parla di lui come di un filo-zelota, l’uomo del pugnale (sica), cioè il “sicario”. Cf. R. FABRIS, Gesù di Nazareth, cit. 152-153.

[55] Anche un artista come J. S. Bach, già nel 1700, ha presentato Giuda sotto una luce non infamante, ma nelle vesti di chi ammette di aver commesso un gravissimo errore e chiede disperatamente alle autorità giudaiche di riavere Gesù, ma invano. In una delle arie più toccanti della sua Passione secondo Matteo, egli fa dire a Giuda ripetutamente : «Restituitemi, restituitemi, il mio Gesù».

[56] Cf., ad es., J. SCHMID, L’Evangelo secondo Matteo, Morcelliana, 1965, 469.

[57] «Questa concezione si riallaccia alla morte di Mosè, la morte solitaria sul monte. A Mosè Dio trae fuori l’anima con un bacio. Non l’angelo della morte col suo terrore si avvicina al giusto, bensì Dio, il Padre, gli si china sopra, bacia il suo figlio e nel bacio gli prende l’anima, che gli appartiene». (S.BEN-CHORIN, Fratello Gesù, op, cit., 250.

[58] Si trova quest’opinione anche in: G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 144.

[59] Cf. G.BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit., 144.

[60] R. Fabris non esclude la possibilità che l’accostamento delle citazioni risalga a Gesù, anche se ammette che la formulazione attuale risente della cristologia postpasquale.

[61] Il 14 di Nisan è coinciso con il Venerdì il 30 e il 33 d.C. Non pochi autori ritengono la seconda data troppo tardiva.

[62] Cf. Cap. I.

[63] Cf. J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, op.cit., 347-348, che si appoggia allo studio: P. BENOIT, Marie-Madelein et les disceples au tombeau selon Jn 20, 1-18, in: W.ELSTER e a., Judentum, Urchristentum, Kirche, Festschr. f. J.Jeremias (2), BZNW 26, Berlin 1964, 141-152.

[64] J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento I, op, cit. 350-351.

[65] Cf. i miti di Siride, Attis, Adone cui fa riferimento J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento I, cit., 347.

[66] Cf. anche alcune precisazioni di Giovanni Paolo II sulla storicità della risurrezione, considerata «evento storico ed affermazione di fede», in OSSERVATORE ROMANO (26.01.1989) pag. 4.