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Corso sul Gesù storico di

 

G. MAZZILLO, Gesù e la sua prassi di pace, Meridiana, Molfetta (Ba), 1990 

Testo ad esclusivo uso degli studenti

     

OMOLOGIA

Tu che ti sei detto luce e vita

in tempi non migliori dei nostri,

e sei apparso, germoglio ultimo

e più bello, tra uomini stremati

ancora parlerai a noi che uomini siamo,

tu, che vero uomo essere hai voluto

ed in un mondo duro e pieno di violenza

amando e soffrendo la vita pienamente vivesti.

Tu, Cristo, ci hai rialzato in piedi

con la tua povertà e la tua parola da fratello,

Dio che non ci atterrisci, ma solitario

e carico d’amore sulle strade ancora

oggi passi e il reietto e chi non ha speranza

chiami a seguirti, volto dell’invisibile

fatto carne e dolore per questo mondo,

da oggi in poi avranno una speranza

i poveri del mondo e quanti a te

si richiamano dovranno volenti o nolenti

invocarti Liberatore.

Tu compi le antiche profezie e ciò che sempre

ha cercato il cuore umano,

sebbene tu non sia

rassicurante e facile risposta

ma sfida sempre aperta ed orizzonte

di tutti gli orizzonti in cui ci dibattiamo,

oltre la nostra stessa sete

che pure conoscesti, fratello buono

che a nulla si è sottratto,

abisso senza fondo, distanza

che non si commisura, domanda

sempre nuova e pungente nostalgia,

un Dio più grande e sì vicino 

non potevamo avere.


 

INTRODUZIONE

Iniziamo questo nostro studio sul Gesù storico con un misto di trepidazione e d’amore. Gesù non è un oggetto qualsiasi da indagare o un argomento su cui discettare. È il centro della nostra fede e colui che con la sua proposta suscita la fede. Persona e soggetto che chiama altre persone ad un rapporto di fiducia e d’amore, come amico e maestro che chiama alla sequela.

La figura di Gesù ha sempre affascinato gli spiriti più sensibili ed inquieti, quelli cioè che non si rassegnano a stringere intorno all’uomo i cerchi dei suoi limiti, ma avvertono l’impellente bisogno di forzarli, per andare oltre ed additare spazi smisuratamente più ampi e realizzazioni finora insperate.

Ha contemporaneamente suscitato la reazione e l’acredine di chi invece non vede praticabili questi impervi sentieri e ritiene piuttosto che l’essere umano non debba essere distolto dalle sue pulsioni più terrene e dai suoi compiti più ordinari ed abituali. Quando l’uomo comincia a sognare oltre le sue possibilità, diventa pericoloso. Lo pensano ancora in tanti e con ideologie, che pur sembrando tanto contrapposte, si radicano in un convincimento comune: l’uomo è per sua natura limitato, essendo un fascio di bisogni o una cera da plasmare. Il dittatore ne può fare carne da macello per le sue guerre, la multinazionale un consumatore istupidito dal “benessere”, l’edonista un rassegnato fruitore di quanto la vita stessa offre con i suoi piccoli narcotici di ogni giorno.

A distanza di duemila anni dalla sua vicenda terrena, Gesù rimane ancora sotto processo almeno per due motivi. Il giudizio sulla sua vicenda storica continua ad inquietare molte coscienze. Il carattere innovatore del suo messaggio, quello che insegna all’uomo ad essere più uomo, superando i suoi limiti, è ancora oggetto di istruttoria del «grande inquisitore” de I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Nella leggenda dell’autore russo, Cristo, tornato sulla terra, è rinchiuso in prigione dal vecchio inquisitore, cardinale di Siviglia, con questo preciso capo d’accusa: l’aver additato agli uomini una libertà che non possono raggiungere, perché non ne sono capaci. Dando lezione di realismo politico al Cristo sognatore ed idealista, l’inquisitore pronuncia il suo credo: gli uomini sono meschini e di bassa levatura, occorre condurli per mano, giustificandone bisogni e limiti, imbonendoli con un esercizio del potere che tenga conto della loro mediocrità.

I tanti che si sono cimentati con la figura di Gesù o condividono il credo dell’inquisitore, oppure lo ripudiano. Lo condividono quanti, anche in nome di una pretesa umanizzazione di Cristo, hanno tentato di svilirne la forza profetica e sovversiva. Ieri in nome dell’ideologia del potere, oggi in nome dell’ideologia realistica, che poi altro non è che resa incondizionata al potere. È un realismo che scandalizza, purtroppo, solo in un caso: quando tocca la sfera privata ed affettiva di Gesù o la pubblica decenza di copioni cinematografici mediocri. Non turba ugualmente le coscienze, quando invece pretende di ricacciare il Cristo nel cliché dell’idealista disilluso o del salvatore metastorico, che riconcilia solo le anime e nulla più. A costoro non riesce difficile credere in Cristo. Riesce invece impossibile credere in ciò che Gesù ha realmente creduto.

Al contrario, quelli che danno credito solo al Gesù della storia, alle sue speranze ed alla sua passione per un mondo nuovo e per un’umanità rinnovata, hanno talvolta lo sguardo lungimirante, ma il respiro corto. Appaiono incalzati non solo dalla loro quotidiana fatica del vivere, ma anche dal rimprovero tacito o palese di chi paradossalmente rinfaccia proprio loro di umanizzare troppo la figura di Cristo, mettendo in ombra la sua trascendenza. Ora però nulla sembra più incatturabile della “trascendenza”, non essendo questa, per definizione, monopolio di nessuno.

A noi basta ritenere che Colui che ci trascende infinitamente perché Figlio di Dio, è contemporaneamente il maestro più accreditato che possiamo avere per imparare a percorrere il viottolo della trascendenza dell’uomo. Ci insegna che non ci sono due trascendenze, ma che noi uomini di carne e di sangue, di delusioni e di progetti, di memoria e di futuro siamo continuamente sospinti, proprio da quel Gesù della storia, che rimane il Cristo della fede, al superamento dei limiti di oggi.

Cristo non è soltanto il trascendente, ma è anche la via del nostro autotrascenderci. Il suo appello alla fede si concretizza nel credere che l’uomo è chiamato a superarsi continuamente e che non la mediocrità e l’indifferenza, ma la grandezza e l’amore coraggioso e oblativo ne impastano la sua struttura esistenziale. Trascendersi è non rassegnarsi ai limiti che oggi ci condizionano e ci opprimono, ma adoperarsi perché siano infranti.

La conseguenza di quanto andiamo dicendo si può sintetizzare schematicamente nella formula: la fede nel Cristo esige che noi crediamo in ciò in cui lo stesso Gesù ha creduto. Non essendo possibile, come vedremo, separare il Cristo della fede dal Gesù della storia, la fede di quanti confessano, come Pietro, «Tu sei il Cristo” comporta la disponibilità a seguirlo sulla sua strada. È una strada che dobbiamo conoscere e della cui storicità non dovremo più dubitare. Per queste ragioni, la ricerca storica su Gesù diventa indispensabile. Per il credente la vicenda umana di Gesù, che è inestricabilmente vicenda teologale e vicissitudine storica, non è indifferente. Costituisce, al contrario, la giustificazione storica di scelte da compiere oggi nella nostra storia ed in questo nostro mondo.

Comunemente, parlando di Gesù lo indichiamo indifferentemente con il nome di Gesù o con il nome di Cristo. Ma, da come si sarà già compreso, i due nomi esprimono aspetti  diversi. “Cristo” sta ad indicare il Cristo risorto e oggetto della fede della Chiesa, colui che fu predicato e testimoniato dagli apostoli ed è indicato dalla teologia paolina come il Capo del corpo che è la Chiesa. È l’unto del Signore, il messia, che realizza le profezie fatte ad Israele ed è adorato come il Figlio di Dio, il Vivente, ininterrottamente presente nella comunità dei credenti.

“Gesù” sta invece ad indicare la realtà storica di Gesù di Nazareth, colui che passò predicando per la Palestina e del quale, pur non potendosi dire altro che aveva fatto del bene a tutti, fu chiesta la morte, una morte voluta da coloro che, smascherati nella loro ipocrisia, dovettero produrre falsi testimoni contro di lui.

La ricerca sul Gesù della storia può ben arrivare oggi alla conclusione che il Cristo della fede e il Gesù della storia sono inscindibilmente uniti anche dal punto di vista storico. La connessione dei due termini è stato tuttavia il nodo nevralgico fondamentale sul quale ogni autore ha dovuto pronunciarsi. Da Kähler in poi, la distinzione è diventata separazione, con l’aggiunta di qualificazioni che hanno ristretto i significati ivi espressi, fino ad arrivare ad una cesura invalicabile. Altro è il Cristo in cui crediamo, diceva Kähler, altro è il Gesù della ricerca storica. Il Gesù della storia è completamente differente dal Cristo della fede. L’uno e l’altro sono e devono restare distinti e separati. Ma, in questo modo, siamo ormai davanti ad un’affermazione quasi dogmatica, che implicitamente ed acriticamente si rinviene in molti: l’inconciliabilità dei due.

Pur adoperando, per ragioni di chiarezza, la distinzione didattica tra Gesù e Cristo, è nostro intento dimostrare che i due significati sottostanti alla doppia denominazione non solo non contrastano tra loro, ma non possono reggersi l’uno senza l’altro. Non certamente in forza di un’operazione concettuale, o di analisi di linguaggio, ma a conclusione di una riflessione critica sulla vicenda storica di Gesù, si perviene alla conclusione che la stessa realtà storica di Gesù non è pensabile al di fuori della fede, che costituisce la chiave ermeneutica determinante per poterla aprire e leggere.

Se il risultato del nostro lavoro si può agevolmente sintetizzare nella frase: «Il Cristo della fede è il Gesù della storia», il nostro studio appare per buona parte un confronto con le posizioni critiche che di volta in volta si sono date nella storia della ricerca storiografica su Gesù. Non ci si può sottrarre alla fatica di studiarle e, prendendole sul serio, di vagliarle attentamente. Al di là delle facili affermazioni apologetiche e delle fughe in una fede che pretenderebbe di essere “pura”, nascondendo la testa nella sabbia, per paura della verità, noi riteniamo che siamo debitori alla ragione di una credibilità storica della fede stessa. Essa non offusca, ma semmai illumina la figura di Cristo e ce ne fa rivivere il palpito con la trepidante compartecipazione di chi si sente chiamato a seguirne le orme fino in fondo. Vale anche per noi la lezione dell’evangelista Luca, che parla di ogni cura nelle sue ricerche perché gli insegnamenti trasmessi sul Vangelo abbiano la loro stabilità.

Per noi, scoprire la consistenza storica dell’agire di Gesù, del suo vivere e lottare, del suo amare e morire, non potrà che essere un incoraggiamento a seguitare ad andare, a cercare nell’oggi germogli di liberazione e salvezza.

Consapevoli di questa forza liberatrice che promana dalla figura di Gesù e con nel cuore le sofferenze, alle quali quotidianamente assistono, i Vescovi latino-americani già nel 1979, avevano dichiarato a Puebla:

«Parliamo di Gesù Cristo. Proclamiamo ancora una volta la verità della fede su Gesù Cristo. Chiediamo a tutti i fedeli di accettare questa dottrina liberatrice»[1].

Si tratta di un appello destinato a tutti, ma in primo luogo a quanti si definiscono cristiani, perché

«il loro destino temporale ed eterno è legato alla conoscenza di fede e alla sequela, nell’amore di Colui che con l’effusione del suo Spirito ci rende capaci di imitarlo e che noi chiamiamo, e che è, Signore e Salvatore»[2].

La nostra ricerca recepisce quest’appello. Per seguire e comunicare meglio il Cristo, occorre conoscerlo. Ma occorre anche conoscere la sofferenza e i problemi di quel popolo sofferente, che, nel terzo mondo e altrove, è simile a quel popolo dove Gesù s’incarnò e visse, morì e risuscitò. La solidarietà con Cristo è solidarietà con la sofferenza dell’uomo. E viceversa, solo la solidarietà con il sofferente ci abilita a comprendere “dal di dentro” la persona e la ricchezza di Gesù, il Cristo. Anche noi, come i cristiani dei popoli tormentati e oppressi, in solidarietà con le sofferenze e i problemi del popolo sofferente

«sentiamo l’urgenza di dargli ciò che è specificamente nostro: il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio. Sentiamo che questa è la “forza di Dio” (Rm 1, 16) capace di trasformare la nostra realtà personale e sociale e di incamminarla verso la libertà e la fratellanza, verso la piena manifestazione del Regno di Dio»[3].

Quelle evidenziate a Puebla, sono linee maestre che indicano l’orizzonte ecclesiale ed umano, culturale e “politico” ove avviene anche la nostra ricerca. Allo stesso modo, registriamo e recepiamo con convinzione l’invito a salvaguardare la ricchezza e l’integrità della figura di Cristo, guardandoci da due pericoli che possono effettivamente incombere su chi a tale ricerca si accinge: l’ideologizzazione di Gesù come puro e semplice leader politico e la sua già accennata riduzione di lui ad esperienza di fede meramente intimistica e privata.

La figura di Gesù, per essere ben compresa, è da contestualizzare nell’ambito teologico in cui lo stesso Nuovo testamento e la prima comunità cristiana l’hanno collocata. Attraverso Cristo Dio irrompe nella storia umana e questa diventa «pellegrinaggio degli uomini verso la libertà e la fratellanza»[4] sicché proprio queste, la libertà e la fratellanza, «appaiono ora come una via verso la pienezza dell’incontro con lui»[5]. Annunciare il «vero volto di Cristo significa anche per noi annunciare la «vera e totale» liberazione di tutti gli uomini, di ciascun uomo.

L’agire di Gesù è da cogliere, di conseguenza, in una contestualità complessiva che è insieme culturale e spirituale, teologica ed antropologica, o, se si vuole, mistica e politica[6], come un agire liberante che riconcilia l’uomo con Dio e con il suo stesso cuore, con le sue radici e il suo ambito umano e cosmico. È pertanto un agire di pace che avviene con la predicazione e le opere.

Per chi parte da una prospettiva di fede, il peccato è vinto da Cristo e tutta la sua vita storica è una lotta al peccato. Ma occorre subito aggiungere che alcune forme di peccato, allora come oggi, non si danno per vinte. Gesù infatti sperimenta l’incredulità e il rifiuto, l’odio e la persecuzione sistematica che arriva alla sua eliminazione fisica.

Proprio allora Gesù comprende e reimposta la sua vita all’insegna di quella del «servo sofferente di Jahvé». Intraprende l’ultimo suo cammino come cammino di donazione senza riserve, respingendo la tentazione del potere politico e del ricorso alla violenza, anche a quella semplicemente difensiva. Il primo gruppo dei discepoli e degli apostoli è coinvolto in questo cammino di Gesù e con fatica e sofferenza apprende la rinuncia all’odio e l’affermazione dell’amore, anche nell’ora suprema della sconfitta e delle tenebre.

Vogliamo essere fedeli anche noi a questa lezione che ci viene dal cammino di Gesù. Siamo convinti che questa fedeltà passa anche attraverso la fatica di una ricerca seria e documentata, con gli strumenti critici e riflessivi, che adoperiamo, perchè siamo persuasi che non possono che aiutarci a salvaguardare il vero volto di Gesù. Così siamo convinti che, nella riscoperta della sua sequela, siamo alla scuola di chi con la sua vita e la sua storia è stato un «facitore di pace», un’affermazione di amore, «amore che abbraccia tutti gli uomini. Amore che privilegia i piccoli, i deboli, i poveri. Amore che riunisce e introduce tutti ad una fratellanza, capace di aprire la strada di una nuova storia»[7].


 

 

CAPITOLO I.
IL PROBLEMA DEL GESÙ STORICO E LA SUA IMPORTANZA PER LA CRISTOLOGIA

1. Chiarificazioni preliminari

1.1. Rapporto tra Cristologia e Gesù storico

La trattazione del Gesù storico si colloca nell’ambito della teologia fondamentale, come un corso che fa da cerniera tra la critica storica e la cristologia.

Cristologia significa discorso su Cristo: è la dottrina su di lui e contemporaneamente la sistemazione scientifica di questa complessa materia. Non si tratta però di un discorso arido né di una ricerca storiografica, ma di una riflessione sistematica su di un dato di fede, su ciò che non è soltanto testimonianza del passato, ma tuttora creduto dalla comunità cristiana. È una riflessione che avviene sulla base della fede in Cristo da parte della comunità cristiana.

Il corso sul Gesù storico, invece, tratta ciò che costituisce questa stessa base, ciò che è antecedente alla comunità cristiana, prima ancora della adorazione di Gesù come Figlio di Dio. Il Gesù storico è il nucleo storico fondamentale di questa fede in lui. Essendo Gesù la persona umanamente esistita all’origine di questa fede, è non solo importante, ma indispensabile conoscere la sua esistenza storica e la sua storia. Vale a dire come gli altri hanno agito nei suoi confronti (per esempio, Ponzio Pilato, i farisei, i sadducei, i discepoli ecc.) e come egli ha vissuto la sua storicità esistenziale, il suo progetto storico. In pratica ciò che Gesù ha fatto di se stesso, come egli si è posto davanti alla sua vita, alla sua missione, alla sua morte.           

Per attingere questa storicità di Gesù passando per la sua concezione esistenziale e teologica, è necessario indagare tanto sul suo messaggio, che sulle motivazioni del suo agire. Occorre cercare di conoscere il contesto esperienziale della sua vita, considerando il suo insegnamento non estraneo, ma incarnato nel suo vissuto. Solo in questo modo potremo arrivare ai presupposti storici della cristologia, fornendo ad essa non già una giustificazione razionale, perché la fede si giustifica da se stessa, ma una fondazione, una credibilità ed una ragionevolezza previa, ciò di cui sia la fede sia la teologia hanno sempre bisogno.

In ogni caso, se la cristologia non può fare a meno della ricerca storica su Gesù, per avere una consistenza ed una solidità effettiva, il corso sul Gesù storico, pur restando in un ambito eminentemente critico, non si contrappone, ma si apre alla confessione cristologica. Come avremo modo di vedere, la fede non preclude l’indagine critica, ma è strumento e via alla comprensione critica.

1.2. Il problema del Gesù storico: l’accessibilità della storia di Gesù                      

Quando si vuole attingere il Gesù della storia, il problema che affiora è quello delle fonti. Noi che viviamo a oltre venti secoli dalla sua morte, disponiamo di pochissime e scarne fonti non scritturistiche (dette «canoniche”) attestanti qualcosa della storia di Gesù. I capisaldi che vi si possono raccogliere non vanno al di là di questi: esistenza di Gesù al tempo di Tiberio, crocifissione e morte sotto il procuratore Ponzio Pilato, nascita di una nuova religione che risale a lui. Le fonti non fanno nessun riferimento alla sua storicità esistenziale, anche se ci danno preziose, per quanto minimali, informazioni. Si tratta di fonti pagane e giudaiche. Tra quella pagane ricordiamo Tacito, Svetonio, Plinio il Giovane, Luciano, alcuni accenni dell’imperatore Adriano e di un certo Mara Bar-Serapion.

Tacito negli Annales (libro III, cap. XV) a proposito dei cristiani, accusati da Nerone di aver incendiato Roma, scrive: «Il fondatore di questa setta, un certo Cristo, era stato condannato a morte sotto il regno di Tiberio dal procuratore Ponzio Pilato».

Svetonio nell’opera Vite dei Cesari (Claudio, 25, 4) riferendo di alcuni disordini provocati da una comunità di Giudei convertiti, accusa Cristo di esserne stato la causa, adoperando l’espressione «impulsore Chresto», per indicarne l’ispiratore.

Plinio il Giovane nella sua lettera a Traiano (Epistola, X, 96-97) intorno all’anno 112-113 d.C. chiede all’imperatore istruzioni sul da farsi con i cristiani dell’Asia Minore, che diventavano sempre più numerosi. Riassume la loro condotta con le parole: «Il culto di questa setta consiste nel cantare un carme in onore di un certo Cristo, quasi fosse un Dio».

Luciano nel suo libro De morte peregrini dà notizia di Gesù, deridendolo sfacciatamente. Infine sono reperibili notizie frammentarie sui cristiani e su Cristo in due lettere dell’imperatore Adriano al proconsole dell’Asia Minucio Fundano (125 d.C.) e nella lettera di un certo Mara Bar-Serapion, nella quale si parla di un «saggio» ucciso dagli Ebrei, che per questa ragione sarebbero stati spogliati del loro regno.

Tra le fonti giudaiche ricordiamo innanzi tutto Giuseppe Flavio. Si tratta di una testimonianza molto controversa, perché ritenuta rimaneggiata da qualche copista cristiano che avrebbe corretto l’originale di Giuseppe. Questi scriveva presso la corte imperiale le Antichità Giudaiche, nel 93 d. C., con l’intenzione di mettere in buona luce la storia giudaica. Nel suo testo, chiamato testimonium flavianum (Ant. 18, 3, 3) compaiono attualmente queste espressioni:

«In questo tempo visse Gesù, un uomo saggio, se pure lo si può chiamare uomo. Egli era infatti autore di opere sorprendenti e maestro di uomini che accettavano con piacere la verità. E attirò a sé molti Giudei e molti dei Greci. Egli era il Messia. Quando Pilato, su accusa dei nostri maggiorenti, lo condannò alla croce, coloro che lo avevano amato all’inizio non cessarono di aderire a lui. Il terzo giorno egli apparve di nuovo vivo, poiché i santi profeti avevano predetto ciò e innumerevoli altre cose meravigliose su di lui. E fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da lui son detti Cristiani»[8].

I critici diffidano di questa versione, ritenendola un’interpolazione o almeno un rimaneggiamento, a causa della professione di fede nel messia in essa contenuta, cosa che era ben lontana dalle intenzioni di Giuseppe Flavio. Il tempo ha confermato questi sospetti, perché nel 1972 nella Storia universale di Agabio si è scoperta un’altra versione, molto più succinta e distaccata di Giuseppe Flavio, che sembrerebbe essere il testo originale, senza alcuna alterazione. Essendo Agabio vescovo, non si può supporre che egli abbia omesso espressioni così favorevoli su Gesù come quelle che sono nel testo precedentemente noto. Ecco la sua versione:

«In quell’epoca vi fu un saggio, chiamato Gesù, la cui condotta era buona; le sue virtù furono riconosciute e molti giudei e delle altre nazioni si fecero suoi discepoli. Pilato lo condannò alla morte di Croce, ma quelli che si erano fatti suoi discepoli predicarono la sua dottrina. Essi raccontarono che egli era apparso loro dopo tre giorni dalla sua crocifissione e che era vivo. Forse egli era il Cristo riguardo al quale i profeti avevano detto cose prodigiose»[9].

C’è una seconda testimonianza in Giuseppe Flavio nella stessa opera, che riferisce di Giacomo , «fratello di Gesù, detto il Cristo», ma è una testimonianza che non aggiunge nulla di nuovo a quanto già si è detto.

L’approfondimento delle altre fonti giudaiche che parlano di Gesù non ha apportato grandi novità[10]. I testi che hanno qualche riferimento a lui non vanno al di là del IV secolo e gli autori non escludono che si tratti di qualche altro Gesù (Jeshù o Jehoshua), nome piuttosto ricorrente nel mondo giudaico, e quindi non necessariamente indicante Gesù Cristo.

In conclusione, le fonti pagane e giudaiche ci rivelano alcuni elementi della storia di Gesù, ma non la sua storicità che qui chiamiamo, per intenderci, esistenziale, e che è ciò che a noi sta maggiormente a cuore. Sono le uniche voci al di fuori del Nuovo Testamento, con il quale non contrastano, pur nella loro essenzialità. Si tratta di fonti che sono concordanti tra loro e possono anche costituire la base, o lo scheletro essenziale, di ciò che ci viene riferito dagli scritti neotestamentari. Tuttavia, proprio questi ultimi possono e devono essere considerati autentiche fonti storiche, anche se ci resta da sgombrare il terreno su una pregiudiziale di fondo: la sua inattendibilità, perché di parte e perché già impregnata della fede in Cristo.

2. Il superamento della pregiudiziale di fondo

Il problema della attendibilità delle fonti canoniche investe molteplici piani di riflessione. In primo luogo viene ad essere toccata la modalità della nostra conoscenza storica con la conseguente domanda: possiamo veramente conoscere il Gesù della storia al di fuori dell’ambito dei convincimenti, delle motivazioni, dell’identità spirituale che hanno contrassegnato il suo cammino? In secondo luogo, si tocca un’altra questione relativa alla fede di coloro che hanno vissuto con Gesù e al rapporto che questa fede ha avuto con la fede stessa di Gesù. La domanda che ne consegue suona: la fede dei discepoli, testimoni diretti o indiretti di Gesù nuoce in modo pregiudiziale alla sua conoscenza storica? Essendo testimoni di parte, sono realmente inattendibili a causa della loro fede, oppure, al contrario, sono l’unica via di accesso, proprio tramite la loro fede, alla fede di Gesù e quindi alla sua storicità? Infine rimane interessata in quest’approfondimento una questione di comunicazione e di trasmissione, del tipo: pur ammettendo che la conoscenza di Gesù passi attraverso la testimonianza di quanti ne hanno condiviso l’orizzonte spirituale-esistenziale, che cosa giustifica la fedeltà nella trasmissione da quella generazione alle generazioni successive? Si può sostenere l’attendibilità di ciò che si riferisce a Gesù negli scritti canonici?

Sono questioni che vanno affrontate preliminarmente, perché dalla loro soluzione dipende la risposta al quesito di fondo con cui ci cimentiamo: che cosa possiamo conoscere storicamente di Gesù di Nazareth?

La prima questione resta nell’ambito della conoscenza storica, perché tocca problemi di euristica storica e delle modalità del conoscere in genere. È strettamente collegata al superamento del paradigma della conoscenza storica di stampo positivista e alla concezione antropologica complessiva sul conoscere e sui suoi presupposti. La riprendiamo sotto il titolo: dalla concezione archeologica alla concezione antropologica della conoscenza storica.

La seconda questione riguarda l’attendibilità storica delle fonti, particolarmente delle fonti antiche. Tocca pertanto i diversi modi di scrivere la storia e l’uso delle fonti da parte degli storici. Ma riguarda anche il modo di intendere l’autenticità storica del materiale evangelico. Sintetizzeremo le risposte a queste domande sotto il titolo: dalla concezione quantitativo-statica alla concezione qualitativo-dinamica delle testimonianze sul Gesù storico.

La terza questione investe la teoria della comunicazione, per ciò che riguarda l’osmosi comunicativa ed i dinamismi interrelazionali tra Gesù ed i suoi discepoli. Investe, parimenti, l’ermeneutica ed il campo più specifico e tecnico dell’investigazione critica sulla effettiva trasmissione tra l’esperienza conoscitiva dei discepoli e gli scritti canonici. La tratteremo nel paragrafo: La fedeltà storica nella fedeltà della primitiva comunità cristiana.

2.1. Dalla concezione archeologica alla concezione antropologica della conoscenza storica

Il Vangelo, letto nella sintonia spirituale dei suoi estensori, colpisce, già ad una prima lettura, per il misto di dolore e di gioia che pervade le sue pagine, particolarmente quelle che raccontano la passione e le apparizioni di Cristo dopo la sua morte. I fattori che sono alla base di questo afflato umano-spirituale sono tanti. Ma qui gioverà ricordarne almeno due: la memoria della sofferenza e la sua rilettura in chiave salvifica.

In altre parole: la passione vissuta con la lucidità della distanza di luogo e di tempo, e la comprensione di essa in un unico mistero di dolore e di vittoria sullo stesso dolore.

A nostra volta, in questa prospettiva, anche noi possiamo leggere nella sofferenza di Gesù quella che oggi sale da interi continenti tormentati ed oppressi, da regioni povere e sottosviluppate, come pure dalle interlinee e dalle lacune della storia ufficiale, così penosamente infarcita di guerre, di morti e di sofferenze inaudite, quanto ostentatamente piena dei nomi e delle opere dei vincitori.

La voce dei vinti e dei caduti, spenta ieri nel sangue e quella degli inermi, soffocata oggi dal bavaglio dei potenti, parlano nel silenzio di Gesù davanti a quell’uomo che si autodefinisce “Potere”, potere terribile di inchiodarlo alla inutilità di un abbozzo di storia, al progetto di umanità nuova violentemente abortito sul nascere. Ma è un’inutilità solo apparente, perché le mani di quel vinto si strappano dalla condanna e diventano punto di riferimento centrale della storia, anche se restano per sempre segnate da ferite incancellabili nella carne e nella memoria, storia di sofferenza che brucia nel presente[11].

«Il crocifisso, Lui è vivente», annunciano Marco, Matteo e Giovanni. Luca aggiunge che i segni dai quali i discepoli riconoscono Gesù sono quelli della passione[12].

Proprio Lui è vivente, colui che porta le piaghe inflittegli dai potenti, dei quali parla la storia, quella dalla memoria corta, che così facilmente dimentica le vittime, come altrettanto facilmente esalta i vincitori. Gli evangelisti vedono le cose diversamente. Il loro modo di fare storia è esemplare. Quel progetto di umanità che si era creduto definitivamente schiantato, riemerge con vigore. La memoria, si afferma, non può essere solo dolore, ma diventa essa stessa levatrice di storia, in quanto si alimenta di questo dolore. È lì non solo per impedire nuove crocifissioni, ma per ricordare che il crocifisso è vincente e per ricordare, ogni volta che si parlerà di lui, anche la responsabilità dei suoi crocifissori, quella di aver abusato del potere: «patì sotto Ponzio Pilato».

Noi sosteniamo qui che si tratta di un problema che è insieme teologico e storico. Nella teologia tradizionale non ci sono dubbi. La sofferenza e l’esperienza del dolore non sono inutili, ma hanno un valore che le integra nella sofferenza di Cristo e nella sua dinamica salvifica. La comunione dei santi e la partecipazione del singolo cristiano al mistero della passione, della morte e della risurrezione di Cristo sono punti qualificanti della teologia. Tutto questo non è solo un conforto per chi soffre e per chi vede soffrire, nei casi in cui effettivamente ogni aiuto e lenimento della sofferenza sono umanamente impossibili. È un atto così fondamentale e radicale, che esige conseguenze pratiche ed immediate, proprio nell’ambito dello scrivere la storia, dal momento che coloro che la “fanno” ne sono spesso le vittime.

La storia della Chiesa, e la storia in genere, non possono non tenerne conto. I fatti sembrano gli stessi, ma ciò che cambia è fondamentale almeno quanto i fatti: è la loro chiave interpretativa, l’orizzonte ermeneutico, in quanto contesto sociologico situativo, che, come la ricerca scientifica va dimostrando ogni giorno di più, è decisiva ai fini della comprensione dei fatti[13].

Chi scrive la storia si trova in una situazione simile a quella di chi deve scrivere un articolo per un giornale su un fatto realmente accaduto. A cominciare dalla opzione se il fatto debba essere raccontato o no, alla selezione dei tanti dettagli, alcuni dei quali devono essere per forza di cose (ed interessi redazionali) tralasciati, dalla sottolineatura di altri, per finire con il commento più o meno esplicitamente dichiarato di “interpretazione personale”, tutto insomma rimane avvenimento interpretato. «Le opinioni separate dai fatti” può solo suonare come una trovata giornalistica. I giornalisti sono i primi a sapere che tale assunto non corrisponde alla realtà. Non c’è possibilità di separare i fatti dalle interpretazioni.

Così è per la ricerca storica, che, possiamo concludere, ha un valore non meramente archeologico, ma innanzi tutto antropologico. Non inventaria solo i documenti del passato (la cui enumerazione e selezione non sfuggirebbe comunque alle scelte soggettive dello storico), ma cerca di attingere il contesto umano complessivo che rende comprensibile il fatto del passato. In questa operazione, affascinante e delicata, scrivere la storia significa non solo visitarla, ma riviverla e farla rivivere.

Ma c’è di più. La riflessione critica sulla ricerca storica sembra aver dimostrato, e con buon fondamento, che senza un campo di interpretazione, in cui il fatto storico è stato “vissuto”, già all’epoca in cui ha avuto luogo, il fatto stesso è impensabile. Ricreare allora quell’orizzonte contestuale, avvicinandovisi il più possibile, è la condizione indispensabile per non violentare i fatti e la interpretazione degli stessi agenti storici del passato.

L’ermeneutica non deve spaventare nessuno. Aiuta a ricostruire la storia e resta l’unico mezzo, la sola mediazione che abbiamo a disposizione, per entrare in sintonia con ciò che nel tempo è lontano da noi, anche se bisogna dire che essa non è ancora tutto. Rimane infatti ancora da stabilire chi ha il diritto di praticarla. Gli oppressi, i vinti, il crocifisso “fanno” la storia, ma dal momento che non saranno direttamente loro a poterla “scrivere”, a raccoglierla dovranno essere quelli che insieme con loro l’hanno vissuta e sono scampati, o almeno quelli che sono in una sintonia esistenziale e spirituale tale, da poterla recepire in modo adeguato.

Gli scrittori di storia sono gli scampati, sopravvissuti per poterla raccontare oppure quanti si trovano nello stesso orizzonte interpretativo dei sopravvissuti, non come osservatori disincantati, ma come partecipi, cioè come quelli che solidarizzano con i primi, ne sposano la causa, ne diventano portavoce e narratori.

Le conseguenze, nel nostro caso specifico sul Gesù della storia, sono facili da immaginare. Gli evangelisti, che appena alcuni decenni fa erano ritenuti i meno attendibili, perché testimoni “di parte”, sono quelli che meglio di altri hanno recepito l’orizzonte ermeneutico in cui è vissuto Gesù e sono pertanto i più abilitati a scriverne la storia. Certamente, non ci si può sottrarre al problema se essi abbiano effettivamente voluto compiere una scrittura storica o siano stati semplici “collezionisti” di notizie e di frammenti rinvenuti in tradizioni precedenti, difformi e disomogenee. Ma è una questione della quale ci interesseremo successivamente. Ciò che qui ci sta maggiormente a cuore è la conclusione che non si può scrivere la storia, senza essere in essa coinvolti. Cade pertanto l’obiezione, proveniente dal positivismo storico, dell’inattendibilità delle fonti canoniche, sol perché fanno parte di un contesto di fede e quindi di un orizzonte interpretativo che snaturerebbe i fatti medesimi. L’obiezione risente di una concezione che noi abbiamo chiamato archeologica della storia: quella di chi tratta i fatti umani come semplici reperti del passato, senza cuore, né pensiero, senza partecipazione e senza fede.

Scrivere la storia è per noi afferrare ciò che la qualifica come tale, cioè come fatto umano, in tutta la sua complessità e nella sua pregnanza antropologica: ciò la contraddistingue da un’operazione puramente notarile e meccanica, perché essa cerca invece di ricostruire la interrelazione dei fatti con gli agenti e con il mondo interiore ed esteriore nei quali essi vivevano. Se è stato giustamente scritto che il cristianesimo non può esistere senza memoria[14], e quindi senza storia, occorre aggiungere che la memoria del popolo cristiano contiene nella sua struttura fondamentale il fatto e la sua interpretazione, l’avvenimento e la fede. L’uno non può esistere senza l’altra.

2.2. Dalla concezione quantitativo-statica a quella qualitativo-dinamica sulle testimonianze canoniche

Strettamente collegato con quanto già detto è il valore che si dà alle testimonianze canoniche su Gesù, in particolare a quelle evangeliche. Le posizioni sono state molteplici. Vanno da un fissismo cronachistico (tutto ciò che i vangeli raccontano è avvenuto nello stesso modo con cui è raccontato) ad un dissolvimento storico di carattere redazionale-teologico (i vangeli non hanno alcuna attendibilità storica: luoghi, fatti, riferimenti sono espedienti teologici in funzione di una tesi che si vuol dimostrare).

La posizione di chi ritiene la narrazione evangelica una cronaca storicamente attendibile in tutti i suoi dettagli non è sostenibile. La pluralità dei racconti e le contraddizioni esistenti su non pochi particolari dimostrano che non era nell’intenzione degli evangelisti riprodurre in maniera cronologicamente e geograficamente esatta i fatti così come si erano svolti, né fornire informazioni precise ed univoche sui tanti personaggi che popolano il Vangelo.

L’esattezza storica in senso strettamente cronacistico è, del resto un’esigenza moderna. Non era conosciuta, né praticata, nemmeno dagli storici classici più accreditati. Gli stessi Tucidide e Tacito, solo per richiamare i più famosi storici dell’antichità greca e latina, pur riportando fedelmente i fatti di cui erano a conoscenza, non avvertivano nessuno scrupolo nel mettere sulla bocca dei loro personaggi storici discorsi, di fatto materialmente composti da loro, ma che tuttavia erano in armonia con il tenore delle testimonianze di cui disponevano. La fedeltà storica non era riprodurre un fatto in modo materialmente documentaristico, riportandolo tra virgolette, così come oggi si può riprodurre un discorso con il  magnetofono o un fatto con la cinepresa. Lo stesso Cesare, quando raccontando le sue imprese militari, riporta, per esempio, i discorsi tenuti ai soldati, non riproduce in maniera quantitativamente precisa e minuziosa le parole effettivamente pronunciate, ma piuttosto il loro senso complessivo. E tuttavia si tratta dello stesso Cesare che è insieme personaggio storico e storico di se stesso.

Se la critica storica accetta senza problemi la correttezza di questo procedimento degli antichi storici, ciò significa che ammette che il criterio quantitativo e documentaristico (che si potrebbe chiamare quantitativo-statico) non solo non è sempre praticabile, ma non è indispensabile per l’attendibilità delle fonti. Ci sembra piuttosto che a questo sia subentrato un nuovo criterio, che si potrebbe chiamare qualitativo-dinamico. Grazie ad esso i fatti, pur non essendo materialmente ed esattamente riprodotti, non vengono travisati, ma sono riproposti in un corretto contesto ermeneutico, dinamico e qualitativo, che non li falsifica, ma memmeno li idolatra nella loro fisica materialità.

Nel campo che ci interessa più da vicino, le discordanze evangeliche su alcuni particolari[15], la lacunosità su altri punti non secondari della vicenda di Gesù[16], il quasi ostentato disinteresse sull’esattezza cronologica e topografica non pregiudicano l’attendibilità storica degli evangelisti. Né ha portato molto lontano lo sforzo di quanti hanno cercato di armonizzare le discrepanze accennate. Il concordismo degli esegeti che nei primi decenni del secolo scorso cercavano di dare una ragione, con non poche forzature e supposizioni inverosimili, delle discordanze evangeliche, è ormai definitivamente superato[17]. Dimostra tuttavia lo sforzo, intellettualmente e teologicamente corretto, di non abdicare dall’intelligenza della fede capitolando in un fondamentalismo fideistico che ritiene inutile e persino dannosa ogni ricerca storica su Gesù.

Quest’ultima posizione è davvero nociva. Ritorna di tanto in tanto nella storia della Chiesa e spesso si allea con i sostenitori della posizione acritica, che ritiene i fatti narrati dai Vangeli materialmente e documentaristicamente riprodotti e quindi inattaccabili e indubitali.

2.3.La fedeltà storica nella fedeltà della primitiva comunità  cristiana

La reazione apologetica non si è sempre espressa nel rifiuto netto della critica storica o nel concordismo. Spesso si presenta nelle vesti di una posizione che sta a metà strada tra l’apologetica che rifiuta i risultati della critica storica positivista e quella che accetta una sorta di compromesso con questa. È una posizione che potremmo chiamare parzialmente critica, perché accetta i presupposti positivistici della ricerca storica e va alla ricerca di un Gesù della storia scrostato dei tratti teologici e dogmatici della fede post-pasquale. Ammette, cioè, che altro è il dato di fede e altro è il nucleo storico ivi sottostante. Anche se afferma con vigore una stretta continuità tra i due, non mette in discussione la premessa euristica che ritiene storicamente attendibile solo ciò che è scevro di fede e quindi non rimaneggiato dalla credenza post-pasquale.

 La conseguenza è che bisogna aprire dei varchi attraverso la barriera della fede pasquale per attingere il Gesù storico nella sua purezza originaria. Gli strumenti che vengono messi in atto per quest’operazione sono molteplici e li esamineremo nei capitoli successivi. Si tratta comunque di strumenti di critica letteraria e contestuale, di confronti ambientali e linguistici, di criteri di somiglianza e di dissomiglianza, di esplorazione delle situazioni esistenziali e storiche in cui la giovane comunità cristiana è venuta a trovarsi e dei conseguenti appelli ad alcuni detti di Gesù o avvenimenti della sua storia.

Lo sforzo compiuto in questo campo è notevole, sia sul versante evangelico sia su quello cattolico, ed i risultati sembrano essere oggi più che apprezzabili. Sostanzialmente si arriva, attraverso questa via, a cogliere non pochi aspetti importanti della storia di Gesù, anche se rimane la preclusione metodologica di fondo alla fede stessa come fonte comprimaria e coessenziale di veridicità storica. Di conseguenza, questi autori parleranno pur sempre della cesura pasquale e di un Gesù della storia ben distinto, se non separato, dal Cristo della fede, ed adopereranno espressioni linguistiche, reperite in prevalenza nel mondo tedesco, che indicano questa distinzione-separazione. Così si parlerà di «gesuano» per ciò che si riferisce al Gesù precedente alla Pasqua e di «cristologico» per ciò che si riferisce alla fede ad essa successiva; di «storiografico» (o historish) per ciò che si riferisce all’ambito della storia vera e propria e di «storico» (dal termine geschichtlich) per ciò che riguarda la storicità esistenziale del singolo credente in Cristo e della stessa comunità cristiana.

A nostro modo di vedere, non si può essere concordisti o apologetici nel senso tradizionale del termine, perché indubbiamente le fonti evangeliche risentono di alcune impostazioni redazionali e teologiche differenti. Ma non si deve, per questo motivo, nemmeno accettare acriticamente la premessa di fondo che considera la fede un impedimento, uno schermo al Gesù della storia. La comunità cristiana primitiva può ben essere considerata come il luogo della trasmissione di una fede determinante per il Gesù della storia e, come tale, come sede di legittimazione e di autenticità storica.

La fedeltà della prima comunità cristiana, quella dove ha avuto luogo la pluriforme redazione del Vangelo, è garanzia di fedeltà storica già per il fatto che la sua fede non nasceva dal nulla, né costituiva un rivestimento teologico di una realtà precedente (quella di Gesù) teologicamente asettica, ma perché si innestava in un contesto teologico precedente e ne afferrava la continuità pur con le precisioni ulteriori e gli inevitabili sviluppi teologici.

Sembra essere vicina a questa concezione la posizione di E. Schillebeeckx, il quale parla della comunità credente primitiva come via di accesso al Gesù della storia. Egli scrive infatti:

«L’esperienza delle prime comunità cristiane, indissolubilmente legata al contatto diretto con Gesù, e più tardi, attraverso la “memoria Jesu”, al contatto col Signore, è dunque la matrice del nuovo testamento come testo scritto. Ed è proprio questo che ci rende storicamente accessibili le prime comunità cristiane con la loro esperienza; esse costituiscono, storicamente, l’accesso più legittimo a Gesù di Nazaret. Ciò che il Gesù della storia ci lasciò non è in prima istanza una specie di riassunto o brandelli di predicazione sul Regno di Dio avvenire, né un kerygma o una serie di “ipsissima verba et facta”, ossia un resoconto esatto delle sue azioni storiche o un certo numero di direttive e parole sagge che con qualche certezza possano isolarsi dai vangeli. Ciò che egli ci lasciò - solo per quello che era, faceva e diceva, semplicemente comportandosi da questo determinato uomo - fu un movimento, una comunità viva di credenti consapevoli di essere il nuovo popolo di Dio, la “raccolta” escatologica di Dio, non un “resto santo”, ma le primizie della raccolta di tutto Israele e infine dell’intera umanità: un movimento di liberazione escatologica fatto per raccogliere tutti gli uomini, per portarli all’unità. Shalom universale»[18].

Il problema riguardante l’affidabilità storica della comunità credente si può risolvere solo se si ammette una ininterrotta continuità tra contesti teologici che non sono paralleli, né giustapposti, ma sono l’uno in riferimento all’altro. Sono anzi uno stesso contesto teologico che si esprime attraverso moduli diversi e che chiariscono, volta per volta, contenuti già impliciti in quelli precedenti. Per intenderci, il contesto di fede (e quindi teologico) in cui Gesù agiva e parlava, contiene già quello dei suoi discepoli e lo condiziona storicamente. Il contesto complessivo è tale che la fede di Gesù e quella dei suoi discepoli interagiscono e costituiscono lo sfondo ermeneutico storicamente autentico per la scrittura della “storia” di Gesù.

Essa è scritta a più mani già durante la vita di Gesù ed è riscritta da quanti l’hanno vissuta con lui nella loro predicazione viva, prima ancora della definitiva redazione finale. Il Vangelo è in questo caso, come si vedrà meglio in seguito, non un’invenzione degli evangelisti, ma lo strumento di trasmissione e di fedeltà storica che la comunità si dà per essere fedele al Gesù della storia, anche quando questi verrà ad essere adorato come Figlio di Dio.


 

 

CAPITOLO II.  PREGIUDIZIALE INTERPRETATIVA ED ORIZZONTE TEOLOGICO COMPLESSIVO

1. Interpretazione affidabile ed interpretazione arbitraria sul Gesù storico

Le note introduttive sull’interpretazione potrebbero aver sollevato il problema se ogni interpretazione non sia per caso arbitraria e quindi non affidabile. Si potrebbe fare questo ragionamento: se non esiste fatto senza interpretazione e se ogni interpretazione è soggettiva, ogni interpretazione diventa arbitraria. Occorre qui sgombrare il terreno da ogni eventuale frainteso di questo genere, perché un errore iniziale di questa portata comprometterebbe i risultati di qualsiasi ricerca storica, condannandola inesorabilmente all’arbitrarietà e al relativismo agnostico.

L’obiezione è solo apparentemente ineccepibile. Nasconde una concezione di ciò che è “reale” non più sostenibile, per la semplice ragione che l’interpretazione non è un’opinione intercambiabile con un’altra ad essa contraria, ma è parte costitutiva dello stesso fatto storico. Fa parte di questo ed ha, per intenderci, una funzione simile a quella del lievito nella pasta. Ne è la sua fermentazione e il suo dinamismo. Come tale è pienamente reale e quindi non opinabile[19]. Il relativismo, che pregiudica l’autenticità storica, perché, al più, può arrivare ad una rassegnata convinzione che su alcuni argomenti non ci saranno mai certezze, è fuori luogo. C’è pur sempre la possibilità di interpretazioni arbitrarie, ma a noi è sufficiente asserire che non ogni interpretazione è necessariamente arbitraria, sol perché è un’interpretazione.

Nel caso della ricerca su Gesù, le interpretazioni degli autori, di cui si viene a conoscenza, sono senza dubbio molto numerose e molto diverse tra loro[20]. Si potrebbero raccogliere sotto diverse denominazioni. Ci sono interpretazioni che sottolineano soltanto aspetti particolari della vicenda di Gesù, con una specifica attenzione non già alla vicenda storica in sé, ma al suo significato. È il caso di alcuni autori contemporanei, che non entrano nel merito diretto ed immediato della problematica storica, ma solo della valenza antropologicamente significativa che Gesù ha per l’uomo di ogni tempo. Sono interpretazioni interessanti e testimoniano la fondamentale venerazione nei confronti di Gesù, anche da parte di non cristiani o non credenti in una religione ufficiale o esplicita. Diventano arbitrarie nella misura in cui escludono l’autenticità dell’interpretazione di fede, non nel senso che si debba obbligatoriamente condividere la stessa fede cristiana, ma piuttosto perché la vicenda storica di Gesù non è concepibile al di fuori della fede.

Ci sono invece altre interpretazioni, che vogliono collocarsi al di dentro della ricerca storica, ma che, nonostante le attestazioni di imparzialità critica, tradiscono ben presto l’opinabilità, se non la precomprensione ideologica da cui muovono.

1.1.L’interpretazione spiritualista

Siamo, per esempio, dinanzi a un caso di interpretazione preconcetta, laddove si vuole destoricizzare la vicenda di Gesù e ridurre tutta la sua predicazione e la sua vita a una sorta di avventura meramente intimistica. Secondo questa concezione, Gesù avrebbe pensato solo all’aspetto interiore dell’uomo e della religione. Si sarebbe interessato esclusivamente dell’anima e della salvezza spirituale, lasciando ad altri ogni preoccupazione di carattere storico o sociale. Per quanto ingenua possa sembrare, è un’interpretazione più diffusa di quanto si creda.

Raccoglie consensi non solo tra alcuni studiosi[21], ma anche tra molti cristiani e in ambienti ecclesiastici, anche ai nostri giorni. A smentire una simile concezione basterebbe ricordare che l’antropologia biblica nella quale si muove Gesù, è di natura completamente diversa dalla nostra. Ha un concetto rigorosamente unitario dell’uomo e non separa la spiritualità dalla vita, la predicazione dalla prassi, la materia dallo spirito, come invece ci ha insegnato a fare la nostra cultura greco-occidentale.

L’ermeneutica spiritualista non è fedele alla realtà storica di Gesù. Pretende di salvaguardarla da ogni inquinamento ideologico, senza riuscirvi, perché ha un vizio di fondo: identifica il contesto teologico profetico con l’ideologia e immagina di restare neutrale escludendo la componente politico-religiosa della condanna a morte di Gesù. Ora proprio quest’aspetto non si può in alcun modo espungere dalla storia del Nazareno, perché questa resterebbe incomprensibile. Rimarrebbe infatti priva del suo contesto teologico complessivo, nel quale la messianicità di Gesù brilla della luce tragica e gloriosa della sua passione. Senza significato politico-religioso, non c’è significato teologico, per la semplice ragione che questi due costituiscono un unico significato, come testimonia, in modo inequivocabile, la stessa iscrizione della condanna: «Gesù nazareno re dei Giudei».

Del resto, chi pensa di arrivare ad una interpretazione teologica di natura esclusivamente spirituale, non di rado sostiene un’ermeneutica della morte di Gesù di carattere schiettamente antisemita. Ritiene il popolo giudaico responsabile della condanna di Gesù e in nome di ciò può arrivare ad un’ideologia razzista[22].

La morte di Gesù è invece la logica conseguenza di una prassi tutta tésa alla realizzazione degli obiettivi della consacrazione profetica: «mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri (anawìm), a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore» (Is 61, 1-2). Si tratta di una prassi “teologica” che però si qualifica come prassi profetica e messianica ed acquista anche una valenza socio-politica. Gesù l’assume in pieno e ne fa il suo progetto teologale-esistenziale, come dimostra il discorso inaugurale di Nazareth, nel quale egli dichiara di essere venuto ad adempiere una simile profezia (Lc 4, 16-21). Gesù ritrova la sua missione in questa missione, così come identificherà la sua sorte in quella del servo di Dio sofferente, nell’imminenza della sua tragica fine. Condividerà fino in fondo la sorte dei poveri e degli emarginati, fino a morire come un reietto in mezzo ai rifiutati dalla società. Tutta la sua vita può essere passata al setaccio delle beatitudini e dell’intero discorso della Montagna (Mt 5, 1- 47). Gesù ha di fatto realizzato quanto aveva predicato.

Non c’è atto o gesto di Gesù che contraddica un solo apice o iota del suo discorso programmatico. Dalla misericordia intensa e solidale verso i disperati e i peccatori fino al perdono e all’amore per i nemici, dalla resistenza al male con il bene all’abbandono sofferto al Padre, tutto in lui dimostra che la sintesi tra amore del Padre e amore dell’uomo, tra teologia e profezia, tra tensione mistica e trasformazione politica non solo è possibile, ma è l’unica via che egli ha storicamente percorso, nei giorni in cui è passato tra noi.

A noi sembra che il significato teologico della vita e della morte di Gesù costituisca una sintesi inscindibile tra l’aspetto più propriamente “spirituale” e quello socio-politico di tutto il suo agire. Il significato teologico è chiaramente storico in entrambi i sensi: Gesù trasforma la storia, per gli effetti redentivi della sua vicenda e perché tocca i gangli storici del potere religioso e politico del quale muore vittima[23].

1.2.L’interpretazione zelota

Sul versante opposto dell’interpretazione spiritualista, si colloca quella che ritiene Gesù e i suoi discepoli appartenenti alla cerchia degli zeloti, un movimento contemporaneo a Gesù, sorto intorno a Giuda di Galilea e che si proponeva la liberazione della Palestina dal dominio romano, attraverso l’insurrezione armata. La reazione romana nei loro confronti era stata durissima. Giuda il Galileo era stato crocifisso insieme con duemila seguaci, perché di questo movimento non restasse più traccia. Le conseguenze di quest’eccidio e la tassazione romana sempre più esosa avevano però ottenuto l’effetto contrario. Gli zeloti, pur restando in clandestinità, non solo continuavano ad esistere, ma erano artefici di agguati ed omicidi. Il loro accanimento contro i dominatori nasceva soprattutto da motivi religiosi. Tra questi c’era in primo luogo la certezza che la terra santa appartenesse ai Giudei, perché data direttamente da Dio al suo popolo, e pertanto non solo l’occupazione, ma tutte le sue espressioni (tassazione, diffusione dell’immagine dell’imperatore ecc.) costituivano una gravissima bestemmia contro il nome di Dio.

I sostenitori dell’interpretazione zelota situano tutta la storia di Gesù, con la predicazione del regno di Dio, la chiamata dei discepoli, l’ingresso in Gerusalemme, la purificazione del tempio e la crocifissione, pena tipica dei ribelli e facinorosi, nel contesto di questo movimento integralista. Fanno riferimento alle tracce rimaste nei Vangeli di un rapporto di Gesù con il movimento zelota[24] e spiegano le testimonianze evangeliche aventi carattere indubitabilmente pacifico e contrario alla rivolta violenta[25], con la volontà degli evangelisti di cancellare ogni traccia del carattere cospirativo dalla storia di Gesù, per non compromettere i cristiani in un’epoca in cui erano già in atto le prime persecuzioni. L’iniziatore di quest’operazione di ripulitura della tradizione sarebbe stato Marco, che, scrivendo da Roma, avrebbe coniato il famoso detto «rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12, 17) e avrebbe disegnato una figura pacifista e antipolitica di Gesù, per mettere le comunità cristiane in buona luce presso le autorità imperiali[26]. In realtà, secondo autori come Eisler e, in maniera più problematica, anche Brandon, Gesù sarebbe stato uno zelota e la sua fine, in seguito alle accuse politiche mosse contro di lui, ne sarebbe la prova più evidente.

Senza addentrarci in una discussione sulle testimonianze bibliche, per confutare l’interpretazione zelota, basti qui ricordare che le distanze da quel movimento non sono state prese da Marco, ma dallo stesso Gesù, che certamente non avrebbe potuto accettare la tesi del nazionalismo estremo, tipico degli zeloti, né quello del loro sprezzante rifiuto nei confronti di peccatori, pubblicani, samaritani e pagani. Se è vero che tra i suoi discepoli qualcuno proveniva dalla cerchia degli zeloti o aveva avuto contatti con loro, è altrettanto vero che tra questi c’era anche uno come Matteo, l’esattore delle tasse e quindi una figura particolarmente disprezzata da essi. Inoltre il nerbo profetico del messaggio e dell’agire di Gesù ha un orizzonte molto più ampio che quello di una riscossa patriottica. La sua identificazione con l’unto del Signore lo faceva sentire «servo del Signore» ed inviato a tutti gli afflitti, i diseredati e i reietti.

«Per questo, Gesù, - scrive, a ragione Gutiérrez, - più rivoluzionario degli zeloti, difensori nati nell’obbedienza letterale alla Legge, insegnerà un atteggiamento di libertà spirituale di fronte ad essa. D’altra parte, per Gesù il regno è, prima di tutto, un dono; solo partendo da ciò si capisce il senso della partecipazione attiva dell’uomo per quanto riguarda la sua venuta. Gli zeloti, invece, erano portati a vederlo come frutto del loro sforzo. Gli è che, per Gesù, l’oppressione e l’ingiustizia non si limitano a una situazione storica determinata; le loro cause sono più profonde e non potranno essere veramente eliminate se non si va alla radice stessa della situazione: la rottura della fraternità e della comunione fra gli uomini ... La liberazione offerta da Gesù è universale e integrale, fa saltare le frontiere nazionali, attacca la base dell’ingiustizia e dello sfruttamento ed elimina le confusioni politico-religiose, senza limitarsi, per questo, ad un livello puramente spirituale»[27].

Il vero problema è allora l’alternativa al Gesù zelota. Certamente non basta dire che egli non è stato tale. La sua morte di croce dimostra che egli ha avuto conflitti gravi con il potere e con i gruppi di potere del suo tempo. Il suo messaggio e la sua prassi sono sovversive, proprio perché delegittimano l’assolutezza del potere, tanto di natura religiosa che di natura più prettamente politica. Le due condanne sono plasticamente evidenti: Gesù è condannato dal Sinedrio e dal tribunale romano. Entrambi i poteri si sono sentiti minacciati, perché sconvolti da un messaggio e da un agire che propugnavano rapporti non più impostati sulla disuguaglianza gerarchica e sulla coercizione, ma su un modo fraterno ed egualitario di vivere, in nome del Dio dell’alleanza e della giustizia.

1.3. Gesù, il trasgressivo

La tesi che viene qui ad affacciarsi sembrerebbe quella di una interpretazione di Gesù come del grande trasgressivo. Egli sarebbe colui che ha infranto ogni legge ed ogni tabù, affrancando soprattutto gli spiriti, tenuti sotto il peso di una legge e di tradizioni opprimenti. Una simile ermeneutica è stata effettivamente proposta ed è nata in un ambito di antropologia culturale, che ha saputo individuare il nuovo ed il carattere dirompente della prassi di Gesù, rispetto all’ambiente giudaico del suo tempo.

In questa prospettiva, Ida Magli presenta l’originalità e la forza innovativa di Gesù rispetto alla cultura e alla concezione del sacro del suo tempo, in quanto strumenti di differenziazione e di dominio dell’uomo sull’uomo in genere e dell’uomo sulla donna in particolare[28].

Il carattere trasgressivo della vicenda di Gesù consisterebbe nella delegittimazione completa delle strutture che reggono il sacro e che sono comuni a tutte le società e le religioni, con la conseguenza di una messa in crisi di tutto il sistema religioso e di tutto il potere ad esso strettamente connesso. Gli esempi non mancano nei vangeli. Vanno dalla contestazione del valore sacrale della stessa famiglia e dei vincoli del sangue, al superamento della impurità legale, al rapporto di Gesù con i peccatori, con le donne e con gli emarginati di ogni genere. È una rottura basata sulla scoperta del valore in-compiuto e in-finito che Gesù coglie in ogni essere umano, che il potere vorrebbe coartare, ma contro il quale egli afferma tale insopprimibile dignità.

L’ermeneutica antropologica prospettata ha molti punti interessanti e certamente coglie alcuni dei nodi del conflitto di Gesù con il potere, dal quale è ripudiato ed eliminato, data la pericolosità della sue idee considerate radicali e destabilizzanti. Ha però il difetto di essere riduttiva. Non riesce infatti a cogliere la complessità teologica di questo stesso conflitto, che se appare come trasgressione, è nondimeno anche fedeltà suprema ad una «Allenza» e ad una «Legge» ad essa collegata. Per ogni ebreo essa non era semplicemente un codice di norme legali e comportamentali, ma era anche l’espressione di un’alleanza, con Dio, fonte di vita e di benedizione. Gesù sa e proclama di essere venuto a dare compimento proprio a questa alleanza. Perciò lotta strenuamente contro coloro che l’avevano ridotta a un codice di norme e di tradizioni aberranti, che nulla avevano più a che fare con la pratica della giustizia e della misericordia. Sono questi i valori che Gesù propugna, riprendendo e portando alle estreme conseguenze la tradizione profetica. Ma è proprio questo contesto complessivo che deve essere tenuto presente. La critica religiosa di Gesù non è quella di un illuminista anzitempo, è il cuore stesso della torah, e della profezia.

Nell’ermeneutica antropologica sembra essere lacunoso quest’aspetto profetico e teologico che congiunge insieme la fedeltà a Dio e la pratica della giustizia verso i suoi prediletti: i poveri, le vedove, gli orfani e quanti soffrono una situazione di minorità. Il comportamento di Gesù non è solo di rottura culturale e di sovvertimento cultuale, ma è agire teologale: prassi di misericordia e di perdono. È un agire saldamente e fondamentalmente impiantato nell’agire del Dio della Bibbia. Il continuo riferimento di Gesù al Padre, a colui che è chiamato con inaudita confidenza «abbà», la proclamazione di un regno di Dio, che coinvolge inequivocabilmente questo Padre, l’appello alle Scritture: («è stato detto agli antichi») e ai profeti, con la coscienza di essere di tutto ciò l’interprete più fedele («ma io vi dico»), sono elementi storici di grande rilevanza. Non si può compiere su Gesù un’analisi di tipo esclusivamente culturale e sociologico, per cercare di afferrarne i tratti storici. Una simile indagine resta solo alla superficie, arrivando al più a descrivere l’impatto dell’agire di Gesù e il carattere sovversivo del suo messaggio. Tralasciando l’orizzonte teologico per seguire solo quello sociologico, non si arriva alla storicità di Gesù.

Non arrivano pertanto a cogliere questa integrità storica né il libro di Ida Magli né altri tentativi simili, nei quali la storia di Gesù è presentata nei suoi effetti più spettacolari, sicché Gesù appare come il sovversivo o il cospiratore, il trasgressivo o l’asociale, l’amico dei violatori della legge e dei criminali[29]. Anche in questo caso il nucleo di quella storia non è attinto, perché in essi si esclude già in partenza ciò che in Gesù è determinante per la sua storia: il contesto teologico e la sua coscienza teologale.

1.4.        Gesù, il predicatore mendicante

Anche l’ermeneutica di Gesù nel contesto del movimento dei mendicanti della Palestina dell’epoca, si muove in una prospettiva sociologica, che pur tenendo presenti i risultati dell’indagine biblica, compie un’analisi dei ruoli e dei comportamenti, dei fattori e delle funzioni condizionanti la società e da essa condizionati.

In quest’ottica, si pone la tesi di G. Theissen, il quale sostiene che gli inizi del cristianesimo sono nel «movimento di Gesù» (Jesusbewegung), nel più grande contesto di un vasto movimento di mendicanti e di emarginati che interessò la zona geografica siro-palestinese nei primi decenni dell’era cristiana[30].

È determinante per l’elaborazione di questa interpretazione il «radicalismo errabondo» (Wanderradikalismus) degli inizi del cristianesimo. Carismatici erranti e apolidi itineranti sarebbero stati determinanti non solo per la diffusione, ma anche per la fondazione del cristianesimo. Costoro non facevano altro che continuare il movimento itinerante di Gesù, che aveva chiamato alla sequela mendicanti come il cieco Bartimeo, del quale si dice che seguiva Gesù (Mc 10, 52). Non si trattava tuttavia, secondo Theissen, di una classe di piccoli e poveri, ma di gente sradicata, che non trovava spazio culturale e religioso, né spazio fisico nella Palestina del tempo. Era un movimento di rinnovamento in cui confluivano emigranti, esiliati, ladroni, appartenenti a gruppi di resistenza patriottica e profeti. Si trattava di gruppi di emarginati, che, similmente ai filosofi cinici della Grecia, avevano tagliato dietro di sé ogni radice familiare e territoriale.

La tesi di Theissen è stata, ci sembra, a ragione, criticata da W. Stegemann, il quale afferma che Gesù non ha chiamato a sé possidenti in crisi e rinunciatari travagliati da problemi di identità e di coscienza, ma piuttosto uomini realmente privi di beni o di riconoscimento sociale e religioso. W. Stegemann cerca di acquisire anche il motivo sottostante alle ermeneutiche che presentano la povertà come una rinuncia volontaria. L’interpretazione cinica, o comunque etica dei poveri, suggerisce, è sempre preferita, perché più comoda: rende possibile che anche i ricchi possano essere discepoli di Gesù, senza che essi si pongano il problema della condivisione dei loro beni:

«forse è proprio il nostro benessere che può farci ritenere la povertà dei primi seguaci di Gesù come effetto di una rinuncia da loro fatta. Non perché non vogliamo, ma perché non possiamo immaginarci che gli aderenti a Gesù appartenessero, come lo stesso Gesù, ai più poveri tra i poveri, alla gente piccola (kleine Leute) della Palestina»[31].

Nel complesso, ci sembra che W. Stegemann cerchi di integrare i risultati dell’indagine storico-sociale con quelli della ricerca biblica e, che, in virtù di ciò, riesca ad essere più vicino al contesto storico di Gesù di Nazareth. La conoscenza dei punti acquisiti dall’indagine biblica sono però, suo malgrado, anche il suo punto debole. Pur sottolineando la storicità di elementi “gesuani” molto importanti, anche quest’autore rimane legato alle premesse di fondo della «storia delle forme», che non solo distingue, ma separa sul piano storico il Gesù pre-pasquale dal Cristo della fede, il Gesù storico dal Cristo teologico.

Per arrivare a una autenticità storica che sottragga gli elementi pre-pasquali all’arbitrarietà delle tante e mutevoli letture, di cui qui abbiamo riportato alcuni esempi più significativi, non resta che una sola strada percorribile: la lettura integrale della vicenda di Gesù, quella che include il dato sociologico e l’interpretazione teologica, la prassi esistenziale e la motivazione ideale, in un’unità senza discontinuità tra l’agire teologicamente informato di Gesù e quello a lui cristologicamente ispirato della primitiva comunità cristiana.

2. Natura ideologica della cesura pasquale e natura teologica  della lettura evangelica  

La tanto asserita discontinuità tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, nasconde una precomprensione ideologica simile a quella che W. Stegemann rimproverava a Theissen. La radicalità evangelica metterebbe seriamente in discussione il nostro status quo di benestanti occidentali, i nostri privilegi e anche un certo equilibrismo, che armonizza le esigenze della sequela con la nostra posizione sociale personale e quella delle nostre chiese di appartenenza. Su questa conclusione, un teologo evangelico come Stegemann concorderebbe con noi. La domanda è fino a che punto la nostra situazione attuale non determini, pregiudicandola, anche l’impostazione ermeneutica complessiva con la quale la quasi totalità dell’esegesi sostanzialmente concorda, cioè la cesura pasquale. Ora, è proprio essa che ci allontana sempre più dal Gesù dalla storia, e ne stempera l’attualità, dissolvendo quel contesto complessivo che lega la sua vita e la vita della chiesa, non solo sul piano dottrinale, ma anche sul piano esistenziale e storico.

La continuità tra cristologia pre- e post-pasquale (l’una indiretta o implicita, l’altra diretta o esplicita) ha trovato i suoi sostenitori in teologi sistematici, che, a ragione, ne hanno messo in risalto l’ininterrotto sviluppo senza radicali innovazioni, come approfondimento senza evoluzione, nella coscienza della chiesa primitiva, tra predicazione di Gesù, kerygma e asserzione dogmatica[32]. Resta tuttavia per buona parte da compiere l’applicazione dello stesso principio di continuità agli aspetti più propriamente storici che oltrepassano il varco della pasqua. Se è ormai acquisita una continuità dogmatica e quindi teologica, è venuto il momento di cogliere la stessa continuità anche sul versante storico-pragmatico, perché, senza dubbio, la continuità teologica è anche continuità teologale.

Con queste premesse, noi pensiamo di motivare l’espressione «continuità teologale della lettura evangelica», volendo indicare una continuità non solo dottrinale, relativamente alla figura del Maestro, ma anche relativamente alla sua sequela. In questo modo la parzialità delle letture proposte sarà superata dalla globalità del contesto teologico e si potrà motivare l’agire del discepolo con quello del Maestro e quello del Maestro con quello del Dio dei profeti, degli umili e dei derelitti. Certamente, questi due passaggi richiedono criteri e contenuti di continuità che ne garantiscano la ininterrotta fedeltà. I criteri sono quelli in parte già esposti e in parte ancora da approfondire, e si possono raccogliere intorno al metodo della continuità teologale.

2.1.        La continuità attraverso «l’esperienza fondamentale» del  Nuovo Testamento

E. Schillebeeckx si pone il problema di una esperienza unificante le tante forme espressive delle interpretazioni neotestamentarie ed arriva alla conclusione che essa può essere riassunta nell’esperienza della salvezza di un Dio che si è impegnato con l’uomo e che gli resta fedele fino al dono del Figlio. Egli scrive:

«Se la salvezza cristiana è una salvezza di uomini e per uomini - uomini che hanno uno spirito, un cuore, un sentimento una corporeità, uomini che sono riferiti alla natura per costruire il loro proprio mondo di vita, ma sono riferiti anche gli uni agli altri per accettarsi reciprocamente nella giustizia e nell’amore e costruire una società nella quale possano vivere da uomini in modo umano (...) - dovremo immediatamente concludere che la salvezza cristiana non potrà essere soltanto ‘salvezza dell’anima’, ma sanità, integrità dell’uomo, dell’individuo in tutti i suoi aspetti, e nella società in cui egli vive. La salvezza cristiana comprende dunque anche degli aspetti ecologici, sociali e politici, benché non si esaurisca in essi. Certo la salvezza cristiana è anche qualcosa di più, ma è anche questo ...» [33].

Confessa anche lui:

«Anche ai nostri giorni sentiamo che alcuni cristiani proclamano che la fede cristiana riguarda soltanto il cuore, la conversione personale e che Gesù ci ha invitati a trasformare il cuore, all’interiorità, non a riformare le strutture che rendono schiavi gli uomini».

Tuttavia conclude:

«Una più precisa analisi delle mediazioni storiche nella Scrittura ci mostra che questa unilateralità non è cristiana, ma è soltanto una mezza verità biblica».

L’esperienza fondamentale del Nuovo Testamento ci consente, secondo Schillebeeckx, di raccogliere in unità le diverse formulazioni interpretative ivi presenti, parlando di fedeltà a Dio e al Gesù della storia, da un lato, e di fedeltà all’uomo di sempre, dall’altro[34]. In questo contesto, la fondamentale importanza della conoscenza storica di Gesù è unanimemente riconosciuta e, sebbene in genere si neghi la possibilità di una ricostruzione dell’evoluzione biografica o psicologica di Gesù, si è almeno d’accordo su questo: per una dogmatica cristologica, come del resto per tutta la teologia, è essenziale

«riavere nuovamente presenti i tratti originari del suo messaggio, della sua prassi di vita, del destino della sua vita e, quindi, della sua persona, tratti che nel corso dei secoli sono stati così spesso offuscati e sfigurati»[35].

2.2         La prassi della libertà profetica

Precisando ulteriormente i tratti storici della prassi e della predicazione di Gesù, questi si possono interpretare come prassi e annuncio di libertà. Sono la prassi e l’annuncio che scaturiscono da un’opzione fondamentale compiuta da Gesù e drammaticamente espressa all’inizio e alla fine della sua esistenza nelle tentazioni del deserto e nella prova del Getsemani: la scelta di compiere fino in fondo la volontà del Padre. La consapevolezza di questa missione profetica e messianica, diventa in Gesù spazio illimitato di libertà interiore ed esteriore, sicché B. Forte ha potuto parlare della libertà di Gesù nel suo stile di vita povera, nel rapporto con il mondo politico-sociale del tempo e con la tradizione religiosa d’Israele[36].

È una sintesi che sembra anche a noi valida,ma che giustifica ed esige, d’altro canto, una prassi di libertà e una proclamazione liberante dell’evangelo anche da parte del discepolo di Gesù. Fedeli alle consegne del Maestro, i suoi seguaci dovranno saper dire con la parresìa, la franchezza, di Pietro e degli Apostoli degli Atti: «Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29). Su questa scia, la continuità teologale è obbedienza a Dio e ed atto continuo di liberazione. Che questa realtà possa essere espressa nei termini teologici di un vangelo come «messaggio di libertà ed una forza di liberazione»[37] o nel linguaggio secolare che parla di Cristo come «contestatore, riformatore, rivoluzionario e liberatore»[38], ciò non muta i connotati storici dell’agire di Gesù, fa solo notare la differenza delle interpretazioni. In ogni caso, la prassi di Gesù è liberante. Lo è in un modo complessivo, che riguarda la liberazione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Tale prassi è non solo storicamente, ma anche teologicamente fondata. A ciò tende la prassi di Gesù, a ciò deve tendere quella dei suoi discepoli, in continuità teologale con la sua.

2.3. Gesù, il «testimone fedele»

L’ermeneutica che ci sembra più sostenibile, perché insieme complessiva e teologicamente e storicamente corretta, quindi al riparo da ogni ideologia e di ogni fuga spiritualista, si potrebbe enucleare intorno a Gesù come il «testimone fedele». Riprendendo l’espressione su Gesù dal libro dell’Apocalisse, che lo indica proprio così (o màrtys o pistòs, Ap 1,5), si possono evidenziare i due contenuti di questa formula, a partire dalla testimonianza. Testimonianza come fedeltà a Dio e come fedeltà all’uomo, come due facce di un’unica fedeltà da parte di colui che è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Si tratta di una fedeltà che esprime adeguatamente l’originalità e la singolarità di Gesù, perché è nello stesso tempo fedeltà all’Antica Alleanza, della quale egli ritiene che «non passerà neppure un iota o un segno» (Mt 5, 17) e fedeltà alla sua umanità e a quella del suo popolo, in quanto popolo di Dio che si estende anche i non Ebrei, per i quali alla fine egli sa di offrire interamente la sua vita. Martirio come fedeltà suprema, per un’alleanza che è per tutti e non per un ristretto numero di persone.

La fedeltà di Gesù è fedeltà alla tradizione profetica perché già questa riassume il cuore della legge. Secondo la teologia profetica, prima e dopo l’esilio, Dio è colui che agisce con carità e giustizia, in quanto la salvezza si presenta con le caratteristiche dell’amore, téso al ristabilire il diritto e l’equità di fronte a situazioni di oppressione e di iniquità. Così la salvezza definitiva è l’instaurazione di una giustizia completa, della «giustizia eterna», per la quale Dio stesso agisce e chiama gli uomini ad agire[39].

Al compimento della giustizia Dio chiama, d’altro canto, anche quanti sono legati a lui con l’alleanza. «Ricercare la giustizia» equivale, in non pochi testi, all’aiuto concreto ed immediato da prestare alle categorie più indifese e più oppresse, come ad esempio «soccorrere l’oppresso, aiutare l’orfano, prendersi cura delle vedove» (Is 1, 17; cfr. 33, 15).

Nei Sinottici Gesù torna insistentemente sul tema dell’amore e del servizio vicendevole come adempimento della torah, cioè di quella Legge che è soprattutto alleanza e patto amichevole tra Dio e il suo popolo. Si tratta di un’alleanza nella quale Gesù paga più di tutti gli altri, versando il suo sangue, il sangue della nuova alleanza (Lc 22, 14; cfr. Mc 14, 24-25; Mt 26, 28). Tutto ciò è in accordo con il cuore del discorso della Montagna, che consiste nella pratica di una carità che, per essere a misura di Dio e del suo regno, deve superare la giustizia degli scribi e dei farisei (Mt 5, 20). Qui Gesù pone le superiori esigenze della nuova giustizia ed inaugura l’annuncio solenne della «buona notizia» (euangèlion). Beati sono quelli che Gesù chiama come destinatari della salvezza, della zedaqà di Dio e del suo regno: le vittime dell’ingiustizia e della prepotenza degli uomini. Al regno terreno, che disumanizza i rapporti e crea poveri, emarginati, perseguitati ed uomini curvi che piangono davanti ai loro ingiusti oppressori, Gesù contrappone un regno che non è secondo la logica di questo mondo e tuttavia è il più umano che possa esistere, perché in esso viene resa giustizia e viene data speranza, gioia di vivere ed affrancamento. Viene offerta la liberazione ai poveri della terra, poiché questi sono oggetto della predilezione di Dio (Mt 5, 1-12; cfr. anche Mt 25, 31-46, dove la realtà del regno è espressa dal fatto che «il re» in persona, Gesù, giudicherà gli uomini dalla loro prassi nei confronti del più piccolo dei suoi fratelli).

Nel Vangelo di Giovanni Gesù è l’esempio vivente, oltre che il maestro insuperabile, di questa nuova giustizia. È colui che lava i piedi ai suoi fratelli e discepoli, che egli non esita a chiamare amici, tanto cari ed importanti, da offrire la sua vita per loro (Gv 15, 13-15).

È un tema che ritroviamo negli Atti degli Apostoli e nell’epistolario paolino, dove alla risposta della fede segue immediatamente una conversione che viene indicata come condivisione dei beni (oggi diremmo solidarietà concreta), assistenza come cura dei bisognosi e concreto intervento nei  confronti di chi soffre[40].

La scelta preferenziale per i poveri, prima ancora di essere fatta propria dalla chiesa, secondo le parole di Giovanni Paolo II[41], è stata fatta da Cristo, che, raccogliendo l’eredità  profetica della zedaqà (che è insieme giustizia e santità), ha visto la sua missione come adempimento della promessa. Una missione, che, come si è già detto, Gesù ha interpretato come lieto annuncio ai poveri e affrancamento degli oppressi. Egli stesso si è fatto povero , è nato ed è vissuto come tale ed è morto come il più povero tra i poveri[42]. Ma la motivazione di tutto ciò è la fedeltà all’alleanza e alla tradizione profetica, così come la fedeltà alla prassi teologale di Gesù giustifica l’agire dei primi cristiani, i quali inizialmente sono in prevalenza dei poveri, (gli ebionim dei Salmi e dei Profeti) e, come si è visto, tengono in gran conto la prassi della solidarietà e della condivisione[43].


 

 

CAPITOLO III.
LE ORIGINI DELLA CESURA TRA INTERPRETAZIONE STORICA E COMPRENSIONE TEOLOGICA

1.Fedeltà ed infedeltà al Gesù della storia

Possiamo accostarci correttamente a Gesù di Nazareth solo se cerchiamo i suoi tratti storici nel contesto teologico complessivo nel quale egli è vissuto. Ma volendo leggerne la storia in un orizzonte ermeneutico, siamo arrivati alla conclusione che questo non può limitarsi a comprendere il Gesù pre-pasquale. Il contesto teologico, nel quale la storia di Gesù diviene leggibile, ha sostanzialmente una tripolarità che possiamo indicare come polo retrospettivo, polo dinamico-evolutivo e polo prospettico. All’insegna della fedeltà martiriale, ciò significa che Gesù è il «testimone fedele» dell’amore di Dio, perché guarda retrospettivamente all’alleanza e alla tradizione profetica. Egli è ancora fedele ad una missione e consacrazione messianica, che si realizza dinamicamente attraverso le sue vicissitudini storiche e che abbraccia tutta la sua vita, ma soprattutto l’arco di tempo che va dal Battesimo alla sua morte. Infine è fedele in maniera prospettica, perché coinvolge con il suo agire e con la sua testimonianza anche l’agire dei discepoli, che, proprio perché tali, restano fedeli a lui e alla sua prassi con una martirialità che arriva in alcuni casi alla effusione del sangue.

La testimonianza è pertanto fedeltà teologale e quindi è anche fedeltà storica. Raccoglie in un unico orizzonte ermeneutico complessivo passato, presente e futuro e, per questa ragione, non lascia spazio a separazioni, che sono sempre artificiose, tra ciò che è avvenuto prima e ciò che è accaduto dopo della Pasqua. Questa ha costituito un avvenimento che è senza dubbio di grande novità ed ha un carattere propulsore nel dinamismo della fedeltà martiriale, ma non può essere considerata come cesura o soluzione di continuità. È piuttosto motivo di conferma e di slancio ulteriore.

Con questi presupposti, possiamo comprendere la portata dell’affermazione che asserisce che i vangeli raccontano la vera storia di Gesù, non malgrado siano, ma perché sono documenti di fede[44], di una fede, sia ben chiaro, che non è né semplice adesione intellettuale, né commozione intimistica ed emotiva, ma fedeltà testimoniale. Il coinvolgimento esperienziale dei discepoli è totale ed avviene loro malgrado, vincendo le loro resistenze e i loro pregiudizi. Alla scuola della sequela, anche dopo la scomparsa del Gesù “terreno”, essi compresero meglio il significato di espressioni e di gesti di quel Gesù che, se sembrava averli lasciati, restava tuttavia presente con il suo modo di porsi davanti a Dio, alla torah, ai profeti, ai piccoli e ai peccatori. Li coinvolgeva ancora, con la “sua” maniera tipica di fare, con la sua libertà e franchezza davanti ai potenti e la sua filiale confidenza con «il Padre».

In questa prospettiva teologica, che diventa anche nei suoi seguaci prassi teologale, la contrapposizione tra Gesù e la chiesa nascente appare piuttosto artificiosa, o perlomeno non ancora illuminata dalla stessa ermeneutica. Si può ancora parlare di un «Gesù prima del cristianesimo»[45], a patto che ciò non riproponga, aggravandola, la frattura tra Gesù e questo contesto teologale, bensì allo scopo di sgombrare il terreno da preconcetti. Come giustamente è scritto,

«è possibile accostarsi a Gesù senza alcuna idea preconcetta su di lui, ma non è possibile accostarsi a lui senza alcuna precomprensione di nessun genere. La mente completamente aperta è una mente vuota, che non può comprendere alcunché. Dobbiamo avere un riferimento, un punto di vista o una qualsivoglia prospettiva, se desideriamo vedere e comprendere qualcosa»[46].

È un argomento che ritorna, almeno come interrogativo, anche in chi nega radicalmente una continuità tra Gesù e la chiesa successiva, quella che lo avrebbe messo sotto sequestro e, concentrando tutte le sue energie nell’adorazione e nel culto di lui, sarebbe oggi la negazione più grave e lo scherno più feroce mai subito da un qualsiasi pensiero[47]. Ma anche chi ammettesse questo travisamento totale di Gesù, non potrebbe non sottoscrivere che senza il cristianesimo

«probabilmente Gesù sarebbe stato dimenticato, i suoi discepoli si sarebbero sprecati e dispersi nelle tenebre ... azioni e istituzioni buone, nonché azioni e istituzioni cattive del cristianesimo, non risulterebbero registrate in nessun manuale di storia, e Gesù avrebbe così avuto davvero ragione. Il suo regno non sarebbe stato di questo mondo. Chi osa dire cosa sarebbe stato meglio?»[48].

Tutto il ragionamento fin qui condotto ci riporta ad un interrogativo di fondo non più eludibile: in che misura può restare fedele alla storia di Gesù colui che in maniera del tutto pregiudiziale voglia sottrarre la sua ricerca storica ad ogni contestualità di fede? E ancora: se la fede non è schermo, ma via di accesso al Gesù di Nazareth, che cosa può portare di nuovo alla questione sul Gesù storico il contributo di chi parte da prospettive che escludono, per principio, proprio questa fede? Pur ammettendo che l’istituzione ecclesiale di oggi sia per lo più lontana dalla prassi teologale di Gesù e dei suoi primi seguaci, non è forse vero che tale prassi costituisce, pur sempre, un motivo insopprimibile di richiamo alla fedeltà e alla conversione? E non è appunto la persistenza di tale richiamo il segno di una fedeltà nonostante le tante infedeltà?

La risposta a questi interrogativi non potrà avvenire che alla fine di una riproposizione della questione sul Gesù storico, partendo fin da quelle origini, nelle quali si è posta con tale intensità e sistematicità. In questo capitolo vedremo pertanto gli antesignani, in epoca moderna, della questione storica di Gesù, cercando di valutare il contributo da essi dato ed i limiti del loro tentativo. Ma avremo, parimenti, modo di confrontarci con le domande che sono qui affiorate.

2.1. Elementi di continuità e di discontinuità nella critica storica di H. S. Reimarus

Hermann Samuel Reimarus (1694-1768) tratta il problema della storicità di Gesù nel contesto della difesa della «religione naturale» di stampo illuminista. Il suo manoscritto, di quattromila pagine, si trova nella biblioteca civica di Amburgo, città dove l’autore visse, insegnando lingue orientali. Solo una parte della sua opera fu pubblicata, e per giunta sotto anonimato, a cura di G. E. Lessing, nei Frammenti dell’anonimo di Wolfenbüttel, che comprendono: riflessioni di carattere generale (Della tolleranza verso i deisti, Della denigrazione della ragione dai pulpiti, Impossibilità di una rivelazione che tutti gli uomini possano credere in una forma stabilita); studi sull’Antico Testamento (Il passaggio degli Israeliti attraverso il Mar Rosso, Che i libri dell’Antico Testamento non sono stati scritti allo scopo di rivelare una religione) e studi riguardanti Gesù (Sulla storia della risurrezione e Dello scopo di Gesù e dei suoi discepoli)[49].

Così come aveva già fatto a proposito del passaggio del Mar Rosso, Reimarus coglie anche nel Nuovo testamento le contraddizioni e la mescolanza di elementi diversi. Opera una chiara distinzione tra il contenuto della predicazione di Gesù e il contenuto della predicazione degli apostoli e, con l’ausilio delle sue conoscenze storiche sul mondo mediorientale, individua alcuni tratti della originaria predicazione di Gesù, che egli indica nel particolarismo giudaico e nell’attesa escatologica della venuta imminente del Regno di Dio. Secondo Reimarus, Gesù e i suoi apostoli avrebbero ripetutamente tentato di dare attuazione pratica a quest’avvento, raccogliendo il popolo d’Israele intorno alla figura biblica del «figlio di Davide». Ma tutto fu vano, perché Gesù non solo non fu seguito, ma fu messo a morte.

Fu così che gli apostoli sottrassero il suo cadavere e lo nascosero in un luogo noto soltanto a loro  e solo dopo cinquanta giorni, per ragioni di sicurezza, cominciarono a predicare che egli era risorto e che presto sarebbe ritornato.

2.2. Le reazioni alla critica di Reimarus

La pubblicazione dei Frammenti di Reimarus suscitò, com’era ovvio, reazioni apologetiche molto accese. La sua opera aveva mostrato l’interconnessione tra il problema storico e il problema letterario ed aveva indicato nello scioglimento di questo nodo la soluzione del quesito sulla vita di Gesù. Aveva però allargato la questione, fino a proporre tesi che sono preconcette. Gli autori che si proposero di confutare l’anonimo di Wolfenbüttel non potevano tuttavia ormai ignorare la questione letteraria. A loro modo, cercarono di affrontare quel groviglio di problemi storici e letterari con tentativi piuttosto maldestri, che andarono dall’apologetica teologica «del- sì-e-del-ma», come fu chiamatada A. Schweitzer, all’impresa di compilare vite di Gesù di stampo razionalista. Qualcuno, come J. S. Semler, escogitò la teoria di un doppio linguaggio presente nella predicazione di Gesù e degli apostoli: uno di carattere figurato e materiale, preso dal mondo giudaico, l’altro sovrasensibile e spirituale (proprio quello che l’anonimo non avrebbe inteso o voluto intendere), e con ciò pretese di liquidare le contraddizioni presenti nei vangeli[50]. Ma ci fu anche una fioritura di ricostruzioni della vita di Gesù con quello stesso metodo razionalista inaugurato da Reimarus, che, però, non arrivando a controbilanciare criticamente le sue affermazioni, tentavano una spiegazione e volgarizzazione dei detti e della gesta di Gesù, cercando di renderli accettabili il più possibile. Allo stesso modo, cominciarono a pullulare le vite romanzate di Gesù. La forzatura dei testi, l’artificiosità delle spiegazioni e la mediocrità di queste vite di Gesù di tipo razionalista e di fattura romanzata sono state messe così ben in risalto dalla vivace e arguta critica di Schweitzer, che non credo ci sia più nessuno disposto a prenderle sul serio[51].

Ad un livello letterariamente e scientificamente più dignitoso si collocano invece l’opera di K. A. Hase e di F. E. D. Schleiermacher. Il primo fa un bilancio sul materiale prodotto ed esamina la legittimità cristiana di alcune spiegazioni razionaliste; il secondo cerca un’alternativa al dualismo tra il Gesù storico che scadeva nell’ebionitismo tirrenista, e il Cristo dogmatico dello spiritualismo docetista[52]. A questo periodo appartiene anche la prima opera sull’argomento di D. F. Strauß , che vuole essere una risposta a Schleiermacher e contiene linguisticamente una divisione, divenuta poi fatale per la teologia: Il Cristo della Fede e il Gesù della storia.

2.3. Valutazione dell’opera di Reimarus

In una valutazione più serena dell’opera di Reimarus, si noterà che l’autore individua con lucidità quello che è il presupposto primo di ogni ulteriore critica e su cui si fonderà la «storia delle forme»: la confluenza di molte e spesso incontrollabili tradizioni nel testo canonico. Reimarus elabora pertanto una base scientifica, che, dal punto di vista letterario, ha, per la sua epoca, una notevole originalità ed un indubbio valore. Non riesce tuttavia ad essere altrettanto critico verso l’orizzonte culturale in cui si muove, quello del razionalismo, che esclude, in maniera preconcetta, qualsiasi possibile intervento di Dio nella storia umana. La sua critica contro qualsiasi fede in ogni forma di rivelazione resta essa stessa nell’ambito di una fede precisa: solo ciò che si può spiegare con la ragione assurge al valore della verità. Di conseguenza, Reimarus avanza una spiegazione affrettata ed immotivata di tutto ciò che va oltre la sua lettura rigorosamente razionalista. I miracoli non sono mai avvenuti, afferma, anche se, proprio grazie ad alcune guarigioni realmente effettuate da Gesù, gli apostoli hanno voluto dare una giustificazione soprannaturale e persino divina alla sua storia.

La pur doverosa reazione nei confronti di Reimarus non deve comunque indurci nell’errore di liquidarlo come semplice polemista che voglia solo affermare il deismo, di cui è innegabilmente intrisa la sua concezione religiosa. Reimarus ha infatti il merito di aver colto alcuni tratti del mondo teologico in cui viveva Gesù e di aver tentato una ricostruzione della sua storia alla luce di esso. Ha commesso l’errore di intendere l’escatologia, da cui muoveva Gesù, in modo riduttivo, come messianismo davidico-politico. Inoltre, non avendo altra soluzione storica che spiegasse l’attesa escatologica degli apostoli successiva a quella di Gesù, ha proposto come chiave della loro continuità l’artificiosa e gratuita sottrazione del suo cadavere. Ciononostante, egli sembra aver intuito che la storicità di Gesù non possa essere separata in maniera netta da una continuità ideale ed intenzionale tra Gesù ed i suoi discepoli, pur negando con decisione ogni ulteriore continuità tra questa figura di Gesù e quella del cristianesimo successivo.

3.1. La storia di Gesù nell’ermeneutica mitologica di D. F. Strauß

David Friedrich Strauß (1808-1874) è il fondatore ed il maggiore rappresentante di quella che è stata chiamata la «scuola mitica», perché inquadra e dà una spiegazione della vicenda di Gesù all’interno del mondo in cui nascono e si evolvono le grandi idee religiose. L’appellativo mitico riceve in questo contesto una connotazione non negativa, non indica il prodotto mistificante della sempre ricorrente affabulazione religiosa. Ma, in una concezione fondamentalmente idealista, esprime il mondo ideale, frutto del pensiero di uno spirito onnipresente, che rende coscienti gli esseri umani della loro vera natura.

Conquistato dal poderoso impianto del sistema idealista di Hegel, Strauß elaborò il suo primo progetto editoriale consistente in una storia delle idee del cristianesimo primitivo come criterio per il dogma, oggetto della teologia, una disciplina che l’autore pure insegnò, alternandola alla filosofia, fino a quando non fioccarono le inesorabili censure che lo radiavano dall’insegnamento universitario di Tubinga. Il motivo del provvedimento fu la pubblicazione con la quale egli rispondeva all’opera di Schleiermacher, dando alle stampe la sua Vita di Gesù[53]. A ciò fecero seguito vere persecuzioni, alimentate da circoli pietisti, persino nella città di Zurigo dove si era tentata una sua riabilitazione. L’opera doveva essere, secondo le intenzioni dell’autore, il prologo alla storia delle idee del dogma, che fu conclusa successivamente[54].

3.2. L’ermeneutica mitica come sintesi delle ricerche precedenti

Il nucleo fondamentale intorno al quale ruota tutta la ricerca di Strauß sulla vita di Gesù è schiettamente idealista. Gesù rappresenta la concretizzazione storica dell’idea più grande che il pensiero umano possa mai concepire, l’idea della umanità di Dio. La perfezione, aggiunge Strauß , non è tuttavia inerente alla concretezza storica di questa idea, ma è esclusivo appannaggio del pensiero. Da qui deriva la possibilità e la necessità di sottoporre proprio tale realizzazione storica dell’umanizzazione di Dio alla critica scientifica. Nessuna critica storica potrà mai cancellare il fatto che Gesù abbia rappresentato per gli uomini l’umanità di Dio. Il problema è di discernere come ciò sia avvenuto e attraverso quali fatti storici tale idea si sia affermata. Secondo Strauß , non rispondono a queste attese né la ricostruzione storica soprannaturalista, né quella razionalista. Egli propone pertanto il suo metodo, quello mitico, che viene applicato con puntigliosa meticolosità ad ogni avvenimento della vita di Gesù, come sintesi dei due momenti precedenti, dei quali la tesi è costituita dalla lettura soprannaturalista e l’antitesi da quella razionalista.

Un esempio può essere offerto dalla spiegazione del battesimo di Gesù. Il commento tradizionale soprannaturalista ritiene storicamente accaduto tutto il racconto, compresa la rivelazione della messianicità di Gesù dall’alto. Quello razionalista dà una spiegazione razionalmente plausibile di un avvenimento del quale ritiene storico solo l’incontro di Gesù con il Battista e l’eventuale suo battesimo. La spiegazione mitica, invece, mette in luce l’importanza dell’idea della recezione dello Spirito da parte di Gesù, cui farà seguito, in un’evoluzione mitica ulteriore, quella della generazione soprannaturale di Gesù ad opera dello Spirito Santo.

L’opera di Strauß procede con questo metodo e passa in rassegna, tra l’altro, le tentazioni (considerate leggende dai tratti veterotestamentari); la vocazione dei discepoli (costruita sul modello di quella di Eliseo da parte di Elia); le guarigioni (delle quali alcune sono vere, ma che sono tutte funzionali ad un’idea religiosa); la trasfigurazione (che riprende l’idea del volto splendente di Mosè); la risurrezione (la cui redazione evangelica risentirebbe di due strati leggendari: le apparizioni in Galilea e in Giudea).

3.3.        Continuità mitica e discontinuità storica

Di fronte alla critica di Strauß , che passa al vaglio dell’idea mitica tutti i momenti della vita di Gesù, i suoi titoli e l’intero vangelo giovanneo, ritenendolo «una saga dell’apparizione di Dio nel mondo», non ha senso intestardirsi in una difesa apologeticamente risentita. Molte delle sue intuizioni hanno mostrato, col senno di poi, un certo valore per l’esegesi successiva, che, con strumenti critici e letterariamente più adeguati, ne ha confermato la validità. Strauß va letto e superato nel contesto culturale idealista nel quale si muove. Per queste ragioni, la sua lettura è dominata dal ritmo della inesorabile triade hegeliana ed ha una spiccata propensione a seguire l’evoluzione delle idee più che ad essere attenta ai fatti storici. Sono questi i veri limiti della sua ermeneutica, che, peraltro, non arriva a quegli estremi di dissolvimento storico di Gesù che i suoi oppositori gli rimproverano. Egli ritiene reale e storica, ad esempio, la coscienza messianica di Gesù e ci sembra possa in qualche modo rendergli giustizia ciò che scrive Schweitzer:

«Affermare che Strauß dissolve la vita di Gesù in un mito è una sciocchezza che, per quanto spesso venga ancora ripetuta da persone che non hanno mai letto la sua opera o l’hanno letta solo superficialmente, non per questo può venire giustificata»[55].

Per noi, il problema è vedere quanto Strauß abbia contribuito ad allargare il fossato tra il Gesù storicamente vissuto e la fede riposta in lui dai suoi seguaci e quanto invece, paradossalmente, abbia contribuito a saldare in un unico orizzonte ideale, e quindi teologico, la fede personale di Gesù e la fede in lui riposta dagli altri. A prima vista sembrerebbe che la sua sia più una demolizione che una ricerca storica in tal senso. In realtà, la sua opera ha tuttavia notevole importanza proprio in ciò che sembra avere di più corrosivo: la genesi e l’evoluzione mitica delle idee religiose che sorreggono la vicenda di Gesù. Grazie all’impulso dato da Strauß, in un contesto culturale libero dalle sue premesse idealiste, sarà proprio la continuità teologica (e non più mitica) tra Antico e Nuovo Testamento e quella ancora più decisiva tra il mondo ideale-teologico di Gesù e quello dei suoi discepoli, che consentirà di sbloccare la ricerca storica dalla situazione di stallo, provocata anche dall’opera di Strauß .

4. La scuola critica e le sue ramificazioni

Si può ritenere Reimarus caposcuola dell’interpretazione critica e Strauß caposcuola dell’ermeneutica mitica, la quale, nonostante le gravi opposizioni iniziali, ebbe una notevole risonanza anche dopo la morte del suo fondatore.

L’interpretazione critica si manifesta in molteplici forme. Per ragioni di chiarezza, possiamo indicare con il termine scuola critica a carattere letterario-oggettivo quella affermatasi soprattutto in area di lingua tedesca e scuola critica a carattere psicologico-narrativo quella affermatasi in primo luogo nell’area francese. Con la prima espressione, intendiamo l’operazione critica condotta sulla base di un’analisi testuale e con tendenza a dare spiegazioni razionali di oggettività causale ai fatti narrati dai vangeli. Con la seconda intendiamo la tendenza a dare a quegli stessi fatti spiegazioni di natura psicologica e soggettiva. Limitandoci per adesso alla scuola critica di area tedesca, possiamo parlare di due grandi tendenze ivi presenti. La prima cerca di conciliare il dato della fede con le argomentazioni razionaliste, la seconda porta fino alle estreme conseguenze l’impostazione di Reimarus.

Rientra nel primo caso chi, come Schleiermacher, ritiene, ad esempio, che la risurrezione possa essere indifferentemente interpretata come rianimazione da uno stato di morte apparente oppure come ritorno alla vita. Per le fede, secondo questa posizione, anche la rianimazione di un cadavere non costituisce un problema, giacché, argomenta Hase, Dio ha potuto servirsi anche della morte apparente per manifestare il suo intervento provvidenziale. Piuttosto è in contraddizione con la fede cristiana l’ipotesi di una sottrazione del cadavere di Gesù per simulare una risurrezione mai avvenuta. Similmente alla risurrezione, anche gli altri miracoli sono spiegati dagli stessi autori con avvenimenti di carattere non soprannaturale, dei quali però Dio si sarebbe ugualmente servito come «cause intermedie» per portare a compimento i suoi disegni.

H. E. G. Paulus poteva affermare, in questo contesto, che le narrazioni miracolose non erano affatto importanti nei vangeli ed aggiungeva:

«Come sarebbero vuote la meditazione divina e la religione se il bene dipendesse dal credere o dal non credere nei miracoli!»,

infatti:

«il miracoloso di Gesù è egli stesso, il suo animo di una santità serena e pura, tuttavia davvero umano, offerto all’imitazione e all’emulazione degli spiriti umani»[56].

Anche in questo caso, come si può notare, si tenta ancora un salvataggio della fede, nonostante la negazione dell’autenticità storica del testo evangelico, soprattutto sinottico.

Arriva a ben altre conclusioni l’interpretazione critica radicale, la quale inizialmente si propone di dimostrare l’origine letteraria di quei tratti storici ancora ammessi dai moderati, ma finisce con negare ogni effettiva continuità tra la fede giudaica e quella di Gesù e dei suoi discepoli.

4.1. Il dissolvimento di ogni continuità nell’interpretazione letterario-oggettiva

Tra i rappresentanti dell’ala radicale tedesca, basterà ricordare Bruno Bauer, che arriva alla teoria della dipendenza letteraria dal vangelo di Giovanni. Mette in luce il carattere unitario ed i pregi narrativi ed estetici del quarto vangelo, ma vede sempre più sfuocati i riferimenti storici, fino a negare la storicità di quasi tutto il materiale redazionale. La storia di Gesù sembra dissolversi del tutto nel secondo studio pubblicato dall’autore, che, dopo la Critica della storia evangelica di Giovanni, aveva posto mano alla Critica della storia evangelica dei sinottici[57].

La spiegazione rigidamente letteraria avanzata da Bauer, lo porta a negare la storicità anche di fatti e dei tratti dottrinali giudaici del vangelo di Marco. Ciò costringe a formulare per la prima volta con chiarezza l’«ipotesi marciana», secondo la quale il vangelo di Matteo e quello di Luca altro non sarebbero che rimaneggiamenti e dilatazioni di quello di Marco. Ciò porta anche a dire che una coscienza messianica in Gesù non c’è mai stata. Una simile idea, afferma Bauer, è solo una maschera che autori come Strauß ed Hengstenberg hanno imposto a Gesù, attingendola in un repertorio, tra l’altro molto confuso, del giudaismo più tardivo. Stando così le cose, il programma di  Bauer è quello di salvare l’«onore di Gesù», restituendolo ad un rapporto vitale ed immediato con la storia. Sembrerebbe allora che la storia sia attinta per un’altra via. Tuttavia non facciamoci illusioni: la storia è qui intesa idealisticamente come il mito dell‘innesto della realtà umana con quella divina, quel mito dalla potenza così rivoluzionaria, che, secondo Bauer, è  riuscito a scalzare anche l’impero romano.

4.2. La rottura di ogni continuità storica nell’ermeneutica psicologico-narrativa

La problematica relativa al Gesù storico nasce e si afferma, come si sarà notato, in Germania e in area esclusivamente evangelica. Ciò non esclude che il problema sia stato avvertito anche altrove. In ogni caso le riposte avanzate in campo cattolico risultano principalmente ancora di carattere apologetico. Inoltre, se la libertà di pensiero e di ricerca ebbe prezzi così alti in un ambiente oggettivamente più liberale, qual era quello evangelico, che emarginò con la proscrizione dall’insegnamento alcuni degli autori qui ricordati, essa non era nemmeno pensabile nel cattolicesimo di quell’epoca storica. Del resto, tutta la questione, da Reimarus in poi, era nata con una connotazione prevalentemente polemica ed antidogmatica. La ricerca di «come fossero veramente andate le cose»[58], in una concezione della storia di stampo positivista, si poneva per sua natura contro l’interpretazione di fede, ritenuta falsificatrice per principio.

Al di fuori della Germania, il problema cominciò a circolare e ad accendere gli animi in Francia, anche qui in un contesto pregiudizialmente antidogmatico, per iniziativa di autori che muovevano da un aperto dissenso verso la Chiesa istituzionale. Tra questi ricordiamo soprattutto Ernest Renan, la cui Vita di Gesù, del 1863, suscitò un dibattito dai toni spesso esasperati e non per nulla contenuti nell’alveo della ricerca e del confronto storico. Si potrebbe aggiungere che ce n’era sufficiente motivo, data la conclusione cui Renan  perveniva. Era tuttavia una conclusione, che se da una parte raccoglieva alcuni capisaldi della critica tedesca, nondimeno risentiva di una impostazione artistico-estetica, che poneva il problema su basi nuove. Fermo restando anche per Renan il principio di una totale cesura tra la vera storia di Gesù e quella trasfigurata dal dogma, questi descrive la vita di Gesù con una particolare attenzione all’elemento ambientale, coreografico e psicologico della narrazione evangelica, aiutandosi con le impressioni da lui ricevute visitando i luoghi della Palestina.

L’elemento fascinoso, la suggestione e l’attesa psicologica, tipica della fede, sono per  Renan ingredienti fondamentali per darsi una ragione delle narrazioni evangeliche. Riprendendo l’espressione di Goethe, per il quale «il miracolo è il figlio prediletto della fede», egli ritiene in perfetta buona fede, a differenza di Reimarus, il racconto della risurrezione ad opera dei discepoli nei confronti di Gesù. Lo giudica inevitabile, giacché l’ammirazione somma e l’amore incondizionato che essi nutrono verso Gesù, li porta a trasfigurarne la figura nei loro cuori, fino a ritenerlo veramente risorto. Alla sua morte essi non si sarebbero dati per vinti e il loro amore, unitamente al silenzio e al fascino del luogo in cui si erano riuniti, avrebbero loro dato la certezza che Gesù era vivo, perché risorto. Ne avrebbero avvertito la presenza, e da allora in poi lo avrebbero ritenuto e lo avrebbero predicato risorto.

Sarebbe perfino troppo facile smascherare gli artifici letterari di Renan, per confutare la sua tesi di fondo, quella di una sublimazione soprannaturale della persona di Gesù, del quale l’autore non cessa di mettere in risalto la forza carismatica. Ciononostante, come gli fu rimproverato dalla teologia critica francese della scuola di Strasburgo e dagli stessi critici tedeschi, il Gesù di Renan sembra essere privo di coscienza etica, cioè di quella coscienza teologica, della quale gli stessi vangeli hanno conservato tracce indelebili. Per J. Guitton l’interpretazione di Renan è una sintesi tra una scelta critica preconcetta ed i suoi particolari stati d’animo[59]. Senza voler arrivare a sottoscrivere in pieno un simile giudizio, comunque polemico e che potrebbe essere applicato ad ognuno che ponga mano ad un’opera storica, si può comunque concludere che ciò di cui difetta la Vita di Gesù dell’autore francese, che aveva lasciato il seminario alla vigilia del suddiaconato, è proprio l’orizzonte teologico ed etico, di cui si parlava. L’autore appare tutto preso dall’enfasi della psicologia religiosa e sociale e finisce con il trascurare ciò che invece in Gesù è fondamentale, per comprendere non solo le ragioni della fede che egli  suscita, ma anche le sue intime convinzioni e motivazioni.

5. Punti di arrivo comuni alla scuola critica e alla scuola mitica

Anche gli altri autori francesi successivi a Renan risentono della stessa lacuna. Alfred Loisy (1857-1940), esponente del modernismo francese, pur attaccando gli argomenti e la ricostruzione storica di Renan, nell’opera Il Vangelo e la Chiesa, affermava la necessaria esistenza di un nucleo storico intorno al quale era cresciuto il dogma cristologico, ma, ciononostante, sosteneva che di Gesù si conosceva ben poco, ad accezione del particolare fascino da lui esercitato su particolari categorie di persone dalle anime turbate ed inquiete. Altri, invece, come Guignebert, ipotizzavano una ermeneutica meramente socio-politica di Gesù, simile a quella da noi già vista in Brandon e in altri.

Sul piano storico, insomma, la scuola critica, sia che parta da considerazioni di oggettività testuale o di fattualità causale, sia che tenti di motivare la fede in Gesù con la psicologia religiosa e soggettiva, arriva alle stesse conclusioni, espresse con incisività da Guignebert:

«Questo profeta che al massimo aveva suscitato una curiosità venata di simpatia tra i proletari di Galilea, fu uno di quei tanti pretendenti più o meno degni di fiducia, che Israele, di tanto in tanto, vedeva spuntare tra le sue file. Il suo fallimento è stato totale ... Egli si è dunque ingannato. La verosimiglianza, la logica, richiedevano che il suo nome, la sua opera cadessero nell’oblio, al pari di quelli di tanti altri che in Israele avevano creduto di essere qualcuno»[60].

Sono conclusioni che condividono anche autori che erano partiti dalle premesse della cosiddetta scuola mitica. Era la suola di chi cercava in Gesù la rappresentazione storica delle grandi idee filosofico-religiose, fino ad arrivare a ritenere questo personaggio storico il dispiegamento dello Spirito infinito nel finito. Era stato il tentativo di teologi della scuola di Tubinga come Baur e Strauß. Ma la stessa tendenza, riveduta e corretta, si manifesterà in altri autori a noi più recenti, come Bultmann e alcuni esistenzialisti, protesi principalmente a cercare in quella storia il senso ultimo della realtà esistenziale dell’uomo e della sua collocazione e decisione davanti a Dio. In ogni caso, la scuola mitica e i suoi epigoni hanno tentato di cogliere nel Gesù storico più la nostra storicità che non quella del diretto interessato.


 

 

CAPITOLO IV.
GESÙ NELL’ORIZZONTE ERMENEUTICO DELL’ATTESA ESCATOLOGICA

1.  La ricostruzione della vita di Gesù dei «teologi liberali»

Le argomentazioni critiche degli autori finora considerati portavano a negare una ricostruzione storica attendibile della vicenda di Gesù. Le più disparate ipotesi sacrificavano la storia di Gesù ai grandi principi che le ispiravano. Gesù diventava concrezione mitica o letteraria di un sistema ideale e creativo, frutto del pensiero e della scrittura più o meno artistica di un singolo autore come Giovanni o l’epilogo di una concrescenza di tradizioni leggendarie successivamente raccolte dai sinottici. In questo modo, non solo la storia di Gesù, ma anche ogni possibilità di attingerla andavano dissolte.

Ciononostante, nell’area della teologia evangelica tedesca, si cominciò ad affermare una tendenza che, reagendo all’idealismo e alla ipotesi letteraria, si propose una riscrittura della vita di Gesù a partire da due obiettivi: dimostrare l’accessibilità della sua sua storia e indicare il Maestro della Galilea come supremo ideale dell’uomo e della umanità.

La prima operazione sembrava essere agevolata dalle nuove ipotesi biblico-letterarie, che consentivano di affermare la storicità di almeno una parte dei documenti sinottici. Si attribuì a Marco il nucleo della tradizione più antica, e quindi, più attendibile[61], mentre cominciò a prendere consistenza l’ipotesi che il materiale di Matteo e di Luca di non derivazione marciana, risalisse ad un’altra fonte, che fu chiamata fonte Q (dalla parola tedesca Quelle, fonte).

Fu pertanto ritenuta valida l’ossatura storica di Marco, poi ripresa da Matteo e da Luca, riconducibile e questi avvenimenti: 1) il battesimo, in cui Gesù prende coscienza della sua messianicità; 2) la conseguente e progressiva manifestazione di tale messianicità fino alla confessione di Pietro a Cesarea di Filippo; 3) il contrasto tra la messianicità di Gesù e le attese popolari, da una parte, e tra Gesù e le autorità giudaiche, dall’altra; 4) il precipitare di questi due conflitti, fino al rifiuto di Gesù da parte del popolo e delle autorità, ritrovatesi  coalizzate nel chiedere la sua morte[62].

In questa ricostruzione, che sembra avere una sua plausibilità interna, difetta però un elemento storico fondamentale: la concezione escatologica di Gesù. Le vite di Gesù di stampo liberale, compilate con l’intento di un dialogo con la cultura del tempo, che attribuiva una grande importanza agli ideali etici umanitari e sociali, hanno la spiccata propensione a vedere in Gesù principalmente colui che incarna al sommo grado proprio questi ideali, ma dimenticano la sua predicazione del Regno di Dio ed tutto ciò che essa significa.

La conseguenza è una destoricizzazione del messaggio di Gesù. Il regno da lui predicato è inteso solo come realtà morale ed interiore, e ciò sarebbe alla base del grande e fatale fraintendimento del popolo. Non si discostano da questo indirizzo autori come H. J. Holzmann, del quale si è messa già il luce il carattere eminentemente spiritualistico del logion sul giudizio, e più tardi A. von Harnack (1851-1930), che precisa ulteriormente l’impatto etico della predicazione del regno, fino a indicarne gli ambiti quotidiani: mondo, famiglia, diritto, lavoro ecc.[63].

  2. Gesù nelle attese messianiche storiche del suo tempo

Le storie di Gesù di stampo liberale mancano in realtà di nerbo storico. Non sarà difficile essere d’accordo con Schweitzer, che recensendo meticolosamente l’impresa di questi teologi, così scrive, a proposito della seconda vita di Gesù, dai tratti chiaramente liberali, di D. F. Strauss:  

«Questa brutale spiritualizzazione del Gesù sinottico fa sì che in realtà l’immagine straussiana di Gesù sia molto meno storica di quella di Renan»[64].

Sembra un giudizio inesorabile, eppure sostanzialmente lo si può condividere per tutti gli autori di questa tendenza, la quale, come si è visto, si affaccerà anche in epoca più recente.

L’escatologia, quando è ancora trattata, conserva questo carattere spiritualista, sullo scorcio del 1800, allorquando si allargarono gli studi biblici al confronto con le altre religioni del passato. Non riescono ad oltrepassare questa soglia né W. Baldensperger[65] e nemmeno J. Weiss[66], sebbene si debba ad autori come loro la messa a fuoco dell’autocoscienza messianica di Gesù nel contesto del pensiero apocalittico del tardo giudaismo.

J. Weiss indicava, dal canto suo, il nocciolo della predicazione di Gesù nell’annuncio della fine imminente del mondo, consentendo a tutta la ricerca storica di porre il terzo aut-aut, come si esprime Schweitzer: dopo quello di Strauss (o pura storia o pura sopra-natura) e quello della teoria letteraria e di Holzmann (o i sinottici oppure Giovanni), il terzo era: o l’escatologia o la sua negazione[67].

L’opera di Gesù, affermano questi autori, non mira a fondare il regno di Dio, ma si limita ad annunciarlo. Non ha nessun carattere storico, né tanto meno politico. Proclama non la nuova etica del regno, ma solo un’etica che aiuti gli uomini a liberarsi dai vincoli e dalle preoccupazioni del mondo per entrare nel regno di Dio. Si proietta verso un futuro e in quest’ottica è da leggersi la ripresa dell’espressione «figlio dell’uomo», che Gesù applica a se stesso.

3. La negazione della storicità della coscienza messianica di  Gesù e le sue conseguenze

Le ricostruzioni storiche degli ultimi autori si basano, alla pari di quelle degli autori liberali, sulla presunta storicità del Vangelo di Marco e della coscienza messianica di Gesù ivi espressa. Questo presupposto riceve però un duro colpo, proprio agli inizi del secolo, quando W. Wrede sembra arrivare a dimostrare che una simile concezione messianica di Gesù non è storicamente attendibile nemmeno nel vangelo di Marco, giacché la sua formulazione è redazionale. Se non va attribuita all’evangelista, va però ascritta a una precedente tradizione, nella quale una cerchia di persone impregnate di escatologia, aveva operato un’interpretazione messianica della vita Gesù.

Il segreto messianico nei vangeli[68], secondo il quale Gesù impone ai demoni, agli ammalati guariti ed ai suoi discepoli di non manifestare la sua vera natura, non è mai esistito sulle labbra di Gesù. È frutto di una tradizione successiva, afferma Wrede, perché proviene da una rilettura della storia di Gesù alla luce della risurrezione. È pertanto redazionale e non storico.

Che cosa resta allora storico della vita di Gesù?

Per Wrede resta il fatto che Gesù si presenta come maestro e, come tale, raccoglie intorno a sé un gruppo di discepoli, dei quali alcuni sono più amici e confidenti. Egli conduce una vita errabonda, nella quale incontra spesso le folle ed anche gli ammalati, che guarisce. Il suo insegnamento non solo si distingue da quello dei farisei, ma si scontra con essi e ciò gli sarà fatale, perché, una volta arrivato a Gerusalemme, proprio i farisei, complice il potere romano, riusciranno a farlo eliminare.

Le reazioni a questa radicale destoricizzazione messianico-escatologica non si fanno attendere, anche se non arrivano a valutare appieno il valore dell’escatologia. C’è chi, riprendendo la ricerca in una contestualità di comparazione religiosa, cerca i motivi della sublimazione teologica del Gesù storico alla luce del mito del «figlio di Dio» dell’ellenismo dell’epoca[69] e chi vede la predicazione di Gesù come annuncio di una comunità d’amore, cui solo successivamente sono stati riconosciuti i caratteri del messianismo escatologico[70].

4.  Il Gesù della storia non nasconde il Cristo della fede?

L’acceso dibattito sui tratti storici di Gesù di Nazareth sembrava non aver tregua, soprattutto in Germania. Le vecchie ipotesi venivano superate e negate con sempre nuove proposte, che non di rado, ripescavano proprio in quelle precedenti i pezzi fondamentali per una nuova ricostruzione, dalla durata comunque effimera. Ognuno assicurava di aver nuovi argomenti probanti per la propria tesi e questa specie di gioco delle costruzioni rendeva sempre meno credibile l’ipotesi di fondo, che tutti davano per scontata: che esistessero dei dati storici certi, capaci di dare una spiegazione dello svolgersi degli eventi evangelici.

Alcuni reagirono a questo stato di fatto propugnando l’irrilevanza teologica di ogni ricerca storica. È nota la posizione di M. Kähler, il quale giungeva ad affermare che il Gesù della storia, sottostante ai sinottici, ci nasconde il Cristo della fede, perché il Cristo vivo e reale è quello che è stato predicato e non quello storico. Apriva inoltre una cesura ulteriore tra storiografico e storico, rivendicando la storicità al Gesù della predicazione e della Bibbia[71]. Ma, escludendo ogni autenticità storiografica, pur nell’intento di sottrarre il Cristo all’arbitrarietà delle ricostruzioni finora esaminate, egli sanciva e giustificava teologicamente una netta frattura tra la storia di Gesù  e la storia dell’interpretazione nella fede. Insomma, sia l’interpretazione di Wrede sia quella di Kähler convergono, alla fine, su questo punto: rendono incomprensibile e storicamente ingiustificabile quella continuità che noi invece riteniamo essenziale perché la fedeltà a Gesù sia motivata e contestualizzata nella fedeltà di Gesù, di colui che è il «testimone fedele».

In questo modo, la reazione apologetica di un ortodosso come Kähler viene a dare una mano proprio ai teologi liberali che egli vuole combattere. C’è una via d’uscita? L’unica che appare praticabile ad A. Schweitzer è quella di prendere sul serio il contesto escatologico in cui si colloca la predicazione di Gesù, riconoscendone la continuità teologica, come continuità storica.

5. A. Schweitzer e l’interpretazione escatologica

5.1.        Il bilancio critico di Schweitzer sulle opere sul Gesù storico

Albert Schweitzer si può considerare l’autore più impegnato e meglio informato che affronti il problema del Gesù storico agli inizi del nostro secolo[72]. Reagendo alla situazione in cui ristagnava ormai la problematica storica su Gesù, egli si propone, inizialmente, di prendere in considerazione tutto ciò che è stato scritto sull’argomento, dall’apparizione dei Frammenti di Reimarus fino a Wrede, e di farne un bilancio critico. Nasce così la sua opera imponente Storia della ricerca sulla vita di Gesù[73], che, nella prima edizione, indica espressamente l’arco della sua indagine: «Da Reimarus a Wrede».

L’assunto di partenza di Schweitzer è spirituale e scientifico insieme. Ne abbiamo una prova nella sua autobiografia:

«Mi confortavano ... le parole dell’apostolo Paolo, a me familiari fin dall’infanzia: “Non possiamo nulla contro la verità, ma solo per la verità» (2 Cor. 13, 8). Poiché l’essenza dello spirituale è verità, ogni verità implica alla fine una conquista. In ogni circostanza la verità è più preziosa della non verità. E ciò vale anche per la verità storica. Anche se essa riesce sgradevole alla devozione creandole dapprima difficoltà, il risultato finale non può mai comportare un danno, bensì soltanto un approfondimento. La religione non ha dunque alcun motivo per evitare il confronto con la verità storica»[74].

Con queste premesse, l’autore si accinse a dipanare l’aggrovigliata matassa dei tentativi storici su Gesù apparsi fino a quel momento. La sua recensione mette in luce gli apporti di ciascun autore e ne individua le lacune. Il confronto diventa più serrato quando è in gioco la concezione escatologica di Gesù, la cui storicità Schweitzer afferma con vigore. Demolendo punto per punto le tesi degli storici liberali, egli lascia affiorare l’unica alternativa possibile, senza della quale non si può sostenere la coscienza messianica di Gesù e, di conseguenza, nemmeno la storicità del racconto di Marco. Riportato il discorso dal piano descrittivo e psicologizzante a quello storico-teologico, il problema diventa individuare i tratti storici di quella teologia che impregna attualmente il testo evangelico, soprattutto sinottico. Schweitzer accoglie, con buone ragioni letterarie e logiche, la tesi della storicità della concezione escatologica marciana. Riprende quindi alcuni risultati dell’escatologia di J. Weiss e concentra il suo confronto con le affermazioni di W. Wrede che destoricizzano la messianicità.

5.2.        L’ermeneutica escatologica di A. Schweitzer

Contro l’intepretazione riduttiva di Weiss, Schweitzer sostiene che tutta la predicazione, tutta l’attività e tutta la vita di Gesù sono profondamente ed intimamente impregnate di escatologia. Contro la concezione di Wrede sull’insegnamento itinerante di Gesù, egli dimostra che solo una concezione teologica, che attinge nelle concezioni dell’epoca l’attesa di un imminente giudizio con la venuta del «figlio dell’uomo», può dar ragione storica della coscienza messianica di Gesù. Egli commenta:

«È francamente inspiegabile che la scuola escatologica, dopo aver intuito il carattere escatologico della predicazione del regno, non abbia al tempo stesso pensato l’’elemento dogmatico’nella storia di Gesù. L’escatologia non è nient’altro che storia dogmatica, la quale irrompe in quella naturale e la supera»[75].

L’affermazione del carattere storico ed insieme teologico (chiamato dogmatico) è dunque netta.

In quest’humus storico-escatologico, Schweitzer segue l’evolversi della vicenda di Gesù a partire dal Battesimo fino alla crocifissione. Pertanto, afferma, Gesù condivide con Giovanni l’attesa della venuta imminente del regno di Dio e ritiene urgente la preparazione degli uomini a quest’evento.

Si tratta di un regno dove ci sono distinzioni tra gli eletti (più grandi e più piccoli) e dove anche il più umile e più povero può diventare il Signore dell’era messianica. In questo contesto, è da ritenersi storico anche il titolo di «figlio di Davide» attribuito a Gesù, giacché il Messia sarà un discendente di Davide trasformato nel «figlio dell’uomo» che irromperà sulle nubi, secondo la visione di Daniele. Questo credeva la gente, e questa fede condivide Gesù, che applica a sé questa doppia prerogativa, anche se svela la sua identità messianica gradualmente.

Per questa ragione Schweitzer giudica storico anche il segreto messianico contestato da Wrede. Rispettoso del testo sinottico, egli ritiene che l’attività pubblica di Gesù non sia durata a lungo, ma solo il tempo trascorso in Galilea, con una propensione, da parte di Gesù più ad evitare che a cercare le folle. In questa logica, l’autore spiega il segreto messianico, i diversi tentativi di sottrarsi alla folla che lo cerca lungo il lago e altrove, e il velamento del messaggio attraverso le parabole. Il segreto consisterebbe, di conseguenza, nella coscienza che Gesù ha di essere il Messia che sta per manifestarsi nella venuta repentina del regno. È un regno che apparirà all’improvviso e solo per iniziativa di Dio, senza che l’uomo sappia come, in conformità con le parabole che lo illustrano.

Secondo Schweitzer, Gesù è convinto, in questa prima fase, che il regno verrà prima ancora che i discepoli, da lui mandati ad annunciarne l’irruzione nel mondo, abbiano finito di attraversare le città d’Israele (Mt 10, 23). Perciò ascrive a questo momento il discorso sulle sofferenze escatologiche e sull’effusione dello Spirito. Ma dal momento che nulla di tutto questo si verifica e che gli apostoli ritornano da Gesù, Schweitzer ritiene che a partire da quell’istante Gesù abbia evitato il contatto con le folle, concentrando sempre più sulla sua persona proprio l’idea di una sofferenza che possa avviare la tribolazione messianica (peirasmòs). Guardando alla sorte del Battista e dei profeti, Gesù allora modella la sua vita e la sua fine sulla loro vita e sulla loro fine. Schweitzer spiega in questo modo la decisione di andare a Gerusalemme e la rivelazione ai discepoli della sofferenza che ivi l’attende. Gesù intraprende questo viaggio sapendo ciò cui va incontro, ma con una motivazione teologica e non psicologica: perché la sua tribolazione possa scatenare il peirasmòs del giudizio di Dio e favorirne l’irruzione. Schweitzer precisa:

«Appare nuovamente chiaro che per Gesù esiste solo la necessità dogmatica e non storico-empirica della morte. Sopra la necessità dogmatico-escatologica sta ancora l’onnipotenza incondizionata di Dio»[76].

È la necessità del segreto messianico confessato davanti al sommo sacerdote e che precedentemene era stato svelato al Sinedrio, da Giuda, proprio da uno dei dodici, l’unico gruppo di  persone che ne erano al corrente insieme con lui. Per l’appunto lo svelamento di questo segreto davanti all’autorità religiosa giudaica e poi davanti a quella politica romana, conclude l’autore, porterà Gesù alla crocifissione.

5.3.L’escatologia di Schweitzer tra storia ed etica

L’analisi storica di Schweitzer è tra le più accurate e le più appassionate finora apparse. Egli non solo ha intuito, ma ha anche dimostrato che non si può seriamente parlare di coscienza storica di Gesù, senza collegarla immediatamente ad un contesto teologico che lo precede e lo accompagna. In questo modo, l’autore ricompone una continuità che avevamo visto sovente spezzata, tanto con il mondo giudaico che con la coscienza degli stessi discepoli e, attraverso di loro, con la comunità cristiana primitiva. L’orizzonte escatologico in cui Gesù si muove sembra essere abbastanza convincente, perché giustifica molti avvenimenti di quella vita singolare, attraverso la quale, secondo l’autore, noi abbiamo ricevuto la rivelazione della perfezione etica universale[77].

E tuttavia proprio questa sottolineatura etica diventa uno dei suoi punti deboli, peraltro abbastanza comprensibile, per l’epoca in cui l’autore scriveva. L’obiettività storica, che comunque è sempre incastonata in un’ermeneutica e, nel nostro caso, in un contesto teologico, è come se con Schweitzer subisse una levigatura eccessiva. L’escatologia messianica non è certamente in lui quella spiritualeggiante di Weiss o di Harnack. Schweitzer si lascia definitivamente alle spalle un’ermeneutica preoccupata solo dell’affermazione del messaggio etico, dietro la coscienza storica di Gesù. Disegna un ambito storico-teologico, che per quanto possa riuscire sgradevole alla sensibilità moderna, è ancorato all’epoca in cui si svolsero in fatti più che alla nostra. Eppure, quest’operazione non riesce del tutto, perché proprio nell’attualizzazione di quell’ermeneutica, lo stesso Schweitzer manifesta tendenze spiritualiste, che egli, retrospettivamente, è portato a vedere anche in Gesù.

Schweitzer ammette con un certo candore:

«Così è destino del cristianesimo svilupparsi in un costante processo di spiritualizzazione»[78].

Nonostante la concretezza e la realtà storica, alle quali fa riferimento, anche in lui, come in genere nella teologia antiliberale, il risultato è compromesso da una spiritualizzazione della stessa radicalità evangelica, sicché

«il nostro rapporto con Gesù è in fin dei conti di carattere mistico. E d’altra parte nessuna personalità del passato può venire collocata nel presente in modo vitale mediante una considerazione storica o attraverso riflessioni che pongono in luce il suo significato decisivo»[79].

L’attesa degli ultimi tempi diventa pertanto motivo di radicalità etica,

«ci conduce al sentiero dell’interiorizzazione, spingendoci a cercare nel distacco spirituale dal mondo la vera forza per l’azione nello spirito del Regno di Dio»[80].

Sembra paradossale che proprio chi ha troncato una brillante carriera di musicista e teologo, per vivere la concretezza del servizio ai più poveri tra i poveri, possa scrivere queste righe che invece sembrerebbero dettate da uno spiritualismo alienante. Tuttavia, una spiegazione esiste e va ricondotta, a nostro avviso, a due limiti culturali dell’epoca. Il primo è quello di un tenace accanimento a voler cogliere la storia di Gesù in uno sviluppo etico, che sposta lentamente ed impercettibilmente l’analisi dal piano teologico a quello psicologico; il secondo è l’assenza completa di un’analisi sulle condizioni socio-economiche ed ambientali nelle quali vive Gesù, con il conseguente silenzio sulla sua scelta, non solo come scelta radicale escatologica, ma anche come scelta profetico-esistenziale, a favore dei sofferenti e dei poveri, degli oppressi e degli emarginati. Del resto, come vedremo, su questo punto non porteranno alcunché di nuovo né l’opera di Bultmann, né quella dei suoi discepoli. L’uno e gli altri riproporranno la domanda sul Gesù storico e consentiranno nuove acquisizioni alla soluzione del problema, ma non colmeranno la lacuna di una storicità che non  consta solo di opzioni spirituali, ma, proprio perché basata sulla sequela, diventa anche impegno e lotta per la giustizia. Schweitzer non lo esclude, anzi la sua ricerca vi arriva inesorabilmente, anche se mancano, in lui, come negli altri, le motivazioni storiche che sarebbero invece da cogliere nel contesto teologico di Gesù.

Pur senza queste ragioni storiche ultime, che la motivano e la precisano ulteriormente e che la teologia più recente ha cominciato a recepire, la chiusura della ricerca di Schweitzer appare non solo profetica, ma perennemente attuale:

«(Gesù) viene verso di noi come uno sconosciuto senza nome, così come si avvicinò sulla riva del lago a quegli uomini che non sapevano chi egli fosse. Pronuncia la stessa parola: Seguimi e ci pone di fronte ai compiti che deve risolvere nella nostra epoca. Egli comanda. E si rivelerà a coloro che gli obbediscono, siano saggi o poco saggi. Si rivelerà nella pace, nell’azione, nelle lotte e nelle sofferenze che costoro vivranno in comunione con lui. Ed essi sperimenteranno chi egli è, come si conosce un segreto ineffabile...»[81].


 

CAPITOLO V.
LA DELEGITTIMAZIONE DELLA RICERCA STORICA.
L’OPERA DI R. BULTMANN

1.  Spunti di contestazione e di rinnovamento nella «teologia  dialettica»

Per «teologia dialettica» s’intende il movimento di rottura e di innovazione verificatosi nella teologia evangelica a partire dal 1919, anno di pubblicazione del commento alla lettera ai Romani di K. Barth. Reagendo alla «teologia liberale», essa considera punto iniziale di ogni riflessione la crisi dell’uomo che, andando alla ricerca di una soluzione al problema di senso che lo travaglia, non riesce a venirne a capo con nessun metodo “immanente”. Anche la costruzione religiosa che l’uomo arriva ad innalzare non è altro che autoaffermazione, che rischia sempre di elidere la fede, così come è operazione vana ogni costruzione filosofica.

La teologia dialettica vede inesorabilmente condannati alla stessa sorte tutti i nuovi metodi di riflessione, riassumibili in quello esperienziale di Schleiermacher; quello etico di Herrmann ed Harnack; quello storicista di Troeltsch, Bousset, Heitmüller. Essa riprende il filone più genuinamente evangelico della «teologia della croce» di Lutero e della «teologia della maestà divina» di Calvino, recuperando l’impostazione del paradosso, di autori come Kierkegaard, Dostojewski, Overbeck. Propone un modo di procedere “dialettico”, che cioè non dissolve i contrari (es. tempo/eternità, Dio/uomo, fede/obbedienza, ecc.) a favore di un loro superamento in una sintesi superiore (come proponeva l’idealismo), né li ridefinisce in una visione armonica che li accosti l’uno all’altro (come fa la teologia scolastica).

Volendo superare ogni metodologia “dell’immanenza”, che procederebbe a senso unico, la teologia dialettica sottolinea in modo decisivo la “trascendenza” della rivelazione:

«Così come il tempo non è una parte dell’eternità e l’eternità non è un tempo senza fine, ma piuttosto entrambi sono così qualitativamente diversi l’uno dall’altro, che c’è eternità solo quando non c’è più tempo e il tempo trova la sua fine e il suo giudizio nell’eternità, allo stesso modo la rivelazione di Dio non può essere, come eterno concreto, una parte di questo mondo. C’è rivelazione solo in quanto essa è non-mondo. Nella rivelazione pertanto, tutto ciò che è mondo e appartiene al mondo, compreso l’agire più alto etico-religioso, il più fine esperire (Erlebnis) trova la sua frontiera, la sua fine e perciò si effettua in lui il peccato, il giudizio»[82]

Ciò che contraddistingue la rivelazione è dunque, per la teologia dialettica, il suo carattere di dato storico (geschichtliche Gegebenheit), che è di natura completamente differente dal dato storico degli avvenimenti intramondani. Questi sono accaduti una volta e basta, il dato rivelato invece accade ed è un continuo appello per la persona. Il rivelarsi di Dio svela all’uomo la sua abissale differenza da Dio, mentre offre, al contempo, riconciliazione e perdono.

Per la teologia dialettica, l’annientamento dell’uomo, proteso alla sua realizzazione, avviene nella morte e nella risurrezione di Gesù, perché qui l’uomo e Dio, il tempo e l’eternità sono separati come da una «linea della morte», eppure proprio nella stessa morte e risurrezione il vecchio mondo è toccato dal nuovo mondo, come un cerchio da una tangente, con una novità non esprimibile se non in modo paradossale: il nuovo uomo è ciò che egli non è[83].

La sacra Scrittura è di conseguenza «Parola di Dio» , ma in senso dialettico. È testimonianza umana del venire di Dio nella parola in mezzo agli uomini, attraverso l’incarnazione di Cristo. È insieme parola umana (e perciò culturalmente condizionata e demitizzabile) e parola generata dalla Parola di Dio (e perciò appello esistenziale assoluto). Ciò che ce la rende attingibile è solo la fede, perché attraverso di essa si arriva al rinnegamento di sé e, solo in questo, l’uomo si apre a Dio.

Su questa base teologica di fondo s’innestano le elaborazioni di quei teologi che sono stati chiamati dialettici e che, nei loro sviluppi, divergono sempre più l’uno dall’altro. Tra questi ricordiamo K. Barth, E. Brunner, F. Gogarten e, per ciò che ci interessa più da vicino, R. Bultmann. Il suo pensiero sulla illegittimità della ricerca storica su Gesù è pertanto contestuale a questa impostazione dialettica, che, pur di accentuare sempre il valore trascendente ed appellativo della Scrittura e del Nuovo Testamento in particolare, ritiene vano ogni tentativo condotto con gli strumenti razionali. A ciò sono da aggiungere i presupposti filosofico-esistenzialisti di Bultmann, che gli consentono di recuperare la storia in un’accezione che non è più quella della ricerca documentarista, ma è la storicità come struttura umana fondamentale.

2.  Esistenza e storicità in R. Bultmann

Il presupposto fondamentale da cui muove Bultmann è che l’essere umano è qualitativamente diverso da ogni altro essere. È infatti esistenza, termine che non indica il semplice essere presenti, ma un modo tipico e proprio di essere, quello dell’uomo. Le cose sono in un modo statico, l’essere umano è dinamico. Le cose sono complete nella loro realtà attuale, l’essere umano è un insieme di possibilità realizzabili nel futuro, nello svolgersi del tempo. L’essere umano è pertanto completamente diverso dall’essere delle cose, perché è poter essere[84].

È una concezione che Bultmann già nel 1927 condivideva con M. Heidegger e che fa da sfondo ad ogni successivo sviluppo concernente la storicità. È pertanto la storicità l’elemento che caratterizza l’uomo e ad essa l’autore aggancia sia il discorso sulla storia sia quello dell’ermeneutica storica.

La storia, che Bultmann chiama Geschichte (da Geschehen, accadere), contraddistingue il movimento che porta l’uomo alla scelta e alla realizzazione delle sue possibilità esistenziali. Ciò che invece di un uomo viene raccontato in un documento passato è la Historie. C’è una differenza così qualitativa tra le due, che Bultmann può dire che la storicità è salva, anche quando non si può attingere adeguatamente la storia scritta. Con queste premesse, non sarà difficile arrivare alla conclusione che la conoscenza storica non può essere né una ricostruzione asettica, positivisticamente intesa, né una ricostruzione della evoluzione psicologica di qualcuno vissuto prima di noi. La conoscenza è sempre situatività partecipe, con la quale si viene a contatto con la propria esistenza attraverso il dispiegamento esistenziale dell’altro. L’altro affiora con il suo progetto di vita in ciò che di lui rimane o a lui si riferisce negli scritti antichi o nelle opere sfuggite al logorio del tempo.

Di Gesù, è esattamente questa conoscenza ciò che maggiormente interessa Bultmann. Ma allora ci si chiede: è possibile ritrovare il suo progetto, le sue intenzioni ed il suo porsi davanti a Dio attraverso le sue scelte esistenziali che hanno segnato la sua vita? Per Bultmann no. Perché? Perché il Nuovo Testamento non è un documento unitario, ma la concrescenza di brandelli di predicazione, di ricostruzioni successive di ambienti ecclesiali diverse e multiformi, che, come dice l’autore, ruotano intorno ai due poli giudaico-palestinese e extragiudaico-ellenistico. In questi due poli originari si possono almassimocogliere solo elementi storici minimali. Nel libro Storia della tradizione sinottica, del 1921[85] e nell’altro intitolato Jesus, del 1926, Bultmann sembra ancora lasciare uno spiraglio aperto alla storicità almeno di una parte della predicazione di Gesù. Egli afferma che è fuori dubbio che questa sia stata rimaneggiata, secondo le esigenze della vita, della missione e dei problemi teologici nuovi della comunità, ma si può tuttavia pensare che  complessivamente risalirebbe ancora a Gesù. Successivamente, l’autore precisa meglio la sua comprensione della storicità legandola al concetto di demitizzazione[86] e restringendo ancora di più l’orizzonte della conoscenza storica.

3. L’incontro con Cristo al di là della demitizzazione

La struttura eminentemente appellativa del Nuovo Testamento è per Bultmann, come per ogni teologo dialettico, un dato incontrovertibile. Nell’incontro con il “testo” avviene l’incontro con la Parola che ci giudica e ci salva. Qui la possibilità più propria dell’uomo, quella che sorregge tutte le altre, la morte, appare vincitrice e sconfitta nella morte di Cristo. La nostra storicità ritrova se stessa perché toccata da quest’avvenimento decisivo della storia. Si ritrova perdente e salvata. La rivelazione diventa vita per chi incontra il Cristo della fede[87].

La realtà di quest’incontro è però espressa, secondo Bultmann, in un linguaggio e in una cultura dai caratteri cosmologici ormai definitivamente superati. Il messaggio della salvezza e la rivelazione della vita ci provengono nel testo biblico in un involucro letterariamente mitologico. Anche l’evento Cristo è presentato come evento mitico, perché, - dice l’autore - sulla croce il Gesù storico ed il Figlio preesistente sono una sola cosa. Ma proprio l’idea del Figlio di Dio, che non può provenire dalla teologia giudaica, è una cristianizzazione del mito del «figlio di Dio» della cultura ellenista[88]. Così per l’autore è mitica la concezione cosmologica complessiva, che vede il mondo diviso in tre piani: il cielo, dove Gesù ascende, la terra, dove Gesù muore, gli inferi, dove Gesù discende. È parimenti inficiata da rappresentazioni mitiche l’idea che le forze soprannaturali intervengano a modificare le leggi e il corso del mondo e quelle dell’animo umano[89].

Cosa resta? Resta da compiere la «demitizzazione - termine certo insoddisfacente», confessa Bultmman, il quale prosegue:

«Il suo scopo non è l’accantonamento delle espressioni mitologiche, ma la loro interpretazione. È un metodo di lettura ... La mitologia è l’espressione di una certa comprensione dell’esistenza umana. Essa testimonia la fede che il mondo e la vita hanno il loro fondamento e il loro limite in una potenza che sta al di fuori di tutto ciò che noi possiamo calcolare e controllare ... Il mito oggettiva l’aldilà nell’aldiqua»[90] .

La demitizzazione ha pertanto il valore di scrostare da tutte le rappresentazioni culturali il messaggio fondamentale, proclamato nel Nuovo Testamento e cioè il fatto che attraverso Cristo avviene il pronunciamento salvifico di Dio. Avviene qui e adesso per me ed io posso accoglierlo o rifiutarlo.

4.  Irrilevanza e illegittimità della ricerca storica su Gesù

La posizione di Bultmann sulla ricerca storica su Gesù appare con più chiarezza, se confrontata con quella degli autori che l’hanno preceduto.

Contro la scuola critica e tutti i tentativi di ricostruire una vicenda di Gesù storicamente attendibile, Bultmann sostiene che tale impresa è impossibile ed è condannata all’insuccesso. La scarsità delle fonti extra canoniche e le sommarie notizie ivi fornite, possono confermare la storicità dell’esistenza e della crocifissione di Gesù, il movimento messo in atto dalla sua predicazione, ma nulla di più. Voler scrivere una qualsiasi vita di Gesù è un’operazione storicamente inconcludente. Bultmann lo sostiene a più riprese e lo ripete nel suo libro che pur si chiama Jesus , ma che è un libro su Gesù, non una vita di Gesù.

Contro la scuola liberale, che umanizzava il Cristo, svilendone il carattere appellativo per la fede, l’autore sostiene che la ricerca su Gesù è illegittima. Non si può cercare in Cristo l’uomo umanamente più realizzato, perché non c’è realizzazione al di fuori della fede, ma solo la morte e il non senso.La fede si oppone trasversalmente alla religione, che è costruzione umana. Non è lecito cercare in Cristo una figura espressiva della religione. Del resto, la fede non ha bisogno di essere giustificata nemmeno dagli esiti della ricerca storica. Essa piuttosto giustifica e riconcilia nella misura in cui si accetta l’inanità del mondo naturale e l’insufficienza della nostra ragione.

Contro i tentativi di agganciare la fede alla conoscenza del Gesù storico, Bultmann sostiene che quest’impresa non è necessaria. Egli ricorda il pensiero paolino che afferma: «anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più così» (2 Cor 5, 16). Dice: chi si preoccupa della conoscenza storica di Gesù, vorrebbe conoscerlo «secondo la carne», cioè con ragionamenti e strumenti che non sono adeguati alla realtà della fede, ma sono ancora nell’ottica della natura e del mondo. Invece al credente deve bastare il kerygma, l’annuncio che Gesù è il Signore, perché in esso si manifesta il giudizio e il pronunciamento salvifico di Dio.

Contro la scuola mitica di Strauß, Bultmann sostiene che la comunità non è sede di elaborazioni mitiche, ma piuttosto della decisione della fede. Accetta il mito come espressione culturale e storicamente condizionata, fino ad affermare di poter essere un discepolo tardivo di Strauß. Tuttavia elabora la demitizzazione come strumento per attingere il contenuto della fede, cosa che esulava dagli obiettivi della scuola mitica.

In conclusione, Bultmann afferma che di Gesù possiamo conoscere solo che egli sia esistito (ciò che si esprime con il «che», il daß tedesco) ma non il modo (il come, espresso dal wie). La storicità è altro che la storia documentaria. La conoscenza di Cristo non avviene per questa strada ma attraverso la fede.

5.  Valutazione dell’opera di Bultmann

Ai fini della soluzione al nostro quesito di fondo sulla possibilità di una ricostruzione storica del Gesù di Nazareth, ciò che abbiamo esposto sembra dare una risposta inequivocabilmente negativa. Tutta l’opera di Bultmann, nonostante i meriti di un impegno profuso con serietà e coerenza durante tutta la sua vita, porta all’inesorabile conseguenza di una voragine vera e propria tra la storia di Gesù e la nostra storia, quella che altri chiamerebbe storiografia  o storia documentaria (Historie) e storicità esistenziale (Gerschichte).

A ciò si aggiunga che l’abisso così scavato scollega non solo il Cristo della fede dal Gesù della storia, ma anche il Gesù di Nazareth dal contesto giudaico a lui precedente e a lui susseguente. Anche se Bultmann cerca di salvare qualche linea di continuità, nel solco della sua storia delle forme, tale continuità non è più motivata, se non sulla base di comparazioni, che spesso sono apparse arbitrarie e quindi non inequivocabilmente storiche.

Pertanto non condividiamo la divaricazione tra i due concetti, per noi profondamente uniti e basilari per il nostro problema: historisch (storiografo, come elemento riferito al passato, da ricostruire positivamente) e geschichtlich (storico, cioè avente importanza e pregnanza significativa e determinante per la storia dell’uomo). Se per Bultmann  Gesù non si può attingere nella sua Historie pur restando determinante per la Geschichte, in quanto storicità, per noi è l’esatto contrario. Sapere come Gesù ha storicamente vissuto la sua vicenda umana (che era anche vicenda di fede) è l’unica via per tentare di vivere nella sua sequela. La separazione tra la via storica di Gesù e la via esistenziale oggi da seguire rende ancora più attaccabile Bultmann, perché, separate le due accezioni della storia, non si vede altra base sulla quale poterle poi legare se non quella dell’arbitrarietà soggettiva. Né basta parlare dell’appello della Parola di Dio, se esattamente non sappiamo a che cosa essa ci chiama. Sentirsi solo perdonati  nulla più può essere consolante quanto si vuole e finché dura, non fornisce però le ragioni di un legame storico che dalla storia di Gesù rifluisce sulla nostra storia personale.

La conseguenza è che la stessa Geschichte di Gesù, la sua storicità come progetto esistenziale vissuto in raccordo con quello del Padre, diventa a noi inaccessibile a causa della presupposta inaccessibilità storiografica della sua Historie.

A ciò si deve aggiungere l’ambivalenza del concetto di mito, che oscilla continuamente in Bultmann tra due significati: a) la rappresentazione di ciò che non esiste nella forma rappresentata, con una connotazione negativa, del tipo: il mito è una rappresentazione fantastica; b) la rappresentazione di ciò che tocca l’esistenza in modo rilevante, con una connotazione più positiva, del tipo: il mito è ciò che manifesta la realtà incatturabile di Dio nel suo rapporto all’uomo e al mondo. L’oscillazione dei due significati nuoce non poco all’interpretazione dell’autore, accusato di dissolvere i contenuti della fede in dati puramente fantasiosi (mitici) e quindi inesistenti.

Anche se l’insistenza sulla fede e la decisionalità esistenziale mette bene in risalto il valore dell’oggi della salvezza, Bultmann trascura il fatto storico che è alla base non solo della decisione, ma anche della stessa permanente attualità dell’evento salvifico.

Quest’ultima tendenza, anche se con meno radicalità, è ugualmente presente in altri autori più recenti, che accettano sostanzialmente i presupposti di fondo della Formgeschichte. Si riporta qui, a titolo di esempio, un brano di Bornkamm, che, mentre cerca di cogliere una continuità teologica, sembra propendere per una discontinuità storica tra Gesù e la comunità primitiva:

«L’interesse della comunità e della sua tradizione è legata non al prima, ma all’oggi, e questo oggi non ha il senso di una data del calendario, ma di un presente determinato da Dio e contemporaneamente di un futuro aperto da Dio. Alla luce di quest’adesso e di quell’allora arrecati e determinati da Dio, aperti tramite la crocifissione e la risurrezione di Gesù, la comunità comprende anche il prima della storia di Gesù innanzi al venerdì santo e alla pasqua e li mette in rapporto alla sua proclamazione, sempre comunque come una storia che riguarda il presente e dischiude il futuro (cfr., per esempio, At 10, 37-43). La comprensione della storia di Gesù è una comprensione che parte dalla fine e tende verso la fine. Di essa è impregnata l’intera tradizione raccolta nei vangeli»[91].

Con queste premesse diventa veramente problematico sapere qualcosa anche della storicità esistenziale di Gesù, conoscere, ad esempio, come Gesù si sia poi posto di fronte alla sua fine. In Bultmann la risposta ha il pregio di una coerenza, che non si trova negli altri:

«io sono del parere che della vita e della personalità di Gesù possiamo sapere tanto quanto niente, dal momento che le fonti cristiane non si sono interessate a ciò e dal momento che sono leggendarie e pervase di leggenda e non esistono altre fonti»[92].

In un altro testo aggiunge;

«Noi non possiamo nemmeno sapere come Gesù abbia compreso la sua fine, la sua morte»[93].

È una tesi a ragione respinta da R. Fabris, il quale non solo esclude una conclusione drammatica e fallimentare del progetto di Gesù, come sosteneva la scuola critica, ma adduce un’argomentazione di principio:

«La morte di una persona riceve significato dall’orientamento dell’intera sua vita. Nel caso di Gesù è il suo progetto globale, riassunto nel simbolo del Regno di Dio, che può offrire la chiave per capire come ha affrontato la minaccia della morte violenta. Ora a questo riguardo, la tradizione sinottica ha conservato una parola di Gesù nel contesto della cena di addio, in cui si pone esplicitamente in rapporto la sua morte e l’avvento del regno di Dio: “in verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio (Mc 14, 25 par)”»[94].

È senz’altro una osservazione valida, che però deve far riferimento, per potersi giustificare, alla tradizione sinottica, presupponendola storicamente attendibile. E, infatti, anche qui, esclusa la ricostruibilità storica di Gesù proprio attraverso i vangeli, bisogna cercare altre vie di accesso. È quanto hanno fatto gli stessi discepoli di Bultmann, che, riproponendosi il problema del Gesù storico, hanno cercato di risolverlo attraverso altre strade.


 

CAPITOLO VI.
LA «NUOVA DOMANDA» SUL GESÙSTORICO ED I TENTATIVI POSTBULTMANNIANI DI UNA RICOSTRUZIONE STORICA DI GESÙ

1. La riproposizione del problema del Gesù storico in E.  Käsemann

Le conclusioni radicali alle quali era pervenuto Bultmann, con tutta la sua autorevolezza, avevano provocato, soprattutto in area tedesca, una nuova stasi nella ricerca storica su Gesù. Alla liquidazione della ricerca come illegittima, si aggiungeva la non lieve difficoltà nella quale veniva a trovarsi chiunque avesse voluto riaprire il discorso, a causa della «storia delle forme».  Irrobustita da alcuni saggi fondamentali, come quello di K. L. Schmidt[95] e M. Dibelius[96], che avevano preceduto l’opera bultmanniana sulla Storia della tradizione sinottica, del 1921, la storia delle forme dominò incontrastata, per circa un trentennio, facendo ritenere non solo vano, ma metodologicamente insensato, qualsiasi tentativo di riaprire la vecchia questione sulla storicità di Gesù. La teoria, perché solo di questo si tratta, si basava sull’affermazione che i Vangeli contengono una pluristratificazione di molteplici tratti della predicazione e della catechesi della primitiva comunità cristiana, insieme ad accentuazioni e rimaneggiamenti redazionali degli evangelisti, che, mescolati ai primi, rendono impossibile l’obiettivo di attingere un qualsiasi dato storico sui fatti e sulle parole che si riferiscono a Gesù.

A ciò è da aggiungere il disinteresse per la questione da parte dell’ambiente evangelico dell’epoca, che anzi delegittimava la ricerca storica per salvaguardare la purezza della fede, appassionatamente sottolineata dalla teologia dialettica. Dal suo canto, il mondo cattolico, con un metodo prettamente apologetico e non di rado superficiale, ribadiva la storicità dei fatti così come giacciono nei racconti evangelici, oppure cercava delle soluzioni improntate ad un sostanziale concordismo letterario. Continuava però a riaffermare la non irrilevanza del dato storico.

In questo contesto, fece scalpore la riproposizione del problema storico nella ormai celebre conferenza di E. Käsemann, del 1953, che aveva programmaticamente per titolo: Il problema del Gesù storico[97].

Descrivendo la situazione stagnante della ricerca sul Gesù storico dall’epoca della prima guerra mondiale al 1953, Käsemann sostenne, in controtendenza, l’urgenza di uscire da quella situazione per molteplici fattori. Ne indicò alcuni di carattere più   eminentemente biblico-teologici ed altri di carattere più ecclesiale.

Tra i primi, annoverava il fatto che i sinottici contengono molta più tradizione autentica di quanto comunemente non si ammetta, l’attendibilità storica almeno della parte più antica del racconto della passione e l’impossibilità teologica di separare la storia della salvezza dalla storia del mondo. Tra i motivi ecclesiali, sosteneva con lucidità che la comunità cristiana contemporanea combatte, come quella primitiva, su due fronti. Il primo è un sempre ricorrente docetismo, con il rischio di far cadere Gesù nella mitologia o in un entusiasmo mistico immotivato, simile a quello della comunità di Corinto. Per scongiurare il primo pericolo, egli sosteneva  che occorre risollevare la domanda del Gesù storico, al fine di collegare l’annuncio kerygmatico (Gesù è morto e risuscitato, perciò è il Signore) con quello del Gesù della storia (Gesù è veramente vissuto ed è veramente morto sulla croce). Il secondo pericolo è nella tendenza ad accentuare solo l’aspetto umano della storia di Gesù, fino a dissolvere il Cristo della Pasqua. Per fugare questo pericolo Käsemann ribadiva l’irriducibilità de vangelo al solo fatto storico (storiografico).

Il ricorso al Gesù storico diventa pertanto indispensabile come per la primitiva comunità cristiane, per salvaguardare la fede dai due rischi suddetti. Käsemann difende allora la sua tesi, che si ritrova espressa con chiarezza, anche in un altro testo:

«Il poter attingere alla forma della narrazione dei Vangeli, al racconto del Predicatore palestinese, a ‘quella volta’ ontro ‘l’una volta per tutte le volte’ , alla rappresentazione storicizzante nell’ambito del kerygma e, non ultimo, a Gesù che passava per la Palestina, si è dimostrata una reazione teologicamente rilevante e perciò stesso è stata accettata e viene mantenuta dalla Chiesa. Si trattava infatti del nostro non poter disporre di Cristo a nostro piacimento, e neppure della fede e dello Spirito. La presenza di Cristo e dello Spirito nella comunità non può essere abusata sì da far scadere entrambe nell’ovvietà escatologica dei credenti»[98].

1.2. Tratti di continuità tra il dato storico di Gesù e la  comunità cristiana

Käsemann riporta e condivide molte delle acquisizioni della storia delle forme ed il concetto di storicità sviluppato da Bultmann. Tuttavia ribadisce che la Historie di Gesù ha rilevanza storica in quanto interpella il presente, alla stessa maniera con la quale ha interpellato la comunità e gli evangelisti di allora:

«Ciò significa, in termini teologici: solo nella decisione della fede o dell’incredulità quella storia (Geschichte) pietrificata del dato storico (Historie) su Gesù può diventare di nuovo storia  (Geschichte) viva. Ed è questo il motivo per cui noi siamo informati su questa storia solo attraverso il kerygma della comunità. La comunità non poteva e non voleva separare questo dato storico (Historie) dalla propria storia (Geschichte). Perciò non poteva e non voleva astrarre dalla propria fede pasquale e distinguere tra il Signore terreno e il Signore innalzato»[99].

Anche per Käsemann la fede non ha bisogno di giustificarsi con il dato storico di Gesù; eppure è interessante notare come egli sottolinei la continuità tra il Gesù storico e il Cristo della fede, in quanto la fede scopre ed interpreta l’accaduto e si identifica con esso. L’autore può così affermare la singolarità di Gesù ed alcuni tratti sinottici relativi alla sua predicazione che contraddicono quell’ermeneutica che ritiene Gesù solo un ‘rabbi’e nulla più, come in Bultmann ed altri. Egli aggiunge:

«Nella tradizione sinottica ci sono elementi che lo storico, se vuole restare tale, deve semplicemente riconoscere come autentici».

Sono

«tratti caratteristici della sua predicazione (di Gesù) avvertibile con relativa precisione, e che la cristianità primitiva ha unito al suo messaggio proprio»[100].

Il valore delle affermazioni di Käsemann è notevole, soprattutto se si pensa all’eco, certamente positiva, che egli ha suscitato riproponendo il problema storico, quello che fu chiamato «nuova domanda» (Rückfrage, new question) che ha consentito di uscire dalla fase nella quale la ricerca stagnava ormai da una generazione, dopo aver appassionato gli animi per due secoli.

Nel suo tentativo di aprirsi dei varchi oltre la cortina della formulazione teologica neotestamentaria, Käsemann cerca in definitiva di legare in modo inscindibile il kerygma al dato storico, pur con tutte le incongruenze metodologiche della «Storia delle forme», all’interno della quale resta. Dà comunque il via ad una nuova fase di ricerca, che si propone una via di accesso al Gesù della storia o attraverso la stessa predicazione, o attraverso l’agire di Gesù.

2. La ricerca della continuità tra Gesù e kerygma attraverso la predicazione.

Ricordiamo ora, anche se in maniera sintetica, alcuni dei maggiori autori che, raccogliendo l’invito di Käsemann e la sfida della «nuova domanda», hanno cercato di precisare la continuità tra la predicazione di Gesù e la predicazione della comunità primitiva, dalla quale hanno avuto origine i sinottici. 

Günther Bornkamm scrive il suo Gesù di Nazareth nel 1956, e pur accettando i presupposti ed il metodo della Storia delle forme,  riconosce la parte preponderante e più importante della vicenda storica di Gesù nella sua predicazione[101]. Del Gesù storico egli mette in risalto la forza carismatica, l’impressione che suscita la sua autorevolezza, testimoniata dallo stupore delle folle e dall’impressione destata in loro, come ci riferiscono i sinottici. Punto discriminante, che esige una grande cautela, resta anche per Bornkamm quello della teoria delle forme: dal momento che i sinottici sono confessioni di fede, non è possibile ricercarvi dei fatti:

«Noi non possediamo un solo logion di Gesù o un solo fatto riguardante la sua vita, che non contengano nello stesso tempo una confessione di fede di una comunità credente o che non siano almeno incapsulati in essa. Ciò rende la ricerca verso i nudi fatti della storia difficile e senza prospettiva»[102].

Bornkamm ricostruisce così le tappe della critica storica su Gesù:

«Contro un procedere cieco e acritico interviene a ragione la critica storica in modo tale da distruggere ciò che si pensava fosse solido fondamento. Ma alla critica corrisposero sempre le fatiche dei restauratori storici o teologici, che con maggiore o minore successo vollero attaccare a quel torso singole membra, finché una critica ancora più spinta staccò anche quelle lasciate fino a quel momento»[103].

L’autore non si dà tuttavia per vinto e ribadendo il legame tra annuncio kerygmatico e fede cristiana, afferma la necessità, oltre che l’utilità della ricerca storica, che in lui prende l’avvio dalle dinamiche innescate dall’originalità e dalla forza d’impatto della predicazione di Gesù.

J. Jeremias, evitando il biografismo della letteratura antecedente a Bultmann,  sostiene che possiamo attingere le ipsissima verba Jesu, le stessissime parole di Gesù, attraverso metodi di comparazione culturale e ambientale (letteratura rabbinica, di Qumran ecc.) e attraverso l’individuazione delle espressioni aramaiche sottostanti a quelle del greco della koinè degli attuali vangeli sinottici[104].

Ne sono un esempio espressioni come «regno dei cieli», al posto di «regno di Dio», o le molteplici forme del «passivo divino», adoperato per evitare di pronunciare il nome di Dio, in locuzioni simili a quelle delle beatitudini. Giacché la proibizione dell’uso del nome di Dio non riguarda in nessun modo la lingua greca, nella quale sono redatti i vangeli, tali circonlocuzioni del testo dimostrano una precedente formulazione aramaica, nella quale esse avevano un senso. 

L’autenticità gesuana sarebbe inoltre garantita nei testi dove compare un parallelismo antitetico.

Ne offre un esempio Mc 2, 19 (a): «Gesù disse: possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?» (domanda);

Mc 2, 19 (b): «Finché hanno lo sposo con loro non possono digiunare» (risposta);

Mc 2, 19 (c): «Ma verranno i giorni in cui sarà tolto loro lo sposo  e allora digiuneranno»

È presente un parallelismo antitetico che contrappone c) a b).

È una forma letteraria per opposizione - afferma Jeremias - che risale allo stesso Gesù, come risalgono a lui le espressioni nelle quali c’è un ritmo interno, di contrapposizione tra i pensieri formulati. Così, ad esempio:

«i ciechi tornano a vedere
gli zoppi camminano
i lebbrosi sono mondati
i sordi odono i morti sono resuscitati
i poveri sono evangelizzati
e beato è chi non prende scandalo» (Mt. 11, 5-6).

Sono gesuane inoltre le espressioni conservate nella forma aramaica, come

«Eloì, Eloì lamà sabactàni?», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»;

«talità kum», «Ragazza, ti dico: àlzati!»

«abbà», «padre», ecc.[105].

Jeremias si spinge oltre. Sulla base di ciò che ritiene un ritrovamento della predicazione di Gesù, può affermare la storicità di dati molto discussi, se non negati, dalla Storia delle forme. In primo luogo  l’annuncio del regno di Dio come «regno avvenire», concetto dinamico che indica la regalità di Dio portatrice di giustizia in contrapposizione ai regni terreni. Di una giustizia che non è solo equità nel giudicare, ma «nella difesa degli inermi, dei deboli e dei poveri, delle vedove e degli orfani»[106].

Ma è parimenti affermata la storicità del battesimo di Gesù, e la coscienza della sua missione, nella quale riveste un’importanza centrale l’annuncio della «buona novella per i poveri»:

«Affermare che Gesù ha annunciato l’inizio della consumazione del mondo non è ancora descrivere compiutamente il suo annuncio del regno; anzi il tratto più significativo non è stato ancora indicato»[107].

Il tratto più significativo è per l’autore l’annuncio del vangelo ai poveri, la cui centralità Jeremias dimostra partendo dal logion, già citato, dei sei parallelismi di Mt 11, 5-6, nel quale proprio l’annuncio della lieta novella ai poveri, fatto inaudito e nuovo, può scandalizzare.:

«Se Gesù dichiara beato colui che non patirà scandalo per questo, allora risulta chiara l’importanza dell’espressione «ptochòi euangelìzontai» (i poveri ricevono il vangelo). E che essa costituisca il nucleo del messaggio di Gesù, lo si deduce da un altro passo, in cui la stessa espressione, formulata come incoraggiamento, introduce l’energica proclamazione escatologica delle beatitudini: «makàrioi oi ptochòi», «beati i poveri» (Lc 6, 20)»[108].

Sui poveri l’autore dà informazioni che convergono con quelle da noi già date nel 2° capitolo: sono categorie sociali disprezzate o spregevoli, i semplici ed i “minimi”, incolti e insignificanti, in una parola la gente senza una buona fama, gli ammè ha-arez (il popolo della terra), cui la salvezza sarebbe stata irraggiungibile a motivo del loro stato di ignoranza religiosa e del loro comportamento non conforme alla legge. Proprio costoro sono preferiti da Gesù, che li vede in tutt’altra luce e li chiama «i poveri», e «gli affaticati e oppressi» (Mt 11, 28). Come per il logion dei poveri, così per tanti altri testi, si può affermare, secondo Jeremias, l’attendibilità storica sia partendo dall’analisi linguistica, sia facendo un confronto culturale. L’esito è che Gesù risulta essere un grande maestro, originale e autorevole. Ma si dovrà con la stessa onestà ammettere la coscienza escatologica di Gesù, dice l’autore, anche se non nei termini radicali di altri. A riprova viene citato il fatto che Gesù indica più volte la libera sovranità di Dio sui modi e sull’ora del giudizio imminente ed invita a pregare per non soccombervi. Storica è infine, secondo Jeremias, anche la coscienza di Gesù circa la sua morte imminente e lo stesso banchetto pasquale con il quale egli si congeda dai discepoli ed allude una comunanza di destino con loro.

In una breve valutazione dell’opera di Jeremias, si noterà che la sua ricostruzione storica consente un recupero della continuità tra la predicazione di Gesù ed il Nuovo Testamento. Molte delle sue spiegazioni sono convincenti, anche se avvengono ancora al di qua del limite invalicabile fissato dalla Storia delle forme, che l’autore non contesta nei suoi presupposti fondamentali. A risultati simili arriva sul versante cattolico un altro autore, che adopera lo stesso metodo di comparazione culturale-letterario: H. Schürmann. Così, sempre nel contesto della predicazione, affermano chiari elementi di storicità autori come Riesenfeld e Gerhardsson, ritenuti esponenti di quella che qualcuno chiama «Scuola svedese».

H.Schürmann[109] cerca, al pari di Jeremias, una continuità tra Gesù e il Cristo partendo dalla predicazione contenuta nei Vangeli. Sostiene che nella fede dei discepoli c’è un carattere non solo postpasquale, ma anche prepasquale, una fede fiduciale che consente agli stessi discepoli di accettare l’invito alla sequela. «Vieni e seguimi» è per Schürmann senza dubbio un elemento gesuano, dal momento che tale espressione non trova riscontro né nella letteratura greca e nemmeno in quella rabbinica. La comunità di fede sorta intorno a Gesù avrebbe conservato le sue parole, applicandole alla sua vita interna e alla sua attività missionaria. La Pasqua non costituisce una rottura con la fede prepasquale, ma è solo un suo sviluppo.

H. Riesenfeld e B. Gerhardsson[110] riscoprono ed analizzano il metodo rabbinico dell’insegnamento finalizzato alla memorizzazione da parte dei discepoli. I rabbi lo adoperavano per impedire che il loro messaggio andasse perduto dopo la loro morte o che fosse travisato. Gli autori si soffermano ad illustrare il metodo, analizzando le varie tecniche linguistiche che consentivano ai discepoli la conservazione delle espressioni udite dal maestro. Grazie a questo metodo arrivano alla storicità di importanti affermazioni evangeliche.

3. Continuità tra il Gesù prepasquale e il Cristo della fede a partire dal comportamento di Gesù

Parlando di Bornkamm, si è già intravisto il metodo di accesso al Gesù storico non solo attraverso il suo insegnamento, ma anche attraverso l’impressione e gli effetti che la sua predicazione provocava. La predicazione non è l’unica via di accesso a quel Gesù di Nazareth, che ormai tutti dicono bisogna collegare all’annuncio del kerygma. Accanto agli autori già menzionati, sarà utile ricordarne brevemente altri, che tentano la ricostruzione storica di Gesù attraverso l’analisi del suo comportamento, così come questo può ancora essere attinto all’interno della critica della Storia delle forme. L’analisi linguistica di Jeremias viene corroborata pertanto da un’indagine di carattere contestuale più ampio, anche se ciò non esclude, come vedremo, il rischio di cadere in contraddizione con le premesse critiche dalle quali anche questi ultimi autori si muovono. Ricordiamo alcuni autori di questa tendenza.

3.1. Ernst Fuchs[111] sostiene che il contesto reale della predicazione di Gesù è costituito dal suo comportamento. La predicazione della misericordia, ad esempio, trova un riscontro storico nel comportamento di Gesù che mangia con i peccatori e chiama proprio loro alla salvezza. La sua chiamata alla fede è stata vissuta innanzi tutto in lui, nella sua vita, nel suo andare verso la morte con fede e con coerenza. Dal comportamento possiamo cogliere la storicità non solo delle sue parole, ma anche del suo agire.                       

Gerhard Ebeling[112] afferma che l’evento storico di Gesù è costituito da ciò che è diventato espressione linguistica, verbale. In lui diventa infatti espressione verbale la stessa fede, che è al contempo la sua fede personale e la fede che egli risveglia in coloro che vengono a contatto con lui. Gesù rende testimonianza alla fede. La sua morte e risurrezione non interrompono tale testimonianza, ma costituiscono il fondamento della testimonianza su di lui, della testimonianza stessa.  

H. Conzelmann[113]. ritiene la predicazione di Gesù non l’elemento peculiare della sua storia, di cui possiamo e dobbiamo tentare un approccio. Originale ed essenziale è invece il collegamento operato dallo stesso Gesù tra la sua persona e la presenza di Dio. Ciò costituirebbe già un primo nucleo cristologico, che si può chiamare «cristologia indiretta». I discepoli, a loro volta, non solo conservarono questo raccordo operato da Gesù, ma lo approfondirono e svilupparono alla luce della Pasqua, sì da arrivare ad una «cristologia diretta».

A questi autori e alle loro rispettive impostazioni si potrebbero e si dovrebbero aggiungere altri nomi, che tuttavia qui vengono tralasciati per ragioni di spazio. Del resto il nostro intento non è quello di scrivere una nuova storia della ricerca sul Gesù storico, ma solo di informare su metodi principali attraverso i quali si è cercato di rispondere alla nuova domanda. Se questi si possono in genere riportare all’analisi letteraria e all’ermeneutica più schiettamente critico-ambientale, superano di fatto la barriera pasquale della storia delle forme. È un’ulteriore conferma della sua insostenibilità come principio invalicabile. Quanti, pur entrando in contraddizione con le sue premesse, arrivano, a risultati storici simili a quelli summenzionati, per alcuni versi convergono con non pochi dei tratti storici che noi abbozzeremo dal di fuori e in alternativa alla storia delle forme. Per la nostra ricerca proprio tali convergenze sono di notevole importanza.

In conclusione, la nuova domanda posta da Käsemann ha senza dubbio avuto il merito di aver smosso le acque e di aver fatto cogliere il necessario legame tra kerygma e storicità di Gesù, la cui legittimità Bultmann aveva negato. La nuova ermeneutica ha ritenuto di non poter eludere il problema. Ha cercato di fissare i criteri di continuità e discontinuità[114], attraverso i quali accedere a quella storia di Gesù, che pur legata alla storicità in senso bultmanniano del termine, si impone come problema che esige una risposta non solo dallo storico, ma anche dalla coscienza credente ed ecclesiale.


 

[1] PUEBLA. Documenti. Testo definitivo, EMI, Bologna 1979, n. 180.

[2] Ivi.

[3] Ivi, n. 180.

[4] Ivi, n. 188.

[5] Ivi.

[6]  Usiamo quest’espressione nel senso più vasto in cui è adoperato, per esempio, nell’opera scritta in onore di J. B. Metz, in: E. SCHILLEBEECKX, Mystik und Politik. Theologie im Ringen um Geschichte und Gesellschaft, Mainz, 1988. La sequela di Gesù, da una parte, e, proprio per questo, l’impegno storico- concreto, dall’altra, fanno sì che il cristiano viva in questa bipolarità dove nessun apice del Vangelo viene lasciato cadere. Mistica e politica sono qui garanzia di fedeltà e di radicalità evangelica.

 

[7] PUEBLA, cit., n. 192.

[8] E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo I, Paideia, Brescia 1985, 529; sulle fonti cfr. anche R. FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, Cittadella Ed., Assisi 1983, 35-63 e V. MESSORI, Ipotesi su Gesù, Torino 1977(15.a), 236-240.

[9] R. FABRIS, Gesù di Nazareth..., cit., 45.

[10] Cfr. J. MAIER, Jesus von Nazareth in der talmudiscen Überlieferung, Darmastadt 1978.

[11] Il problema del valore della sofferenza passata non è astratto ed evanescente, perché costa sacrifici umani. È stato recepito dal dibattito filosofico contemporaneo. Walter Benjamin, da ebreo vissuto in un’epoca di feroci barbarie contro gli ebrei, ne aveva parlato nei termini di una incancellabile presenza, che lo storico ha la responsabilità e la capacità di rinnovare (cfr. W. BENJAMIN, Geschichtsphilosophische Thesen, Frankfurt 1965, 93). J. Habermas, pur apportando dei correttivi, sostanzialmente concorda con le intuizioni di Benjamin sul carattere trasformatore della realtà che ha la sofferenza passata (cfr. J. HABERMAS, Kultur und Kritik. Verstreute Aufsätze, Frankfurt 1973, 302-344). H. Marcuse ritiene la memoria storica un fattore determinante per il cambiamento del presente. Cf. H. MARCUSE, Triebstruktur und Gesellschaft, Frankfurt 1968, 228; IDEM, Der eindimensionale Mensch, Neuwied 1968, 117). In campo teologico il valore sovversivo della sofferenza del passato è stato tematizzato soprattutto in: J.B.METZ, Glaube in Geschichte und Gesellschaft, Mainz, 1980(3.a), 87 ss.

 

[12] Cfr. Mc 16, 6: “Jesoùn zeteìte tòn nazarenòn ton estauromènon: ‘égherte” (cercate Gesù il nazareno il crocifisso: è risorto) cfr. anche Mt 28, 5-6. In una delle apparizioni lucane, il Risorto insiste perché i discepoli osservino le sue mani ed i suoi piedi (Lc 24, 39 ss). Nel doppio dialogo di Tommaso, prima con gli altri discepoli e poi con Gesù, riportato dal Vangelo di Giovanni, si parla del segno dei chiodi e del dito da mettere in questo segno (Gv 20, 24-27).

[13] Il rapporto tra storico e contesto situazionale, sociologico del fatto storico è stato abbastanza investigato dalla Sociologia. Cfr. T. ABEL, The Nature and Use of Biograms, in The American Journal of Sociology LIII, 2, (1947), AA.VV., Storia e sociologia, (a cura di P. Crespi), Celuc, Milano 1974; AA.VV., La nuova storia, (a cura di J. Le Goff), Mondadori, Milano 1980. Altro materiale bibliografico (ragionato) si può rinvenire in: F. FERRAROTTI, Storia e storie di vita, Laterza, Bari 1981.

[14] E. HOORNAERT, A memória do povo cristâo, Petropolis 1986, 17ss.

[15] Si tratta di incongruenze nella cronologia dei fatti: ad esempio, la guarigione del lebbroso in Marco (1, 40-45: agli inizi della vita pubblica) e in Matteo (8, 1-4: dopo il discorso della montagna); la predicazione di Nazareth in Matteo (13, 53-58: dopo il discorso delle parabole), in Luca (4, 16-30:all’inizio dell’attività pubblica di Gesù) e in Marco (6, 1-6: dopo la risurrezione della fanciulla dodicenne). Diversità di collocazione di alcuni detti di Gesù: valga come esempio il “Padre nostro”, collocato da Matteo nel discorso della montagna (Mt 6, 9-13) e da Luca nella circostanza dell’orazione di Gesù (Lc 11, 1-4). Diversità sul numero dei personaggi: ad esempio, Matteo generalizza ed ha più personaggi, dove gli altri ne hanno uno solo. È il caso dei ciechi di Gerico guariti (due in Matteo: 20, 29-34; uno in Marco: 10, 46-52 e in Luca: 18, 35-43) e dei ladroni che deridevano Gesù sulla croce (in Matteo sono entrambi: 27, 44; e così pure in Marco: 15, 32; in Luca invece è uno soltanto: 23, 39-40).

[16] Il carattere lacunoso dei racconti evangelici balza subito agli occhi.Nei sinottici, ad esempio, lo stesso vangelo dell’infanzia manca completamente in Marco e presenta, soprattutto in Matteo, un vistoso silenzio sul tempo che precede la vita pubblica di Gesù. Inoltre nei sinottici non si racconta nulla delle nozze di Cana, al tempo della permanenza di Gesù in Galilea dopo il suo battesimo, né del viaggio a Gerusalemme per la Pasqua e della conseguente prima attività di Gesù in Giudea e del ritorno in Samaria (cfr. capitoli 2-4 di Giovanni).

[17] Si trattava di un concordismo dettato ancora da una visione quantitativa e cronachistica, simile a quella di chi riteneva, agli inizi del secolo, di poter raccordare la creazione dei sette giorni con le corrispondenti ere geologiche della terra.

[18] E.SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1980 (3.), 41.

[19] Evito volutamente la contrapposizione oggettivo/soggettivo del linguaggio comune, perché essa è fuorviante. Identifica l’ oggettivo con ciò che è al di fuori del soggetto e quindi ha un’ idea della realtà come di una entità non manomessa dall’uomo che crea ed interpreta. Ha del soggetto un’idea negativa, perché lo ritiene vittima di visioni sempre distorte, perché parziali e di parte.

[20] Ciò a cui faremo esplicito riferimento è solo una parte del materiale vastissimo esistente. Ascolteremo alcune di queste voci nella ricostruzione storica, avvertendo fin d’ora che saranno citati solo gli autori più noti, che sono quelli che hanno affrontato con maggior rigore critico la questione. Sulle tante interpretazioni o anche angolazioni particolari extracristiane di oggi, sulla figura di Gesù, si rimanda ad H. Waldenfels. L’autore riporta le interpretazioni di filosofi quali Jaspers e Bloch, Machovec e Kolakowski (che, potremmo sintetizzare, a nostra volta, ritengono Gesù colui che ha additato il livello più alto dell’essere uomini), di pensatori ebrei, quali Buber, Ben-Chorin e Lapide (per i quali Gesù è rispettivamente il “grande fratello”, il “fratello ebreo”, il “non catalogabile”). Di notevole interesse è anche lo spazio dedicato all’interpretazione delle grandi religioni mondiali, quali l’Islamismo, l’Induismo, il Buddhidmo. Cfr. H.WALDENFELS, Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, E.Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 258-291.

[21] Una simile interpretazione non è quasi mai formulata in termini così espliciti. È al fondo, però, di alcune letture che ritengono, ad esempio, la povertà ed i poveri, che pure sono così importanti nei vangeli, entità meramente morali e spirituali. Come a dire: Gesù non si è interessato dei poveri storicamente tali, ma solo di quanti, pur avendo dei beni, erano distaccati da essi. Sulla concezione della povertà come virtù coltivata spiritualmente cfr. A. GELIN, Die Armen, sein Volk, Mainz 1957. 

Così, in H.J. HOLTZMANN, Die Synoptiker, Tübingen 1901 e S.C. INGELAERE, La parabole du jugement dernier (Mt 25, 31-45), in: RHPR 1 (1970) 23-60, gli “ultimi” non sarebbero altro che i discepoli di Cristo nei confronti dei quali saranno giudicati i pagani. Accentuazioni spiritualistiche si trovano anche in Bultmann. Cfr. R. BULTMANN, art. Penthos, in: Theologisches Wörtebuch zum Neuen Testament (Kittel) VI (1959), 40-43. Cfr. inoltre: L. GOPPELT, Theologie des Nuen Testaments, Göttingen, 1981, 130ss.

[22] Sulla condanna e l’esecuzione della pena capitale come evento storico, e quindi come atto politico, si è espresso anche Giovanni Paolo II: “Storicamente responsabili di questa morte sono gli uomini indicati dai vangeli, almeno in parte, per nome... Tuttavia non si può allargare questa imputazione oltre la cerchia delle persone veramente responsabili” (OSSERVATORE ROMANO, 20.9.1988 p. 4). Il Papa cita il Vaticano II: “Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né (tantomeno) agli Ebrei del nostro tempo” (Dichiarazione, Nostra Aetate, 4). È molta netta, a questo riguardo, la posizione di chi sia dal versante giudaico, che dal versante storico-giuridico ha affrontato il processo di Gesù. P. Lapide, un uomo chiave nel dialogo tra Ebrei e cristiani in Germania, dimostra, ad esempio, il carattere funzionale dell’accusa del “deicidio” per la persecuzione degli Ebrei che fu inizialmente culturale, e successivamente cruenta fino ad arrivare agli orrori del nazismo. Cfr. P. LAPIDE, Wer war schuld an Jesu Tod?, GTB Siebenstern, München-Hamburg, 1988 (Chi fu colpevole della morte di Gesù?). Di grande interesse è lo studio: AA.VV., Der Prozeß gegen Jesus. Historische Rückefrage und theologische Deutung, Herder Verlag, Freiburg 1988. Ne sono autori: J. Blank, I. Broer, J. Gnilka, F. Lentzen-Deis, K. Müller, W.Radel, H.Ritt, G. Schneider. Gli studiosi sostengono la tesi che la morte di Gesù fu voluta dai Sadducei detentori del potere nel tempio in computta con il potere delle forze d’occupazione romane. Cfr. anche: PUBLIK-FORUM, 5 (1988) 21-22, dove Lapide recensisce uno studio di un giurista, il quale sostiene che il processo del Sinedrio non ha avuto luogo, ma solo quello davanti a Pilato: W. FRICKE, Standrechtlich gekreuzigt. Personen und Prozess des Jesus aus Galiläa, Mai Verlag Buchschlag, 1988.

 

[23] Sul significato politico e teologico della morte di Gesù, cfr. B.FERRARO, A significaçâo polìtica e teológica da morte de Jesus, Ed. Vozes, Petropolis, 1977; cfr. anche R.FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, Cittadella, Assisi 1983, 202-204: sull’identità di Gesù e 270-316 sulla morte in croce.

[24] Ci sono punti di contatto innegabili, come ha dimostrato L’opera di:O. CULMANN, Jesus und die Revolutionären seiner Zeit, Tübingen 1970 (trad. italiana:Gesù e i rivoluzionari del suo tempo, Morcelliana, Brescia). Tra questi, l’appartenenza di Simone, detto appunto lo zelota, e probabilmente di Giuda Iscariota (che alcuni interpretano come “sicario”) e forse di Giacomo e Giovanni (“i figli del tuono”) a quel movimento; come pure la radicalità di alcuni temi della predicazione di Gesù e la purificazione del tempio. A ciò sarebbe da aggiungere che Giuseppe Flavio presenta il movimento messo in atto da Gesù come movimento zelota.

[25] Contro l’appartenenza agli zeloti sta innanzi tutto l’affermazione “ Il mio regno non è di questo mondo” fatta da Gesù davanti a Pilato (Gv 18, 36) e tutto ciò che testimonia una coscienza messianica con modalità opposte a quella zelota (ad esempio, l’ingresso in Gerusalemme sull’asino e non sul cavallo del trionfatore, l’insistenza sul perdono e sull’amore dei nemici, il rimprovero a Pietro, per aver usato la spada, il rifiuto di diventare re, ecc.). Sulle dichiarazioni esplicite per una prassi di pace contro la violenza cfr. Mt 5, 9; 5, 39ss; 5, 43-48(Lc 6, 27-36); Mt 26, 52ss.

[26] È l’opinione che si trova in: G.F. BRANDON, Jesus and the Zealots, Manchester 1967 (tr.it. Gesù e gli Zeloti, Rizzoli, 1983). Cfr. anche: R. EISLER, The Messiah Jesus and John the Baptist (1931), dove si sostiene chiaramente la tesi che Gesù fosse uno zelota, e gli studi di M. Hengel: M. HENGEL, Die Zeloten. Untersuchungen zur jüdischen Freiheitsbewegung in der Zeit von Herodes I. bis 70 nach Chsristus, Köln 1961; IDEM, War Jesus Revolutionär? Stuttgart 1970; sullo stesso piano di ricerca si colloca O. CULMANN, Dieu et César, Neuchatel 1956 (tr. it. Dio e Cesare, Comunità, Ivrea).

[27] G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1981 (4.), 229-230.

[28] I. MAGLI, “Gesù di Nazareth”. Tabù e Trasgressione, Rizzoli, Milano 1983.

[29] Così, ad esempio, è interpretata la storia di Gesù in: A. HOLL, Jesus in schlechter Gesellschaft, DTV, München 1974 (Gesù in cattiva compagnia), dove si trova l’accattivante titolo “la criminalità di Gesù”, con l’avvertenza che “criminale” è chi trasgredisce le norme sociali e le prescrizioni di carattere legale e penale (ivi 21-23).

[30] G. THEISSEN, Soziologie der Jesusbewegung. Ein Beitrag zur Entstehungsgeschichte des Urchristentums, in: THEOLOGISCHE EXISTENZ HEUTE (194), München 1977.

[31] W. SCHOTTROFF-W.STEGEMANN, Der Gott der kleinen Leute. Sozialgeschichtliche Auslegungen.Neues Testament, München 1979, 118.

[32] Cfr., ad esempio, W. KASPER, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 1981 (4.a), particolarmente pp.40-45; B. FORTE, Gesù di Nazareth, storia di Dio, Dio della storia. Saggio di una cristologia come storia, Ed. Paoline, Roma 1981, particolarmente pp. 88-152. Cfr. anche: M. SERENTHA’, Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. Saggio di cristologia, LDC Torino 1986 (2.a), soprattutto il cap.2. Dall’annuncio “di” Gesù all’annuncio “su” Gesù, e il 3. La cristologia dei sinottici, ivi pp. 92-105.

[33] Questa e le seguenti due  citazioni sono tratte da E. SCHILLEBEECKX, La questione cristologica. Un bilancio, Queriniana, Brescia 1980, 75-76.

[34] Anche altri teologi concordano su questo metodo basilare chiamato da H. Küng “concordanza ermeneutica di fondo” o delle “due fonti”, perché tiene insieme la rivelazione di Dio nella storia di Israele e in quella di Gesù (prima fonte) e la sempre rinnovantesi esperienza della salvezza degli uomini di ogni epoca (seconda fonte). Cfr. H. KÜNG, Teologia in cammino.Un’autobiografia spirituale, Mondadori, Milano 1987, 122.

[35] H. KÜNG, Teologia in cammino, cit., 126.

[36] B. FORTE, Gesù di Nazareth..., cit. 236-254.

[37] Istr. Libertatis Nuntius, Introduzione: AAS 76 (1984), 876, citata anche in: Libertà cristiana e liberazione. II Istruzione della Congregazione della Dottrina della Fede sulla Teologia della Liberazione, 43.

[38] Questi termini sono riportati in: L. BOFF, Jesus Cristo libertador. Ensaio de Cristologia crìtica para o nosso Tempo, Vozes, Petropolis 1983 (9.a), 254-265, accanto ad altri che vedono in Cristo il «punto omega dell’evoluzione, «conciliazione degli opposti», «archetipo della individualizzazione più perfetta», «nostro fratello maggiore», «Dio degli uomini e Dio con noi».

[39] Cfr. Dan 9, 24.

[40] Si rileggano At 2, 42-47; 4, 32-37, dove appare, è vero, una presenza di cristiani più facoltosi, che hanno dei beni e perfino terreni, ma dove è altrettanto chiaro che la solidarietà verso i più poveri rende urgente una prassi di condivisione. Lo stesso tema si trova in Paolo, per es. in Gal 2, 10; 1 Cor 16.1ss; 2 Cor 8; Rm 12, 8; 15, 26-27, Gc 2, 1-11; 5, 1-6.

[41] Già il 21.12.1984 Giovanni Paolo II nel Discorso ai cardinali e alla curia romana ricordava che la chiesa aveva solennemente proclamato di far sua l’opzione preferenziale per i poveri, una scelta successivamente ripresa in molte occasioni, tra cui la Laborem exercens (n.8) e la Sollicitudo Rei Socialis (n.42). Il fondamento conciliare, che collega l’agire di Cristo con l’agire della chiesa si trova nella Lumen Gentium, che scrive: «Come Cristo...è stato inviato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore affranto, a cercare e salvare ciò che era perduto (Lc 19, 10): così pure la chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza, e in loro intende di servire il Cristo» (n. 8).

[42] Le espressioni paoline che parlano della “kenosi”, come annichilamento di Cristo (Fil 2, 5-8; 2 Cor 8, 9) risentono di una certa spiritualizzazione del concetto di povertà e tuttavia si fondano su un dato effettivo. I vangeli dell’infanzia, i logia sulla povertà, il non aver pietra dove posare il capo (Lc 8, 58), la fine di Gesù crocifisso tra malfattori, fuori di Gerusalemme dimostrano la concretezza della povertà con cui egli è vissuto.

[43] Uno dei nomi con cui venivano chiamati i primi cristiani plestinesi era “i poveri” (dall’ebraico ‘ebionim’, in greco i ‘ptokòi’di Mt 5, 3 e Lc 7, 20) (cfr. REALLEXIKON FÜR ANTIKE UND CHRISTENTUM, VOL II, 1117, voce Christennamen. Il concetto di povertà era ancora legato a condizioni di oggettiva minorità materiale, culturale, o religiosa, così come era stato per i discepoli di Gesù. La setta ereticale degli Ebioniti, di cui parlano Giustino (PG 6, 142-144) ed Ireneo (Adversus Haereses, I, 26, 2) è considerata da alcuni come lo sviluppo della frangia più conservatrice e più rigorosamente monoteista dei cristiani palestinesi, che non riuscì ad accettare Gesù come Figlio di Dio:cfr LThK (Lexikon Für Theologie und Kirche), 633-634, voce Ebioniten. In ogni caso, la povertà effettiva della comunità cristiana primitiva (non solo palestinese) non si può negare, se si pensa alla spiritualità della diaspora, del non avere fissa residenza che si trova in alcuni scritti neotestamentari (cfr. 1 Pt 1, 17; 2, 11-12: un interessante commento, in chiave storica si trova in: E. HOORNAERT, A memória do povo cristâo, op. cit. 41ss) oppure alla descrizione dei cristiani che fa Celso (semplici, ignoranti e poveri: Alethès Logos, n. 37) che ne vede la somiglianza con Cristo, descritto come un pezzente errante (ivi, n.7 ss) e personaggio che concluse con una morte infame una vita infame (ivi, 93)..

[44] È un contesto teologico complessivo, che ci presenta la vicenda di Gesù non più come quella di un eroe solitario, in lotta contro tutti e contro tutto, ma in una rete interattiva e interrelazionale. Dicendo ciò, non si toglie nulla al’inaudita novità del suo messaggio e del suo agire, ma si ha solo uno schema di riferimento, un substrato ed una prospettiva per intendere la sua originalità e la sua fedeltà, così come si comprende la fedeltà e la peculiarità della primissima comunità cristiana.

[45] A. NOLAN, Gesù prima del cristianesimo, op. cit, 103ss. che rimanda  a G. VON RAD, The Message of the Prophets, London 1968.

[46] Ivi, 10.

[47] L’affermazione è di M. Horkheimer e si trova nei Taccuini 1950-1969.

[48] Ivi.

[49] Cfr.A. SCHWEITZER, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986, 85-100.nascosero in un luogo noto soltanto a loro e solo dopo cinquanta giorni, per ragioni di sicurezza, cominciarono a predicare che egli era risorto e che presto sarebbe tornato.

[50] Gia secondo il titolo, l’opera, apparsa nel 1779, un anno dopo la pubblicazione curata da Lessing, vuol essere una risposta ai frammenti dell’anonimo, (Beantwortung der Fragmente eines Ungenannten, insbesondere vom Zweck Jesu und seiner, Jünger)..

[51] Cfr. A.SCHWEITZER, Storia della ricerca..., op. cit.101-135.

[52] Ivi, 136, che menziona Das Leben Jesu zunächst für akademische Studien (1829) di Hase, e Das Leben Jesu (1864) di Schleiermacher.

[53] Das Leben Jesu (2 volumi), 1935-1936. Cfr. Anche U. REGINA, La vita di Gesù e la filosofia moderna. Uno studio su D.F. Strauß , Brescia 1979.

[54] Die christliche Glaubenslehre in ihrer geschichtlichen Entwicklung und in ihrem Kampfe mit der modernen Wissenschaft, (840-1841) (La dottrina della fede cristiana nel suo sviluppo storico e nella sua lotta con la scienza moderna).

[55] A. SCHWEITZER, La storia della ricerca..., cit., 174.

[56] Così in  Das Leben Jesu als Grundlage einer Geschichte des Urchritentums (1928), cit. da A.SCHWEITZER, La storia della ricerca..., cit., 128.

[57] La prima opera fu pubblicata a Brema nel 1840 con il titolo Kritik der evangelischen Geschichte des Johannes; la seconda a Berlino tra il 1841-1842, in tre volumi. L’opera di Bauer proseguì impavida, nonostante le difficoltà incontrate, con la successiva Kritik der Apostelgeschichte (Critica degli Atti degli Apostoli) del 1850 e la Kritik der paulinischen Briefe (Critica delle lettere paoline) del 1850-1852, alle quali sono da aggiungere le altre opere riportate e valutate criticamente in: A. SCHWEITZER, La storia della ricerca..., op. cit., 226ss.

[58] L’espressione è di L. Ranke ed è riportata in: B. FORTE, Gesù di Nazareth..., op. cit., 105.

[59] J. GUITTON, Gesù, Marietti, Torino 1964 (2.a), 62.

[60] Citato da J. Quitton, ivi 67.

[61] Lo affermano, ad es., K. Lachmann, nel 1835 e G. Wilke, nel 1838.

[62] Questo schema storico complessivo si trova con molta chiarezza in:H. J. HOLZMANN, Die synoptischen Evangelien, Leipzig 1863.

[63] A. VON HARNACK, Das Wesen des Christentums, Leipzig 1901 (trad. ital. L’essenza del Cristianesimo, Brescia 1980.

[64] A. SCHWEITZER, La storia della ricerca..., op. cit., 290. L’opera di Strauss è Das Leben Jesu für dal deutsche Volk bearbeitet, Leipzig 1864.

[65] Cfr. Das Selbstbewustsein Jesu im Lichte der messianischen Hoffnungen seiner Zeit, (1888) (L’autocoscienza di Gesù alla luce delle speranze messianiche del suo tempo)..

[66] Cfr. Die Predigt Jesu von Reich Gottes(1892)(La predicazione di Gesù sul regno di Dio)..

[67] A. SCHWEITZER, Storia della ricerca..., op. cit., 326.

[68] Questa la traduzione dell’opera rivoluzionaria, che si propone anche di essere parimenti un contributo alla comprensione del vangelo di Marco: W. WREDE, Das Messiasgeheimnis in den Evangelien. Zugleich ein Beitrag zum Verständnis des Markusevangeliums, Göttingen 1901.

[69] Cfr. W.  BOUSSET, Die Religion des Judentums im neuetestamentlichen Zeitalter, Berlin 1903.

[70] Wellhausen riprende questa idea nell’introduzione ai sinottici, redatta nel 1905, dopo averla già proposta in: J. WELLHAUSEN, Israelitische und Jüdische Geschichte, Berlin 1894..

[71] Già il titolo del contributo esprime questo taglio di distacco polemico: Der sogennante historische Jesus und der geschichtliche biblische Christus, Leipzig 1892.

[72] Riteniamo utili alcune annotazioni biografiche su un autore che è riuscito a ben incarnare l’ideale del teologo, dedito seriamente allo studio e contemporaneamente all’impegno sociale, sapendo sempre attingere da una robusta spiritualità biblica e dall’amore per gli uomini e persino dall’arte, le sue motivazioni più profonde. Schweitzer era nato il 14.1.1875 a Kaysasberg (Alsazia). Teologo e musicologo, interprete molto apprezzato di Bach, consegue la laurea in medicina e si dedica all’assistenza dei lebbrosi nel Congo francese (oggi, Gabon). Insignito del premio Nobel per la pace nel 1952, muore il 4.8.1965.

[73] L’opera, qui citata nella traduzione italiana del 1986, era apparsa nel 1906, a Tubinga, con il titolo Geschichte der Leben-Jesu-Forschung ed ebbe subito una vasta risonanza internazionale.

[74] A. SCHWEITZER, La mia vita e il mio pensiero, Comunità, Milano 1983 (3.a), 53.

[75] A.SCHWEITZER, Storia della ricerca..., 495.

[76] Ivi, 545.

[77] Ivi, 754.

[78] A. SCHWEITZER, La mia vita..., cit., 55.

[79] A. SCHWEITZER, Storia della ricerca..., cit., 755.

[80] A. SCHWEITZER, La mia vita..., op. cit, , 56.

[81] A. SCHWEITZER, Storia della ricerca..., cit., 756.

[82] J. GEISELMANN, Dialektische Teologie, in. LEXIKON FÜR TEHOLOGIE UND KIRCHE, 279-282. Cfr. anche la stessa voce in: HERDERS THEOLOGISCHES TASCHENLEXIKON (“teologia dialettica” nella edizione italiana di Sacramentum Mundi).

 

[83] Cfr. voce “Dialektische Theologie in: K. RAHNER - H.VORGRIMLER, Kleines Theologisches Wörterbuch 1981 (13.a), 81.

[84] Per le citazioni che esprimono questi presupposti filosofici di fondo del pensiero di Bultmann, cfr. G. MAZZILLO, La teologia come prassi di pace, La Meridiana, Molfetta 1988, 143-144. Sono citati e commentati brani reperibili in: R. BULTMANN, Nuovo testamento e Mitologia, Brescia 1970, 239-240 e F. BIANCO, Distruzione e riconquista del mito, Roma 1961.

[85] R:BULTMANN, Die Geschichte der synoptischen Tradition, Göttingen 1921. Il testo diventa ben presto uno dei classici della teoria della storia delle forme.

[86] R. BULTMANN, Neues Testament und Mythologie. Das Problem der Entmythologisierung der neutestamentlichen Verkündigung, (lett. Nuovo Testamento e mitologia. Il problema dellla demitologizzazione dell’annuncio neotestamentario), in: IDEM, Offenbarung und Heilsgeschehen, in: BEITRÄGE ZUR EVANGELISCHEN TEHEOLOGIE 7 (1941), München.

[87] Il concetto è ripreso in: R. BULTMANN, Il concetto di rivelazione nel Nuovo Testamento, in: IDEM, Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, 654-689. Per i limiti culturali e individualistici di quest’impostazione cfr. G: MAZZILLO, Teologia come prassi di pace, cit., 157-160.

[88] Per una comparazione religiosa dei miti si cfr. R: BULTMANN, Das Urchristentum im Rahmen der antiken Religionen (1949) (lett. Il cristianesimo primitivo nel contesto delle antiche religioni).

[89] Così quasi testualmente in un testo di Bultmann comparso originariamente a New York nel 1958 e reperibile come: Gesù Cristo e la mitologia in: R. BULTMANN, Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, 1017-1061; qui, p. 1019.

[90] R. BULTMANN, Jesus, Berlin 1926.

[91] G.BORNKAMM, Jesus von Nazareth, Stuttgart 1980, 12.ma ed., pp.13-14.

[92] R.BULTMANN, Jesus, München/Hamburg 1964, 10.

[93] R.BULTMANN, Das Verhältnis der urchristlichen Christusbotschaft zum historischen Jesus (1960), in: IDEM, Aufsätze zur Erfoschung des Neuen Testaments, ed. E.DINKLER, Tübingen 1967, 452.

[94] R.FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia ed interpretazione, Cittadella, Assisi 1983, 247.

[95] K.L. SCHMIDT, Der Rahmen der Geschichte Jesu. Literarkritische Untersuchungen zur ältesten Jesusüberlieferung, Berlin 1919.

[96] M.DIBELIUS, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tübingen 1919.

[97] Das Problem des historischen Jesus, in: ZThK 51 (1954) 125-153. La conferenza fu tenuta il 20.10.1953 a Jugenheim alla sessione degli ex-allievi di Marburg, sede della cattedra di Bultmann. Trad. it.: Il problema del Gesù storico, in. E. KÄSEMANN, Saggi esegetici, Marietti, Torino 1985, 30-57.

[98] IDEM, Sackgassen im Streit um den historischen Jesus (=vicoli ciechi nella disputa sul Gesù storico), in: EVB II 66, citato da R.FENEBERG/W.FENEBERG, Das Leben Jesu im Evangelium, Freiburg/Basel/Wien 1980, 34..

[99] E. KÄSEMANN, Il problema del Gesù storico, cit., 37-38.

[100] Ivi, 56.

[101] G.BORNKAMM, Jesus von Nazareth, cit.

[102] Ivi, 12

[103] Ivi 13.

[104] Cfr. J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento I. La predicazione di Gesù, Paideia, Brescia 1976 (2.a) (la I.a edizione tedesca è del 1971), per l’attendibilità della tradizione cfr. pp. 9-54. Lo stesso aveva scritto sul Gesù storico nel 1960 in un’opera reperibile in italiano: IDEM, Il problema del Gesù storico, Brescia 1964.

[105] J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento. cit. 8-54.

[106] J. JEREMIAS, Teologia del nuovo testamento. cit., 119, che cita a conferma J. DUPONT, Les Béatitudes II. La bonne nouvelle, Paris 1969, 53-90.

[107] Ivi, 129-130.

[108] Ivi, 130.

[109] H. SCHÜRMANN, Der historisce Jesus und der kerygmatische Christus, Berlin 1960 (ed. italiana: La tradizione dei detti di Gesù, Brescia 1966).

[110] H.RIESENFELD, The Gospel Tradition and its Beginnings, London 1957; IDEM, Bemerkungen zur Frage des Selbstbewustseins Jesu, in: RISTOW/MATTHIAE, Der historische Jesus und der kerygmatisce Christus, Berlin 1962; B. GERHARDSSON, Memory and Manuscript-Oral Tradition and Written Trasmission in Rabbinic Judaism and Early Christianity, ASNU XXII, Uppsala 1961.

[111] E.FUCHS, Zur Frage nach dem historischen Jesus, in: IDEM, Aufsätze II, Tübingen 1965, 2.da ed., 143-167.

[112] G.EBELING, Theologie und Verkündigung, Tübingen 1963; IDEM, Die Frage nach dem historischem Jesus und das Problem der Christologie, in: IDEM, Wort und Glaube, Tübingen 1967 (3.a), 300-318. Sono inoltre da ricordare: J.M.ROBINSON, A newQuest of the Historical Jesus, London 1959 e IDEM, Kerygma e Gesù storico, Brescia 1977 (originale tedesco del 1967) e J.M-ROBINSON/E.FUCHS, La nuova ermeneutica, Brescia 1967.

[113] H.CONZELMANN, Zur Methode der Leben-Jesu-Forschung, in ZThK (Zeitschrift fuer Theologie und Kirche) 56 (1959), Beiheft 1, 2-13.

[114] Sui criteri cfr. R:FABRIS, Gesù di Nazareth, op.cit., 60-63.